Mi si
accuserà di esibizionismo, di ostentazione
intellettualistica, di presunzione letteraria, lo so ma non desisto.
Snocciolerò queste quattro pagine erudite su Catullo, Gadda ed altro. Perché? Per via che voglio
spendere qualche parola sulla tomba del fratello di Nanà Sciascia e sotto sotto
fare un appuntino cattivello all’amico (meglio al figlio dell’amico) Tano
Savatteri. Lutti per fratelli defunti giovani tanti grandi scrittori ne
piansero. Da Sciascia a Rosso di San Secondo. E poi Pasolini, Gadda, Calvino:
meritano tutti accorato rispetto.
A Racalmuto non si legge: si suppone; si ha
voglia di credere che si sappia già troppo per dovere ancora apprendere; si sale
spesso in cattedra ad insegnare a chicchessia
quello che non si sa.
Noi
racalmutesi siamo fatti così: un po’ presuntuosetti lo siamo. Per illustrare la
celebre frase latina scolpita sulla
tomba del fratello di Sciascia trascriviamo questa ampia nota di Emanuele
Narducci su Catullo:
«L’esperienza
di un giovane fratello caduto in guerra può distruggere la
nostra vita. Si ricordino i versi disperati di Catullo», dichiarava Gadda, con
ovvio riferimento autobiografico, in una intervista del ’63 a proposito della Cognizione
(Gadda 1983b: 87). E già in una recensione del ’45 alle traduzioni catulliane di Quasimodo,
appar se nel medesimo anno,
l’accento batteva sulla profonda consonanza emotiva con i versi più dolenti del
liber (SGF I 899 sgg.):
In una accettazione del dissolvimento Catullo
raggiunge, anche nel riso, l’estrema amarezza. I versi dolorosi con cui rievoca
il fratello perduto (carme 68; 68a) testimoniano circa lo spegnersi d’ogni fede
in una possibile sopravvivenza sua propria:
Tecum una totast nostra sepulta domus [Tutta la nostra
casa è sepolta insieme con te].
E il carme 101 e il più tragico de’ suoi versi:
Et mutam nequiquam adloquerer cinerem [Per parlare
invano con la tua muta cenere],
Si tratta di uno dei rarissimi omaggi di Gadda
all’arte poetica di Foscolo, i cui versi sono assai più spesso bersaglio di
ironie dissacranti (così, ad esempio, nel dialogo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia irride beffardamente al riuso, nell’Ode
a Luigia Pallavicini, di una delle espressioni di apertura del carme 3 di
Catullo, Veneres Cupidinesque – SGF II 413; Narducci 2003: 95). Può
darsi, allora, che l’omaggio vada inteso in funzione polemica nei confronti
della resa quasimodiana del medesimo verso di Catullo («e a dire vane parole
alla tua cenere muta»), che Gadda avrà sentito scialba e priva di musicalità.
In realtà tutta la recensione è, a dir poco, algida nei confronti delle
traduzioni di Quasimodo; in maniera più esplicita lo scrittore si sarebbe
espresso in una lettera dell’ottobre ’59 al cugino Piero Gadda Conti,
manifestando la propria irritazione per il conferimento del Nobel al poeta
siciliano: «Di Salvatore ho ricevuto, nel 1946, la sua traduzione da Catullo:
uno spasso!» (SGF I 1350).
Nella recensione, Gadda contrappone continuamente il suo
Catullo a quello che emerge dai rifacimenti quasimodiani: perciò tutto lo
scritto si rivela assai utile per comprendere la maniera in cui Gadda si
accosta al poeta veronese. L’obiezione principale rivolta a Quasimodo è di
avere privilegiato, sia nella selezione dei carmi da tradurre, sia nelle scelte
lessicali, gli elementi alessandrini della poesia di Catullo: quelli che
rivelano «un Catullo orafo, un Catullo benedettino», verso il quale il gusto di
Quasimodo mostra la maggiore congenialità. Sono in larga parte esclusi dalla
traduzione, invece, i carmi brevi (quelli che Gadda definisce italiani),
che lasciano emergere «l’impeto, il dolore, la impotente rivendicazione, la
tristezza puerile, la oscenità gloriosa, lo scherno»; le scelte di Quasimodo
hanno spostato «il centro barico della poesia catulliana: addomesticando il
nembo a uno zefiro».
La lettura di Catullo delineata da Gadda si
inserisce in maniera abbastanza agevole nel quadro complessivo delle
interpretazioni di questo poeta predominanti fino alla metà del Novecento, e
sostanzialmente condizionate da un gusto di ascendenza romantica, nelle
sue diverse varianti. Gadda insiste a più riprese sulla componente fanciullesca
della personalità poetica di Catullo, laddove parla, per es., di «libertà
làlica […] del bambino», di «tristezza puerile», della «sua natura di fanciullo
delicato e impertinente»; o descrive il rapporto dell’ingenuo poeta con
l’aggressività violenta del mondo circostante nei termini del «dolce sorriso
d’un bimbo che si ridesta, inconscio, alla presenza d’una pantera».
