sabato 22 febbraio 2014


in tale veste misi in imbarazzo persino il Ministro VISCO (cfr. lettera n. 502878 del 5 luglio 2010 che se mi dovesse pungere vaghezza gli direi all'ex ministro: ma lei ha letto lo Sbarco in Sicilia del mio discreto amico Cesare Geronzi?). In atto sono intenzionato a consigliare a tutti questi candidati sindaci di Racalmuto di fare mille passi indietro, se no gli scrivo il romanzo di famiglia

A scanso di spiacevoli equivoci, tengo a ribadire che io Calogero Taverna figlio di Giuseppe Taverna e di Saccomando Rosa nato a Racalmuto il lontanissimo 10 maggio 1934 in via Fontana n. ° non sono né storico né microstorico, non sono professore (Dio mi scanza e libbera) né ho voglia alcuna di fare il sindaco di Racalmuto (anche se il Signore - che non è mio amico -mi dovesse appioppare questa croce non mi sottrarrei alle mie responsabilità civiche). Sono semplicemente un ex altissimo giovane direttore della Banca d'Italia, settore ispettivo del sistema bancario; per contrasti con Ciampi mi sono distaccato e sono passato come ispettore esterno tra i superispettori di Reviglio, ministro delle Finanze (allora si chiamava così); alla direzione generale della Mediterranea di Faustino Somma ma in realtà del Ministro Colombo non  resistetti manco sei mesi e quindi mi divertii a sostenere i soci di minoranza nella depredazione di Capitalia; in tale veste misi in imbarazzo persino il Ministro VISCO (cfr. lettera n. 502878 del 5 luglio 2010 che se mi dovesse pungere vaghezza gli direi all'ex ministro: ma lei ha letto lo Sbarco in Sicilia del mio discreto amico Cesare Geronzi?). In atto sono intenzionato a consigliare a tutti questi candidati sindaci di Racalmuto di fare mille passi indietro, se no gli scrivo il romanzo di famiglia

Repetita

sabato 7 dicembre 2013

Santa Maria Maddalena Penitente, di Pietro D'asaro pittore secentesco di Racalmuto

Come bibliografia sul quadro di Santa Maria Maddalena trovo nel catalogo Sciascia citato solo il Tinebra di pag. 187 ove leggo solo "nell'anno 1622 il rev. Santo Agrò, nel suo testamento gli [ a Pietro D'Asaro. n.d.r.] legava 20 onze, per dipingere il quadro di Santa Maria Maddalena penitente, il quale trovasi ora in un altare vicino al SS. Sagramento, nella chiesa di Maria SS.Annunziata, nostra Matrice." Condensata così la notizia è persino innocua quanto vacua. Non legittima Sciasia a scrivere che codesto prete, senza infamia e senza gloria, addirittura "volle' bella una chiesa e vi profuse il suo denaro".  Invero il Tinebra in altra parte del suo volume storico di Memorie aveva precisato che " la chiesa Madre, che allora era detta S. Antonio Abate, assumesse quella di Maria SS. Annunziata, come chiamasi al presente." Vi sono qui improprietà storiche che credo di avere dipanate nei miei scritti resi pubblici a mie spese. Annota il Tinebra: "Devo qualche notizia intorno alla matrice ed alla Chiesa di Maria SS. del Monte alla gentilezza del Signor Salvatore Sferlazza che ringrazio." Su che basi fondasse quelle conoscenze il sig. Sferlazza, non mi è dato di sapere. Per quel che qui interessa, il Tinebra aggiunge "Risulta poi dal testamento del rev. Santo Agrò del 1622 che lasciava questi in legato all'arciprete Traina certe somme per finire le due navate, che erano ancora incomplete, ed onze 12 al pittore Pietro Asaro, per dipingere il quadro di Maria Maddalena penitente, il quale attualmente trovasi posto nell'altare suddetto". Come sia andata veramente la faccenda coll'arciprete Traina crediamo di averla sufficientemente ricostruita: Giustifico che oggi ignorandosi quanto ormai reso acquisito ad una critica storica alquanto documentata, si continua a reiterare topiche disdicevoli per un paese che ha prestigio culturale da difendere. Non posso giustificare i dispensieri di fondi del Comune che optano per efebici scultorelli alabastrini anziché dotare  biblioteche scuole e centri studi, di strumenti e fonti per un approfondimento della storia locale.. Della faccenda Traina abbiamo già qui e nel nostro blog detto oggi abbastanza e non vogliamo ripeterci ancora.

Mi scrive in via riservata l'ex sindaco Petrotto cose che avevo già letto pubblicamente. Ecco come ho risposto.

Mi scrive in via riservata l'ex sindaco Petrotto cose che avevo già letto pubblicamente. Ecco come ho risposto.

