***********************
Introduzione
Forse risponde al vero che un tale Antonino del
Carretto, un avventuriero ligure, ebbe a circuire la giovane Costanza
Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e prossimo a morire - spendendo
l’altisonante titolo di marchese di Finale e di Savona negli anni di esordio
del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza Chiaramonte, figlia
primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte, era bella, anzi
bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del pruriginoso Inveges ci
ha propinato nel suo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi oscuri esordi della signoria dei del
Carretto su Racalmuto, quel che di certo abbiamo è un processo d’investitura -
la cui datazione sicura deve farsi risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone,
solo negli anni ’novanta di questo secolo, ha avuto il destro di riesumare dai
polverosi archivi di Stato di Palermo.
Scopo,
intento, occorrenza ed altro sono talmente trasparenti e svelano in modo così
esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che
resta particolarmente ostico travalicare i limiti di una fioca credibilità a
quel vantare ascendenze altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto
Matteo del Carretto, rapace esattore delle imposte dei Martino, i noti
avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono sull’imbelle
Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi - racalmutesi - quegli intrighi
matrimoniali esattoriali predatori e via discorrendo interessano perché sono la
nostra storia, quella vera e non quella oleografica che dal Tinebra Martorana
ai vari storici locali, non escluso Leonardo Sciascia, sembra deliziare i
nostri compaesani e deliziarli tanto maggiormente quanto più cervellotico è il
costrutto fantasioso.
Giuseppe Nalbone ha speso tempo e denaro per
raccogliere presso gli archivi di Palermo la documentazione veridica sui del
Carretto. Quella documentazione più vetusta ed originale - la documentazione
dei processi d’investitura - viene qui riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso
cd-rom. Carta canta e villan dorme: non si può fantasticare quando ostici
diplomi vengono - ed è arduo - disvelati. Addio del Carretto alle prese con
vergini violate prima di passare a giuste nozze per un inesistente ius primae
noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di principesche
padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri giovani
stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio
secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio storielle
che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità inoppugnabili. Addio
moralismo sciasciano.
Un quadro - ora inquietante, ora banalmente
normale, ora esplicativo, ora feudalmente complesso - affiora con tasselli
variamente policromi a testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio
consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che verso la fine del Cinquecento
dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il vero spesso illuminata) hanno
voglia di farsi attribuire un’arma ancor più prestigiosa, di farsi nominare
conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di aver riconosciuto titolo di
marchesato che infondatamente in esordio avevano contrabbandato.
Certo se Eugenio Napoleone Messana aveva in
qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio per un nobile matrimonio tra
Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei del Carretto, la documentazione
che andiamo a pubblicare spazza via ogni briciola di credibilità di una tale
ingenua favoletta.
E quel
che si scrive su data e struttura del Castello chiaramontano svanisce
miseramente, come diviene commiserevole ogni sicumera sulla storia del
Castelluccio.
Già, carta canta e villan dorme!
Parte Prima
UN
EXCURSUS DELLA STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA
PARTE DEI DEL CARRETTO
Dai barlumi dell’archeologia locale affiora,
flebile ma con contorni alquanto netti, l’insediamento sicano di quattromila
anni fa lungo l’intero arco collinare sud est e sud ovest racalmutese.
Verso il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra
eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a paura per i naviganti micenei, verso le
più protettive montagne di Milena, Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i
greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo verso il VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana. Tra il
II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo
verso la fine del secolo XIX.
Allo spirare dell’Impero romano, la feracità
del suolo racalmutese sembra avere attirato sia pure fugacemente le brame
espoliatrici di Genserico e dei suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire
insediamenti significativi in località Grotticelle e dintorni. Monete di
Tiberio II e di Heracleone saranno poi rinvenute, nel 1940, in contrada
Montagna, ma per caso ed in luogo che all’epoca era forse disabitato: un
nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da occhi indiscreti.
Giungono gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi
di sede fissa, violenti e ladroni. A Racalmuto trovano ben poco e subito si
dileguano. Subentrano i Berberi, contadini e pacifici: ebbero forse a convivere
con i mansueti bizantini del luogo.
I Normanni del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri
- pare, depredarono il territorio dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel
XII secolo, il gaito saraceno Chamuth, signore della vicino Naro, con molta
probabilità aveva il dominio del nostro Altipiano e forse vi eresse un
fortilizio, un Rahal: da qui il
toponimo Rahal Chamuth, a
seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie sotto Federico
II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo agrigentino Ursone.
Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i caporioni; gli
altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero assumendo nomi
latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica. Per uno o due
decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia Musca - forse
Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi fuggiaschi,
verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e far sorgere un
nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare il
vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel
1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne
specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità
e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la
preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per
circa 33 secoli. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche
dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo
solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel
poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli
antichi racalmutesi.
Con i Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto
acquisisce importanza e ruolo perché può fornire tasse e balzelli alla famelica
pirateria di un Pietro d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75
fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480
abitanti). Frattanto, Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da
Federico di Chiaramonte che pare vi abbia costruito le torri del castello nella
prima decade del 1300. Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di
Federico, fu l’erede universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure
Antonio del Carretto e poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria -
forse quello dannato all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli
archivi di Stato palermitani sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino
al 1396 Racalmuto è dominio dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio
illegittimo Manfredi Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto
Vaticano.
Tocca a Matteo del Carretto rimpossessarsi del
feudo, farne una baronia e farsene riconoscere titolare dal re Martino,
naturalmente previo esborso di sonanti once. Il figlio Giovanni primo del
Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi
(540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505, al tempo della “venuta” della Madonna
del Monte, la sua popolazione sale a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il
barone di Racalmuto Ercole del Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un
delitto: commissiona a tal Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di
Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo
di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione
su Palermo Restaurato, ove
rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e crisi religiose
spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed a chiamare a
Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale sua e del suo
popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed una pletora
d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio venne chiamato
da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli): era quel tale
Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì sotto
l’Inquisizione.
A metà del secolo, nel 1548, la popolazione
sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno che la politica del barone non era
poi così devastante come sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello che non fa il barone, lo fa invece la
peste del 1576: la popolazione racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un
documento del fondo Palagonia, dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad
appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia
tutta fiscale di impietosire il viceré per una contrazione delle “tande” in
mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale
del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la
drastica contrazione della popolazione non consentiva un gettito bastevole a
fronteggiare la soffocante tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe
pietà e la Universitas fu
costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia come sia, nel 1593 Racalmuto sembra
risorta: gli abitanti ora sono in numero di 4448: ovviamente molti fuggiaschi
erano rientrati e, soprattutto, si doveva trovare conveniente emigrare dai
centri viciniori per sistemarsi nella neo-contea di Racalmuto, le cui
condizioni sociali, economiche e giuridiche in definitiva tornavano appetibili.
La questione
feudale racalmutese
Si attaglia perfettamente a Racalmuto quanto
ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel 1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu
in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né
Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia
vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e
se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo
il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed
a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto
quale centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo,
veri domini, forti ormai del
mero e misto impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al
1550).
Quando nel 1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come
tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri
iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre
demaniali judices, e le feudali
ed ecclesiastiche iuratos “in
magistros juratos de communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale
insegnamento, dai diplomi dei Vespri possiamo desumere questa veste giuridica
del casale di Racalmuto: esso era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i
suoi giudici (judices) con voto unanime
dei suoi abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283
ind. XI, sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus
Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha
giudici e non giurati, vuol dire dunque che non è ancora feudale, oppure, per
la latitanza di quel Negrello di Belmonte napoletano, il casale da baronia è
stato derubricato in terra demaniale.
La dizione del documento è anche tale da
suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il castello) non fosse ancora sorto. E
ciò porta acqua alla tesi del Fazello che vuole le due torri feudali edificate
da Federico Chiaramonte poco prima del 1311.
Come e perché Federico Chiaramonte si fosse
impossessato di Racalmuto e che cosa l’abbia spinto a costruire quelle due
inutili torre cilindriche è sinora un mistero. L’Inveges, lo storico secentesco
che ci tramanda testamenti e cenni al riguardo, è relativamente attendibile,
avendo più interesse ad accattivarsi il favore dei potenti del tempo che voglia
di rispettare la verità storica. Ebbe o non ebbe gli originali di quegli atti
notarili che dichiara di possedere? O non si trattò di una falsificazione,
visto che nessuno è riuscito dopo a rintracciare quelle fonti?
Federico Chiaramonte va comunque considerato il
primo feudatario di Racalmuto, almeno dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei
Vespri. Da espungere dalla verità storica le varie apocrife baronie dei
Malconvenant, degli Abrignano, dei Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria
che lo pseudo Muscia fa nostro barone addirittura prima di essere nato e cioè
nel 1296.
Il primo riconoscimento ufficiale della baronia
di Racalmuto è del 1396 e riguarda un diploma dei Martino a favore di Matteo
del Carretto. Al di là delle incertezze delle fonti diplomatiche del XIV secolo
- che si avranno modo di scandagliare - il nostro paese è incontrovertibilmente
terra feudale baronale solo a partire da tale data: prima sono solo fantasie e
sprovvedutezze di autori e scrittori locali, ivi compresi il sommo narratore di
Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici dediti alla storia paesana.
GENESI ED
AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A RACALMUTO
Dalle brume degli esordi racalmutesi della
schiatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti veritiera: chi fosse
davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per
sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non
sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto.
Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero
investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo sia
pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel
tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre
Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già
fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi
ricorso.
E’ fragile l’ipotesi secondo la quale esistette
un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte – e neppure è
indubitabile che la coppia abbia avuto un figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è
una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che,
tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo
spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli
eventi.
Su quelle carte torneremo in seguito per le
nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in
compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua
quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la
sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un coinvolgimento formale di
codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.
Quasi certo che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263. [3]
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi
ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del
padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292
stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che
sposa Catterina dei M.si di Clavesana; Antonio che sposa Costanza di
Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto
avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di
Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli
prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da
Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare tutrice nel
1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote
Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben
tre Antonio del Carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo
indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza
Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di
Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto,
questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano
di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dalla madre
Racalmuto nel 1344 per atto del
Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle
notizie dell’Inveges.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato ad un certo
punto a Genova, come detto. Là si sarebbe arricchito con partecipazioni in
compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370).
La svolta del
1374
Si accredita autorevolmente la tesi di un
Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle cui mani «per via di fortunate
combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente patrimonio della casa.» [4] Non
sembra potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi
Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo;
dal cugino Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di
Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari,
Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo,
Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in
documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro
paese appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se
non fu con certezza peste bubbonica o pneumonica, fu pestilentia nel senso allora corrente di gravissima
epidemia». [5] Già
vi era stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola.
Racalmuto ne fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni
si ebbero per un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo.
Operava frattanto la scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e
bigotte seminavano il panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in
quel tempo erano emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era
facile additare una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte
era propenso a credervi.
I nostri storici locali raccolgono gli echi di
quei tragici eventi ed imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla
di tutto questo è però provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana
pianta: un massiccio trasferimento da Casalvecchio all’attuale sito della
residua, falcidiata popolazione.
I traumi che la Sicilia ebbe a soffrire tra il
1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a coinvolgere Racalmuto, ma in che modo
non è possibile documentare su basi certe. Gli scontri tra le parzialità - solo
vagamente definibili latine e catalane - continuano a scoppiare nel 1360.