Neppure mancava, nel discorso critico circolante
all’epoca in cui Gadda scriveva, l’idea di un Catullo dalla psicologia
tormentata ai limiti del patologico – anche se Gadda calca un po’ le tinte
parlando di «nevrosi», di «atteggiamenti potenzialmente ebefrenici (arresto, o
retrogressione, a puerizia) o ipotimici (depressivi)», di «una psicopatia che
oscilla tra lo spirito amoroso […] e un senso disperato di abbandono» (SGF I
899).
Gadda arricchisce questi spunti critici tutto sommato
convenzionali con gli scintillii della sua prosa artistica; maggiori elementi
di originalità interpretativa vi sono forse nell’apprezzamento esplicito della
componente oscena della poesia di Catullo, da altri interpreti,
all’epoca, per lo più tenuta fuori campo, o addirittura più o meno apertamente
biasimata. L’attenzione si spiega bene con la personale predilezione di Gadda
per una scrittura capace di spaziare, senza censure di sorta, tra tutti i
diversi livelli del lessico e dello stile; ed è perfettamente coerente con il
fastidio verso il decoro e il perbenismo linguistico che Gadda,
ancora negli anni del fascismo, aveva già espresso a proposito del vocabolario
latino in corso di elaborazione presso l’Istituto di Studi Romani: un testo nel
quale era presente l’invito a non operare esclusioni nei confronti del lessico
di autori come Plauto, Catullo, Petronio, Marziale o Giovenale (SGF I 870;
Narducci 2003: 38).
Se lo abbiamo visto profondamente commosso dai versi
catulliani sulla morte del fratello, dal liber del poeta latino Gadda
sembra tuttavia avere attinto soprattutto spunti satirici (in questo
senso operano anche le riprese da Catullo nel Primo libro delle Favole; Narducci 2003: 93). Così nel passo con
cui si apre uno dei racconti dell’Adalgisa (Strane dicerie
contristano i Bertoloni), poi ripreso nella Cognizione (RR I 381; RR
I 584):
Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi
servissi […] esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno,
o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il
tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a
tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchon e lungo le pioppaie
del Prado; di ville! di villule! di villoni ripieni di villette isolate […] gli
architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco, un po’ tutti, i
vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo,
«digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi.
La nota di Gadda rimanda esplicitamente al modello
catulliano (RR I 404; Flores 1964: 390):
Catullo, carmina, XXVI: «villula nostra non ad Austri
flatus oppositast neque ad Favoni ecc.… verum ad milia quindecim et ducentos»:
(di ipoteche). «O ventum horribilem et pestilentem!» [La mia villetta non è
opposta ai soffi dell’Austro né del Favonio… bensì a quindicimila e duecento
sesterzi. Proprio un vento terribile, e malsano!].
Un componimento catulliano del quale Gadda si è
ricordato più volte è il carme 29, un’invettiva violentissima contro il
corrotto e avidissimo Mamurra e i suoi protettori, Cesare e Pompeo. Nella Appendice alla Cognizione l’autore, difendendosi
dall’accusa di barocchismo rivolta alla sua scrittura, si impegna
a ribaltarla nel «più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo, e il
G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”» (RR I 760). Tra gli esempi che
illustrano l’affermazione figura il seguente: «le trippe del pretore Mamurra,
panzone barocco, erano trippe barocche»; l’allusione è alla incredibile
rapacità e voracità del personaggio, che Catullo rappresenta come capace
unicamente di «divorare grassi patrimoni» (Flores 1964: 383). Dallo stesso
carme catulliano proviene l’aggettivo «superfluente» (traboccante, detto
di Mamurra in 29, 6), riferito all’immagine in dagherrotipo del generale
Pastrufacio (assai somigliante a quella di Garibaldi) che, sempre nella Cognizione,
campeggia su una delle pareti della camera di Gonzalo («superfluente dalle
cornici dei ritratti»: RR I 625). E altre coniazioni lessicali che sicuramente
rimandano a Catullo trapelano qua e là dall’opera di Gadda (Flores 1964: 389
sg).
Al carme 29 allude scopertamente anche il titolo di
uno dei racconti degli Accoppiamenti giudiziosi, Socer generque,
scritto nel ’47, e ambientato nelle cerchie della borghesia italiana del ’41:
il rimando è al v. 24 del carme, socer generque perdidistis omnia
[suocero e genero, ogni cosa avete mandato in rovina]; da parte di Gadda, il
riferimento catulliano a Cesare e Pompeo è trasferito su Mussolini e Galeazzo
Ciano, ai quali nel racconto è dedicato un excursus tanto spassoso
quanto degradante.