OnlineSalvatore Petrotto
Riguardo alla disastrosa gestione del ciclo dei rifiuti a Racalmuto, bisogna tener conto dei seguenti dati ufficiali. Alla data di febbraio 2011, il Comune di Racalmuto era a credito di oltre 100 mila euro nei confronti dell'ATO rifiuti. Ciò significa che i costi dei servizi di igiene ambientale, sino alla primavera del 2011, sono stati interamente pagati dal Comune di Racalmuto e dai cittadini, attraverso quanto versato nella casse della società di gestione dell'ATO. Pertanto, quanto è stato sinora incassato, attraverso il recupero dell'evasione, e quanto ancora si incasserà, per legge, deve affluire nelle casse del Comune che è obbligato a destinare tali somme per diminuire il costo dei servizi, restituendo i soldi incamerati in più ai cittadini di Racalmuto. Anche perché la legge istitutiva della tassa sui rifiuti prevede che il comune o gli enti delegati alla riscossione di tale tassa, non possono incassare più di quanto previsto per l'effettivo costo del servizio. Da ciò ne consegue che tutte le somme recuperate con la lotta all'evasione, vanno, tassativamente, redistribuite ai cittadini di Racalmuto. Considerato anche che la stessa commissario liquidatrice dell'ATO rifiuti che sta procedendo con queste, per dir poco, insolite riscossioni, Teresa Restivo ha attestato ufficialmente ai funzionari del comune che le somme che il comune deve corrispondere all'ATO per il periodo che va dal 2012 ad oggi si aggirano attorno a 700 mila euro; è chiaro che la rimanente parte di quanto introitato in più va redistribuito ai cittadini di Racalmuto. Inoltre, va sottolineato che, i commissari prefettizi che amministrano Racalmuto, dal 2012 ad oggi, avrebbero potuto far funzionare a pieno regime il centro comunale di raccolta dei rifiuti differenziati, realizzando un risparmio per i cittadini di almeno il 30%, rispetto a quanto finora hanno imposto con le tariffe che, per lo scorso anno, per le civili abitazioni superavano i 7 euro a metro quadro e quest'anno addirittura oltre 8 euro a metro quadro. Faccio presente che nel 2011, la tariffa sui rifiuti era di poco più di 3 euro per metro quadro, sempre per le civili abitazioni. Questi signori, in meno di due anni, l'hanno quasi triplicata, facendola passare da 3 ad oltre 8 euro a metro quadro! Uno scandalo se si considera che i cittadini ed il Comune di Racalmuto, come ripeto, per stessa ammissione di tutti i funzionari dell'ATO e del Comune, alla data del 2011 avevano pagato sino all'ultimo centesimo di quanto dovuto all'ATO rifiuti, a differenza di comuni quali Agrigento, Favara o Porto Empedocle che sono debitori, ancora oggi, di almeno 25 milioni di euro; un'enormità!
Ma la più grossa anomalia riguarda l'illegale affidamento diretto dei servizi, i cui importi, per ogni anno oscillano attorno ai 50 milioni di euro, per un totale di almeno 300 milioni di euro, da parte dell'ATO AG 2, di cui facevamo parte sino ad agosto 2013, assieme ad altri 18 comuni. Affidamenti diretti assicurati, ovviamente, sempre alle stesse ditte, la SAP, l'ISEDA e la SEAP; il tutto senza avere espletato alcuna gara d'appalto, se si eccettua una gara -farsa espletata a dicembre del 2011 alla quale hanno partecipato sempre e solo le stesse ditte citate, che, si sono rifiutate inizialmente di accettare, a gara vinta, quanto stabilito nel bando, e cioè un importo a base d'asta che era di 45 milioni di euro. Ma qualche settimana dopo, grazie ad un'insolita maggiorazione di oltre 6 milioni di euro assicurata dai vertici dell'ATO AG 2 hanno continuato ad effettuare il servizio, sino ad oggi, si può dire!
Tali scandalose procedure, fatte di proroghe, affidamenti diretti ed addirittura di questa incredibile gara al rialzo, anziché al ribasso, sono state peraltro sanzionate dall'Autorità Nazionale di Vigilanza sugli appalti e dall'Autorità Nazionale Antitrust, oltre che dalla Corte dei Conti siciliana, esattamente nel 2010, 2011, nel 2012 ed anche nel 2013. Basta spulciare a tal proposito i siti istituzionali di queste autorità di vigilanza e controllo per rendersi conto delle illegalità fin qui commesse dal 2007 ad oggi, oltre che dagli ATO rifiuti siciliani, anche dalla stessa Regione Siciliana, attraverso i suoi commissari regionali ed i suoi assessori.
Ma il colmo è che a Racalmuto, anche i commissari prefettizi, pur avendo avuto due anni di tempo per espletare una regolare gara d'appalto, hanno preferito invece, affidare anche loro direttamente, con ordinanza, e sempre alle stesse ditte, SAP, SEAP ed ISEDA i servizi di igiene ambientale del paese di Sciascia, dal primo settembre ad oggi.
Con costi esorbitanti che si aggirano attorno ai 130 mila euro al mese, solo per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti; mentre per quanto attiene degli inspiegabili costi di gestione e quelli relativi al personale del comune mantenuto appositamente inattivo ma impropriamente caricato nelle bollette, si aggira attorno ai 60 mila euro al mese! Cosi da arrivare, per il 2014, alla modica cifra di 2 milioni di euro!
Anche i commissari inviati dal Ministero dell'Intenro, così come in precedenza aveva fatto per 6 anni l'ATO AG 2, non hanno tenuto conto che bisognava, per tempo, effettuare delle regolari gare d'appalto. Hanno inoltre tralasciato di far funzionare a pieno regime il centro di raccolta differenziata, pur essendo il comune dotato di mezzi, attrezzature e personale sufficienti ad assicurare la raccolta e lo smaltimento di quasi il 100% di tutti i rifiuti, addirittura anche per conto di altri due comuni a cui il centro è destinato e cioé Grotte e Castrofilippo.
Se i rifiuti del paese di Sciascia fossero stati raccolti correttamente, e cioè nel rispetto delle leggi ambientali e di quelle relative agli appalti pubblici, non avremmo raggiunto l'incredibile e cocente record di pagare, per dei servizi pessimi ed illegali, la tassa sui rifiuti più cara d'Italia, ossia ben oltre 800 euro l'anno, per un appartamento di 100 metri quadri!
Ed invece, anche i commissari hanno preferito favorire sempre le stesse ditte, attraverso le loro ordinanze che prescindono dall'utilizzo dei mezzi, delle attrezzature e del personale del comune.
In compenso, le spese del personale inutilizzato, vengono ugualmente caricate in bolletta! Così noi registriamo un doppio costo, quello delle ditte esterne e quello del personale interno al comune, non utilizzato per i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti!
Basterebbe fare funzionare il centro comunale di raccolta per la differenziata, effettuando il servizio di raccolta porta a porta, per diminuire di almeno il 60% il costo dei servizi, fin qui illegalmente assicurati attraverso tali anomale e sospette procedure sanzionate, come detto, da tutte le autorità di controllo e vigilanza, nazionali e regionali!
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Carissimo, la mia valutazione è diversa ed è molto più cattiva di quella tua. Credo che tu stasera non eri presente alla Fondazione. Non è che io sia stato perspicuo nell'illustrare questa maledetta faccenda della monnezza. Ma qualcosa credo di avere detto. Certo le responsabilità sono plurime e imperdonabili. Sostengo però che il passato va POLITICAMNTE SEPOLTO, perché di passato si muore e nessun racalmutese è innocente. Mi escluderei perché io a Racalmuto non ci sono mai stato come "residente". A me interessa l'avvenire. Ho qualche idea. C'è qualcuno che la condivide? Penso di no. Meglio così posso morire in santa pace.
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Fine della conversazione in chat