L’anno successivo giunge in Sicilia Costanza d’Aragona per sposare Federico I,
il quale, sfuggendo a Francesco Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può
solo nell’aprile convolare a nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con
9 galee attacca nel maggio la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva
scortato Costanza e ne cattura una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV
si dà da fare per rappacificare e rappacificarsi con i potentati del momento:
nell’ottobre ratifica la pace di Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci
da una parte e Francesco Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di
nutrite fazioni) dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una
recrudescenza della peste. Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si
riesce a recuperare il piano di Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si
può parlare di pace con gli Angioini di Napoli.
Quando agli inizi del 1373 Palermo e Napoli
ebbero per certe le condizioni di pace, divenne più agevole definire il
concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il suo irriducibile
interdetto.
E qui la minuscola vicenda racalmutese si
aggancia ai grandi eventi della storia medievale di quel torno di tempo.
Affiora, ad esempio, un nesso tra papa Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto
nel 1374. Gregorio XII era in effetti Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges nel
1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto papa nel 1371, ristabilì a Roma la
residenza pontificia ponendo fine alla cosiddetta "cattività
avignonese".
E così da Avignone il papa dovette tornarsene a
Roma. E’ questo un momento culminante di una gravissima crisi. Ed in questa
congiuntura, cade appunto la remissività papale verso la Sicilia. In cambio di
un obolo supplementare si può procedere alla revoca di un interdetto, frutto di
potenza, arroganza ed al contempo di remissività verso la Francia.
La meridiana della storia passa allora anche
per il modesto, gramo paesotto di Racalmuto. Altro che isola nell’isola,
nell’isola - scrivemmo una volta in pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del
1375
Nel contesto della politica fiscale di papa
Gregorio XI un personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile
nell’ambito nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand
du Mazel. Il suo destino si lega a
quello della Sicilia ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del
1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375.
Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come collettore
apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano,
sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du
Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi storici. In particolare occorre tener presente che
all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e
la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato.
Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la
signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un
censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa Sede questo
canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà
al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva prima dei
Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che gravava
sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia la riscossione di tale sussidio fu
decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la promessa di
abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati
anche i laici a contribuire. Si decidono modalità di esazione contemplanti
censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre
del 1372, chiedendo un aiuto per la
lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse
dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In
virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano
esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento
di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato,
ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario
si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a
parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di
Racalmuto, ove invero si parla ancora più esplicitamente di “subsidio auctoritate
apostolica imposito” .
E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia
“narrabile” del nostro paese.
«Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato
per case, in rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie
povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi
abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle
famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le
condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe stata distribuzione equa.
Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e
le “miserabili persone” che non era prefigurato quali fossero.» [6]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il
papa scrive a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere
alle nuove istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372,
giurati ed università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re
- perché lo convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di
Napoli. Gli inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e
Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi
Chiaramonte, nella sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi
ufficiali di percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla
Chiesa e di consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico
che subito toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a
Mussomeli nel suo castello che ora si denomina dal suo nome “Manfreda”: là si
redige un processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di
Trinacria, presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e
devoto omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha
promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle
sue terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo,
Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera,
Gibellina, Castronovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano,
Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina,
la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è
potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno
nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la
loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto,
Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro:
Mussomeli, S. Stefano, Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le
proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla lettera circolare che Manfredi
Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni
tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei
Del Carretto, il casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte,
nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di
Trinacria. L’Universitas ha un
suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a
degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un soggetto
giuridico (universi homines). Rientra
tra le terrae nostrae, cioè di
Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto
sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto, ma così non è.
Le singole università devono nominare tre
probiviri (tri boni homini) i quali
devono assolvere il poco gradito compito di spillare denari a tutti gli
abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano
stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino
la ficcante tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica:
Racalmuto si trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova)
punta su Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. a Nord di
Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina: Gibillini
(Glubellini) che non può essere
Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto livello) ma che
potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se
è così, la storia del paese si arricchisce di un altro importante tassello. Da
Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito
dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo
Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il
nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi scema del tutto.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici:
ora è il tempo delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare
l’agrigentino a partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro
(6 marzo); il 18 dello stesso mese può
togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico;
il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo:
altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente
Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che
riguardano il nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici
diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci
degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item
eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo
fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et quas habui VII uncias
XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu
rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta diocesi, nel quale
furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno reso una tassa da me
percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe
dovuto essere di onze 7 e tarì 27 (anziché 27) dato che così andava ripartita:
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
||
numero fuochi
|
136
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
||
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
||
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
Con i
suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544
(in media 4 componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non
abbienti (i miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili
evasori e quelli che dispersi per le campagne non era possibile includere nel
censimento, un venti per cento. Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650
abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno
di grande indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani
pontifici o per vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali
nel dare il sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia,
come ebbe a lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente
confuse con i rilievi censuari. Abbiamo solo numeri simboli da cui possiamo
dedurre qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire
che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34
di queste (1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa
pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a
ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie
di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi
(tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento spagnolo
del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
La fine del
Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia
in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici
dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del
periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di
Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa
la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di
tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico
IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di
Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto
nobile.
Il regno passa alla figlia Maria - troppo
giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I
Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per
volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede
subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni
Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma
trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei
poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno
isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo
era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei
Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni
logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a
curare i nuovi loro affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria
terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e
la vita sociale.» [8] Solo
che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo
personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a
strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania,
la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina
viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro
IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che
quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI
(1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di
Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della
corte aragonese.
Ribolliva l’intrigo della corte spagnola con il
dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la
regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col
pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un
matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria
avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se
formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava
al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono
quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i
nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza
ostacoli a liberare dall’assedio Maria e
portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato
il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava
di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi
Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva
Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi sommovimenti in seno
al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e
di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del
papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del
fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna,
il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il
trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione
egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le
difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva
comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le
forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto.
Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il
giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a
morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e
gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia,
punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un
movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende
della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di
Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di
Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi
di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [9]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito
promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti.
Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto
martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno
“Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai
nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore.
Chi non ricorda Tanu Bamminu?
Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il
padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500)
i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale
corso Garibaldi e la strada intestata al
celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in
Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari
passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a
quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori -
avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte -
succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella
possibilità di resistere ai Martino. Asserragliatosi a Palermo, resistette per
un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di
guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni,
furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu
decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui
rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei
Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di
Racalmuto e dà inizio al lungo periodo
della sua baronia vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si
era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno
di Castronovo in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione
al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito.
Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure
lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il
duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e
profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che
rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive
profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato
un’ambasceria.» [10] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici degli invasori, per “necessità”
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
* * *
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea
II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il
duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano
dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392
approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a
nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara
per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed
altri nobili quali Enrico I Rosso non
mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno
stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei
giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità
sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento.
Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della
corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso
il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritava a sua volta
nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di
Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II
Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che
passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi
rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava a Palermo. Il 17
maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo
Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico
Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte),
chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il
vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea
Chiaramonte si concludeva il primo
giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo
di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una
delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi
Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione,
Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire
gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di
anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non
impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni
e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un
esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era
indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione
critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far
valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a
pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole
del trattato del 1372 e si dichiarò Rex
Siciliae. Approfittando di uno
scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio
diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare
vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397
e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di
Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino
testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò
una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché
applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza
di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio
continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti
aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne
danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith
«Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in
qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese
siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [11] Martino
il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO
Quando il 22 marzo 1392 la
spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova i Del Carretto si
decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui
pensavano di avere diritto per successione diretta e per lascito di Matteo
Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito
già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato Gibillini e di
pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato
da case coperte di paglia e con il suo toponimo arabo costituiva la terra
abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano considerate terre burgensatiche, di
personale proprietà del feudatario.
Le terre dello stato di Racalmuto, soggette a
vincolo feudale, non si estendevano dunque per tutto il territorio extraurbano:
un qualche rilievo di autonomia mostrava la contrada della Menta (sempre dei
del Carretto) che talora è stata denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i
fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di Racalmuto parte dalla contrada
di Cannatuni (come ai
giorni nostri) e da quel versante nord
va verso ponente: coinvolge Santa
Margaritella e Santa Maria
di Gesù, arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella
fertile piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo; include una parte del Serrone (un altro versante è detto
appartenere al feudo di Gibbillini);
scende per Judio, Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare
circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro
Finaiti.
Menta, Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono
pertinenze del feudo dei Del Carretto, ma hanno una loro distinta
configurazione.
Negli atti notarili non sempre è chiara la
peculiarità feudale di queste terre dei del Carretto che talora vengono segnate
come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), talaltra no, e
comunque restano talora attratte nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei
cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza dei possedimenti di Garamoli si
coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli
doveva essere contornata da un bosco
fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano
“burduna” di enormi proporzioni. Si
trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per trarli fuori provvide la
maestranza ma soprattutto un nugolo di
nerboruti facchini che furono pagati in modo inconsueto: con salsicce e vino.
La pagina della “fabrica” del dicembre 1658 appare degna di essere riportata
qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con dui figli et m.° Alcello
tarì 11; ...
1.
alli d. di Napoli, Alcello
et dui altri mastri tt. 12.10;
2.
alli d. di Gueli et Napoli et un giovane per pulire travetta et
intravettare tt. 12;
3.
alli d. di Gueli et Napoli et suo figlio per havere andato in
Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna n.° tre che mancano al
complimento della nave tt. 11.10;
4.
per havere fatto portare dui carichi di travetti di Garamoli tt. 5;
5.
alli d. di Gueli et Napoli con dui figli tt. 14. per havere
comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella per mancanza di forbici onze
3.10;
6.
più per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt. 20;
7.
e più per pani salzizza
e vino a vinti homini che uscirno detti burduna dentro la fiumana e ni portaro uno tt. 15.8.»
Piena autonomia ha sempre invece il feudo di
Gibbillini. Feudi dei dintorni di Racalmuto sono - stando a certi atti notarili
- quelli Di Grotte, del Chiuppo, di Scintilia e del Nadore.
* * *
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una
pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori
del Duca di Montblanc. [15]
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto,
Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, nella
nota guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli
archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state
le cronache cinquecentesche, specie quelle del Fazello. Se attendibili, queste
note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si
faceva passare per marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia
di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato
Gerardo a darsi da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. Sarebbe sempre Gerardo a mettersi a guerreggiare in difesa dei
catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si
possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali
conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su
Racalmuto i del Carretto sono costretti, comunque, a darla alla fine del
secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove
certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma
Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu
presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per
l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni
tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze
genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e
burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto
Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte
certe.
I DEL
CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i del Carretto
impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come
questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto,
facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non
dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del
secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in
parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di
una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di
Racalmuto in capo a quella famiglia
proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13
aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale
di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed agli storici il compito di far luce
sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto chiarita.
Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu
scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di
Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale
di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla
causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la
triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere
legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza
palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a
metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per
quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia
Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa
aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa
in forza della quale il legato del
Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne
approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti
onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio
di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso.
