Roma 1°
febbraio 1995
Rev.mo
Mons. De De Gregorio,
come monomaniaco della
storia del mio paese (Racalmuto), mi rivolgo a Lei per avere lumi e consigli in
un campo in cui dire che Ella è l’indiscusso Maestro è dire poco.
Da ultimo,
ho studiato il periodo del Vescovo Giovanni Horozco de Covarruvias de Leyva. Il
Suo lavoro in “Miscellanea in onor di Mons. Noto ..” non poteva che essere
illuminante ed imprescindibile.
Racalmuto
vi compare a pag. 70 per le vicende del
(provvisorio ?) segretario([1])
di quel vescovo, Alessandro Capoccio che fu anche “arciprete di Racalmuto
(1597).” Qualche spunto lo avevo trovato
nei libri parrocchiali della Matrice di Racalmuto ([2]).
Non risulta che il Capoccio abbia però frequentato quel paese; per converso, il
suo successore Vincenzo del Carretto appare di dubbio titolo e restano ignote
le date d’insediamento e di cessazione della sua arcipretura.
Nel Suo
studio si accenna, pure, alle vicende del chierico Giacomo Vella e dei
contrasti del vescovo con il conte Giovanni del Carretto a proposito delle
spoglie dell’arciprete Michele Romano (pag. 73). Ne ho trovato riscontro nell’Archivio
Segreto Vaticano, presso il fondo della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei
Regolari. Trattasi di una fonte che non mi pare adeguatamente sfruttata per la
storia della diocesi agrigentina. Qualche acenno è rinvenibile in Raffaele
Manduca: Il sinodo di Giovanni
Horozco (Girgenti 1600-1603) ([3]):
il valente studioso - cui va attribuito il merito di avere rintracciato la
fonte vaticana - appare piuttosto distolto dall’oggetto della sua ricerca sui
sinodi ed ha tralasciato i tanti documenti di rimarchevole portata per la
storia della diocesi di Agrigento.
Ne scrivo,
ora qui, a Lei perché nel fondo vaticano trovasi del tutto svelato l’incidente
del vescovo spagnolo relativo al libro messogli all’indice, e bruciatogli
pubblicamente. Con grande acume, Ella osserva (pag.91): «Non sembra che possa
trattarsi dell’edizione agrigentina degli Emblemi...». Ed infatti è così: causa
della traversia di cui parla il Pirri fu un libercolo intitolato «De Rebus suis» ([4]).
Incautamente il vescovo si era lasciato andare, sia pure sotto forma allusiva,
al disvelamento dell’inchiesta papale sui suoi contrasti con i nobili locali, e
con i Lo Porto in particolare. Il libro destò l’irrefrenabile ira di papa
Clemente VIII, che ne volle la messa all’indice. Ecco perché il volume - come
dice Manduca - «non si trova nella stessa busta..» [ASV-SCRV, Positiones 1602
G-M]. Da lì ebbero inizio i veri guai del vescovo spagnolo che ad un certo
punto non seppe far di meglio che ritornarsene in Spagna, sia pure con
rilutannza del Papa, presso cui interpose i suoi buoni uffici l’ambasciatore
spagnolo a Roma il Duca di Sessa.
Una sintesi
del libro ce la fornisce il massimo accusatore del vescovo, il gerosolimitano
fra don Francesco Lo Porto con una
infuocata lettera del 27 agosto 1602 ([5])
ove si stigmatizza il fatto che il vescovo avesse potuto impunemente mettere «in sbaraglio, e perdita di vita, robba, e
reputatione alcuni gentiluomini, et anco persone private di quella città e
diocese, e che non satio anchora di simil impietà contro l’uso et buona regola
de Prelati, che devono dar christiani, et honesti documenti altrui, habbia
voluto per compiacer sè stesso far fede al mondo della malignità, odio, et
intrinseco veleno che contra quelli haveva concepito nell’intelletto suo, si
come ha fatto per un libretto stampato in forma di Apologia /quale si presenta
alla S.tà V./ macchiando altrui come si legge in detto libretto in
scholiis lib. 3 da fol. 119 insino à 230 in diverse figure, et propositioni, ma
però bene intese da Diocesani...». Il vescovo, peraltro, aveva fatto
carcerare un membro della potente famiglia Lo Porto per una denuncia di un
bestemmiatore greco, certo Daniele Landano - questa almeno la confusa e poco
credibile accusa del Lo Porto. Della vicenda il prelato si era poi vantato
proprio in quel libretto, sotto forma di apologo. «La qual carcere - viene infatti nella lettera annotato - è rinfacciata da detto Vescovo in detta
Apologia à f. 195..». In conclusione, «la
casa del Porto hà voluto far sapere il tutto alla S tà V., acciò si
degni ordinare precisamente che si facci riflessione nel detto processo ... et
che si pigli quel temperamento, et resolutione dalla S tà V. come
padre universale, che la qualità del fatto ricerca, et la coscienza della salute di tante anime,
et conservatione di quelle comporta...».