 

Ma mi resta la soddisfazione di essere seguito in mezzo mondo come un modesto ricercatore di cose storiche racalmutesi non inquinate da cervellotiche congetture.

Il mio blog CONTRA OMNIA RACALMUTO è stato ieri visitato anche in Brasile e in Polonia. Non sarò di sicuro sindaco di Racalmuto perché la corrispondente del Giornale di Sicilia non ha voglia di farmi propaganda subliminale; men che meno resterò microstorico di Racalmuto nei millenni perché i miei compaesani amano le frottole dei futuri podestà. Questo pomeriggio avremo già l'insediamento ufficiale del Podestà che vuole Buttafuoco e Ivan e Antonello ed anche il mio Circolo Unione. Ma mi resta la soddisfazione di essere seguito in mezzo mondo come un modesto ricercatore di cose storiche racalmutesi non inquinate da cervellotiche congetture.

Certezze dunque mai più, ma ragionate ipotesi tante e queste indicano che il luogo di sepoltura era in Santa Maria di Giesù fracassato negli ultimi anni del millennio scorso da improvvidi restauri.


Lillo Taverna Lascia stare; non accoarti alle stupidaggini pseudo giornalistiche del mio paesae. La tormba di Pietro D'Asaro non la potrà rinvenire CON CERTEZZA nessuno. Due i testi che ci potevano dare contezza del luogo della sepoltura di Pietro D'Asaro: IL LIBER in quo adonotata reperiuntur nomina plurorum etc. e il registro parrocchiale dei morti di quel periodo ove si era soliti indicare il luogo della sepoltura. Che Pietro D'Asaro possa essere stato seppellito in quel di Palermo è cervellotica congettura (smentita peraltro dal "liber") anche perché l'11 giugno del 1647, data certa della sua morte il D'Asaro era "commodo" come amava scrivere padre Alessi sulla ssia di un suo religioso compaesano, un settecentesco frate sanbiagese, e siccome era anzi molto "commodo" aggiungo io si sarebbe preordinata una tomba molto lussuosa con tanto di lapide segnaletica. Ma questo non l'ha fatto perché la bella tomba se l'era già comprata un trentennio prima dall'arciconfraternita di Santa Maria deorsum. Quindi è pressoché sicuro che là fu sepolto il giorno dell'11 giugno 1647 " gratis cum clero" perché era clericus coniugatus" come da diplomi vescovili di cui naturalmente ho copia. Se davvero vi fu sepolto là non abbiamno né potremo mai avere certezza perché già il "liber" in cui si annota il giorno della sua morte l'abbiamo cercato per giorni con il solerte mons. Martorana e non vi è più traccia. (Questo si spiega perché l'arciprete Puma è morto in piene funzioni arcipretili e quindi non ha lasciato inventario  e il suo "spoglio" risulta sempre più disperso per l'incuria della CURIA arcivescivile cui automaticamente accede quel lascito parrocchaile e per indolenza dei BENI CULTURALI che tanti soldi pubblici per la salvaguardia dell'eccezionale archivio storico della Matrice di Racalmuto). Inoltre il registro dei morti del periodo non si rinviene da tanto tempo. Io penso che sia stato l'abate Acquista, alla stregua di quel che fece per l'atto di battesimo dell'altro benerito e celebre medico del Seicento, Marco Antonio Alaymo ad asportarlo. Certezze dunque mai più, ma ragionate ipotesi tante e queste indicano che il luogo di sepoltura era in Santa Maria di Giesù fracassato negli ultimi anni del millennio scorso da improvvidi restauri.

venerdì 21 febbraio 2014

Circolo unione di Racalmuto

Esattamente 40 anni fa di questi tempi stava cambiando totalmente la mia vita.

Caldo giugno allora come adesso, venerdì pomeriggio arriva un ordine da Via Nazionale 91: allertare tre ben specifici giovani ispettori della Vigilanza bancaria per un colloquio col signor Governatore nella mitica grande sala del San Sebastianino. Vengono chiamati il futuro direttore generale dottor Enzo De Sario, il siciliano dottor Calogero Taverna, l’impeccabile dottor Piero Izzo. E’ la fine di giugno del 1974. Cose vecchie di 38 anni fa si direbbe, ormai archiviati. Sì, se in questo afoso come allora giugno non avessimo un epilogo (in parte assolutorio, in parte scandalosamente accusatorio) di un viluppo conflittuale tra poteri costituzionali: magistratura e governo dell’economia.