Chiarisce bene la vicenda un documento: esso fu ben presente a Giovan Luca
Barberi che gli tornava acconcio per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice
ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa
poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai
canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto
poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si
fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I
benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità
del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di
dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano quella chiesa ad un diploma del
1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il
beneficio può benissimo essere sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la
curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
LA
CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano
a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si
era arrabattato alla fine del secolo
precedente. Henri Bresc vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un
disastrato, finito in mano degli Isfar di Siculiana. A noi risulta il
contrario. Lo vediamo rapace esportatore di grano locale. Appare come creditore
dei Martino, acquirente di quote di feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico
francese è perentorio: «La baisse du prix
de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par
la noblesse oblige à un
endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine
résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe
féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries:
Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto,
confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa espoliazione della baronia di
Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non trovasi riscontro alcuno nell’altra
pubblicistica di nostra conoscenza. Il Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert Isfar avrebbe sposato una figlia di
Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare
feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem
pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno alla metà del secolo, subentra nella
baronia di Racalmuto Federico del Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata
l’investitura stando agli atti del
protonotaro del Regno in Palermo. Un grave episodio di intolleranza
religiosa contro gli ebrei - in cui però preminente è l’aspetto di comune
criminalità - si verifica nelle immediate adiacenze di Racalmuto nell’anno
1474.
Il Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della
Madonna del Monte. Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto.
Ebbe costui il suo bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere
venuto proprio a Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della
potente famiglia baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul
concepimento nel legittimo letto di alcuni antenati del povero barone Ercole
Del Carretto. Gli contesta molte irregolarità d’investitura ed il padrone di
Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari formalizzando i suoi titoli
nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a suon di once. La ricaduta -
oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui disgraziati racalmutesi dovette
essere espoliativa. In compenso - direbbe Sciascia - fu profuso il succo
gastrico delle opere di religione. Non proprio una “venuta” miracolosa, ma una
statua di marmo della Madonna fu certamente fatta venire da Palermo -
genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e posta in bella mostra su un
altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad ogni buon conto preesisteva.
Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire predicato. Se ne
scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può venire
sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
PERCHE'
UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in un paio di pagine
sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([18]) su tutta la storia
racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica
'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto
«piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di
Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una
vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza
di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un
pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per
secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in
ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno
predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle
rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a
trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre
tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle
rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo
ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo
rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio
segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo
rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce
nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare
sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora
narrato dagli eruditi locali con topiche ed errori, spesso con “visionarietà
romantica”: correggerli alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore
dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed
abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più
proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale
al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i
cattolici.
* * *
Sui Del
Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra
storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il
vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria
feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine
dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce,
così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono
da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il
'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro
il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo
barone Giovanni III Del Carretto ed
intentando contro di lui, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che
poteva costargli una scottante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687,
Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai
creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre
e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua
morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto.
Un Girolamo IV ([20]),
dunque, non è mai esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse
parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di
Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([21]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio del 1622 sarebbe stato perpetrato insieme "al
priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo
responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo,
«canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in
modo particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal
conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra
di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel
1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per
i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di
marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione
consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore
architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto
cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da
far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi,
pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione
risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da
far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di
frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di
Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione
riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla
primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta
probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente
puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o
Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica
storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur
sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del
Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli
albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca
Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo
baronale di Racalmuto in capo alla rampante famiglia d'origine ligure.
Solo in una circostanza ha ragione da vendere
il Barberi e cioè quando contesta
l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del
Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito,
peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni
del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II
del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne
fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello
che scrive, dopo il 1519, quel diligente burocrate sull'origine e sui primi
sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto.
Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie
di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza.
Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime
nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino
Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un
concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a
cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto,
deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del
Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651),
testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire,
per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del
Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva
così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo,
l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo castello di Racalmuto è
sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal
condam Antonio del Carretto.
Morto costui, doveva succedere nella stessa
terra Gerardo del Carretto,
come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che
aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e
poteva avere per ragione di successione
e di eredità da parte di Costanza
di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del
detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam
Giacomo suo fratello, e particolarmente
i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese
di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e
diritti dal fratello Gerardo, per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel
pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in
data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato
dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi
eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tale conferma
dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto
anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma
della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli
cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti
che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o
diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71.
Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore.
Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine,
nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e
l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con
revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui
emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel
libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I],
suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta
terra in un diploma ove risultano
inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto
condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto
re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria
nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio
primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone
arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi
sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della
regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri
predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande
dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo
figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese
giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio
legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non
risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [III],
suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della
detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del
signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro
dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò
sebbene il padre non avesse preso
l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio genitore. ([25])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo
annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su
Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno).
Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come
dante causa per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L.
Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo
avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella
sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta
chiamato di straforo marchese di
Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino
riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera
millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di
Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia
magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a
Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel
possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi
è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che
nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre
testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche
quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora
in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di
Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua
accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il
subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del
Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era
dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto
senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).»
([26])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti
prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo,
secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'.
Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi
a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico
successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno;
ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D.
Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti
in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno
è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette
di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo
stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del
1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni
II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II
il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo,
qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per
sentito dire e Dio sa quanto menzogneri fossero quei nobili, specie se
dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia.
Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al
Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della
storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli
che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del
Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo)
nella ricostruzione della storia di
Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora:
la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo,
ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò
è congettura forse accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria
dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del
tutto incolpevole. Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito
Amico([28]) ed il Villabianca, quello della Sicilia
Nobile([29]) - su un'evidente distorsione di un passo
dell'opera dello storico di Sciacca. ([30])
Questi, parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]):
Matteo Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura
di Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri
"oppidula" (piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula doveva includersi proprio
Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del Settecento, non sappiamo
su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici locali che hanno in tal
modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di quella famiglia. Ma di
ciò a suo tempo e luogo.
Allo spirare di quel secolo, il vescovo di
Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la
potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di
vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che
vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i
sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il
prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,
il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo
Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti
[.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che
s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et
l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio
haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta
spoglia.
Ma con
tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene
molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche,
censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca
al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et
per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al
exponente.
Et più
esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici
che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua
devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal
trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio
et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi,
ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole
remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché
il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro
d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare,
certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa
procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito
appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo
deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo
reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in
difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo
quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni
ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di
più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle
carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perché ni fù
prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([32])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con
acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli
encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari,
testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque
rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e
si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto
che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di
Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote
di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III
Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel
caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi
di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus,
nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca
documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella
ricerca sia stata la base di un libro
scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([33])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il
Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di
Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo
Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato
dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato
una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento
urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla
pubblicazione del 1872 nella Biblioteca
Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo
manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana,
che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di
Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirro: ma qui
quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia
religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto
nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia,
è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico)
della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un
Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo
parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di
S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà
di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte
alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da
cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus
de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia
feudale. Si tenga presente che
l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli
XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni
IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le
pagine 237-240 ([34]) alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra
Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza
di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del
Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione
genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe
spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di
effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo
riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto:
sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto
siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo
sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote,
confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano
dei Del Carretto anche per quelle
omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave
topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e
non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I -
sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta
successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è
Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e
la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei
feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della
trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente
don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data
della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di
lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a
Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don
Agostino Inveges: il primo, Palermo
antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il
secondo, La Cartagine Siciliana,
è datato 1661 ([35]) e può
dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata
l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova
molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. ([36]) Si dà
il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai
Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli
nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se
le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti
notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi
molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che
sappiamo aliunde essere
davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza
fornisce elementi il lavoro dell'Inveges ([38]), ma
sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma
noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni
capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del
Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella
particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie
case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della
famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento. ([39])
Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto
nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio
Veneziano. ([40])
Eclatante il mortale attentato in cui perse la
vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo
descrive un anonimo diarista palermitano. ([41])
Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11
gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto,
l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto
di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata del tutto
fallita. Nel suo diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria
([42]) che poi seguì passo passo lo sviluppo
giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di
quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è dubbio che una potente famiglia
denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo
secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi
del magniloquente titolo di Machesi di Savona. A cavallo tra i secoli
tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro
potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli.
Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino
del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio
del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente
spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di un Barone è tale
che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio
nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi, sia pure in
corsivo, mostrando di non esserne certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del
Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
ANTONIO
I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure
si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia
Chiaramonte. Ed è proprio così che forse è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu
meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là
con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio
del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo
necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il
vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO
II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia
storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a
proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito
Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento - che trova ampio spazio in
questo lavoro - emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi
giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non
era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli
si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a
Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato
marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo
era fasullo, comunque inconsistente, in ogni caso obsoleto.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto
transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a
compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza
economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel
tempo era Racalmuto.
Non sappiamo dove sposa una tale Salvagia di
cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano
defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.
Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai
figli:
«loca
vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur
di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus
milibus qui
faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote
nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila
fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca).
Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar
modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte
sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane.
L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i
due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale
et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica
predicta» posti, cioè in
«territorio
Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, ....»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre
figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di
Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto in giovane età.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di
Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in
Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge
di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di
Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di
sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se
leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che
trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la
vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un
secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di
Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a
pagamento - cosa non ammessa secondo il diritto feudale allora vigente - ma
addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative
giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che
ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli
storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del
Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni
araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando Acquista, padre
Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è
semplicemente inverosimile congettura. Invero anche il Surita incorre in un
errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e
Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da
cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome
della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il
titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il
titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles
marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima ([43]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è
il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende
le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e
sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che
eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse
figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi
comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno
l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc,
il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo ([44]) ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO
UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis
etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu
per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti
generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita
est la nostra maiestati haviva causa di
meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna
affannu di chircarisi che cumandamu ki
con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki
incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li
altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la
nostra maiestati cesaria [si occupi]
plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date
in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni
1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del
Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è
palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi
che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari
famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del
barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il
Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque
come un conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di
storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando con gli Aragonesi, ha
momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo
di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto
ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura
(evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di
Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone
di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica
che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a
vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il
martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La storia di Andrea Chiaramonte parte, invero,
da lontano e noi qui vogliamo farne un accenno per meglio comprendere il ruolo
di Matteo del Carretto.
Alla morte di Manfredi III Chiaramonte spunta
un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i
titoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio
di Vicario Generale Tetrarca del Regno; rifiuta obbedienza a Martino Duca di
Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe
spagnole.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a
Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i
Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con
inganno e decapitato dinanzi allo Steri il
1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano
nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino,
trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna.
Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della
famiglia sedicente originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi
protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte,
Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel
1392 si sottomette a Martino dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti
e amici nel castello di Caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi
torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel
Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono
i del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una
intermittente incidenza la ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per
il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo
contadino; quello delle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche;
quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese,
confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due
belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per
quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto,
quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto
emerge da un diploma ([45]) del
1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro
dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([46]): « Matheus de Carreto miles baro terre
et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato
Gibillini passò nelle mani di Filippo de
Marino, fedelissimo vassallo
del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale
il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello
pseudo Muscia. ([47])
Le note storiche che riusciamo a cogliere nel
cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andiriviene
opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo
del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere
(il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà
(voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate
le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e
fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona,
conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana
“nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione
- non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in
capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:
"Item
peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da
novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto
feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia
confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu
li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" -
Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque
officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere
riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad
essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente
da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato
di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item
peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru
[2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una
sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.
Item
peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala
fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi
lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu
oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto
dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la
colpa agli agrigentini.
Item
peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si
desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a
lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque.
Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa
forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di
libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei
fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
La formula, dunque, fu assolutoria, ampia,
faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto
è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze
racalmutesi?
La chiosa finale fu ulteriormente munifica per
l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei
nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del
nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di
riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i
sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace
concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi
sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo
trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di
Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di
letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino
nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria
([48]) che ha modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto
Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il
futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano
in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città
appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto
[pag. 17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re]
scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito
la Farsaglia di Lucano in
lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di
leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti
pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Dirigitur
matheo de carrecto.