è abbastanza tipico della scrittura gaddiana il fatto
che le sue citazioni da autori antichi e moderni subiscono talora una
trasformazione così profonda che qualsiasi interprete faticherebbe alquanto a
riconoscerle, se non fosse per le esplicite dichiarazioni dell’autore. Leggiamo
un brano delle Meraviglie
d’Italia,
dove lo scrittore indugia sugli odori
che emanano da una pescheria milanese:
nel nostro animo si accendono, traverso le nari,
fantasie di fiumi e di fontane e di docce, e i cori gocciolanti dei tritoni e
delle nereidi, con codazzo infinito di pesci d’ogni freschezza e sapore, d’ogni
sale e d’ogni melma. (SGF I 59)
Per l’espressione «d’ogni sale e d’ogni melma» Gadda
rimanda in nota ai vv. 2-3 del carme 31 di Catullo, in liquentibus stagnis
marique vasto [nelle distese chiare dei laghi e nel vasto mare]; la
trasformazione opera qui in funzione talmente degradante, che l’interprete stenterebbe
assai a coglierla. Analoghe considerazioni valgono per un passo del Castello
di Udine, che descrive la villa del Cardinale d’Este a Tivoli:
Cento fistole, quinarie tutte, comandò il Cardinale in
delizia, e poi mille, da beverarne le piante a’ cipressi. (RR I 258)
Le note apposte da Gadda a questo testo fanno
scherzosamente il verso a quelle di un commento, compresa la registrazione
delle dubbiose perplessità dell’interprete, posto di fronte a un passaggio irto
di difficoltà esegetiche. Egli ci informa, per esempio, che «piante» sono qui
da intendersi quelle dei piedi (per gli alberi, le radici); e che tutto il
passo va pertanto tradotto nella maniera seguente: «Il cardinale
(Ippolito II da Este, 1509-1572) commise ai fontanari la fontana delle cento
cannelle e i giochi tutti dello specioso giardino; ma la freschezza dell’acqua abbevera
le radici dei cipressi». Qualche sorpresa è riservata dal seguito del commento:
I due numeri ricordano Catullo, Carm. V, 7
«mille deinde centum» [mille e poi cento (i baci che il poeta desidera da
Lesbia)], la qualità degli alberi Orazio, Carm. II, XIV, 22-24 «neque
harum quas colis arborum | Te praeter invisas cupressus | ulla brevem dominum
sequetur» [Di questi alberi che fai coltivare e possiedi per poco tempo nessuno
ti seguirà, a parte l’odioso cipresso]. (RR I 278)
Un interprete di particolare acume sarebbe forse
riuscito a individuare la citazione da Catullo; ma era praticamente impossibile
scovare, all’interno del dettato gaddiano, il ricordo dei versi di Orazio, pure
essenziale per cogliere l’allusione alla precaria transitorietà dei fasti del
Cardinale. La maniera in cui Gadda trasforma e rivela i testi che nutrono la
sua immaginazione letteraria sembra davvero fatta per invogliare alle più
avventurose speculazioni intertestuali.
Nel 1948 nelle squallide lande di Pasquasia (o Assoro?) si suicida il
fratello di Leonardo Sciascia. Dirà di lui lo scrittore a Biagi; “mio fratello
era giovane, faceva il perito minerario, e si è suicidato per ragioni che non
ho mai capito”. O non ha voluto ammettere? Il padre tiranno?
Certo da allora Sciascia è tutt’altro uomo. Ci pare che
abbia bandito il riso a squarciagola. Fotografie tante ma solo un timido
rappreso sorriso: melanconico, quasi sfuggito. Con le figlie è tenero, tenerissimo.
La primogenita Anna Maria stecca con gli studi: in una toccante intervista ci
svela che il padre fu ancora più tenero; non osava rimproverarla di nulla. Non
importava.
Ricomposto, fatte austere onoranze
funebri (ebbero i preti ad accordare le commemorazioni in chiesa?), seppellito
sul frontale del quarto cimiteriale di nord-est, chi pensò alla epigrafe? Non
certo ancora affermato scrittore, ma Nanà non era già uomo dal dire banale e
dal frasario convenzionale. Tre versi, latini, di Catullo, furono scolpiti sulla
lapide marmorea. Questi:
omnia tecum una perierunt gaudia
nostra,
quae tuus in vita dulcis alebat amor.
E da allora per Nanà i gaudia furono composti, umani, sofferti.
Ci pare che non scrisse più versi. Amò i suoi figli, adorò i suoi nipoti: lui,
in fondo ateo, insegnò loro persino il catechismo. Sbocciava una religiosità
irrazionale, non metafisica, pregna solo di empiti per la giustizia, per la
libertà, per l’intima norma etica. Fu rigoroso sino al moralismo.
Questa è Racalmuto, nutrice di
ingegni e di derelitti, di gioiosi virgulti che d’incanto si rattristano e
fanno anche anzitempo, per atto volitivo, il passo estremo. Non meritiamo la
gogna che ministri ignari ci dispensano.