Quel giugno del ’74 si chiuse con un compiacente decreto Sindona, assolutorio di uomini e cose; il corrente giugno ha tappe capovolte: un’assoluzione ormai non più riparatrice ed una salomonica riduzione di pena da parte di togati inidonei a comprendere le superiori leggi che governano i mercati, le borse, l’ordito bancario, la bilancia dei pagamenti, le sorti dell’economia nazionale. De jure condito e de jure condendo precipitiamo tra vacui e perniciosi lacci e laccioli, che miseramente di taglio privatistico soffocano la superiore salvaguardia dell’economia nazionale dell’intera comunità statuale (se lo Stato è ancora un valore).





Nel pomeriggio del venerdì di quell’altro giugno aspettammo a lungo prima di essere ricevuti dal Governatore: lo trovammo costernato oltre misura. La mattina la borsa inglese aveva rubricato le tre banche milanesi che facevano capo a Sindona come "inaffidabili". A nulla era valso un elogiativo fondo sul Corrierone, a firma Enzo Biagi. Banca Unione e Banca Privata Finanziaria si erano ingolfate in un forsennato intreccio speculativo in cambi ed avevano accumulato perdite stratosferiche. Come?

Banca Unione veniva affidata all’ispettore dott. Enzo De Sario (che poi diverrà direttore generale B.I.). La "Privata" al sottoscritto, esodato anzitempo per incompatibilità politica. Al sottoscritto ebbe a presentarsi dopo pochi giorni dall’inizio della visita ispettiva un nobile banchiere dell’epoca: Clerici di Cavenago. Esibì una carpetta di carte, in parte fogli di un elaborato elettronico, in parte un rendiconto manuale a scalare di c.d. operazioni in cambi.

Mi fu detto che trattavasi di outright a catena andati in male alle varie scadenze, chiusi con swap i cui spot chiudevano l’operazione a termine mentre i forwod rinviavano a data futura gli outright risultati perdenti per irrazionalità dei cambi a termine. I nuovi cambi a termine gonfiavano quelli di mercato per l’inglobamento degli interessi maturati. Naturalmente il discorso mi risultò del tutto ostico. Per riprendermi andai a comprare il don Chischotte e così consolarmi col fatto che il povero Sancio ebbe a rifiutare l’argomento del suo principale il quale lo voleva convincere che non v’era sagrista di Spagna che osasse privare il suo pievano del gusto di infliggergli un buon numero di nerbate.

Resta il fatto che le banche poi finirono, come noto, in malora ma difficilmente riuscireste a trovare in una qualsiasi delle sentenze di condanna un qualche accenno a tali operazioni veramente esiziali per il patrimonio aziendale, causa precipua del dissesto fallimentare.

Eppure di trattava di una speculazione valutaria dell’ordine di $ 3.659.511.933, nonché di DM 2.905.097.000, di Lgs. 10.000.000 e di Frb. 175.000.000 di acquisti a termine contro $ 4.036.975.594, nonché di DM. 1.153.650.000 e di Lgs. 25.000.000 per vendite a termine. E ciò solo per la Banca Privata Finanziaria: vi erano poi le analoghe immani perdite della Banca Unione. Ne parlavo alle pagg. 46-47 del mio rapporto; ne discettava a lungo uno strano libro, SOLDI TRUCCATI, che la Feltrinelli pubblicà il primo gennaio 1980 e, pur andato a ruba, spari incomprensibilmente da tutte le librerie dopo solo pochi giorni. I magistrati di Milano lo ebbero in mano ma non ne fecero niente. Perché non riuscivano a comprendere l’ordito antidoveroso di forte rilevanza penale? Certo allora risultò patriottico non capire, tanto vi era la travolgente vulgata di uno strabiliante concerto mafioso. Sciascia, che un qualche pizzicotto lo ebbe a soffrire in questo dannato caso Sindona, scrisse, sempre sul Corrierone, di professionisti dell’Antimafia.

Senza mezzi termini ci va ora di affermare che quella caterva di operazioni speculative in cambi finiva col determinare alle scadenze un tale sconquasso valutario e borsistico che non poteva non venire registrato dalla Banca d’Italia e dell’UIC. Infatti, le Autorità sapevano. Tacevano? No. Non potevano che essere gli artefici occulti di ciò che ritengo una contro speculazione del concerto delle Banche Centrali (Unione Sovietica in testa). Ma ciò sarebbe acqua passata se la storia non si ripetesse. Ribadiamo che allora le Autorità riuscirono a fare apparire il tutto come una insana diavoleria mafiosa del Sindona. Non era un santo. Se fu suicidato, pace all’anima sua.

Quel che mi interessa è l’attualità. Allora di questa dissennata speculazione valutaria la magistratura non capì o non le fu fatto capre alcunché. Non vi è un accenno nelle sentenze delle varie condanne. Eppure avevano (tra l’altro) il mio rapporto ispettivo. Eppure potevano leggere il libro Soldi truccati, ove l’aspetto valutario del crack Sindona è tutto spiattellato.

Oggi una domanda si impone: perché allora tanta sonnolenza mentale della magistratura milanese e perché invece oggi si inventano colpe immaginarie di intelligenti, saggi, avveduti grand commis dello Stato. Il Governatore della Banca d’Italia ha mansioni costituzionali di difesa della moneta, e di avvedutezza nrl sovrintendere alla politica bancaria. Il Governatore è anche il banchiere dei banchieri: deve agire in armonia con le peculiarità dei mercati e delle borse, necessariamente aperti alle aggressioni speculative mondiali. Se è impari, perché astretto dai lacci e laccioli di cui parlava Carli, beh! povera economia finanziaria nazionale.