Dominus
rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97,
Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
* * *
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le
vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i
Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a
scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve
oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire
nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le
beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite
appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede
Giovanni I del Carretto
GIOVANNI
I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore
attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora
irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a
definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del
Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati
liguri il sovrano diritto del mero e misto impero. La questione si riproporrà a
fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti
irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in
dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora
spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di
Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo dati biografici di questo barone di
Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
magnificus
dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum
casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice
et quiete et de hoc fuit et est vox
notoria et fama publica et ..
dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de
Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus
et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus
Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad
eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto
magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et procreatus
fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens baro dictae
baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis subcessit in
baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de hoc fuit et est
vox notoria et fama publica etc. ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed
Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà il erede nella
baronia Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del
processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo
di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla
data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32
anni) lascia adito a dubbi, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la
nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile
dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto
sperperatore delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il
ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in
data 17 agosto 1401 giungeva una lettera
da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta
un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di
Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di
Racalmuto: v’era la successione della
baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due
annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra
riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un
carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta
che la posizione è stata sistemata come segue:
30 once in contanti e dieci a compensazione di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo
del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli
1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese
rinnegata) : «Il basso costo della terra
- che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà -
obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto
rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e
della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie:
Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto,
affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana».
Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc”
altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait
joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide
catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». [Per
ACA Canc. s’intende: “Archivio de la
Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458)
op. cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben
ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur
sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del
Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito
Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria
là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di
Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena
abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di
Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda
degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione
avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole
figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di
Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di
figure dei vari rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il
figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si
iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di
Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è
indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e
Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato ma non si accenna neppure
larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto feudale dell’epoca) della
primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha però
dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe
Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale
Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della
detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare
e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([49])
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto
di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e
subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenza della
regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che
dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del
Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della
baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a
queste condizioni:
1.
presti il cosiddetto servizio
militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
2.
renda l’omaggio nelle forme
solenni del tempo;
3.
restino salvi i diritti di
legnatico dei cittadini racalmutesi;
4.
e del pari restino
riservate alla Corona le miniere, le
saline, le foreste e le antiche difese;
5.
resti salvaguardata la
libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti
regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era
saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse
l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso
l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 a
Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro
quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio. E il Bresc [op. cit. pag.
884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In
termini moderni si parlerebbe di forward in
grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il
"Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451,
cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460)
- n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera
un'altra interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200
di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta
antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un
libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo,
1921».
GIOVANNI
II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il
Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo -
e non c’è motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del
Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del
Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus
praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec
maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor
eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali
siano quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri,
non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna
... memoria. Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il
successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte,
e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche
dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto ([50]).
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su
Mussomeli ([51]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella compravendita non
sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a
quali precedenti anni si riferisca la vicenda di cui alla posta contabile. Da
quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi
degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il
contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo
la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini
presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e
“Conservatoria, Privilegia,
confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in
Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del
Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo
Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra
dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si
sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per
acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se
notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un
centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui
in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si
annota - lu teni Mazzullo di Alongi
di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et
pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et
una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et
la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di
Pasqua.» ([52])
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula
contro i del Carretto - la fa a ridosso
degli anni della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo
figlio, il quale, come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese
giammai l’investitura della detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del
Carretto, quello che le saghe sulla venuta della Madonna del Monte chiamano
“Conte”. Il Barberi annota su di lui:
«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio
legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non
risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.»
Il Baronio, come si è visto, quasi non lo cita:
un accenno trasversale, come si fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran
fulgore che era stato il padre.
Il Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio
sotto Ercole del Carretto che visita Racalmuto come lascia intravedere il
passaggio : al
presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un
reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento
once di reddito - a meno che non trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua
delle mirabolanti cifre dei moderni accertamenti degli agenti tributari - sono
un’enormità. Sia quel che sia, Racalmuto dunque in esordio del ’500 - e proprio
sotto Ercole del Carretto - ha un salto quantitativo, un empito verso il grande
centro. Nostri precedenti studi ([53]) hanno
messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal
rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notato
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta
della Madonna del Monte
Era persino sorto un clima messianico per cui
era potuta allignare la saga della Madonna del Monte. Sciascia è caustico: «correva
l’anno 1503, ed era signore di Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da
dire che la statua è della scuola dei Gagini, e appare molto improbabile sia
finita in Africa; ma di più di ogni altra è inquietante la considerazione sulla
scelta della Madonna tra il Gioeni e il del Carretto, tra i castronovesi e i
regalpetresi; inquietante come l’apparizione dell’immagine di Cristo su una
parete al professor Pende, perché proprio al professore, perché al del
Carretto, perché tra i regalpetresi la
Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione di Castronovo essendo in egual
misura fatta di uomini onesti e di delinquenti, di intelligenti e di
imbecilli.» ([54]) Ma è
proprio lui che poi negli Amici
della Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi
occhi di avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i
racalmutesi siamo legati.
Neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare
del tutto con il valente padre gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli
odiati Requisenz ad inventarsi la leggenda della Madonna del Monte «per fare
apparire i Conti del passato, ma intenzionalmente quelli del presente, quali
grandi benefattori del paese: così il barone Ercole Del Carretto, e con lui
tutta la sua famiglia, cominciò ad essere presentato nella leggenda come
insigne benefattore del culto della Vergine del Monte, costruttore della sua
prima chiesa nel 1503.» ([55]) Osta se
non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio
1771 ed a quella data la saga era ben
salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si
ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato
secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di
Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la
curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago” (imagime molto
miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di
Racalmuto. ([56]) Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante
complessità religiosa. Umilmente riteniamo che Ercole del Carretto ebbe davvero
a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a
S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a corredarla facendo
venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine
marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e
rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini
locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e
coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era
maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo -
recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti
anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne sono le notizie che abbiamo su Ercole
del Carretto. Non
sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tale Marchisa
di cui ignoriamo il casato.
Dal processo d’investitura del figlio Giovanni
III possiamo abbozzare questi altri dati: fu “signore e barone della terra di
Racalmuto e tenne e possedette quella terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli
ufficiali tutte le volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire
frutti, redditi e proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e
padrone”. “Tenne il figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e
naturale e per tale lo trattava e come tale lo reputava così come veniva
ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone
della predetta terra e padre del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu
seppellito nel castello della terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI
indizione del 1517, dopo avere redatto solenne testamento per mano del notaio
Giovanni Antonio Quaglia della città di Agrigento il 16 del predetto mese di
gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede universale il detto magnifico signore
Giovanni”.
Nel suo processo d’investitura si legge
che: a «Johanni de Carrectis» successe
«quondam magnificus Hercules, unicus filius legitimus et naturalis.» ([57])
Crediamo che il noto giurista operante a
Racalmuto Artale de Tudisco fosse già al servizio di Ercole del Carretto. Altro
notabile dell’ entourage carrettesco
fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam
magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri
et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi
et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri
et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri
Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et
reputava per figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto,
trattato et reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu
in lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo
intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò anche certo Francesco Maganero come
intimo del defunto barone, così come il “nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi
egualmente di risalto furono i “nobili” Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro
e Gaspare Sabia.
Il cennato processo include anche uno stralcio
del testamento di Ercole del Carretto che qui riportiamo in una nostra
traduzione dal latino:
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del
testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen.
Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole
del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre
candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento
fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e
spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede
universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo
figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica
e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e
spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni
suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in
ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati,
e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con
tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,
secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e
concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei
suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia
agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il testamento ci svela come Ercole del Carretto
abbia sposato in prime nozze la citata Marchisa madre del primogenito Giovanni
III. Ercole contrasse sicuramente altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del
Carretto
Di quale madre fosse, ad esempio il terribile
Paolo del Carretto, non è dato sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile
districare. Alcuni testi dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di
Ercole (vedi testimonianza del Tudisco così come del Calderone), ma nel
testamento del Quaglia questo aspetto viene glissato. Supposizioni se ne
possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed allora va creduta la rutilante
storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un secolo dopo, nella
rinomata Palermo restaurata?
Siamo propensi per l’ipotesi affermativa. Va qui allora ricordato che nel 1630
circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di Giovanni scrisse per sé secentesche memorie che oggi
sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai del Carretto e
addirittura da Ercole del Carretto - almeno a suo dire - confezionò un racconto
truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal grano. Investe la
Racalmuto dei primi del ’Cinquecento e noi non possiamo esimerci dal reiterare
quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo
caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E fu il predetto caso,
che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo
di gran valore, e avendo differenza con uno di casa Barresi, gli diede il
Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro gravissima inimicizia, in modo
che la città si ridusse a parte.
Un
giorno volle il Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole, signor di
Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo
assaltâro alla piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e
potendosi salvare nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e si risolse
piuttosto morire, che far gesto di sé indegno. Si venne tra loro alle mani; ché
animosamente il Carretto investì, e ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il
Carretto, investendo il suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita,
avendolo preso per il petto, quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse
in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti
perciò i nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco
[Lautrec] a servire Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in
una giornata di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte Borrello,
figlio del viceré, perché mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli
arrivasse il soccorso; dal che si evitò gran danno, che poteva succedere
agl’Imperiali.
Del che
fattosene relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due
fratelli indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì
gravemente il successo D. Giovanni Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e
più per vedersi i nemici, in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi,
e perché era di gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato
il padre D. Ercole.
In quel
tempo era nella città di Naro Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente,
consobrino di mia ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di
Camastra, anco della città di Naro, manteneva a sue spese cento cavalli,
ordinariamente di gente scelta e valorosa, con li quali faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne
temeva tutto il regno.
D.
Giovanni del Carretto, figlio del predetto D. Ercole, si fé chiamare il
predetto Enrico, che gli era amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo
richiese che si volesse adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli
promise buona opera Enrico; e perché si sentiva che i Barresi si volevano levar
le mogli e le case da Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li
appostò Enrico con quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco
delle Fiaccate, per quel cammino assaltò i predetti fratelli con molta
compagnia. I quali non prima si videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero
a fuggire, e furono finalmente giunti, presi ed uccisi.
E se ne
presero le teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché
prevedesse gran travagli di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento;
tanto si estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe
al fine gran travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e
reputazione.»
“Più solidità e più stabilità”
Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa che possa avera il suo
congetturare sulla genesi della saga della Madonna del Monte, quale
trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la sentiamo di
seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del Carretto
fosse racalmutese e fosse davvero figlio del barone Ercole.
Probabile invece che una volta conosciuta la
tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi del
Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della vetusta e pia
memoria della “venuta” di quella
adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto popolare che la prof.ssa Isabella
Martorana ha saputo recuperare dalla viva voce delle locali vecchiette non è
coevo certo alla venuta della Madonna del Monte, ma ha insiti spunti storici
che sia pure postumi meglio rispecchiano la genesi della saga. Venuta da
Trapani - più verosimile che si fosse parlato di Punta Piccola - , “intranno a
Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran Signura”, sono scisti con
qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci arrivà mmasciata”, il
riferimento è decisamente postumo, databile dopo il declinare del XVI secolo.
Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia nelle brume anch’esso l’origine
della pia tradizione del miracoloso evento della Madonna del Monte che sceglie
la sua dimora nel nostro paese, in cima alla panoramica altura della omonima
chiesa.