Quella lettera
fece effetto sul pontefice: v’è apposta una annotazione che senza dubbio è di
pugno di Clemente VIII. Recita: «tradatur
congregationi Indicis ut prohibeatur». Quindi i fatti accennati dal Pirri
che Lei richiama alle pagine 90 e 91
(resoconto quello del Pirri che mi pare però abbia bisogno di qualche
rettifica).
Gliene sto
scrivendo perché credo che quel libro tornerebbe particolarmente utile alla
storia di quel periodo di vita agrigentina. E’ possibile che presso le
biblioteche agrigentine (la Lucchesiana, quella del Seminario, oppure presso
gli archivi delle grandi famiglie agrigentine)
non ne sia rimasta traccia? Forse la copia inviata dal Lo Porto al Papa
è stata conservata dalla Congregazione dell’Indice. Per quanto ne sappia, gli
archivi dell’Indice non sono, però, messi a disposizione degli studiosi non
accreditati, quale è il sottoscritto. Forse Lei potrebbe avervi accesso,
sempreché ovviamente la questione Le interessi.
Il fondo
della Congregazione dei Vescovi e Regolari non si limita a questo evento della
Chiesa agrigentina, ma abbonda di documenti relativi ad uno scabrosissimo
processo per sodomia che coinvolgeva il canonico Navarra (che Lei cita nel Suo
libro su “Cammarata” pag. 218). La
crudezza del linguaggio usato per stendere i processi verbali mi impedisce di
darne qui qualche stralcio, anche se - almeno
per la storia della lingua siciliana -
ne varrebbe la pena. Per altro verso, un fuoco incrociato di memoriali
tra i nobili di Agrigento ed il Vescovo illustra una congiuntura veramente
torbida e, secondo me, tutt’altro che esemplare per la Chiesa agrigentina e per
la figura del vescovo spagnolo, che ne esce veramente malconcio. Certo è che se
Lei mi consentisse uno scambio di vedute in proposito, ne sarei veramente
lusingato.
[1]) Lo indico con questo
titolo, dato che così lo chiama il Vescovo nella sua lettera del 13 settembre
1595, inviata a Roma per accreditarlo nella ‘Visita ad Limina’. «Quando no venira negocios en essa Corte aque
embiar a Don Alexandro Capocho mi
secretario, me diera contento embiarle ...” (Archivio Segreto Vaticano -
Relationes ad limina - Agrig. 18/A f. 1)
[2]) Vedasi ARCHIVIO
PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO
- atti di matrimonio - 1582-1600. Le
annotazioni, a margine degli atti, sono: 'DIE 16
Julii XI ind.nis 1598: Pigliau la possessioni don Vito Belloguardo e don Antonio d'Amato procuratori
di don Lexandro CAPOZZA per l'arcipretato di Racalmuto come appare per
atto plubico'.
'DIE 14 agusti XIIe ind.nis 1599 - Pigliao la
possessioni don Vito BELGUARDO canonico di Gergenti et don Maziotta di la magiore ecclesia di Racalmuto per don
Lexandro Capocia';
[3]) in Archivio Storico per
la Sicilia Orientale 1991 - anno LXXXVII - fasc. I-III - pagg. 242-296.
[4]) Ne fa cenno il Manduca,
ma, o per svista tipografica o per erronea trascrizione, lo indica col titolo «deribus suis» (op. cit. pag. 260 n. 42).
[5]) Riportata pressoché
integralmente dal Manduca op. cit. pagg. 259-260.
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