Ed un Governatore non può non servirsi di banchieri ultra abili e competenti, anche arditi nel contrastare i callidi giochi degli speculatori esteri e soprattutto "estero-vestiti". La calata degli Unni non si rintuzza con l’ottusità del perbenismo togato. Non vi sarà più la Costituzione Materiale con cui inventare la "rilevanza" della Banca d’Italia a livello della legge suprema, ma ogni suo connesso fatto va visto alla luce del riflesso costituzionale visto che in definitiva si tratta di apicali Autorità monetarie. Un gretta osservanza di regolette di diritto privato possono significare inadempienza istituzionale ben più colpevole.





Calogero Taverna





 



Pare che il fascicolo di cui qui si parla (e di cui vi sono foto nel mio CONTRA OMNIA RACALMUTO) sia andato smarrito. Certo che lo spoglio dell'arciprete Alfonso Puma stia andando disperso nell'assoluta noncuranza della CURIA ARCIVESCOVILE di Agrigento e dei Beni Culturali sempre di Agrigento che pure in passato tanti soldi pubblici ha dispensato specie nella conservazione dello storico archivio parrocchiale.

 

 

 

 

 

 

Pare che il fascicolo di cui qui si parla (e di cui vi sono foto nel mio CONTRA OMNIA RACALMUTO) sia andato smarrito. Certo che lo spoglio dell'arciprete Alfonso Puma stia andando disperso nell'assoluta noncuranza della CURIA ARCIVESCOVILE di Agrigento e dei Beni Culturali sempre di Agrigento che pure in passato tanti soldi pubblici ha dispensato specie nella conservazione dello storico archivio parrocchiale.

 

 

martedì 19 novembre 2013


Sacerdoti racalmutesi PAX

L'ultimo foglio del MIO liber.Non c'è padre Puma. Non so i quello in matrice. Calligrafia di padre Puma: Affettuoso commiato all'arciprete Casuccio e tenero ricordo del piccolo padre Chiarelli.   Al n. 483 figura solo l'indicazione nominativa del sac. Sferrazza (Papa) Calogero. Vi era ottimo raporto fra loro.Perché padre Puma non abbia aggiunto altro nn so e non riesco a spiegarmelo.

Il Tenente Federico Di Vita

Mi accingo a scrivere qualche nota commemorativa del Tenente Federico Di Vita trucidato in Eritrea. Trattasi di un racalmutese che partì come volontario nella guerra di Etiopia, diciamo in quella terra che fu teatro di un nostro maldestro sfortunato e poco glorioso esperimento coloniale. Noi italiani per fortuna non siamo colonialisti. In quel tempo, in quell'epoca di massima adesione dell'Italia al Fascismo, poteva succedere che delle anime nobili si infervorassero di amor p...atrio e partire volontari in terre ostili e rimetterci la pelle. Questo il caso del Tenente Di Vita. Comunque la pensiamo, onoriamo chi per convinzione ha sacrificato la propria vita per l'Italia.
Il Tenente Federico Di Vita fu un mito per i fascisti racalmutesi di fine anni Trenta. Riportiamo qui un foglio ove si venera la figura di questo martire fascista. A lui si intitola il "CAMPO" allestito al Serrone come colonia elioterapica. Leggiamo_

IL CAMPO TE. F. DI VITA - GIL (Gioventù italiana del littorio) -
Graduato di giornata (c. c. Tulumello Giuseppe)
Capo Posto - (C.V .V. Capraro Carmelo)
GUARDIA - ( Balilla Alessi Lui; e v. c. Arrisicato Luigi; Brucculeri Calogero)
TROMBETTIERE - Avang. Di Francesco Michele
C.V. di giornata (c. V.V. Di Marco Francesco)-
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L'aiutante Maggiore IL COMANDANTE
Luigi Di Marco Agrò Giovanni
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giovedì 20 febbraio 2014

Chi mi parla di etica nella gestione dello Stato, di uno Stato o Regione Europea che dir si voglia non sa quello che dice o non sa quello che i nostri bistrattati governanti devono fare per contenere lo spread che non dipende dall'Italia ma dagli speculatori esteri, che se ne fregano di ogni morale nazionale, cattolica, apostolica romana-

Perché significa andare fuori tema. Quella della crisi è una favola per gonzi per far credere che non si può fare a meno di prendere certe misure di rigore. Vallo a far capire al popolo italiano che è finito lo stato assistenziale perché ormai siamo UE e non più l'Italietta di un tempo. E come regione UE dobbiamo sottostare a ferree leggi di mercato. Io sono comunista e non amo il MERCATO e le sue leggi, ma non mi posso permettere di non capirle. Per me è un atto estremamente immorale che un medico poi mica tanto bravo prendeva seicento mila lire per una visita  e per ogni visita ad un ammaliato di Aids (O COME DIAVOLO DI DICE) COSì COME è IMMORALE CHE UN MEDICONZOLO DEL SALVATOR MUNDI DI ROMA PRETENDA da mE DUECENTO EURO  solo per leggermi le strane lastre che mi ha ordinato e che ho dovuto pagare 600 euro perché diversamente dovevo aspettare a 80 anni due anni. Per me è immorale che certe signore della LSU di Racalmuto prendono i soldi che prendono per starsene a casa. E quando c'è stata la crisi alla Regione e questa non pagava a pagare è stato l'INPS rubando i soldi che in quarant'anni di contributi ho pagato. Potrei continuare all'infinito. Ma la politica deve tollerare tutto ciò e quindi provvedere comunque. E quando provvede non c'è etica che tenga, Se i colossali speculatori cinesi ti aggrediscono l'euro in Italia, non c'è etica che tenga, i governanti, i bistrattati politici devono  provvedere altrimenti salta l'economia nazionale. Chi mi parla di etica nella gestione dello Stato, di uno Stato o Regione Europea che dir si voglia non sa quello che dice o non sa quello che i nostri bistrattati governanti devono fare per contenere lo spread che non dipende dall'Italia ma dagli speculatori esteri, che se ne fregano di ogni morale nazionale, cattolica, apostolica romana-