GIOVANNI
III DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei
feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare all’apice la signoria
carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre s’insedia nel castello
baronale con puntiglioso rispetto della liturgia feudale. Invia a Palermo come
suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio
1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del Carretto, appena
barone, si sarebbe macchiato della committenza di un delitto contro i Barresi
di Castronovo. Così racconta il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma
sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano -
per quel che vedremo - un uomo religiosissimo, al limite del bigottismo,
prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo
Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si
scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi empiti di prodiga
religiosità del suo assistito in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive
ovviamente in termini esageratamente elogiativi. Traducendo dal latino, per
quello storico di casa del Carretto «Da Ercole si ebbe Giovanni III, singolare
figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo
coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la propria che per l’avita
nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i Dinasti. Giovanni ebbe due
figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico che divenne barone di Sciabica.»
(vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo
d’investitura
Sul citato Giovanni fornisce lumi
il processo n. 1175.([58]) Ne abbiamo fatto già qualche richiamo. Siccome lo riteniamo
basilare per la storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo,
quando occorre, dal latino.
«N.° 1175 -
In Palermo nell’ufficio del Protonotaro
del Regno di Sicilia, sotto la data del
28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale
esibito e presentato nell’Ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia,
dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore del magnifico signore don Giovanni del
Carretto, figlio primogenito, legittimo e naturale, unico ed universale erede
del quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della
terra di Racalmuto (Rayalmuti), che teneva e possedeva la detta terra di
Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e
pertinenze a seguito della morte del prefato quondam magnifico Ercole, suo
padre.
E tanto
per prendere l’investitura della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze
tanto per la morte del signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto
per la successione delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo,
signori nostri invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam
magnifico Ercole del Carretto, suo
padre.
«Innanzitutto,
si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto
magnifico don Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e
possedette la terra di Racalmuto, con il
suo castello e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando
tutti gli ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico
barone Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e
proventi da vero signore e padrone.
«Del
pari, si testimonia che il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu
ed è figlio primogenito, legittimo e naturale del detto quondam magnifico
Ercole e come tale e per tale lo teneva, trattava e reputava, così come era
dagli altri tenuto, trattato e reputato.
«Del
pari, si afferma che il detto quondam magnifico Ercole del Carretto, un tempo
signore e barone della detta terra e padre del detto magnifico signor Giovanni
del Carretto, quando piacque al Signore, morì e defunse nel castello della
predetta terra di Racalmuto, sotto la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517,
lasciando superstite e successore in detta baronia il detto magnifico quondam
Giovanni del Carretto, dello stesso quondam magnifico Ercole figlio unico,
legittimo e naturale, ed avendo prima redatto testamento solenne in mano del
notaio Antonio Quaglia del città di Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto
mese di gennaio, testamento nel quale venne istituito suo universale erede il
detto magnifico signor Giovanni.
«Del
pari, si afferma che, morto e defunto il detto magnifico Ercole, il detto
magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto
quondam magnifico Ercole, e come successore legittimo in detta baronia, ebbe
per il tramite del suo procuratore,
prese e conseguì l’attuale, reale e
corporale possesso della detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal
rogito celebrato nella terra e nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia
della città di Agrigento in data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del
pari, si afferma che in questo regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce
notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che
il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione
[1516] passata prossima ed a lui successe in tutti i suoi dominî e regni la serenissima Regina donna
Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed invittissimo
Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e naturale. Così fu
ed è la verità.
«Del
pari, si afferma che al fine di prestare il debito giuramento e l’omaggio della
dovuta fedeltà e del vassallaggio,
nonché di ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i
suoi diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa
memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo
procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura
agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese
di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi ricevuti ed esaminati nell’ufficio del
Protonotaro del Regno a richiesta ed istanza del magnifico don Giovanni del
Carretto, figlio legittimo e naturale del quondam magnifico don Giovanni del
Carretto, al fine di prendere l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto
per la morte del Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del
magnifico Ercole del Carretto, suo padre e signore di detta terra.
«Il Nobile Alonsio de Calderone giura
solennemente per testimoniare che: “stando
ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu
Garretto baruni di Rayhalmuto vidia dicto magnifico regiri et governari la
dicta terra et in quella permutari li
officiali et rescotiri et fachendosi
rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni;
et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di
dicto quondam signuri Erculi lu
Garrecto, a lo quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per
figlo unico et primo genito et da tucti accussì era tenuto, trattato et
reputato; lo quali dicto quondam
magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti
testimonio lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto testimonio dicto
magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento ...”
«Francesco Maganero giura solennemente per
testimoniare in modo del tutto conforme
alla testimonianza resa prima.
«Il nobile Andrea de Milazzo giura solennemente
per testimoniare in modo del tutto conforme
alle testimonianze rese prima.
«I nobili Antonino Palumbo, Alonso de Silvestro
e Gaspare Sabia giurano solennemente per testimoniare che: “in questo Regno di Sicilia fu ed è fama
pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di religiosa
memoria, haviri passato de questa
vita in sancta gloria in lo misi di ginnaro anni IIIJ Ind. proximae decursae a
lu quali successiru in tutti soj reamj et segnurij la serenissima regina dop.na
Johanna sua figla legittima et naturali et lo catholico et invictissimo re
Carlo della stessa Giovanna
figlio primogenito, legittimo e naturale ... “
«E’ da sapere come fra gli altri capitoli del
testamento del quondam spettabile Ercole del Carretto, barone della terra di
Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen.
Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^
indizione, in Racalmuto e nel castello del magnifico e spettabile signor Ercole
del Carretto [si raccolgono le ultime volontà testamentarie], accese tre
candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché capo e principio di ogni testamento
fu ed è l’istituzione dell’erede universale, così il detto magnifico e
spettabile signor Ercole, testatore, istituì, fece ed ordinò suo erede
universale il magnifico e spettabile signor D. Giovanni del Carretto, suo
figlio legittimo e naturale, nato e procreato da lui e dalla quondam magnifica
e spettabile donna Marchisa del Carretto, un tempo prima moglie dell’illustre e
spettabile testatore sopraddetto.
«E tale eredità si estende sopra tutti i beni
suoi, mobili e stabili, presenti e futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in
ordine a tutti i debitori ovunque esistenti e meglio individuabili e designati,
e principalmente nella baronia, nei feudi e nei territori di Racalmuto, con
tutti i suoi diritti, redditi, emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta
baronia a giusto titolo spettanti e pertinenti,
secondo la serie ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e
concessioni, in una con l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei
suoi privilegi.
«Dagli atti miei, notaio Antonino Quaglia
agrigentino.
«26 marzo - VI^ Ind. - 1518.
«A tutti e singoli i chiamati ad ispezionare
seriamente, vedere e leggere il presente atto pubblico, sia evidente e noto che
esso fu redatto da me notaio, con i
testimoni infrascritti, presso il
castello della terra e baronia di Racalmuto nel Regno di Sicilia.
« Si è costituito il magnifico signor Cesare
del Carretto quale procuratore del
magnifico e spettabile signor don Giovanni del Carretto, signore e barone della
predetta terra e baronia di Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale
del magnifico e spettabile quondam
signor Ercole del Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da
questa vita adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue
ultime volontà la totale validità.
«Peraltro, con pubblico strumento redatto in
carta membrana, sono state espletate le conseguenti formalità in modo solenne presso la città di Napoli il
primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile ed egregio Bartolo Carloni
della stessa città di Napoli, abilitato notaio per tutto il regno di Napoli .
«Di tal che è stato preso, recepito e
tenuto - così come si prende, si
recepisce e si tiene - il naturale, reale e corporale possesso della predetta
terra e baronia di Racalmuto per tatto e tocco delle chiavi del castello della
stessa terra e baronia, nonché della porta e del cantone dello stesso castello, aprendo e chiudendo,
entrando ed uscendo dal castello ad
libitum senza l’opposizione di alcuno.
«Se ne attesta quindi il possesso con tutti i
singoli relativi diritti e pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera
presa del possesso naturale, reale e corporale della predetta terra e baronia,
con tutti i singoli suoi diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello
stato della stessa terra e baronia sotto il profilo del dominio, quale
configuratosi con le sue spettanze e pertinenze giusta la forma, la serie ed il
contenuto dei privilegi della ripetuta baronia.
«E continuando nella presa di possesso, fattane
l’acquisizione, il procuratore mutò e depose nella detta terra gli ufficiali;
in essa quindi nominò altri ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò
capitano della medesima terra Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu
Carretto; giudice ordinario e militare,
il magnifico signore don Paolo de Mistrectis.
«Del pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili;
Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea Gulpi. Come Castellano del predetto
castello fu chiamato il magnifico signore don Giovanni Benigno de Tudisco; come
Segreto, il magnifico Silvestro de Urso;
come Maestro Notaro il magnifico Gilberto de Tudisco.
«E per segno di quanto precede, il predetto
procuratore - a tal ultimo titolo - fece redigere il presente atto pubblico da
valere per ogni luogo e tempo.
«Testi: il magnifico Matteo del Carretto, il
magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico Teseo de Torres ed il nobile Giacomo
de Alletto.
«Dai miei atti, notaro Antonino Quaglia
agrigentino»
«26 gennaio VII^ Ind. 1519
«Il magnifico don Giovanni del Carretto, barone
e signore della terra di Racalmuto, presente innanzi a noi, spontaneamente -
con ogni miglior modo e forma con cui
più preclarmente può essere detto e fatto - costituì, scelse, creò e
solennemente nominò come suo vero ed indubitato procuratore, attore, nuncio
speciale il magnifico Giovanni Artale Todisco.
«Questi, presente ed accettando l’onere della
infrascritta procura del tutto volontariamente, compare a nome e per conto e parte del predetto magnifico costituente
dinanzi l’ill. signor Viceré per
prendere l’investitura della terra e baronia con relativo castello di
Racalmuto, nell’integrità del suo stato e nella pienezza dei suoi diritti e
pertinenze, sia per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la
successione delle invittissime cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re
Carlo, signori nostri invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico
Ercole del Carretto, il di lui padre.
«Al contempo, il procuratore, in nome e per
parte del predetto magnifico mandante, si presenta per prestare il giuramento e
rendere l’omaggio di debita fedeltà e vassallaggio nelle mani dell’illustre e
potente signore viceré, nonché per svolgere quant’altro occorra per prendere la
predetta investitura, non mancando il detto magnifico mandante di
obbligarsi sotto vincolo di ipoteca
etc. Così giurò etc.
« Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito
Paladello.
«Ex actis
meis no. Joannis de Malta de Panhormo,
extratta est praesens copia manu aliena. -
Collatione salva.»
«Pro
Magnifici don Joannis de Carrectis
baronis Rayhalmuti investitura
VII^ Ind. 1519 - 1518-19
- p.° februarii VII^ ind. [1519] : fiat investitura solemnibus adimpletis
processibus».
Da questo processo, che - pur nella sua
contorsione - è il meno complesso dei processi d’investitura dei Del Carretto,
emergono due o tre istituti molto peculiari del diritto feudale della nostra
terra di Racalmuto:
1.
Diritto dei baroni
all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo di
Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi paladino
di un omicida, il chierico Jacobo Vella.
1.
Diritto alla destituzione e
nomina di tutte le cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i
Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i
Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i
Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità
di farsi apprezzare dagli stravaganti baroni di Racalmuto: ne diventano
fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono
nella fertile terra del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta
tuttora, ma senza più il ruolo di profittatori del regime.
1.
Non emerge ancora un chiaro
affermarsi del diritto al terraggio ed
al terraggiolo [prestazioni
in natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e
fuori la baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine
del Settecento].
1.
