sabato 28 giugno 2014

Racalmuto bella, Racalmuto accogliente, Racalmuto serena... Venite, gente, venite: vi arricchirete culturalmente, vi delizierete spiritualmente, vi riposerete gioiosamente.

Racalmuto bella, Racalmuto accogliente, Racalmuto serena... Venite, gente, venite: vi arricchirete culturalmente, vi delizierete spiritualmente, vi riposerete gioiosamente.
 
 

carissimo cugino Gigi, Malgrado Tutto si difenda con maggiore intelligenza!

Carissimo Gigi, il sei giugno scorso ebbi a scrivere alla giornalista Claudia Cernigoi quanto sotto: finora non mi risultano risposte di sorta. Ho cointerassato altri giornalisti siciliani coinvolti nella denigrazione calunniosa del Messana. A me non risulta alcun seguito. Naturalmente dopo il 6 giugno il mio archivio personale si è arricchio con altri documenti e riscontri vari, ragion per cui conviene a lor signori il silenzio. Non si fa storia con i sentiti dire e con il rinvio ricettizio reciproco. Credimi, nessuno può smentire quanto cestosinamente ho ricostruito avvalendomi anche della mia specialistica abilità ispettiva. Provare per credere. Il direttore di Malgrado Tutto, che si dichiara autore di quanto la signora Messana chiama scivolata giornalistica, si renda conto che insomma non sarò giornalista, non sono scrittore né tampoco storico, ma come indagatore delle verità nascoste (bancarie fiscali comunitarie o storiche che siano), non sono da sottovalutare come mi è sembrato nell'incauta risposta che ha dato allaSignora Messana.
Claudia Cernigoi
6 giugno 18:17
lei dovrebbe essere l'autrice di foglietti infamanti il dottore Ettore Messana già ispettore generale di pubblica sicurezza. In contatto con la nipote di tanto grande personaggio della storia di Italia ho fatto e continuo a fare ricerche che la smentiscono in pieno Non so se reputa di procedere ad una sorta di resipiscenza operosa. Sappia che la signora Giovanna Messana non è persona da oppiare. Certo non ha avuto tempo per inseguire e perseguire codesti sedicenti storici fabbricanti di calunnie nei confronti del suo grande avo. Ma ora ha deciso.



13 giugno 17:32

Giornata afosissima e davvero torrida qui a Roma. Arrivo proprio adesso dall'Archivio Centrale dello Stato. Ho consultato buste di polverose carte da fare venire la TBC. Ho fatto fare 40 fotocopie che mi sono costate 18 euro per diritti di urgenza. Sono euforico. Sono relazioni originali del nostro grandissimo concittadino, cugino del celeberrimo don Luigi Messana, l'ispettore generale di PS  Ettore Messana. Mi dispiace per il Link Sicilia: ha scritto minchiate sul nostro questore. Non rettificherà? E altrettanto dico a Malgrado Tutto, che finge di non leggere quello che scrivo. E che dire al sordo Giuseppe Casarrubea? Mi glissa. Glisserà la nipote Giovanna del questore che è proprio infuriata per le mascalzonate INFAMANTI DEL TUTTO INFONDATE? e che dirà il Vespa che sul  suo PORTA A PORTA ha ricicciato  vomitevoli e false calunnie storiche sul questore Messana. Proprio lui? Sicuramente male informato. Riparerà con una controtrasmissione?. Alla giornalista triestina non so che dire, come a quel paio di corrispondenti del Giornale di Sicila. All'ANPI d Palermo ho paura di mandare i miei strali. In fin dei conti da vetero comunista non posso buttarmi contro la mia stessa chiesa rossa. Solo che io ho due motti che mi sibilano dentro PLATO AMICUS sed MAGIS VERITAS e l'altro appreso da quei miei padri della chiesa  quali Pajetta e C. La verità è sempre rivoluzionaria.

Pro Hectore Mexana

Francamente resto basito:, a fronte di una garbata e generosa lagnanza della signora Giovanna Messana, il direttore di Malgrado Tutto distorce ogni cosa e scrive infondatamente che la signora Messana avrebbe "lei stessa ammesso" che addirittura "polemich
 
 
e storiche" si sarebbero abbattute sul "nonno"  e solo se si riesce - chissà chi poi - "a ricostruire la figura e la carriera di Ettore Messana" allora e solo allora e chissà quando Malgrado Tutto - oh, Dio! quanta generosità - "sarebbe lieta di darne notizia". E tanta spocchia perché? ma perché Malgrado Tutto considera indiscutibile il "testo" che ha riportato TITOLANDOLO CONSENSUALMENTE e quindi facendo, proprio "dello storico Giuseppe Casarrubea che da anni si occupa delle vicende legate ala Sicilia dell'immediato Dopoguerra". Ma quel testo contiene tante deprecabili valutazioni infanganti il buon nome del Messana e in ciò di STORICO non v'è nulla come ampiamente dimostrato da qualcuno sulla base di incontrovertibili documenti. Se la signora Messana si accontenta di una siffatta risposta del direttore di Malgrado Tutto, noi la rispettiamo molto per eccepire alcunché, ma è certo che se si trattasse di nostro nonno passeremmo alle vie legali e l'attendismo e le patenti di indubitabili storici che dissemina il direttore di Malgrado tutto li faremmo censurare per via giudiziaria.

l'ex compagno comunista e poi libertario on.le Giuseppe Montalbano, avversioni e conversioni di un politico di Sicilia

Accennavamo al percorso politico di quel vecchi comunista che fu il professore Giuseppe Montalbano da Santa Margherita Belice. Per dare un cenno del tortuoso cammino ideologico del Montalbano, prendiamo a prestito le parole di Giosina NARO, scritte nella Pasqua del 1987, quarant'anni dopo insomma dai fatti che ci occupano. Chi fu dunque questo accanito persecutore giudiziario del grande nostro compaesano il gr.uff. dottore ETTORE MESSANA, ispettore generale di PS da Racalmuto?
 
"l'on. prof. Giuseppe Montalbano che è stato docente di Procedura Penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Palermo .... ha occupato incarichi di rilievo nel Partito Comunista Italiano per decenni, ne è stato deputato nazionale e regionale in Sicilia, nonché membro del Comitato Centrale- Poi intorno agli anni sessanta ha clamorosamente abbandonato il PCI e le tesi si ogni possibile social-comunismo, abbracciando le battaglie della libertà e della verità [...]Nell'Italia 'libera' e democratica ha pagato con l'isolamento  più totale queste scelte che poi sono divenute anche scelte contro la partitocrazia, il disordine morale, l'ingiustizia".

Padre Puma

Padre Puma, mio amico dal 10 ottobre 1945, fu un grande uomo, né santo né demone. Sono oltre che suo amico amico della sua famiglia. Non sono certo obiettivo per farne lo storico. Da amico affermo che padre Puma da gran'uomo qual era ebbe grandi virtu e per le leggi fisiche degli equilibri anche grandissimi difetti: quei difetti che me lo rendevano molto simile e quindi tra affini della mente e del pensiero abbiamo solidarizzato, facendo i conti per oltre 60 anni. A certa falsa monaca prostatica faccio presente che la vecchiaia è sì un morbus - che non le auguro naturalmente - maè una grandissima ricchezza, rricchisce incommensurabilmente. Padre Puma conosceva i suoi polli, li faceva starnazzare e spesso pareva persino assecondarli. Padre Puma ha fatto la storia della Racalmuto del dopo- guerra del '40: anzi e la nostra storia recente. Sidà il caso che io piùà che dovere scrivere la storia di Racalmuto da quasi un secolo in qua quella sgtoria l'ho vissuta e vissuta sulla mia pelle.

Nella intervista che mi concesse nel 1995 (il 5 luglio), P. Puma con una voce stentoria, lmentre io zoppicavo, aveva due grandi suoi misteri da occultarmi: l'intimo suo soffrire certe tentazioni cui credo che bden volentiricon cedesse in contrasto l'abito che portva e il dovere fronteggiare truci di faccende di famiglia che si erano anche listeta a lutto per una feroce esecuzione d'indole malavitosa.

Mi sono ascoltata quella intervista. Il cipiglio loquace direbbe Bonanno camuffava ben altri sgomenti esistenziali. Puoi essere prete quanto ti pare, resti disperatamente uomo.

Riporto qui di seguito i passipiù trepidi, più sibillini, forse meno schierti.

D.: Sciascia - a dire il vero, irritandomi - scrive che a Racalmuto si era furbi nel senso che si andava gratis in seminario o dai gesuiti per fare un certo iter di studi e poi gabbare il rettore del seminario o i gesuiti ed andarsene via. Trascura il fatto che molti siamo andati, cambiando magari dopo intenti, perché convinti. Comunque non era gratis andare a studiare in seminario: costava e costava forse più che restare a studiare in paese ove tutto sommato le scuole c’erano.

R.: Tutti sanno quali erano i rapporti tra me e Leonardo Sciascia. Sciascia un tempo avversò visceralmente la Chiesa e quindi anche i sacerdoti. Amava criticare preti, religiosi e pie istituzioni. Ma poi, conoscendo meglio la realtà della Chiesa attenuò i suoi toni. Del resto amava dire di sé: contraddisse e si contraddisse.
Non è vero che si andava in seminario o dai gesuiti solo per sfruttare ed essere agevolati negli studi. I genitori facevano grandi sacrifici. Anche quelli che andavano dai gesuiti, pur se poveri, erano chiamati a pagare una certa retta. Certo, da ragazzi, non si può essere sicuri della propria vocazione al cento per cento: c’è chi la perde e c’è anche chi non l’aveva e c’è anche chi la cercava. Quindi, quello di Sciascia non è un argomento valido. E’ vero invece che tanti sono andati in seminario o dai gesuiti e ci sono restati. E quelli che sono rimasti sono una vera gloria per il paese. Quello che Sciascia ha scritto non può, quindi, essere preso per oro colato.