La valle del Salto- Archeologia e storia

POGGIO POPONESCO VARIE

A QUELLI DEL CICOLANO

Signori miei, è inutile che ci giriamo attorno. Di fronte ad una pagina come questa del Lugini, l'ottocentesco medico Domenico Lugini c'è da rimanere esterrefatti. C'è forse una lapide commemorativa a Santa Lucia di Fiamignano? No! Perché? per campanilismo. Prima non era di Petrella e a Romanin non interessava; ora non è del Corvaro e non dico a chi non interessa, ma il nome ce l'ho sulla punta della lingua.

Una epigrafe di sconvolgente sapienza storica, dove sta? nel museo dell'Aquila? Ci sta ancora dopo il terremoto?

E' quella sotto? corrisponde al vero che trattasi di "un frammento di epigrafe in lingua OSCA che trovasi nel pavimento della vasca della fontana della villetta di Collemaggiore. Ricorda un 'Meddixtuticus' di NERSE"

Sempre colpa degli altri? Non è colpa anche nostra? Anche mia, che frequentando da quarant'anni Baccarecce e Santa Lucia di Fiamignano non ho attivato i canali cui potevo accedere per il debito recupero?

Questa estate ho parlato con il signor sindaco di Pescorocchiano: una grandissima e degnissima persona, credo che abbia detto: "ma questo è un maziano, cosa viene mai a rompere gli zebedei a me".

Perché gli ho rotto gli zebedei?

a) perché deve recuperare la tassa sull'occupazione del suolo pubblico da parte di codesti imprendibili privati arraffatisi il fascista ma giuspubblicistico LAGO DEL SALTO;

b) perché Nerse non è PROPRIETA' della CURIA VESCOVILE ed io che sono comunista me ne frego dei vescovi tanto amici dei democristiani tanto potenti anche bancariamente a Pescorocchiano. E perché la Curia non è proprietaria? Andate a guardare il catasto. Già, ed allora salta tutta la proprietà immobiliare del Cicolano vittima del geometra CAVALLARI. Ed a me che me ne frega! E tu PUBBLICO UFFICIALE sei condannato ad agire altrimenti incappi in omissioni di atti d'ufficio, in omissione di rapporto SENZA INDIGIO. Già e così non mi eleggono più! Già: e non ti eleggono più. E chi se ne frega.

c) Guardi che dice qui: che si tratta di lingua OSCA. Sa che significa che qui in questo paradisiaco lembo di terra ma in capo al mondo fioriva una civiltà, OSCA, ancor prima che i romani riuscissero ad imparare ad usare l'aratro a chiodo per quella nota storia di Romolo e Remo. E allora? Allora occorre che questo che è un PATRIMONIO DELL'UMANITA' diventi tutto u museo per la salvaguardia di beni irripetibili. Dunque sfrattiamo, per inziare, la Curia per possesso abusivo di ciò che è inalienabile, imprescrittibile, inusucapibile. Sì e così non mi eleggono più ancor più che pria!!!d) Ma basta? no. Bisogna indagare sull'origine del legittimo acquisto di quello che è il museo personale dei MORELLI.

Dove? a Nesce.

Etc. Etc. Calogero Taverna






E’ il 5 marzo 1574. A Poggio Poponesco arriva il terribile visitatore Pietro Camaiano, noto anche nei testi di storia nazionale e della chiesa di quella scombussolante metà secolo del risorgente umanesimo. La sua visita in tutta l’intera diocesi reatina è bene inquadrata, trascritta ed annotata dal prof. Vincenzo di Flavio - una miniera che andrebbe socializzata nell’intera provincia, comune per comune, mettendo mani anche al portafoglio degli enti autarchici coinvolti.

Da lì sono scaturiti appunti già resi noti ad illustrazione del collegato centro abitativo di S. Elpidio, quello della sopra spiegata lapide. Non è tanto una digressione quanto un completamento dell'indilazionabile richiamo alla doverosità di interventi pubblici razionali e coordinati per una impellente salvaguardia del patrimonio archeologoco, storico e di risalto ben oltre i lmiti di un quasivoglia e comunque giudicabile angolo visuale localistico. Qui è in gioco un patrimonio dell’umanità negletto e reso sempre più fatiscente. Ogni rihiamo è dunque oltre che doveroso improcrastinabile.

Pietro Camaiano salito sul l'altura del Castrum fa annoatre ai suoi amanuesi che sotto vi era un mportante oratorio "oratorium S.Tomae. Rector D. Marius Antonii" Chi era questo don Mario Antoni?