Il mero e misto impero dei
baroni fa capolino nel Cinquecento, ma piuttosto tardivamente.
Giovanni III del Carretto eredita la boronia di
Racalmuto qualche tempo prima dell’iniziale investitura; alla morte del padre
Ercole e cioè il 27 gennaio (o un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di
quell’anno il neo barone manda come suo procuratore Cesare del Carretto per la
formale acquisizione della baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito del
notaio Bartolo Carloni di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26
gennaio 1518 nomina procuratore il già detto Giovanni Artale Tudico per gli
adempimenti presso la curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta
definita il 31 gennaio del 1519. “Fiat investitura” la nota finale del
processo. In una ricostruzione del 1558 si dice che Giovanni fu costretto
all’investitura “per la morte del cattolico ed invittissimo re Ferdinando di
gloriosa memoria e per la successione delle cattoliche maestà la regina
Giovanna ed il re Carlo”. Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima
battuta per il barone, ma per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del
’500. E poi si vuol far credere che i grandi eventi della storia non avessero
incidenza sulla villica popolazione racalmutese!
Secondo
processo d’investitura
Ma non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III
del Carretto è costretto a rifare il giuramento di fedeltà nella forma solenne,
come attesta un diploma rilasciato a Messina. Altre formalità, altre spese,
altre tasse.
Il 2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava
di vivere: aveva tenuto saldamente in pugno la baronia di Racalmuto per oltre
quarantatré anni, un’egemonia lunghissima specie se si tiene conto della
irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare una signora di riguardo, tale
Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo ben poco. Alla data della morte
del marito era già deceduta: quoddam
spectabilis Domina Aldonsia, la si
indica nel testamento.
Nulla ha a che fare con la celebre Aldonza del
Carretto, questa moglie di Giovanni III: quella era solo la nipote; lascerà un
legato per la costruzione della badia di Racalmuto, ed al contempo inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel 1375 la terra di Racalmuto contava appena
136 fuochi cui si possono attribuire non più
di n.° 500 abitanti, elevabili a 600/700 se si vuol credere ad errori
dell’arcidiacono Bertrando du Mazel, inviato dal papa di Avignone per una
tassazione dei singoli fuochi in cambio della rimozione dell’interdetto. In
quel tempo non vi erano più di due chiese, fragili e malandate.
In piena signoria di Giovanni III del Carretto,
le cose erano notevolmente cambiate: la popolazione si era enormemente
accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul
Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del
Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti
(fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3479
|
Dai 1600 del 1505 ai quasi 3500 abitati del
1548 il salto era stato rimarchevole: non poteva trattarsi solo di normale
crescita demografica; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate
condizioni di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti;
contadini, mastri e forse anche mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro
quartieri che ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra
l’attuale Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia,
tabaccheria Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c)
Fontana o quartiere fontis,
l’altro spicchio di nord-est tra la Fontana, il castello, la Matrice e
l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere del Monte o montis comprendente l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima
chiesa esistente anche allora.
Era tutto suolo baronale; per ergervi una casa
occorreva pagare uno jus
proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si andava a
coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto) scattavano
tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti (Gibillini,
Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il tributo
raddoppiava: terraggio (quello
infrafeudo) e terraggiolo (quello
extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare balzelli che
pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il particolare
al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte angherie comitali
cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello ucciso dal servo
arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di Vita.
Il quadro
della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile
Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto.
Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria
lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del
Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali
che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta
piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di
Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso
sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le
confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per
garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto
dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito,
venute in possesso di disponibilità finanziaria e monetarie, cosa di gran
rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto
simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di
proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima
del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno
riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi
sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente
religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto
racalmutese: monaci e parrini,
vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle
confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione
per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e
competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano
ingerirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli
altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia
cerca di irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso successo.
Dai rapporti episcopali emerge questo interessantissimo quadro
delle caratteristiche istituzioni e affiorano, sia pure con una fioca luce,
questi nostri antenati ([59]) :
6.
Luminaria del
Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che
però essendo pressoché distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed
al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della
Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che
introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano
costituite in 17 corpi di fabbricati, e che si solevano locare per circa otto
once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le
elemosine giornaliere e curava i legati.
7.
Nella detta
ecclesiola vi era anche la confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1.
Montana mastro
Paolo;
1.
Cacciatore mastro
Paolo;
1.
Santa Lucia
Cesare;
1.
Vaccari Giovanni.
Avevano dodici once di reddito sopra diverse case che
appartenevano alla detta Confraternita, che si solevano locare per le stesse
dodici once.
1.
Confraternita della chiesa di Santa Maria del
Monte: ne erano rettori:
1.
Cacciatore mastro
Pietro;
1.
Vaccari Pietro;
1.
de Agrò Mirardo;
1.
Fanara Addario.
Erano al contempo
Governatori ed avevano quattro
once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
2.
Confraternita di
Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1.
de Agrò Natale;
1.
Vurchillino
(Borsellino) Antonino;
1.
Murriali
Giuliano;
1.
de Alaimo
Michele.
Erano al contempo
Governatori ed avevano dodici
corpi di case in Racalmuto che solevano locare per dieci once all’anno.
3.
Confraternita di
S. Giuliano: ne erano rettori:
1.
Curto Angelo;
1.
Lauricella
Andrea;
1.
Curto Stefano;
1.
Picuni Antonino.
Avevano una certa rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo
inventario, sotto pena d’interdetto.
Gli
aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare
una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali
indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la
vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi
pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del
Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono
ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita
e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel
tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto
fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui
verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una
secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata,
Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [60] Tre
anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse. ([61])
Al centro della locale comunità religiosa è
l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di
San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam
canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese.
Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet
dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata
quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento
del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il
beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale
ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di
frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il
tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit
dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et
illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum
ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo
anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che
il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di
frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400
fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente
sarebbe ascesa quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati
disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del
1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100
abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli
esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette
essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i
seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si
perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno
in primizie, tolti li miserabili
e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto
percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti
di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi
religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa
dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale
al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da
eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di
la Nuntiata confraternitati et servi pro
maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il
diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias
videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai
Gallocti cum onere unius misse quotidie»
Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui,
l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un
tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S.
Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio
dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e
riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro
maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior
ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini
vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla
diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per
formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo
sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei
quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure
i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito
dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della
metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo
della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario
che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i
compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in
materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto
per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era
titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo
dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli
interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa
Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui
proventi racalmutesi senza interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto
a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo
ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia,
non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto
fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur
sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere
care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita,
era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia
Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che
al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto
Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua
individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne
specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che
nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è
posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo
destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire
meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di
Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia
nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella
del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3) Chiesa
di Santa Maria del Monte;
4) Chiesa
di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa
di Santa Margherita;
6) Chiesa
di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa
della “NUNTIATA”
2) Chiesa
di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa
di Santa Margherita;
4) Chiesa
di “Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa
di S. Giuliano.
(Cfr. le
pagine 196v-198v della Visita)
Passando al setaccio i radi accenni delle carte
episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
4.
la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco
turchino ( Item uno paro di
tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di
damasco turchino vechia);
5.
Santa Maria di Gesù col
suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item
uno casubolo di borcati vecho stagnato);
6.
Santa Margherita sia
per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto”
lisi (item dui avantiletti vechi).
Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento
di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il
testamento ([62])
dettato flebilmente quando era già prossimo alla morte: a raccoglierlo è il
notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio.
L’inventario della vita del barone viene in qualche modo stilato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda
il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della
terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel
Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il
notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel
corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi
integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede
universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di
Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de
Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e
procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna
Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone:
“legitimo e naturali, procreatu da me e dalla
condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e
stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo
Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu,
pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili
di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento
manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque
esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa
specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il
Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi
(“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita
annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal
testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di
Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e
diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e
debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la
somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in
relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino
alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella
cassaforte (in Arca) del medesimo
testatore ed essendoci più bisogno di
più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don
Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo
erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo
figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo
Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la
baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto
diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto impero giusta
la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui
feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra
consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo
indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa,
azione, ed imposizione: gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi,
suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali
ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti
nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.
Giovanni III morente pensa
alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis
dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia
Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino,
etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere
debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così
il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed
invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed
indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene
trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta
terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di
nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non
crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica
raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il
luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese
soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia
il legato a carico di Girolamo di far
dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure
essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno
100 once.”
“Al Convento dovevano pure
andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de
Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San
Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben
altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel
lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di
devozione sia stato considerato artefice ed ispiratore il notaio. Come
familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di
incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno
della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di
Sciascia per la letteraria rievocazione storica.
Il morente barone dichiara di
avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro
Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate
27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha
anche figlie femmine da dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto,
moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150
once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
1.
donna Porzia del Carretto,
moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi,
dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
1.
Suor Maria del Carretto,
dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla
dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu
forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante,
contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo
Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in
latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario
infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs
praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit et relaxit mihi infrascripto notario omnia
jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum
anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini
Testatoris per esserci stato buono
Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque
once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no.
Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua
cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu
imputato di opinioni luterane ma “riconciliato”
nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni
dopo la morte ed il testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la
vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha
cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in
sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di
Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i
parenti, uomini d’onore] vedendo ad
esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo
cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del
barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
7.
5 once al venerabile convento
di San Domenico della città di Agrigento;
8.
5 once alla venerabile chiesa
di Santa Maria del Monte;
9.
10 once al venerabile
ospedale della terra di Racalmuto;
10.
5 once alla venerabile
confraternita di San Nicola di Racalmuto;
11.
5 once alla venerabile chiesa
di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e
detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di
Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa
di San Giuliano
12.
5 once alla chiesa di S.
Antonio (che quindi è ritornata in auge);
13.
5 once in onore del glorioso
Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà
debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al
servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero;
gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo
del Carretto «quod omnes et singulae
Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes,
liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus
solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis,
vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum
ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere
immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne,
del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga
sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone ha due consanguinee
nel convento di Santo Spirito di Agrigento: suor Scolastica e suor Giovanna
Nudizzo. Se ne ricorda in punto di morte stabilisce un legato di 5 once per
ognuna di loro. Ne avrà avuto preghiere ardenti.
Il barone ha un obbligo di
coscienza: deve chiarire le dubbie ascendenze di don Matteo del Carretto. «Item praefatus dominus Testator -
ha voglia di dichiarare - ad instantiam Magnifici Domini Matthei de
Carrectis, et Dominae Antoninae eius filiae dixit et declaravit qualiter
tempore vitae condam spectabilis Cesaris de Carrectis audivit ab eodem domino
Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat filius Dominae condam Contissae de
Valguarnera, cuius pater erat olim filius dominorum Sigismondi, et Valentini de
Valguarnera condam Cesaris [...]Unde ad
instantiam dictorum Magnificorum Matthei
et Antoninae Patris, et filiae pro eis stipulantibus me notario publico, factum
est praesens capitulum pro exoneratione conscientiae jacens in lecto infirmus,
confessus et contritus ut dixit etc.»