D. : Ricorda alcuni dei suoi coetanei che sono divenuti sacerdoti e si sono contraddistinti?

R.: Il padre Facciponte, padre gesuita. Ecco uno che c’è rimasto. Padre Jacono, direttore spirituale dei gesuiti ... e c’è rimasto. Il padre Fusco, un altro ragazzo molto serio e molto bravo, padre gesuita anche lui ... e c’è rimasto. Ne abbiamo avuti tanti. Evidentemente allora era un po’ di moda andare dai gesuiti perché il padre Francesco Nalbone, una gloria della Chiesa ed anche dei padri gesuiti, consigliere di papa Pio X e di Benedetto XV, era diventato una istituzione. Quindi tanti giovani vedevano in lui l’uomo carismatico che attirava: un padre Salvatore Scimè, professore di filosofia, distintosi per tanti meriti: ha tra l’altro formato la scuola di Modica, una scuola sociale. Possiamo annoverare tra i padri gesuiti che si sono particolarmente distinti il padre Sferrazza, un apprezzato studioso della religiosità in Sicilia, che pur avendo tanto rispetto per Sciascia, pure talora dissente da quello che scrive lo scrittore racalmutese. Padre Sferrazza è diventato, anche consigliere di vescovi. E’ direttore della scuola teologica a Messina. Merita quindi tanto rispetto ed è degno di tanta fiducia. Evidentemente le scuole dei gesuiti hanno fatto tanto bene tra i nostri giovani. In seminario, certamente, si pagava molto di più, con grande sacrificio, specie da parte delle famiglie povere. Certo, vi era qualche piccolo aiuto da parte del seminario con borse di studio accordate a giovani volenterosi di famiglia povera. Il seminario ha formato grandi sacerdoti racalmutesi, gloria della Chiesa agrigentina; i gesuiti hanno forgiato racalmutesi illustri della Chiesa racalmutese.
 





Le confraternite cinquecentesche



 

 
D.: In effetti a Racalmuto sorgono nel 1500 sei o sette associazioni o congregazioni o confraternite. Si chiamano confraternite per la buona morte come dappertutto, perché curano la sepoltura dei morti. Ma, a ben guardare, sono organismi economici, anzi, finanziari. Dispongono di un patrimonio immobiliare immenso. Sono proprietari quasi monopolistici delle case di abitazione; fanno prestiti ad interessi, sia pure conformi ai dettami della Chiesa: talora assurgono a vere e proprie banche moderne. Queste confraternite racalmutesi hanno di particolare due caratteristiche: 1) una loro laicità. C’è il cappellano, ma il cappellano serve solo per dire la messa. Per il resto, c’è una lotta per evitare che vi siano infiltrazioni ecclesiastiche nella gestione sociale ed economica della confraternita, che è retta da un governatore e da rettori laici; 2) vi sono associati indifferenziatamente confratelli di tutte le classi sociali, dai cosiddetti "magnifici" (i moderni "galantuomini") ai "mastri", ai "borgesi" e persino ai "jurnatara".
Da ciò oso desumere una duplice conseguenza:
a) una fede religiosa del popolo di Racalmuto molto profonda, che si accompagna, però, ad un anticlericalismo piuttosto viscerale. C’è la battuta a Racalmuto che dice: «monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini».
b) un’abitudine all’interclassismo, quasi l’interclassismo alla De Gasperi. Forse nasce da qui se a Racalmuto mai vi sono stati contrasti sociali atti a suscitare moti rivoluzionari, diversamente, ad esempio, da Grotte.
Dall’alto della sua quarantacinquennale esperienza pastorale, lei che ne pensa?

R.: Prima di tutto debbo precisare che la frase «monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini», è diffusa dappertutto in Sicilia. Nasce nei tempi in cui la stampa era espressione della massoneria e del suo anticlericalismo. Erano i tempi delle leggi eversive: quando furono soppressi i monasteri e la manomorta dei conventi. A Racalmuto, in definitiva, non vi sono state tensioni sociali acute anche perché il popolo poté appropriarsi agevolmente dei beni della Chiesa. Peraltro, il clero locale ha sempre parteggiato per la classe meno abbiente. Vedasi la bella figura di padre Elia Lauricella. Abbiamo avuto anche, a dire il vero sacerdoti alla Savatteri - nati magari in famiglie di massoni - ma furono eccezioni, e comunque ininfluenti. I racalmutesi sono stati anticlericali subendo l’astiosa propaganda massone, ma nel profondo sono stati vicini ai loro sacerdoti, almeno quelli migliori come il padre Elia Lauricella, morto in fama di santità.
Figure singolari di sacerdoti racalmutesi si ebbero, ad esempio, a fine dell’Ottocento. Guardiamo all’arciprete Tirone, uomo inflessibile, di profonda cultura anche giuridica, sagace difensore dei diritti della Chiesa. Tanti beni si sono salvati dall’espoliazione governativa per suo merito. E nello stesso tempo, così legato alle autorità ecclesiali da venire prescelto nella salvaguardia della fede fra i fedeli di Grotte, messi in subbuglio da taluni preti finiti nello scisma, non tanto per ragioni di fede, quanto per interessi materiali, legati al gius-patronato della locale arcipretura. Alla fine quei sacerdoti scismatici tornarono nel grembo di madre chiesa e ad accoglierli è stato proprio il padre Tirone.

 
 
Il vescovo spagnolo Horozco e Racalmuto


 

 
D.: Passiamo ad altro. Leggo nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano un furibondo contrasto sorto tra il vescovo spagnolo di Agrigento, Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ed il conte del Carretto. Entrambi si accapigliano per impossessarsi dello "spoglio" dell’arciprete Romano. Siamo alla fine del 1500. Non è detto che lei risponda alla domanda che sto per farle, che potrebbe considerare impertinente. Ho avuto l’impressione che i vescovi di Agrigento guardano a Racalmuto più dalla parte dei ricchi che dalla parte dei poveri. Lungo i secoli sembra che si sia snodato, senza interruzione, un filo conduttore - da Horozco al vescovo Peruzzo - benevole con i ricchi racalmutesi; ostile verso i poveracci. Per converso il clero locale è stato in opposizione a questa condotta ambivalente dei vescovi agrigentini. Quali le sue considerazioni? Quali le sue controdeduzioni?

 
R.: Da precisare che a Racalmuto il clero ha raggiunto la quota di n.° 52 componenti. Quindi fu un clero molto forte. Vi sono anche i monaci. Se diamo uno sguardo ai testimoni che hanno firmato il documento sulla fama di santità del padre Lauricella, notiamo ben n.° 32 sacerdoti firmatari di quell’atto. Ciò dimostra la solidarietà, coesione e serietà di quel folto clero del Settecento Racalmutese. Che in siffatta compagine sacerdotale serpeggiasse ostilità verso i vescovi agrigentini, non risulta. Risulta, invece, una estrema prudenza, una grande cautela dei vescovi agrigentini nelle cose di Racalmuto, che hanno guardato con circospezione ma anche con tanta carità. Si pensi all’autorizzazione accordata dalla curia vescovile di Agrigento ad ipotecare i "giogali" preziosi delle chiese racalmutesi, pur di sfamare il popolo nella tragica congiuntura alimentare di fine Settecento. Più in generale, può affermarsi che in curia vigesse una valutazione positiva del clero racalmutese, cui si lasciavano ampi spazi di autonomia amministrativa; per contro, il clero racalmutese è stato sempre ligio agli indirizzi episcopali in materia di fede e di morale.
 
Che vuol dire essere arciprete a Racalmuto?


 
D.: Essere arciprete a Racalmuto è identico che esserlo in qualunque altra parrocchia dell’agrigentino?

R.: Bisogna intendersi. Una volta l’arciprete era quasi un mezzo vescovo. Al suo presentarsi ci si doveva togliere la "scazzetta" o la "birritta". Era il grande datore di lavoro del luogo. Era il distributore di messe ai tanti sacerdoti che non disponevano neppure di una piccola chiesa (ed a Racalmuto di chiese ce ne erano tante). Oggi, l’arciprete è alla stregua di tutti gli altri parroci. Un primus inter pares, magari, ma niente di più. E questo a Racalmuto, come altrove.
 
Il belato delle pecorelle

D.: Nei confronti della Chiesa, le "pecorelle" racalmutesi belano più o meno rispetto a quelle delle altre parti?.

R.: Beh! se le pecorelle "belano" perché bramano pascoli più ubertosi, allora è ben giusto che belino. Se poi è vezzo critico - molto diffuso in questo nostro paese - allora bisogna rintuzzare quelle critiche. Oggi si parla molto di dialogo. Quindi, con spirito di carità, la dialettica con il popolo di Dio deve essere fervida, reciprocamente rispettosa, missionaria. Diceva papa Giovanni «chi è dentro deve sforzarsi di guardare a quelli che stanno fuori; chi è fuori deve sforzarsi di guardare meglio dentro. » Forse, se Sciascia si fosse sforzato di guardare meglio dentro, non sarebbe incorso in quelle critiche... diciamo, esagerate. Sciascia guardava alla Chiesa dal lato esterno. Anche la Chiesa è un’istituzione, che nella sua componente terrena può venire migliorata. Comunque, quelli che dall’interno ci produciamo, talora, in critiche, tentiamo di migliorarla. A Sciascia, forse, di migliorare la Chiesa con le sue critiche non importò granché. Diceva madre Teresa di Calcutta, a chi parlava male della Chiesa: «Lei che cosa ha fatto per la Chiesa? Niente! Ed allora?».