Pievano ancora non affermato, ma appartenente ad una famiglia di preti molto rdicati nella ripartizione delle parrocchie e delle rettorie del Cicolamo, per il momento detiene solo codesta rettoria ai piedi del Castrum di Poggio Poponesco. Ampia, potente e ramificata è la schiera degli ecclesiastici di quella famiglia di Antoni, che per vari indizi ci pare quella che poi diede la spinta alla conquista del feudo della Baronia, gli Antonini appunto. Da qui già emerge l'opportunità che con i debiti doverosi finanziamenti prubblici si redigano i quadri propopografici del Cicolano, secondo ormai la già consolidata scuola proosopografica.

A Corvaro, infatti, dominava il canonico don Angelo Antoni; don Cesareo Antoni è rettre ben remunerato; come beneficiario risulta Domenico Antoni ; emerge pure Francesco Antoni; Giacomo Antoni è canonico; tante prebende per don Giovanni Antoni; spiccano pure don Giovanni e don GiovanniFrancesco; semplice chierico è invece Giovanni Paolo di Cabbia; ragguardevoli canonici sono Luca e Marco Antonti; impotante frate conventuale è Marco Antoni da Roccarandisi; spicca don Mario Antoni come rettore di Poggio Poponesco, come si è detto; e in ultimo abbiamo il canonico Sante Antonini.

Il Camaiano fa annotare burocraticamente: "l'oratorio di San Tommaso sorge entro il Castrum Podii Poponischi" su cui si estende la giurisdizione dell'illustrissimo don Popmeo Colonna: La fabbrica è discreta ma fanno rifatte le coperture di alcune parti del tetto. Come di consueto, aggiunge che l'intonaco va riparato e quindi imbiancato. Si mettano vetrate nelle finestredel lato destro, qeel particolare tipo di finestre volgarmente chiamate "impannate". Sia dotata la porta di una buona chiave e che resti chiusa nei tempi morti. Certo per eseguità delle rendite l'altare è malconcio e pertanto si eviti di celebrarvi messa. Si provveda comunque a dotare la chiesa di portantina, pallio, e di un calice sacro, delle suppellettili insomma necessarie al sacrificio della santa messa. Necessita anche una croce con due buoni candelabri e in fondo all'altare si faccia dipingere una sacra immagine. Al rettore, don Mario Antoni, vanno appena 5 Giulii annuali. Ad ogni modo deve esibire le lettere della sua officiatura.

E subito il Camaiano scende giù nel molto più importante centro abitato, Fiamignano.

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Non è inopportuno riportare certi stralci della stampa che si è occupata della questione.


Santa Lucia di Fiamignano ha una gloria perenne: la coltissima ed molto erudita penna del medico Domenico Lugini. Da quel vetusto testo si può dissentire, ma non se ne può prescindere; lo si può (e lo si deve) migliorare, integrare e correggere come ha fatto il vostro espertissimo Marco Buonocore nei vostri pregevolissimi quaderni; eppure costui specifica: “Lugini …. [riconsidera] la raccolta epigrafica berlinese portando a conoscenza quei documenti iscritti che solo la sua conoscenza capillare di quella zona era in grado di compiere”. Io, l'altra sera, Lugini non l'ho sentito citare neppure per sbaglio, Che vi sia preclusione campanilistica?


Fulcro del vostro interesse, gira e rigira, è la Grotta c.d. del Cavaliere. Meritevolissimo e apprezzabile interesse. Solo però che se diventa mania monotematica, perde di pregio. E Lugini e Grotta c.d. del Cavaliere alla fine sono inscindibili. Apprendo da Lugini (pag. 43) “ gli avanzi delle mura pelasgiche …. fra Alzano e Monte Maggiore [sarebbero] gli avanzi del tempio di Marte ricordato da Dionisio”. Tra codesto tempio e la Grotta c.d. del Cavaliere vi sono attinenze, contiguità, collegamenti?


La grotta del Cavaliere – mi pare– ha tre date importanti: 1830, data della sua scoperta (?) da parte di codesto archeologo inglese per nascita ma romano di adozione, collegato col sommo Vespignani, marito tranquillo di una splendida romanina di trent'anni più giovane ; 1981, sua riscoperta e specie dopo il rinvenimento di una malcerta epigrafe votiva, suo magnificato accreditamento a ipogeo cultuale; quest'ultimo ventennio, oggetto di accuratissimi studi e ricerche da parte del dottore Cesare Silvi.


Mi permetto di osservare: il nome è equivoco e mi sembra congettura simpatica quella di associare il toponimo Cavaliere all'archeologo inglese, appunto perché inglese; se ipogeo dedito al culto dei morti, occorre scientifica investigazione per saperne di più su tale presenza religiosa ad Alzano, trattandosi in definitiva di ipostatizzazione di una delle tante discese agli inferi, vuoi come quelle omeriche vuoi come quella sfumata virgiliana (meglio collegabile con tale manufatto d'epoca romana). Potrebbe anche trattarsi di devianze esoteriche non rare in epoca tardo impero. Sia chiaro una semplice pietra votiva non ci dice molto. Ma allora perché non fare scavi stratigrafici e appuramenti archeologici non dilettantistici? Non sono per il momento fattibili? La progettazione e lo studio propedeutico è sempre possibile.


Resta l'arcano del collegamento tra il tempio di Marte del Lugini e questa grotta dall'equivoco nome. La scienza progredisce per espansioni, non certo per preclusioni campanilistiche.