Il barone resta, comunque,
legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco,
vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine
dei suoi giorni, la sua fede era fervida): «Item
elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus
ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un ritorno alla
beneficenza: «Item dictus dominus
Testator dixit et declaravit quod super bonis praedictis Petri de Cachertone
habet uncias duas censuales, annuales, et rendales. Ideo de eis legavit, et
legat Venerabili Conventui di lu Carmino unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro
illis uncia una et tt. sex quos restabunt super eius bonis Sanctae La Lomia
quae bona voluit quod intelligantur, et sint de cetero dissobligata, restans
supradictorum reddituum ad complementum dictarum unciarum duarum relaxavit, et
relaxat heredibus dicti condam de Cachertone, quia fuerunt male impositae et
ita voluit, et mandavit.» Sembra una resipiscenza; un volere riparare nel
terrore della morte a malefatte, o almeno a qualcuna delle malefatte, delle
vessatorie imposizioni, degli arbitrii predatori.
Fiducia al prete De Leo, di
cui abbiamo detto sopra: «Item instituit
in eius fideicommissarium et praesentis testamenti exequutorem Reverendum D,
Franciscum Deleo, Vicarium praedictae Terrae Racalmuti cum pacto intradicto.»
Come si vede, l’arciprete non è neppure considerato: era un burocrate in abito
talare; a Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa del testamento è
rituale, con i testi e la firma, con l’indicazione del notaio redigente: Testes sunt hij Videlicet Ego frater
Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de Russis U.J. Doctor interfui
et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor; Ego Marcus Piemontisius
interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui, et testor; Ego Mattheus
Damianus interfui, et testor.
Ex actis condam Jacobi Damiano copia per me notarium Michaelem
Angelum Vaccaro notario Racalmuti dictorum et aliorum act. conservatorem
generalem. - Coll. Salv. .
Il processo d’investitura del successore
Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio del 1560 Giovanni III del
Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in Racalmuto e fu davvero sepolto
nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO
I DEL CARRETTO
Il Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco
come descrive quello che fu l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto
(cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi
di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui ebbe a scrivere distesamente in
lettere inviate a Filippo II re di Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di
Massimiliano che la famiglia del Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli
antenati di Girolamo vantavano il titolo di marchesi di Savona, volle che il
nostro Girolamo fosse chiamato ed avesse
in quel tempo il titolo di conte di Racalmuto, lasciando intendere che in
avvenire avrebbe amplificato la gloria di tanta illustre famiglia con titoli di
maggior risalto.
« Le lettere del re, dove Girolamo è
gratificato con il titolo di conte, sono da riportare. Niente è più preclaro.
Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e recitano: “Filippo etc. A tutti quanti etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi
caro D. Girolamo Carretto dei marchesi di Savona documentato l’insigne virtù non disgiunta da grandi
fortune della propria stirpe, abbiamo considerato i tanti servizi che ai nostri
predecessori, di felice memoria, sono stati dai del Carretto prestati quando
necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato l’antica nobiltà e lo
splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in questo Regno ma in
tante altre nostre province si è a diverso titolo resa celebre e meritevole. E
omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della medesima famiglia che
meritevolmente sono assurti a preclare e altissime dignità dello stato
ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il lodato D. Girolamo
Carretto etc.”
«Noto è
per di più quanto l’imperatore Rodolfo fu prodigo di lodi per iscritto quando
riesumò la lettera del padre, l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto
che si gratificasse Girolamo con il promesso onore del marchesato. Ecco il
testo della lettera:
«Rodolfo
etc. Serenissimo etc. Premesso che negli anni scorsi il fu imperatore
Massimiliano, signore e genitore nostro colendissimo di augusta memoria, ebbe
ad inviare alla serenità vostra lettere in favore del fedele al nostro Sacro
Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto barone in Racalmuto dei marchesi di
Savona, con le quali lettere benevolmente si pregava la Serenità vostra
affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i suoi discendenti primogeniti
successori nella baronia Rachalmutana, potessero fregiarsi del titolo grado e
dignità marchionale e volesse pertanto erigere la detta baronia in marchesato;
ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella baronia con il titolo di
contea.
«Tuttavia
il nostro divo genitore ingenerò in D. Girolamo la speranza che in altro tempo
gli potesse venire concesso il titolo di marchese. Ed è per questo che il
predetto Girolamo de Carretto conte in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che
oggi ciò tanto desidera essendo noto che egli discende dall’antica stirpe dei
Marchesi di Savona, la quale ha origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per cui così alla fine egregiamente
concluse l’Imperatore:
«Pertanto
con fraterno amore preghiamo la Serenità vostra affinché vengano restituite al
predetto Girolamo le avite prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi
antenati; e così anche per la nostra intercessione possa realizzarsi la sua
antica speranza. Ciò, peraltro, ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date
in Praga il giorno 12 febbraio 1580.»
Siffatto pasticcio epistolare non sortì effetto
alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui si parlò nelle corti degli Asburgo
ascese solo di un grado e divenne contea, ma marchesato giammai. Diociotto anni
dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla carica, ma invano. Il Baronio
infatti prosegue:
«Esiste un’altra missiva, molto ben fatta, del
1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e
regale è la famiglia dei del Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta
Casa e che è stata bene accetta ai nostri Antenati per molteplici meriti.
Pertanto Girolamo del Carretto, conte di Racalmuto, siciliano ed il suo
figliolo Giovanni meritarono le grazie di nostro padre Massimiliano Secondo.
Anche noi li degniamo della nostra benevolenza e volentieri ci adoperiamo
perché sia loro concesso tutto ciò che possa accrescere il loro prestigio; ne
abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e la famiglia del
Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le citate missive,
altri documenti che non ho citato ed autorevoli
testimoni ampiamente comprovano.»
Le note del Baronio rendono invece a noi chiaro
che i del Carretto, giunti all’apice della ricchezza con la baronia di
Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e
neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli
immigrati del Carretto, il titolo di barone suonava stretto: si prodigarono in
regalie, bussarono a varie porte regali, impetrarono favori, ma non riuscirono
a superare la soglia del titolo comitale.
Il Villabianca lesse il Baronio e vi si ispirò
quando redisse questo profilo sul nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di Giovanni suo
genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576,( [63]) esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577.
( [64]) Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 ( [65]), e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO
RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri
della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone
gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa
Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da
Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni
1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso
fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI
del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di
RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. ( [66]) di non minor merito di quello del genitore
come vuole il citato DI GIOVANNI nell’istesso luogo notato di sopra, avvegnachè
fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol
carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi
pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia dileggia questo nostro barone assurto
al rango di conte. «Il primo Girolamo -
riecheggia il grande racalmutese ( [67]) - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo
di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il
27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui
meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo
dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la
sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da
ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese
di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena
della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito
regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]». Tutto bene, salvo il fatto che
nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già morto da diciotto anni. L’abbaglio
nasce da imprecise letture da parte del Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai processi ricaviamo questi dati biografici.
Girolamo I del Carretto fu il primogenito di Giovanni III, come si evince dal
testamento redatto dal notaio Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio
1560 Girolamo s’insedia quale barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il
suo procuratore, il magnifico Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita
che il barone prese “l’attuale, vera, naturale, corporale baronia del castello,
dei feudi e del territorio di Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il
mero e misto impero, con le giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato,
risultato integro giusta la forma dei privilegi baronali”. Il procuratore
rispetta il meticoloso ed emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone
del castello; di propria mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si
reca presso i feudi; ne prende alcune pietre in segno di libera disponibilità
di quelle terre; revoca e rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano
nella persona del nobile Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di
Giovanni Piamontesi; il giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i
giurati nelle persone di Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo
Caravello; il maestro notaio nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene
redatto pubblico atto. I testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino
de Averna, l’onorabile Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de
Pitrozella. Il notaio è ancora il povero Jacopo Damiano che però si dichiara
agrigentino.
Girolamo I del Carretto muore nel gennaio del
1582. Sono ancora i processi d’investitura a dirci che esternò le sue ultime
volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di Palermo il 14 gennaio del 1582, ma
il testamento fu aperto un anno dopo, il 9 agosto del 1583. Fu sepolto nella
chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura in Palermo proprio sotto quella
data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della chiesa di San Giacomo alla Marina
del 14 luglio 1584.
Sposa di Girolamo I del Carretto fu una
Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si è visto, i del Carretto non stanno
più a Racalmuto: quella lontana terra, quel loro ‘stato’ serve solo per
approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a Palermo. Nel castello
racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato
neppure un atto che attesti la presenza del barone ora conte di Racalmuto,
magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro dei rami cadetti,
sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del Carretto per
venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra parte del presente lavoro pubblichiamo
il privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue
formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria
locale. Non abbiamo qui note in
proposito da proporre.
Da questo momento la vicenda familiare dei del
Carretto è cosa che solo di striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la
storia della città di Palermo.
Ciò non vuol dire che non vi furono riflessi
tributari su Racalmuto a seguito della concessione dell’onore di farne una
contea da parte di Filippo II a tutto vantaggio di Girolamo I del Carretto.
Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra
le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di
rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per la
riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostarono i nostri antenati
racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse
a Racalmuto
Il carteggio illumina sull’esoso fiscalismo
spagnolo ai danni dell’università feudale ed ha tratti inquietanti circa la
disumanità viceregia.
Nel 1576 si era abbattuto su Racalmuto quella
immane pestilenza che colpì l’Italia intera.
Del pari sconvolgente dovette essere lo
scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che «per lo contaggio del morbo che in quella s’ha ritrovato che sono stati
morti da tre mila persone [a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento delli quali la maggior
parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso che anch’io ero scettico su questo
crollo demografico di Racalmuto prima della consultazione dei documenti del
Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in pieno in questo tracollo: ci fu
un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di scontare la tragedia della
peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia, la flessione vi fu e forte. I nostri
antichi progenitori parlano di un dimezzamento della popolazione nel vano
intento di intenerire gli agenti delle tasse palermitani; ma per bocca del
viceré don Carlo d’Aragona e della sua corte Sucadello, De Bullis ed Aurello,
costoro non se ne diedero per intesi. Le “tande” - o più graziosamente
“donativi” - andavano pagate sino all’ultimo grano a Sua Maestà Cattolica il re
di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli atti una secca e perentoria negativa
alla seguente perorazione dei Giurati racalmutesi:
«Ill.mo
et Ecc.mo Signore, li Giurati della terra di Racalmuto exponino à vostra
Eccellenza, dovendosi per l’Università di quella Terra molta quantità e somma
di denari alla Regia Corte cossì per donativi ordinarij, et extraordinarij et
altri orationi [per oblationi ?] fatti per il Regno à Sua Maestà, come per le tande della Macina, non havendo
quelli possuto satisfare per lo contaggio del morbo che in quella s’hanno
ritrovato ... , à vostra Eccellenza l’esponenti hanno
supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta università deve
alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università fossero devenute
[condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva pagare ..»
La burocratica risposta palermitana è spietata:
la decisione (provista) di Sua
Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non conviene”. La tragedia
racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una gretta questione di
convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene alle esigenze del
bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un localismo, il nostro,
quello di Racalmuto, che ha valenza
oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola nell’isola ..
Remissivamente i giurati di Racalmuto nel 1577
accettano il loro fato e fatalisticamente annotano:
[Ma tale petizione non ha avuto esito] “per lo chi attendo [attesa] la diminutione
delle persone morti è stato per vostra Eccellenza provisto quod non
convenit quo ad dilactionem [ f.
228] e poiche l’esponenti per li Commissarij che alla giornata si destinano
contro loro, e detta città per l’officio del spettabile percettore s’assentano,
e non ponno ritrovare modo alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano
eccessivi danni, et interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita
concederli potestà di poter fare eligere persona facultosa, poiche pochi vi sono in detta
Terra di poter vedere augumentare, e raddoppiare alcune delle gabelle di detta
università, e fare quel tanto che per consiglio si concluderà, acciò potersi sodisfare nullo
preiudicio generato ad essa
università circa
detta diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta
Terra per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si
concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi
due, altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta
Regia Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo
alcuno di sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in mora della locale amministrazione per ritardo nel
versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di commissari
palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere, oltre alle
imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad aggravare le
esauste finanze locali «con eccessivi danni ed interessi».