 
 
Sciascia e gli eretici di Racalmuto: fra Diego La Matina, il notaio Jacopo Damiano e la strega Isabella Lo Voscu.

 
D.: Detto, tra parentesi, che Leonardo Sciascia, immenso scrittore, è stato secondo me, un pessimo politico ed un massacratore della storia locale di Racalmuto, ho da precisare che nei miei studi storici su Racalmuto, che modestia a parte, credo che abbiano una qualche valenza, non ho mai riscontrato moti locali che sapessero di eresia. La vicenda di fra Diego La Matina è tutta da studiare e va totalmente revisionata rispetto all’abbozzo forzato di un testo come Morte dell’Inquisitore. Il notaio Jacopo Damiano - notaio di fiducia del barone Giovanni del Carretto negli anni sessanta del 1500 - ridonda, nei suoi rogiti, di fervore religioso ed irreprensibile ortodossia. Ora si parla di una certa Isabella Lo Vosco (o Bosco) come eretica. Costei, murata viva per dieci anni dall’Inquisizione, appare più che un’eretica, una mondana che ai suoi tempi destava scandalo, specie fra i famigli del Sant’Uffizio. Una questione dunque di morale sessuale e l’ortodossia c’entrava ben poco. Quindi Racalmuto può definirsi un popolo fedele alla Chiesa. Concorda?

R.: Racalmuto è stato sempre fedele alla Chiesa e quando vi è stato il famoso scisma di Grotte, nessun racalmutese è stato coinvolto. Né vi fu, da parte di un qualche sacerdote o di un qualche laico, moto alcuno di simpatia o di fiancheggiamento a quella ribellione di ecclesiastici grottesi. Quanto al protestantesimo - che qua e là nell’agrigentino un qualche proselitismo è riuscito ad avere - qui a Racalmuto esso è stato sempre rigorosamente bandito. Qualche elemento viene ora da Agrigento, ma è fatto trascurabile. Il motivo? Diceva il grande padre Parisi, eccelso predicatore - anche il Circolo Unione si sentì in dovere di accoglierlo come socio onorario -, diceva dunque il padre Parisi: è grazia della Madonna del Monte. La devozione alla Madonna a Racalmuto è stata sempre profonda e radicata. Ciò l’ha preservato dall’apostasia. La bontà, l’attaccamento alla chiesa ed altre doti del popolo di Racalmuto restano comprovati dai tanti documenti d’archivio, che anche tu ed il prof. Giuseppe Nalbone state studiando, con risultati conformi a questa valutazione.

D.: Ma questo è un atto di fede, o di speranza o di carità verso i racalmutesi?

R.: Credo solo che sia un atto di giustizia e di sincerità. Alla carità gratuita, non bisogna indulgere. Cerco solo di essere obiettivo e sincero. Ma i momenti di smarrimento che per avventura vi siano stati a Racalmuto vanno presentati con altrettanta sincerità ed obiettività. Non sono comunque uno storico per avere di siffatti problemi. Tocca a chi cerca la verità storica, essere veridici, a qualunque costo. Amicus Plato, sed magis veritas, mi pare che un tempo si dicesse, quando era di moda il latino. Ed oggi Sciascia appare tanto Plato!

 
* * *
 





Le opzioni umane dell’arciprete



 
D.: Il 25 dicembre 1991 lei diceva: «fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare cose belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo». E per quella di un prete?

R.: Per la vita di un prete è immergersi nella preghiera. E’ entrare nel vivo della vita dei propri parrocchiani. Sapere portare gli altri, con la forza dello spirito di Dio, al Padre. Se questo si riesce a fare, si può dire che il prete è riuscito. Se questo non riesce a fare, il prete, pur avendo avuto l’ordine sacro, è sempre un fallito.
 
e quelle dello spirito


 
D.: L’altro giorno, quando è stato celebrato il suo quarantacinquesimo anno di sacerdozio, lei pronunciò un’omelia memorabile. Ci sono stati tre passaggi che mi hanno particolarmente colpito:
1) un oscuro riferimento ad un deserto da attraversare;
2) un ribadire, quasi con rabbia, «io sono comu l’ovu, ca cchiù si coci, cchiù duru addiventa»;
3) un suo non volere scegliere tra l’atteggiamento pratico e conservatore di S. Pietro e l’atteggiamento speculativo ed innovatore di San Paolo.
Vuol commentare?

R.: Io non oso mettermi, sia pure lontanamente, a confronto con tali giganti della Chiesa. Cerco di imitarli quanto più posso, essendo noi i continuatori della loro missione. Quando faccio qualche battuta del tipo «cchiù mi cuociu, cchiù duru mi fazzu» intendo sottolineare la mia ostinazione, il mio attaccamento, il mio volere essere sempre più fedele al , a quell’eccomi pronunciato al tempo della mia consacrazione sacerdotale. Voglio perseverare nella grazia che Dio concede giorno per giorno, perché nell’amore di Dio si cresce giorno per giorno. Nessuno può presumere di essere arrivato. Nessuno deve adagiarsi. Ed allora ecco il cammino, che può essere un cammino nel deserto, che può portare incontro al proprio Calvario. Sono tappe, anche dolorose, che vanno ostinatamente raggiunte e superate, ad imitazione di Cristo. Con l’andare degli anni, si riflette maggiormente. Ci si accorge di avere avuto dei difetti. C’è bisogno di maggiore ostinazione, ma non basta la buona volontà: occorre la grazia di Dio.
 
Come è cambiato Racalmuto in quest’ultimo cinquantennio.


 
D.: In questi quarantacinque anni, Racalmuto, sotto il profilo della fede, di quello morale e di quello sociale, è migliorato o peggiorato?

R.: Anche Racalmuto, come tutto il resto del mondo, ha subito l’influenza generale. Se Berlino piange, Roma non ride e viceversa. Siamo in epoca di cosiddetta planetarietà. Il mondo è diventato, davvero un paese. Il nostro paese è diventato, in certa misura, il mondo, nel bene e nel male. A Racalmuto - possiamo dirlo - un miglioramento c’è: lo Spirito Santo soffia dove vuole e sta soffiando un po’ dovunque, anche a Racalmuto. Quindi i movimenti che nascono, gli oratori che rinascono. Il bisogno di pace, il bisogno di associarsi, il bisogno anche di rinnovarsi. Si avverte, e questo è già molto. Ma Racalmuto subisce anche l’ondata deleteria del rilassamento dei costumi, del consumismo, del materialismo.

D.: A Racalmuto vi sono molto meno vocazioni di una volta. E’ un segno negativo, è un momento transitorio, è un indice di un certo affievolimento della fede religiosa?

R.: La scarsità delle vocazioni è un segno di crisi, più che del sentimento religioso, della famiglia. Oggi la famiglia è in crisi. I mass-media hanno operato negativamente. C’è stata anche una crisi di fede: non si può negare. Un paese antico come Racalmuto, ha risentito con un certo ritardo degli effetti negativi. Noi preti dobbiamo puntare di più sulla catechesi, sull’istruzione religiosa e sulla vita liturgica.

D.: Racalmuto, il popolo di Dio di Racalmuto, è sincero con i sacerdoti, o no?

R.: Beh! Se vedono un sacerdote che si muove, che agisce con serietà, con purezza d’intenti, sì. Non si guarda più tanto al grado di cultura del prete, perché la gente vuole ed esige un servizio all’insegna della charitas, dell’amore. Dove non c’è amore, scatta la critica. Del resto il Vangelo lo dice: se il sale è insipido, lo si calpesta; se il sale è buono, lo si apprezza.

D.: A Racalmuto la fede è diversa a seconda del sesso, dell’età, delle classi sociali?

R.: Sì. La gioventù, ad esempio, è stata un poco più lontana. Ma qualcosa si muove in senso positivo. Si è costituito un oratorio, si è costituita una consulta giovanile. Cresce il richiamo associativo tra i giovani. Le donne sono più vicine: ciò è stato sempre scontato. Una qualche indifferenza religiosa è atavica fra gli uomini anziani. E qui l’asino zoppica. Dovremmo trovare la maniera come mobilitare anche gli uomini. Abbiamo trovato delle difficoltà anche con questi Centri d’ascolto familiari. Non solo qui a Racalmuto, ma anche in tutta la diocesi. Mi ero permesso di suggerire qualcosa per interessare gli uomini, specialmente la sera.
 
La morale sessuale di Racalmuto


 
D.: Ho l’impressione che la morale sessuale a Racalmuto sia stata una cosa molto relativa e talora inquinata. Si levano dai documenti d’archivio sussurri e grida che fanno intuire scelleratezze consumate qualche volta persino nel chiuso delle famiglie. E’ un mio pessimismo o lei non intende accedere ad una provocazione del genere?

R.: I misfatti di sesso sono capitati ovunque. La verità è un’altra: siamo portati a scandalizzarci oltre misura quando i fatti di sesso investono la vita religiosa. Siamo portati a credere che tutto un edificio crolli. Ma non è soltanto questo il succo della morale cristiana. E’ tutto l’insieme di atti, di comportamenti. Ed allora è erroneo pensare che se si verificano peccati di sesso, non c’è più religione. Assolutamente, no! Ci possono essere grandi convinzioni e ci possono essere grandi cadute.

D.: Ma io non mi riferisco alla sessualità dei preti. E’ un problema troppo grosso e troppo grande per affrontarlo io. Mi riferisco, però, alla morale sessuale corrente del cosiddetto popolo di Dio, che in questo mi sembra troppo poco popolo di Dio, per quanto riguarda Racalmuto. E non tanto per un certo tipo di sessualità, diciamo così sfrenata che può rientrare nell’ordine umano delle cose, quanto per quell’andare al di là, oltre il pentagramma e pigliare certe stecche. E non sono, secondo me, fatti isolati, ma palesano un certo costume di vita che non va criticato - perché nulla che è umano è criticabile - ma sicuramente non va ammirato.

R.: La prevenzione è sempre il problema più difficile. Là dove la prevenzione è stata praticata, si è evitata la frana. Laddove si è fatto di meno, certamente la frana si avverte. Ora qui a Racalmuto occorre praticare un metodo preventivo - ed io come sacerdote credo di averlo fatto nella scuole. Per quanto riguarda il passato gli antichi nostri non ci davano un contributo, per premunirci dai mali che oggi sovrastano. E’ certo, però, che la gioventù di oggi è più preparata e più attenta rispetto al passato. Le coppie degli sposi sono più preparate. Vi sono i corsi di formazione. Certo si suol dire che male comune, mezzo gaudio. E l’opera nefasta dei mass-media, del materialismo dilagante, si fa sentire. E’ in atto una scristianizzazione subdola. La famiglia è stata minata nelle sua fondamenta: vedi divorzio, aborto, etc. che per noi cristiani sono piaghe e piaghe anche sociali.

D.: Racalmuto ebbe certamente una cultura contadina, quindi chiusa e sessualmente repressa e tendente agli eccessi. Questo, però, vale per la Racalmuto antecedente agli anni ’50-’60. Dopo, in coincidenza con la sua arcipretura, Racalmuto - se debbo giudicare dall’esterno - ebbe un salto di qualità. Certe repressioni della società contadina non ci stanno più. Oggi, ci saranno ... peccati, ma normali; prima, i peccati potevano invece apparire ... anormali.

R.: Io, nei primi anni di sacerdozio, ebbi infatti a notare un periodo, definiamolo, preconciliare. Vigeva allora quella moralità antica. Sembrava che stesse bene per tutti. Ma apparvero subito le prime avvisaglie dell’incombente grande corruzione. Abbiamo dovuto provvedere. In Azione Cattolica ed in altre associazioni cattoliche abbiamo intrapreso ad affrontare problemi di morale che prima era azzardato toccare. La questione sessuale, nelle scuole, io l’ho affrontata, naturalmente con le dovute cautele e ... con le pinzette. Allora c’erano le denunzie che si facevano con estrema facilità. Nelle scuole medie - ricordo - c’è stata una preside che mi diceva: meno male che c’è lei a trattare questi argomenti, perché gli insegnanti sono ostili a trattarli, per paura delle denunzie. Il paese nostro era, comunque, un paese chiuso, un paese di montagna. Appena si è affacciato, con i ragazzi che andavano a scuola, non appena cominciarono a muoversi, vi furono le prime vittime che finirono subito ... segnalate. Due periodi a confronto si ebbero, in ogni caso: quello preconciliare e quello successivo in cui le cose cominciarono a vedersi con altra ottica.
 
La politica della Curia Vescovile di Agrigento.


 
D.: Continuo sul piano della provocazione. Nel Settecento, mi è sembrato che ci fosse un atteggiamento differenziato della curia vescovile nei confronti dei matrimoni tra parenti. Quando si trattava di poveri, scattava tutto un processo con l’adozione di provvedimenti che imponevano atti di mortificazione pubblica. I fidanzati dovevano cingersi il capo con una corona di spine e in ginocchio dovevano chiedere perdono sul sagrato delle chiese: dovevano così recitarsi in ginocchio tanti rosari davanti a tante chiese. Veniva dato incarico al Vicario Foraneo affinché vigilasse sul completo adempimento delle penitenze inflitte. Quando, invece, si trattava dei cosiddetti galantuomini, i matrimoni tra parenti, anche tra primi cugini, non solo non venivano osteggiati ma persino favoriti. Ci si guardava bene dal comminare pubbliche penitenze come per i poveri. E questo si trascina fino a certi conclamati gesuiti dell’epoca contemporanea. Questa faccenda, al laico suona molto strana. Si domanda: ma che ci stanno, secondo la curia vescovile, due morali matrimoniali: quella dei ricchi e quella dei poveri? Per converso, il sacerdozio locale mi è apparso piuttosto lungimirante ed equo.

R.: Che in passato ci sia stato qualche inconveniente, è fuori discussione. La Chiesa, si sa, dall’interno ha modificato certi atteggiamenti giuridici. Molti canoni sono stati aboliti, molti canoni attenuati, molti canoni cambiati. Abbiamo un codice nuovo, ben diverso da quello antico. La Chiesa ha dovuto modificare il suo atteggiamento per stare al passo con i tempi. C’è stata una maturità popolare e questa è stata registrata dalla Chiesa. Ricordo che nei primi anni di sacerdozio, per i fuggitivi c’era il matrimonio in sagrestia. Era umiliante, ma serviva anche da deterrente, per evitare gli abusi. Oggi la gente ha più maturità, più coscienza. Una mea culpa ricade sui sacerdoti, che non erano riusciti a far maturare religiosamente i propri fedeli. Ma c’era il peccato per ignoranza della povera gente e bisognava correggerla per evitare il peggio. Le ingiustizie? E dove non sono?
 
Vi è stata una doppia morale matrimoniale?


 
D.: Durante l’arcipretura Puma, ho avuto l’impressione - naturalmente sono un osservatore non qualificato ed esterno - che le due morali matrimoniali, quella dei ricchi e quella dei poveri, si siano finalmente unificate. Non posso dire altrettanto per l’arcipretura del suo predecessore.

R.: Beh! .. il mio predecessore ha avuto grandi virtù: sono stato con lui una vita. Carattere forte, duro, qualche volta, ma a volte era necessario prendere atteggiamenti e decisioni dure. Bisognava creare una certa coscienza. Andare ai Sacramenti senza una preparazione, accostarvisi con leggerezza, erano malvezzi da correggere, anche con durezza. Quell’arciprete andava giustificato. Avrei preferito, invece, meno severità e più disponibilità verso la gente. A ciò ci stiamo uniformando io ed i miei confratelli. Bisognava più convincere che reprimere. Con l’amore si ottiene di più, come diceva don Bosco, della rigidità.
 
Ricchi e poveri, tutti uguali?


 
D.: Perché negli alti prelati c’è una sorta di diffidenza nei confronti dei poveri ed una sorta di intelligenza con i ricchi? Ci si scorda che nel Vangelo sta scritto «è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno dei cieli»? Perché invece i parroci, l’arciprete, il basso clero che sono più a contatto con il popolo, sovvertono quell’atteggiamento?

R.: Diceva il servo di Dio padre Elia Lauricella: «bisogna avvicinare i ricchi e tenerseli vicini perché facciano del bene ai poveri.». Credo che questa sia una strategia intelligente, pastorale. Nel Vangelo non c’è scritto che si devono disprezzare i ricchi. Certo non bisogna affiancarsi ai potenti sol perché sono potenti. Occorre comunque stare in mezzo ai poveri, perché la Chiesa è dei poveri. Lo diceva anche papa Giovanni: Ecclesia pauperum. Essere poveri non va considerata una gran bella cosa. La maggior parte del mondo vive in povertà non per sua scelta. Sorge il problema dell’aiuto che occorre approntare. Un aiuto verso i fratelli poveri.
 
I vescovi "rinascimentali" agrigentini.


 

 
D.: Premesso che a me i vescovi rinascimentali non piacciono, mi pare che gli ultimi tre o quattro vescovi agrigentini siano di tutt’altra paste. Non sono, di certo, rinascimentali.

R.: Sì, I vescovi di oggi sono diversi, perché è cambiato anche lo stile della Chiesa. I trionfalismi di una volta sono sorpassati. Il tipo di cultura ecclesiale è cambiato. Il vescovo ora è fratello fra i fratelli, per quanto riguarda i sacerdoti. Il vescovo è ora un pastore: gira, si muore, entra a stretto contatto con i fedeli della sua diocesi. Prima, invero, non era così. Ai tempi, il vescovo aveva il potere, aveva autorità e quindi era il vertice. Oggi, con il Concilio Vaticano II, il Pastore sta al centro: la Chiesa non è più verticale, come si pensava una volta; la Chiesa è circolare. Al centro il parroco con le varie entità come il Consiglio pastorale, presbiterale, Consiglio economico. Prima il parroco era il deus ex machina e accentrava tutto, mentre i laici erano scollati. Oggi il laicato ha ripreso il suo ruolo. Rammentiamoci che il laicato ha i doni che abbiamo avuto noi sacerdoti: il laico battezzato è sacerdote, fa parte del regno di Dio, ed ha anche l’ufficio profetico. Quindi i laici predicano, annunciano la parola di Dio e mutano nel tempo.