Si accordino - si chiede da Racalmuto - due mesi di dilazione per trovare un sistema di
reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa seconda istanza viene accolta. Ma
l’invadente autorità viceregia detta una serie di disposizioni sui modi, tempi
e luogo delle procedure per un nuovo sovraccarico fiscale sulla cittadinanza
racalmutese.
Il carteggio qui va attentamente studiato raffigurando
istituti, costumi, organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo
dell’epoca moderna. Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente
messa in luce dalla cultura storica degli accademici.
Viene fuori uno spaccato dell’organizzazione
statuale che non può ridursi al mero dato tributario (la gabella per assolvere
gli oneri fiscali) ma che fa trasparire una vocazione democratica impensata.
Per sopperire alle necessità tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune
libero, democraticamente organato, con una sua assise plebiscitaria, avente
poteri decisionali.
L’ordine, certo, arriva da Palermo,
dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare le istituzioni
democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali consigli comunali
sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a raccolta, è il
popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari, ovviamente sotto la
guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la giunta comunale: la
giurazia.
Affascinano questi passaggi delle carte
palermitane:
vi
diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è
di costume congregare il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel
preinserto memoriale, e quello che per detto conseglio seù maggior parte di
quello sarà concluso, et accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale
del real Patrimonio acciò di quello fattone relatione possiamo provedere come
conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus
Augustinus Sucadellus ... conservatore
[f. 229] Marianus Magister Rationalis, de Bullis Magister Rationalis,
Franciscus de Aurello Magister Notarius, ..»
Il Consiglio comunale si svolge nella chiesa
dell’Annunziata - che anche allora, molto prima che nascesse don Santo d’Agrò,
era bene operante a Racalmuto - ed
abbiamo anche il verbale consiliare che mi pare opportuno rileggere, almeno
nelle sue parti essenziali:
Racalmuti
die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die
festivo Supradicti Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae
Civitatis existens in platea publica.=
Perche
ritrovandosi l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma
cossì alla Regia Corte
è stato
supplicato da parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua
Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse dilatione competente per
potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della
macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere
pagare per poche di persone di tutte città, e terre del Regno à raggione di
denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il ripartimento e numero di
persone che allora vi erano in detta terra tocca à detta Università pagare in
due tande once 24.5.11.2.
e
vedendosi che tuttavia detta Università non si vederà libera à tal debito
supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita
concederli potestà di poter eligere persone facultose, ò vendere et
augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di detta Università, e fare
quel tanto che si potesse per consiglio concludere acciò si potesse detta
Università liberare di tal debito et interesse nullo prejudicio generato à
detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che se li deve fare per
detta Regia Corte stante le raggioni predette come si contiene per memoriale
alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo stato provisto per la
prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio che si congregasse sopra
le cose contente in detto memoriale consiglio, e quello si trasmettesse per
poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha devenuto alla congregatione del
presente consiglio come intesa la presente proposta habbiano sopra le cose
prenominate ogn’uno possi liberamente dire il suo voto, e parere.
Il
Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e
locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che
s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e
per manco interesse di detta Università si potrà accordare con quelle persone
che vorranno attendere à tal compra di rendita,
E pertanto
le
gabelle ... averanno da raddoppiare, et accrescere
sopra le
quali s’haverà d’imponere il novo imposto il quale sarà per il corpo, e
capitale della detta rendita
E prima sopra la gabella del vino
[f.
233] Sopra la gabella dello Pani,
fogli, fiori, e frutti virdi, e sicchi,
Sopra la gabella delli panni, arbascie, cannavazzi, e cordi
Sopra la gabella dello linu cànnavu (canapo), ferro, e ramo
rustico, e lavorato, e legname d’ogni sorte rustica, e lavorata
Sopra la gabella delli Pisci, e Salsizzi,
Sopra la gabella delli Pani, formaggi, cascavalli, Meli, e cera
.
Per le
quali gabelle, e loro pagamenti s’haveranno da fare li capitoli per li
Magnifici Jurati, e con l’impositione delle pene solite come sono l’altri
capitoli.
Il
Magnifico Jacobo Piamontese Giurato è del sopra parere.
Il
Magnifico Jacobo Sciurtino ut supra.
Il Magnifico
Signor Giovanni Artale Tudisco ut supra.
Il
Magnifico Giuseppe d’Ugo ut supra.
Petro
Barberi ut supra.
Martino
Rizzo ut supra.
Magistro
Antonio Vulpi ut supra.
Il
Mastro Notaro Giovan Vito d’Amella è di parere come di sopra, et si, et
quatenus lo raddoppiamento raccrescimento che si farà alli gabelli predette non
bastassero per la sodisfatione di quello che si deve alla Regia Corte quolibet
anno, e per la soggiugatione che si farà quod utique dette gabelle s’habbiano
da aggumentare, e raddoppiare, et accrescere, tante volte, quante sarà f. 235]
di bisogno in modo che si complisca il
pagamento predetto, e che s’habbiano d’imporre altre gabelle essendo di bisogno
in modo che detta Università non venghi a pagare al minuto, e per tassa, e che
si debbia fare thesaureri persona sicura, d’eligersi per li giurati quolibet
anno per li pagamenti predetti e suoi
spisi, con salario d’onze vinti l’anno il quale s’habbia d’obligare nomine
proprio et à fare li pagamenti predetti con li debiti cauteli per atto publico
come à detti Giurati parerà.
*
* *
Per inciso, richiamiamo l’attenzione sul
menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo Randazzo che sembra farla da
presidente della giurazia. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è
plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come
si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa
genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo era invece
figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del
carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno spaccato della vita
pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche che
esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno; affiora
qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della Polis, con
la sua Ecclesìa, e con il
ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della
Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della grande piazza di Racalmuto che
dal vecchio Santissimo si allargava nello spiazzo ove ora sorgono le torri
campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale Piazza Castello per risalire
nel largo ove ora sorgono i palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto
urbanistico con quello che l’ex voto del
Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli
arricchiti di Racalmuto dello secolo XX di piazzarsi con i loro casamenti
sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della
storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi
credere anche dalle menti più elette del nostro paese come dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei
del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico
al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e
Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro
che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo, superriverito ed adulato dal
pubblico notaio.
Popolazione
racalmutese nel 1577
Sembra opportuno tracciare il
grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio
del 1577.
La curva dell’andamento demografico
della Racalmuto del ’500 si avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della
peste del 1576, e così si dispiega:
Il crollo demografico del 1576, come si vede, sembra
irreversibile (anche se fu dovuto
più
alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero poi modo
di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle di
campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota 5.165 e
solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi a quota
5488.
Quanto alle finanze locali, la
crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà nel
1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana
quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte
indirette - portarono ad una asfissiante strozzatura dei consumi da parte dei
poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché nulli:
pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce
diedero un gettito tributario che si volatizzò essenzialmente per le spese
militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo
imprecisato. Per di più si pagavano sei
onze annue per “tande”.
[3] ) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della
dominazione spagnola - Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4] ) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e
documenti - Palermo 1891, pag. 14.
[7] ) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi
alla collettoria di Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in
Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[8]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia
aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[9] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia
aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[10] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e
società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag.
121.
[13]) Il toponimo è presente negli atti notarili
per lo meno dal 1714: non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[14]) Archivio Parrocchiale della Matrice di
Racalmuto - LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della
Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et
infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[15] ) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16]) D. Francisci Baronii ac Manfredi - De
Maiestate Panormitana libi IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[18]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo
sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» -
Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[21]) F.M. EMANUELI e GAETANI -
Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[24]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium»
dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[26]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli
nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro
compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto,
Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato.
Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191.
Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata
scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II
Del Carretto.
[28]) Vito
Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum
Siculum - Tomi secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6.
[Biblioteca Nazionale V.E. Roma pos. 1.24.C. 19/24]
[29]) F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia
Nobile - parte IV - Forni Editore [copia anastatica dell'edizione Palermo 1759
- Parte II, libro IV, pag. 199 e segg.]
[30]) Anche se non l'artefice primo della
fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese, il Villabianca è responsabile degli
abbagli storici degli ereduti di Racalmuto - a cominciare dal padre Bonaventura
Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio indigeno, dunque, ma pur sempre autore
principe del racconto della 'venuta' della Madonna del Monte.
[31]) F. TOMAE FAZELLI SICULI OR.
PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS
ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS - Panormi ex postrema Fazelli
authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes Mattheus Mayda, et Franciscus
Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad Praetorium, sub Leonis insigni, anno
domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca Nazionale - manoscritti e libri rari -
10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia) pag. 592 - De rebus .. posterioris
decadis liber nonus - cap. Nonum.
[33]) D. Francisci Baronii ac Manfredis - De
Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola - MDCXXX -
[Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.]
[34]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed
antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3
volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo
Forni editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[35]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D.
Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due
libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[36]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo -
Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I -
Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[37]) L'Inveges ci informa a pag.
159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni ... nella stessa Città di
Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior Chiesa della medesima
città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana anche fù sepellito Federico
Chiaramonte suo figlio loco depositi con
ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; & ogni dì si celebrasse una
Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1 [nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici Agrig.]
celebrato in Girgenti anno Dominicae
Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino
N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38]) Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag. 228 e ss.): Venne Costanza per la morte di Federico padre
ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio
nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa
donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar
Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi
detta famiglia Del Carretto possede.
[39]) Diario
della città di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino
- in Diari della città di Palermo
dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo
1869 pag. 136.
[40]) Varie
cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un libro scritto
da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 283.
[41]) Aggiunte
al diario di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un manoscritto
miscellanio segn. Qq C 28 in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.
[42]) Diario
delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto
1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano,
dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[43] ) Datis Cathanie anno
dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII
Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO -
RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[46] ) Rosario Gregorio fu storico e
paleografo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia ce l’abbia
con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo,
il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale a parte, fisicamente
antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il labbro inferiore
tumido, un bitorzolo sulla giancia sinistra, i capelli radi che gli scendevano
sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una freddezza, una quiete,
da cui raramente usciva con un gesto reciso
delle mani spesse e corte. Trasudava sicurezza, rigore, metodo,
pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti soggezione.» (Op. cit. edizione
Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[48] ) Giuseppe Beccaria -
Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia - Palermo - Salvatore
Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[49]) vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO -
PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE N.
1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[51] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della
feudalità, edizioni ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e
segg.
[52] ) Il conto venne presentato in Palermo il
18 maggio 1502. “Presentete Pan. 18: Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris
Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[53] ) Giuseppe Nalbone e Calogero
Taverna, Racalmuto in Microsoft -
dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[54]) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di
regalpetra - Morte dell’Inquisitore -
Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[57]) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro
Regno - Investiture - busta 1487 processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b
del retro infra pubblicata).
[58] ) Archivio di Stato di Palermo:
PROTONOTARO REGNO INVESTITURE - BUSTA
1487 - PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[59]) Fontana Rosa (tesi di laurea) - Relatore:
prof. Paolo Collura - La visita pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona
- Parte II (A. 1542-43) - Università degli Studi di Palermo - facoltà di
Lettere e Filosofia - Anno Accademico 1981-82 - pag. 206-218.
[61]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI
TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa
Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo -
facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta
trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO -
"GIULIANA" - VISITA 1542-43 -
colonne 190v-193v.
[62] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo
Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.
Nessun commento:
Posta un commento