 
Il laicato racalmutese

D.: A tal proposito, c’è a Racalmuto un laicato fervido?

R.: Grazie a Dio, sì. Anzi, addirittura qualche vescovo mi diceva: «fortunato, perché lei ha collaboratori numerosi». Non possiamo cantare vittoria .. ma, tutto sommato, ci è lecito un moto di soddisfazione. Sotto questo profilo, siamo a posto.

D.: Quando nel 1960 ho dovuto emigrare da Racalmuto, per motivi di lavoro, ho lasciato un paese povero, con grande miseria, con strade sporche, con case invivibili, oggi - a parte il vezzo di piangere miseria, che è vecchia abitudine contadina - il paese mi pare di gran lunga cresciuto, economicamente parlando. A questa crescita economica - se vi è stata - si è accompagnata una crescita religiosa?

R.: Sì, possiamo affermare con certezza che c’è anche una crescita religiosa. Ad esempio, le varie parrocchie - che prima stentavano ed avevano vita grama - ora sono fervide, con varie associazioni, con tante belle iniziative, vi si celebrano incontri parrocchiali ed interparrocchiali. La consulta che già è nata fra i giovani è efficiente. Abbiamo organizzato gli incontri anche col Vescovo. Stanno sorgendo, anche, dei movimenti artistici, lirici. Tutte le occasioni servono per essere anche noi presenti e dire una buona parola, anche di incoraggiamento. Ciò dimostra che cosa? Una maggiore apertura ed una maggiore coscienza da parte delle famiglie che incoraggiano questi ragazzi a vivere la vita della parrocchia. Sarebbe auspicabile che le Amministrazioni comunali concertino con le parrocchie attività a respiro annuale. Su questa lunghezza d’onda ancora non ci siamo.
 
Fede e preti a Racalmuto

D.: Trenta quarant’anni fa, a Racalmuto - mi consenta una battuta - c’erano tanti preti .. e poca fede; ho l’impressione che ora ci stia tanta fede ma pochi preti.

R.: Ih! ...ih! ... ih! [piccolo accenno al riso]. Vuoi forse dire che è scattato un processo inversamente proporzionale? Beh! Io non vorrei giudicare il passato; comunque mi consta che nel passato vi erano uomini di fede granitica. Se la fede si deve misurare dalle opere, allora dobbiamo dire che in passato attività se ne fecero. Le varie chiese che sono state costruite dalle varie maestranze sono l’attestato più bello. Le varie opere caritative come la casa della fanciulla, la Misericordia (quella della mastranza), il maritaggio dell’orfana, furono edificanti iniziative dei nostri padri racalmutesi, atti bellissimi di fede. Ecco, perché mi sembra un po’ azzardato avanzare riserve sulla fede degli antichi di Racalmuto. Col cambiare dei tempi, certo cambiano le manifestazione di fede. Anche oggi abbiamo tante belle manifestazioni di fede .. specie per l’apporto dei laici che suppliscono alle deficienze numeriche di sacerdoti.

D.: Altra domanda scottante... Come giudica le vicende politiche di Racalmuto?

R.: Beh! .. Racalmuto ha avuto la mala sorte di avere subito amministrazioni poco accorte. Forse elementi non preparati sufficientemente hanno potuto scalare i vertici del potere locale. Ma contro le tristi vicende che abbiamo subito c’è stata una reazione che dobbiamo definire sana. Si è cercato di ovviare alle varie piaghe che si sono aperte. Ma dal punto di vista amministrativo, c’è stata una specie di corsa .... ai beni, più che al bene comune. Ai beni, di vario genere. Quindi il paese si è sviluppato piuttosto caoticamente. Ognuno ha cercato di fare a modo proprio. Tanti hanno cercato di affermarsi con il potere. In case, sono finiti i sudati risparmi dell’onesto lavoro dei racalmutesi, del lavoro degli emigranti. In politica, qualcosa, molto deve cambiare: così il paese non può migliorare.
[Questo passo dell’intervista appare decisamente datato: si riferisce al tempo - trascorso ormai da vari anni - in cui si è svolta la stessa intervista. Non vi si può attribuire valore attuale o riferimento alla presente congiuntura politico-amministrativa del paese, n.d.r.]
 
Quarantacinque anni di eventi


 
D.: In quarantacinque anni di sacerdozio, ne saranno successi di tutti i colori. Ricorda eventi belli, eventi brutti?

R.: Eventi brutti? ... possiamo dire anno per anno. Eventi belli, dopo la guerra? ... quelli a livello nazionale della ricostruzione. Riflessi sul posto, tanti. Poi abbiamo avuto il nefasto blocco dell’attività edilizia. Dei tempi buoni, a respiro nazionale, noi racalmutesi ne abbiamo usufruito, però, tutto sommato, poco. La povera gente è rimasta delusa. Molti dovettero uscire fuori dal paese, per trovare lavoro. Sono dovuti andare a cercare pane altrove. In Germania, ad esempio. E’ stata un’emigrazione dolorosissima. La migliore gioventù è dovuta emigrare. Andare negli Stati Uniti, in Canada. Qualcuno poté emigrare con qualche documento parrocchiale ... vorrei dire un po’ ... truccato. Allora c’era lo spauracchio del comunismo. Qualcuno doveva, per emigrare, rinnegare la propria ideologia, che poteva risultare sgradita e fingere di professare quella ... gradita. Tutto questo non è stato bello. Abbiamo avuto le sciagure minerarie del Belgio che hanno coinvolto anche nostri emigranti. Sono uscito diverse volte: sono stato in Belgio, in Germania, due volte negli Stati Uniti. Ho avuto modo di vedere i nostri emigranti nella loro nuova patria; ho potuto scorgere il buono ed il cattivo, il positivo ed il negativo, della loro nuova vita.
In definitiva, il paese, dal punto di vista socio-economico, non possiamo dire che sia migliorato di molto. Si è soltanto difeso.

D.: .... sono convinto che se si sapesse la verità sui depositi bancari, sulla sottoscrizione dei titoli pubblici, sulle disponibilità, addirittura, in valuta estera, sui depositi postali, di Racalmuto, forse, il giudizio cambierebbe.

 
R.: Sì, perché si tratta di un paese parsimonioso. Noi in definitiva discendiamo dai giudei: risparmiatori, avvezzi alle banche, ai depositi. La gente nostra non è abituata ad investire. Anche perché ha avuto diffidenza verso le istituzioni finanziarie (e talora grosse fregature). Una diffidenza che ha investito anche le istituzioni finanziarie d’ispirazione ecclesiastica.

D.: Padre Puma, lei accennava alla grande emigrazione degli anni quaranta, cinquanta... sessanta. Ne derivò un forte flusso di rimesse degli emigranti... mal convertite in lire dalle banche. L’Italia ha potuto sfruttarle per costruire le sue fortune, per cui oggi, nel bene o nel male, viene considerata la sesta, settima ottava potenza economica del mondo. Queste rimesse degli emigranti, già mal convertite in lire e finite in depositi bancari, sono state quindi polverizzate dall’inflazione galoppante degli anni settanta. Lo Stato quindi è doppiamente debitore nei confronti di Racalmuto. Non riesco a capire perché a livello nazionale si vuole recitare il de profundis allo Stato assistenziale e rompere con ogni forma di sovvenzione al Sud (e quindi a Racalmuto), dimenticando che si debbono atti di risarcimento, di riparazione. Lei è sacerdote e quindi le cose dell’economia le lascia agli economisti. Il suo parere resta però sempre interessante: si tratta pur sempre delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani.

R.: Io - per quello che ho potuto constatare, sentire, avvertire - debbo sottolineare che qui la mano del minatore, del bracciante, dell’operaio, del commerciante, è stata sempre defraudata. Il mare di rimesse dall’estero non ha lambito, vivificato le nostre aride terre. Sono d’accordo, dunque, sul fatto che lo Stato è fortemente debitore. Addirittura, se ci rivolgiamo alle banche per prestiti, loro fanno gli indiani verso i racalmutesi. Le banche locali, già assorbite da quelle colossali del continente, sono molto aperte a prendere (i depositi racalmutesi), ma del tutto restie a dare (accordare prestiti, finanziare, etc.). Noi non abbiamo avuto agevolazioni da parte delle banche. Sono scesi come i predatori - mi dispiace dire questa frase - perché sanno dove pescare. E qui hanno sempre pescato un po’ tutti. Nel vicino paese di Grotte, invero, è stato diverso. I grottesi si sono serviti delle banche per i loro investimenti, ma lì vige un’altra mentalità, diversa da quella racalmutese. Non va sottaciuto il ruolo della Regione Siciliana. Essa ha comprato a poco prezzo le miniere: ha fatto sorgere delle società alquanto speculative. Beh! Sappiamo tutti come sono andate a finire le miniere racalmutesi. Quando si è finalmente levata una voce di protesta, questa voce - voce nel deserto - è stata soffocata.

 

Ma così non si fa storia, solo prodromica calunnia.

Il primo maggio del 1947 si consumò l'infame stage di Portella della Ginestra. L'abile poliziotto Messana con encomiabile destrezza scopre che era stato il bandito Giuliano e la sua banda a compiere quell'esecrabile eccidio. Ne dà ovviamente subito notizia  al Ministro Scelba che ne informa il Parlamento. La notizia esce sulla stampa di Roma e Palermo. L'onorevole comunista, l'avvocato professore Giuseppe Montalbano a ciò si aggancia per una denuncia contro il Messana quale responsabile del reato di violazione del segreto d'ufficio. L'abile appiglio rivela l'imbarazzo del parlamentare comunista nel difendersi dalla più grave denuncia per calunnia che il Messana gli aveva sporto contro.
 
La denuncia per calunnia si originava da un infamante articolo del Montalbano che si chiedeva sul n. 152 de la "voce di Sicilia":  "Messana correo dei delitti di Fra Diavolo?"
 
A ben vedere l'odierna campagna di stampa diffamatoria verso il gr.uff. Ettore Messana si aggancia  a quel vecchio articolo del 1947 per le sue dissennate insinuazioni calunniose.
 
Ma per ora limitiamoci ad alcuni stralci degli atti di quel francamente risibile processo presso il Tribunale Penale di Palermo del 1947 che abbiamo già integralmente pubblicato.
 
E' lo stesso Montalbano che attenua il carattere accusatorio affermando: "è vero che le mie accuse contro il Messana sono poste in quell'artcolo sotto forma ipotetica..."
 
Ma quello che implacabilmente emerge già dopo mesi da quella insinuazione è quanto il PM nel chiedere l'archiviazione argomenta il 2 ottobre del 1947 dissolvendo senza ombra di dubbio ogni sia pure labile sospetto sulla figura del grande ispettore.  " Va appena rilevato - vi si afferma - che non può farsi luogo a procedimento per calunnia contro il Montalbano, autore dell'articolo, non avendo egli presentato a carico del dr. Messana  alcuna denunzia all'Autorità giudiziaria o ad altra Autorità designata dalla legge circa la pretesa - quanto mai assurda - di costui correità nei delitti commessi dal bandito Ferreri".
 
L'adamantino comportamento  del nostro grande compaesano ha quindi il suggello del Procuratore della Repubblica Barone come si può riscontrare nello stralcio processuale che qui sotto pubblichiamo.
 
Signor Casarrubea e accoliti della carta stampata vari quale dato, documento, conoscenza, competenza avete voi per potere ora dopo sessant'anni mettere in dubbio la certezza del Tribunale penale di allora che apoditticamente sancisce che l'Ispettore Generale di PS, gr. uff, Dottore Ettore Messana è un alto ufficiale di polizia non lambito da alcun sospetto circa "i delitti commessi dal bandito Ferreri" essendo solo pretesa ASSURDA quella del compagno comunista Montalbano (allora perché dopo travagliata fu la militanza politica di quest'uomo di Santa Margherita Belice). Se dite di possedere archivi, non avete dato peso a siffatti documenti priocessuali?  Ma così non si fa storia, solo prodromica calunnia.

PROCURA DELLA REPUBBLICA

PRESSO IL

TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI PALERMO

IL P. M.
osserva che con denunzia del 25 giugno 1947, indirizzata al Procuratore Generale di Palermo,

ripetuta il 30 stesso mese, l’on. prof. avv. Montalbano Giuseppe, deputato alla Costituente,

lamentava che il «Risorgimento Liberale», quotidiano di Roma, ed «Il Mattino di Sicilia»,

quotidiano di Palermo, alcuni giorni prima avevano pubblicato la notizia che egli, citato

dall’Autorità Giudiziaria come teste nel processo Miraglia, per due volte non si era presentato

«perché cercava di sottrarsi dal deporre per paura di essere messo a confronto con un Ufficiale di

Polizia Giudiziale».

Nella persuasione che tale notizia fosse stata rivelata dal dr. Messana Ettore, Ispettore Generale di

PS. per la Sicilia, denunziava costui quale responsabile del reato di rivelazione di segreto di ufficio,

previsto e punito dall’art. 326 C.P. Lamentava altresì che il «Giornale di Sicilia» del 22 giugno u.s.,

aveva pubblicato notizie molto delicate e riservatissime in merito alle indagini in corso sul selvaggio

eccidio di Portella della Ginestra, riportando il tenore delle deposizioni rese nella fase istruttoria, non

ancora chiusa, dai testi Riolo, Sirchia, Fusco e Cuccia, e che lo stesso giornale, del successivo giorno

25, precisava che le notizie pubblicate nel numero del 22 giugno erano state desunte da «atti ufficiali

riferentisi all’inchiesta in corso». Ravvisava in tali pubblicazioni la prova che funzionari addetti alle

indagini avessero rivelato segreti d’ufficio e denunziava gli ignoti informatori da ricercarsi

presumibilmente [presso] l’Ispettorato Generale di P. S., diretto dal dr. Messana.

D’altro lato quest’ultimo, venuto a conoscenza della denunzia sporta a suo carico, indirizzava, in

data 16 luglio u.s., a questa Procura un esposto col quale chiedeva il procedimento d’ufficio per

calunnia contro il prof. Montalbano, anche in relazione ad un articolo pubblicato nel n. 152 de «La

Voce della Sicilia» del 1° luglio, a firma del Montalbano, nel quale egli viene fatto apparire come
correo dei numerosi delitti consumati dal bandito Ferreri inteso Fra’ Diavolo, ucciso poi in conflitto


in territorio di Alcamo. Ciò posto, va subito rilevato che la doglianza del prof. Montalbano per la

notizia pubblicata dal «Risorgimento Liberale» e dal «Mattino di Sicilia» è pienamente fondata per

quanto ottiene l’offesa recata alla sua personalità morale, essendo chiaro che l’autore dell’articolo

scrivendo ch’egli, sebbene due volte citato dal magistrato istruttore, non si era presentato a deporre

come teste «per paura di essere messo a confronto con un funzionario di polizia» si proponeva di

presentare il Montalbano sotto una luce poco onorevole al pubblico dei lettori: è risultato, invece,

dalla esauriente istruttoria compiuta da quest’Ufficio che il prof. Montalbano si presentò

regolarmente tutte e due le volte alla Sezione istruttoria e che per la mancata presenza del giudice

non fu messo in grado – sia la prima che la seconda volta – di rendere la sua deposizione. Intanto il

magistrato inquirente dispose la nuova citazione del prof. Montalbano per il giorno 25 luglio e,

nell’eventualità di dovere eseguire un confronto tra lui ed il dr. Messana, telefonò a quest’ultimo

invitandolo a tenersi per quel giorno a sua disposizione nel proprio ufficio onde assicurarsene,

occorrendo, la comparizione.

Tosto che il prof. Montalbano poté rendere la sua dichiarazione, il giudice non ritenne di far luogo al

confronto ed il dr. Messana fu sciolto dall’obbligo di tenersi a disposizione. Or poiché la notizia del

predisposto confronto era nota soltanto al magistrato ed al dr. Messana, è sembrato logico al prof.

Montalbano ritenere che il Messana ne avesse informato i giornali, rivelando così un segreto

d’ufficio.

Nel fatto lamentato non riscontra però il requirente gli estremi del reato p. ep. dall’art. 326 C. P. e

ciò a prescindere da qualsiasi esame di merito sulla consistenza dell’addebito. Perché la citazione

non è un atto interno del processo, non è, cioè, un atto segreto posseduto e custodito dal pubblico

ufficiale: bensì è un atto esterno del processo, la cui funzione si esaurisce all’esterno, concretantesi

nella chiamata del giudice, pel tramite dell’ufficiale giudiziario.

Le notizie d’ufficio sono quelle che debbono rimanere segrete, come le dichiarazioni testimoniali, i

verbali di confronto, gli atti generici ecc. Sicché la loro rivelazione da parte del pubblico ufficiale si

risolve in una violazione dei doveri inerenti alla sua funzione. Come non costituisce segreto d’ufficio

la citazione, a maggior ragione non può costituire segreto d’ufficio un semplice avvertimento fatto

per telefono a persona ancora da citare pel caso di un eventuale confronto. Il reato di violazione di

segreti d’ufficio è, invece, manifestamente configurabile nei due articoli pubblicati sul Giornale di

Sicilia, rispettivamente sotto il titolo «Colpo di scena: a Portella della Ginestra ha sparato Giuliano»

e «Soppresso a Portella della Ginestra perché testimone della strage», perché in entrambi gli articoli

appaiono palesati fatti e circostanze che non potevano essere di dominio pubblico, e, quindi, oggetto

di cronaca, siccome acquisite dall’Autorità giudiziaria e dalla Polizia giudiziaria durante le indagini

tuttora in corso. Per di più lo stesso giornale nel n. 149 del 25 giugno 1947, riportava un articolo in

cui si ribadiva che le notizie precedentemente pubblicate erano state desunte da atti ufficiali e da

conclusioni ufficiali di una inchiesta accertante la responsabilità del bandito Giuliano. Nulla,

tuttavia, autorizza a ritenere che il dr. Messana abbia dato ai giornali le informazioni in discorso.

Ben vero il prof. Montalbano ha manifestato il convincimento che tali notizie fossero state propalate

dall’Ispettore Generale di PS. nella considerazione che ancora prima che le indagini avessero preso

una consistenza qualsiasi, il Messana si era affrettato a comunicare al Ministro dell’Interno che

autore della strage era stato Giuliano con la sua banda, per cui avvenne che il Ministro ne informò

l’Assemblea Costituente: da qui l’interesse del Messana di dimostrare al pubblico che egli non si era

sbagliato. È evidente la buona fede dell’on.le Montalbano nella incolpazione fatta al Messana, ma,

alla stregua delle risultanze istruttorie, l’addebito deve dirsi del tutto infondato. Parrebbe, infatti,

accertato che i redattori degli articoli incriminati trassero le notizie, in discorso, da indagini

direttamente fatte dai cronisti dei giornali, che abilmente seguivano quelle che si svolgevano

nell’ambito della polizia giudiziaria e dell’Autorità giudiziaria (ff. 19 - 22 - 23 - 26, testi Pirri,

Melati, Petrucci, Seminara, e Marino), ma anche se ciò non fosse vero, nessuna prova sussiste, atta a

far ritenere che fosse stato proprio il Messana a rivelare le risultanze delle indagini ufficiali, specie

se si consideri che i motivi posti a base dell’incolpazione contro il Messana valgono anche per tutti i

funzionari e gli agenti dell’Ispettorato di PS. che collaborarono col loro Capo nelle operazioni di

polizia, sicché per tutti poteva essere di soddisfazione far sapere che l’Ispettorato non aveva

sbagliato nell’individuazione dei responsabili dell’efferato delitto. Non sono altresì da escludere altre

ipotesi circa la fonte alla quale le notizie poterono essere attinte. Stando così le cose non si vede

perché si debbano inseguire delle ombre, quando si ha la prova di un’attività giornalistica, abilmente,

ma anche imprudentemente manovrata ai margini di uffici giudiziarii e di polizia. Il che non è reato.

Non essendo penalmente punibili pel titolo di violazione di segreti di ufficio i fatti lamentati dal

prof. Montalbano, discende la conseguenza logica e giuridica che non possono riscontrarsi gli

estremi della calunnia nella incolpazione di fatti non costituenti reato. Parimenti non incriminabile

pel titolo di calunnia è l’articolo pubblicato nel n. 152 de «La voce di Sicilia» sotto il titolo

«Messana correo dei delitti di Fra-diavolo?». Il contenuto dell’articolo è diffamatorio, ma di ciò non

si è doluto il dr. Messana, mancando in atti la prescritta querela. Va appena rilevato che non può

farsi luogo a procedimento per calunnia contro il Montalbano, autore dell’articolo, non avendo egli

presentato a carico del dr. Messana alcuna denunzia all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità

designata dalla legge circa la pretesa – quanto mai assurda – di costui correità nei delitti commessi

dal bandito Ferreri. La pubblicità col mezzo della stampa di una falsa incolpazione di reato, fatta sia

pure con l’intento di provocare un procedimento penale di ufficio, non ha nulla di comune con la

denunzia che la legge richiede per la sussistenza della calunnia. Per l’anzidetto essendo il caso di

provvedere ai sensi dell’art. 74 C. P. P. e succ. mod.
CHIEDE


Che il Giudice Istruttore voglia ordinare la archiviazione degli atti.
Palermo 2.10.1947.

Il Procuratore della Repubblica.

Barone.
 


PROCURA DELLA REPUBBLICA

PRESSO IL

TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI PALERMO

IL P. M.
osserva che con denunzia del 25 giugno 1947, indirizzata al Procuratore Generale di Palermo,

ripetuta il 30 stesso mese, l’on. prof. avv. Montalbano Giuseppe, deputato alla Costituente,

lamentava che il «Risorgimento Liberale», quotidiano di Roma, ed «Il Mattino di Sicilia»,

quotidiano di Palermo, alcuni giorni prima avevano pubblicato la notizia che egli, citato

dall’Autorità Giudiziaria come teste nel processo Miraglia, per due volte non si era presentato

«perché cercava di sottrarsi dal deporre per paura di essere messo a confronto con un Ufficiale di

Polizia Giudiziale».

Nella persuasione che tale notizia fosse stata rivelata dal dr. Messana Ettore, Ispettore Generale di

PS. per la Sicilia, denunziava costui quale responsabile del reato di rivelazione di segreto di ufficio,

previsto e punito dall’art. 326 C.P. Lamentava altresì che il «Giornale di Sicilia» del 22 giugno u.s.,

aveva pubblicato notizie molto delicate e riservatissime in merito alle indagini in corso sul selvaggio

eccidio di Portella della Ginestra, riportando il tenore delle deposizioni rese nella fase istruttoria, non

ancora chiusa, dai testi Riolo, Sirchia, Fusco e Cuccia, e che lo stesso giornale, del successivo giorno

25, precisava che le notizie pubblicate nel numero del 22 giugno erano state desunte da «atti ufficiali

riferentisi all’inchiesta in corso». Ravvisava in tali pubblicazioni la prova che funzionari addetti alle

indagini avessero rivelato segreti d’ufficio e denunziava gli ignoti informatori da ricercarsi

presumibilmente [presso] l’Ispettorato Generale di P. S., diretto dal dr. Messana.

D’altro lato quest’ultimo, venuto a conoscenza della denunzia sporta a suo carico, indirizzava, in

data 16 luglio u.s., a questa Procura un esposto col quale chiedeva il procedimento d’ufficio per

calunnia contro il prof. Montalbano, anche in relazione ad un articolo pubblicato nel n. 152 de «La

Voce della Sicilia» del 1° luglio, a firma del Montalbano, nel quale egli viene fatto apparire come
correo dei numerosi delitti consumati dal bandito Ferreri inteso Fra’ Diavolo, ucciso poi in conflitto


in territorio di Alcamo. Ciò posto, va subito rilevato che la doglianza del prof. Montalbano per la

notizia pubblicata dal «Risorgimento Liberale» e dal «Mattino di Sicilia» è pienamente fondata per

quanto ottiene l’offesa recata alla sua personalità morale, essendo chiaro che l’autore dell’articolo

scrivendo ch’egli, sebbene due volte citato dal magistrato istruttore, non si era presentato a deporre

come teste «per paura di essere messo a confronto con un funzionario di polizia» si proponeva di

presentare il Montalbano sotto una luce poco onorevole al pubblico dei lettori: è risultato, invece,

dalla esauriente istruttoria compiuta da quest’Ufficio che il prof. Montalbano si presentò

regolarmente tutte e due le volte alla Sezione istruttoria e che per la mancata presenza del giudice

non fu messo in grado – sia la prima che la seconda volta – di rendere la sua deposizione. Intanto il

magistrato inquirente dispose la nuova citazione del prof. Montalbano per il giorno 25 luglio e,

nell’eventualità di dovere eseguire un confronto tra lui ed il dr. Messana, telefonò a quest’ultimo

invitandolo a tenersi per quel giorno a sua disposizione nel proprio ufficio onde assicurarsene,

occorrendo, la comparizione.

Tosto che il prof. Montalbano poté rendere la sua dichiarazione, il giudice non ritenne di far luogo al

confronto ed il dr. Messana fu sciolto dall’obbligo di tenersi a disposizione. Or poiché la notizia del

predisposto confronto era nota soltanto al magistrato ed al dr. Messana, è sembrato logico al prof.

Montalbano ritenere che il Messana ne avesse informato i giornali, rivelando così un segreto

d’ufficio.

Nel fatto lamentato non riscontra però il requirente gli estremi del reato p. ep. dall’art. 326 C. P. e

ciò a prescindere da qualsiasi esame di merito sulla consistenza dell’addebito. Perché la citazione

non è un atto interno del processo, non è, cioè, un atto segreto posseduto e custodito dal pubblico

ufficiale: bensì è un atto esterno del processo, la cui funzione si esaurisce all’esterno, concretantesi

nella chiamata del giudice, pel tramite dell’ufficiale giudiziario.

Le notizie d’ufficio sono quelle che debbono rimanere segrete, come le dichiarazioni testimoniali, i

verbali di confronto, gli atti generici ecc. Sicché la loro rivelazione da parte del pubblico ufficiale si

risolve in una violazione dei doveri inerenti alla sua funzione. Come non costituisce segreto d’ufficio

la citazione, a maggior ragione non può costituire segreto d’ufficio un semplice avvertimento fatto

per telefono a persona ancora da citare pel caso di un eventuale confronto. Il reato di violazione di

segreti d’ufficio è, invece, manifestamente configurabile nei due articoli pubblicati sul Giornale di

Sicilia, rispettivamente sotto il titolo «Colpo di scena: a Portella della Ginestra ha sparato Giuliano»

e «Soppresso a Portella della Ginestra perché testimone della strage», perché in entrambi gli articoli

appaiono palesati fatti e circostanze che non potevano essere di dominio pubblico, e, quindi, oggetto

di cronaca, siccome acquisite dall’Autorità giudiziaria e dalla Polizia giudiziaria durante le indagini

tuttora in corso. Per di più lo stesso giornale nel n. 149 del 25 giugno 1947, riportava un articolo in

cui si ribadiva che le notizie precedentemente pubblicate erano state desunte da atti ufficiali e da

conclusioni ufficiali di una inchiesta accertante la responsabilità del bandito Giuliano. Nulla,

tuttavia, autorizza a ritenere che il dr. Messana abbia dato ai giornali le informazioni in discorso.

Ben vero il prof. Montalbano ha manifestato il convincimento che tali notizie fossero state propalate

dall’Ispettore Generale di PS. nella considerazione che ancora prima che le indagini avessero preso

una consistenza qualsiasi, il Messana si era affrettato a comunicare al Ministro dell’Interno che

autore della strage era stato Giuliano con la sua banda, per cui avvenne che il Ministro ne informò

l’Assemblea Costituente: da qui l’interesse del Messana di dimostrare al pubblico che egli non si era

sbagliato. È evidente la buona fede dell’on.le Montalbano nella incolpazione fatta al Messana, ma,

alla stregua delle risultanze istruttorie, l’addebito deve dirsi del tutto infondato. Parrebbe, infatti,

accertato che i redattori degli articoli incriminati trassero le notizie, in discorso, da indagini

direttamente fatte dai cronisti dei giornali, che abilmente seguivano quelle che si svolgevano

nell’ambito della polizia giudiziaria e dell’Autorità giudiziaria (ff. 19 - 22 - 23 - 26, testi Pirri,

Melati, Petrucci, Seminara, e Marino), ma anche se ciò non fosse vero, nessuna prova sussiste, atta a

far ritenere che fosse stato proprio il Messana a rivelare le risultanze delle indagini ufficiali, specie

se si consideri che i motivi posti a base dell’incolpazione contro il Messana valgono anche per tutti i

funzionari e gli agenti dell’Ispettorato di PS. che collaborarono col loro Capo nelle operazioni di

polizia, sicché per tutti poteva essere di soddisfazione far sapere che l’Ispettorato non aveva

sbagliato nell’individuazione dei responsabili dell’efferato delitto. Non sono altresì da escludere altre

ipotesi circa la fonte alla quale le notizie poterono essere attinte. Stando così le cose non si vede

perché si debbano inseguire delle ombre, quando si ha la prova di un’attività giornalistica, abilmente,

ma anche imprudentemente manovrata ai margini di uffici giudiziarii e di polizia. Il che non è reato.

Non essendo penalmente punibili pel titolo di violazione di segreti di ufficio i fatti lamentati dal

prof. Montalbano, discende la conseguenza logica e giuridica che non possono riscontrarsi gli

estremi della calunnia nella incolpazione di fatti non costituenti reato. Parimenti non incriminabile

pel titolo di calunnia è l’articolo pubblicato nel n. 152 de «La voce di Sicilia» sotto il titolo

«Messana correo dei delitti di Fra-diavolo?». Il contenuto dell’articolo è diffamatorio, ma di ciò non

si è doluto il dr. Messana, mancando in atti la prescritta querela. Va appena rilevato che non può

farsi luogo a procedimento per calunnia contro il Montalbano, autore dell’articolo, non avendo egli

presentato a carico del dr. Messana alcuna denunzia all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità

designata dalla legge circa la pretesa – quanto mai assurda – di costui correità nei delitti commessi

dal bandito Ferreri. La pubblicità col mezzo della stampa di una falsa incolpazione di reato, fatta sia

pure con l’intento di provocare un procedimento penale di ufficio, non ha nulla di comune con la

denunzia che la legge richiede per la sussistenza della calunnia. Per l’anzidetto essendo il caso di

provvedere ai sensi dell’art. 74 C. P. P. e succ. mod.
CHIEDE

Che il Giudice Istruttore voglia ordinare la archiviazione degli atti.
Palermo 2.10.1947.

Il Procuratore della Repubblica.

Barone.

Questa pagina di FUOCO all'ANIMA in fin dei conti parla del nostro grande prof. Giovanni Liotta. Nell'incontro di un paio di mesi fa gliene parlavo. Non ne sapeva l'esistenza. Mi disse che avrebbe avuto piacere averne una copia. La ritrovo solo ora nel diario di una mia ex amica. Non so come farla recapitare al caro Giovanni. Se qualche parente o amico comune mi legge lo pregherei di fargliela recapitare. Grazie.

Questa pagina di FUOCO all'ANIMA in fin dei conti parla del nostro grande prof. Giovanni Liotta. Nell'incontro di un paio di mesi fa gliene parlavo. Non ne sapeva l'esistenza. Mi disse che avrebbe avuto piacere averne una copia. La ritrovo solo ora nel diario di una mia ex amica. Non so come farla recapitare al caro Giovanni. Se qualche parente o amico comune mi legge lo pregherei di fargliela recapitare. Grazie.

venerdì 27 giugno 2014

Io e Malgrado Tutto

Mi ha impressionato l'invito di a.m a non dare importanza a chi Colpi di Spillo reputa nemico di Malgrado Tutto. Spero che il vecchio marpione del Direttore non condivida. Malgrado Tutto nacque - ciclostilato - quando credo Colpi di Spillo non era ancora nata (scrivo al femminile per i motivi addotti ieri). Fu foglio goliardico, simpatico, irridente, "nemico" e subito piacque al grande Pigmalione. Continuò stampato arcinemico del potere: certi graffianti fondi di mio cugino Gigi Restivo li conservo come cimeli a futura memoria (della storia di Racalmuto per la quale mi accredito come quasi un minuscolo Tucidide paesano, ad onta della pletora baiamontana che mi oblitera anche se a spese comunali si sgrammatizza il canto del  mio vetusto rione, in quarterio Fontis, insomma).
Il giornale (che poi fu mensile e quindi bimensile e quindi manco quello) continuò stampato decadendo però a foglietto di famiglia (Andronico per intenderci). Fu però anche foglio comunale e beccò quattrini pubblici; In Italia, l'Italia assistenziale oggi defunta, nessuno può storcere il naso: siamo tutti colpevoli nell'abbeverarci nel grande Fontanone dell'Oro di Stato.
Spesso ho dissentito; in base al metro adottato da Colpi di Spillo ho pieno titolo a venire etichettato "nemico" ma giammai "caro". Qualche volta ho difeso questa voce, invero sempre elegante. Una voce degna di Racalmuto, raffinata, pungente (talora) ironica. persino vignettara. Un momento di grande vivacità intellettuale che non deve perire. Deve tornare anche alla carta stampata (non tutti i racalmutesi usano il computer) e deve essere finanziata dal Comune. Al posto degli sperperi alieni per remunerate presenze di scultorelli alabastrini o di poetastri con la penultima "e" accentata alla francese.

Favole della dittatura di Leonardo Sciascia: il mulo e il cavallo


Tavola sciasciana di pag. 28 Edizione Bardi. Il nobile cavallo e il concreto mulo beffardo. Bucolico,sereno Agato Bruno. Animali quieti in prati freschi di verdura, in radure solatie ma senza stoppie, in una Racalmuto satura di limpida luce. Quando Sciascia compone i galantuomini del Circolo Unione - quello all'epoca frequentato da Nanà con giovanile sornioneria - persa l'antica boria fan quasi ora la fame; manco il bramato gioco d'azzardo possono più permettersi, quello si pratica ormai al Mutuo Soccorso di Angilu Cuddura - così dice Sciascia, ma tavolta si sbaglia.

La rivolta sociale in fermento a Racalmuto. I contadini emigrano: le terre dei galantuomini restano abbandonate: per questi quasi l'indigenza; per li jurntara, per i figli o i nipoti dei carusi di un tempo quasi l'agiatezza: se tornano per la Festa del Monte dal Belgio o dalla Germania ti può anche capitare di vederli pavoneggiare su auto della dismisura americana, sia pure d'anteguerra. Una beffa una rabbia. Sciascia coglie quegli umori. "Il cavallo non si avvicinava alla mangiatoia se non quando il mulo e ne llontanava .. Sì la tua razza è pura - pensava il mulo - ma il fieno che mangi è quella che io ti lascio".

Agato Bruno, ora a distanza di un sessantennio, ha altra ispirazione: gioiosa, giocosa. Abbagliato dal rappreso cromatismmo dello Zaccanello, vede solo pacifici animali beati in radure che in vero sono magari stopposi con i ruderi delle vecchie cadenti ville che un tempo furono dei grandi signori di Racalmuto. ora decaduti, i baroni, i Tulumello, i Matrona. Ma Bruno ha occhi ormai veneti per badare a siffatti rigurgiti della antica rivolta paesana .Sciascia invece la viveva.
Mulo e cavallo ormai rappacificati


 

Tavola sciasciana di pag. 28 Edizione Bardi. Il nobile cavallo e il concreto mulo beffardo. Bucolico,sereno Agato Bruno. Animali quieti in prati freschi di verdura, in radure solatie ma senza stoppie, in una Racalmuto satura di limpida luce. Quando Sciascia compone i galantuomini del Circolo Unione - quello all'epoca frequentato da Nanà con giovanile sornioneria - persa l'antica boria fan quasi ora la fame; manco il bramato gioco d'azzardo possono più permettersi, quello si pratica ormai al Mutuo Soccorso di Angilu Cuddura - così dice Sciascia, ma tavolta si sbaglia.

La rivolta sociale in fermento a Racalmuto. I contadini emigrano: le terre dei galantuomini restano abbandonate: per questi quasi l'indigenza; per li jurntara, per i figli o i nipoti dei carusi di un tempo quasi l'agiatezza: se tornano per la Festa del Monte dal Belgio o dalla Germania ti può anche capitare di vederli pavoneggiare su auto della dismisura americana, sia pure d'anteguerra. Una beffa una rabbia. Sciascia coglie quegli umori. "Il cavallo non si avvicinava alla mangiatoia se non quando il mulo e ne llontanava .. Sì la tua razza è pura - pensava il mulo - ma il fieno che mangi è quella che io ti lascio".

Agato Bruno, ora a distanza di un sessantennio, ha altra ispirazione: gioiosa, giocosa. Abbagliato dal rappreso cromatismmo dello Zaccanello, vede solo pacifici animali beati in radure che in vero sono magari stopposi con i ruderi delle vecchie cadenti ville che un tempo furono dei grandi signori di Racalmuto. ora decaduti, i baroni, i Tulumello, i Matrona. Ma Bruno ha occhi ormai veneti per badare a siffatti rigurgiti della antica rivolta paesana .Sciascia invece la viveva.