Nella letteratura – e non parlo solo di Lugini–queste misteriose mura del Cicolano si sono sempre chiamate Pelasgiche o Ciclopiche, termine forse improprio ma sempre inequivocabile. Se oggi giapponesi (estremamente curiosi, si sa) e cinesi (i turisti dell'avvenire, secondo me) vengono da 'ste parti abbacinati da letture sull'arcano delle mura pelasgiche o ciclopiche e si avventurano tra questi affascinanti Monti Cicolani, chissà quale loro delusione vedendole volatizzare per dar posto a incolori, inespressive, insignificanti MURA POLIGONALI. Perché si sono cambiati nomi e toponimi consolidati? Per pignoleria scientifica? Per far dispetto al vicino ma non amato Lugini? Solo se unite le diverse scuole di pensiero, solo se fra loro si accende un rispettoso dialogo, si fanno salti di qualità. Diversamente si cade in un mercantilismo che fa presto ad esaurirsi, specie se incombono epocali crisi involutive in campo economico.


Si vuol portare alla Grotta c.d. del Cavaliere lo sbocco di un'importante arteria stradale d'epoca romana? Se si fanno congetture, perché no? Ma congettura per congettura, resto legato all'ipotesi del Lugini (cfr. pag. 58). Ho sbirciato il lavoro della Migliario pubblicato sempre nei vostri pregevoli quaderni. Mi riservo di approfondirne lo studio. Spero che il Geometra Mario Balduzzi ripercorra le investigazioni del nonno–anche lui ha conoscenza unica del territorio - e magari filmando dimostri quanta ragione aveva il Lugini. Forse Virzì se ne dispiacerà, ma, via!, ha da ricavarne spunti anche lui, più avvincenti di quelli a dire il vero molto avvincenti che ci ha illustrato l'altra sera.


Occorre dialogo. Ho sentito che la struttura ecclesiale del Cicolano è poco nota. Falso: specie dopo la pubblicazione dell'immane lavoro di Vincenzo di Flavio (anno 2010); ce n'è materia per puntualizzazioni. Ad esempio tanto vi ho appreso sulla chiesa di Santa Lucia tanto cara al vostro socio Antonio Marrucci, che tanta, troppa materia ha su questa fabbrica cultuale, a presidio di un'antica statio romana, nonché di un crocevia di diversa ma continua importanza nell'evolversi delle realtà storiche. Mi chiedo perché, in occasione delle prossime celebrazioni di Santa Lucia, don Maceroni, il dott. Di Flavio, il dottor Cesare Silvi, il dottor Antonio Marrucci, il prof. Buonventre, l'architetto Filippo Balduzzi e la sua collega che hanno studiato quella chiesa, e, se è permesso, un forestiero quale io sono (che pure qualche fruttuosa ricerca anche negli archivi segreti vaticani li ha fatti, forse demolendo taluni idola teatri), tutti costoro o taluni o anche tal'altri non vengono adunati nelle scuole di Santa Lucia da codesta meritevole rivista per una tavola rotonda coordinata da don Maceroni o magari da Lei stesso su questo capisaldo della locale storia (romana a mio avviso), forse bizantina, credo non longobarda, borbonica, con grave dispetto del vescovo reatino, e delle stranezze dell'Acotral di un tempo o della Cotral d'oggidì? Che paradigma dell'intera storia del Cicolano e quindi di Petrella, Pescorocchiano, Borgorose e Fiamignano, così tanto per mia spocchia geografica!







Ai piedi del vecchio diruto Poggio Poponesco sorge un convento antico ma non antichssimo; ai tempi in cui scriveva il Lugini era ancora in piedi ma adattato a carcere mandamntale. Quel che incuriosisce noi è quale ruolo, quale servizio sociale, quale necesstà misionarie potè avere un cenobio in zona comunque inospitale, staccato da un catrum con tante esigenze ma anche compiti difensivi. legato più ad un decadente centro urbano che non al piuttosto lontano nuovo centro abitativo (Fiaminano).



Studi, ricerche, convegni ve ne sono stati, ma non pare atti a dipanare almeno uno dei tanti dilemmi dei quali ne abbiammo abbozzati solo alcuni. Nel nuovo millennio, al Cicolano vanno destinati fondi pubblici, attenzioni scientifiche e persino misure riparatrici. Se n'è già scritto e con toni anche ripiccati.

Resta singolare che un convento francescano - in sospeso tra il fortilizio medievale e il nuovo sempre più egemone centro abitativo che tanti esuli, ovviamente scontenti, dal vetusto Poggio Poponesco, in crescente fase di fatiscenza, hanno avviato e ravvivato con cipisglio consono ad una insorgente piccola borghesia in terre feudali di grandi signori disrtti a Roma - possa ivi sorgere e consolidarsi..

Quel convento ad ogni modo, se non dei primordi della irrefrenabile diffusione francescana, la segue da presso. Nelle approfondite e professionali ricerche di Luigi Pellegrini (in Chiesa e Società dal secolo IV ai giorni nostri - Italia Sacra n. 30) questo convento ai piedi di Poggio Poponesco non è citato. Insomma nel celebre "Provinciale Ordinis Fratrum Minorum" di fra Paolino da Venezia non è presente, mentre lo è quello di Radicaro (il n, 8 sub tituolo S. Jacobi de Radicaro, in Custodia Reatina). E qui possiamo risalire al 1230. "segnalati da Fra Paolino da Venezia appaiono già fondati e operanti [conventi francescani] nel 1230., ibidem).

Una cosa comunque resta evidente che tra il 1230 e i primi del Novecento, quel convento l ospita i nuovi soldati del Poverello d'Asssii che con sai lisi, con cingoli, questuando poveri tra poversi, e Poggio Poponesco a monte e Fiamignano nei dirupi di sotto, venivano catechizzati, edotti nelle cose di Dio, educati ad una religione sobria e caritatevole, ed in un certo qual senso addottorati. Pecore, capre ,bovini, terre aspre. ed orti in piccoli fazzoletti di terra servivano ad uomini che accudivan loro ma secondo fede in Dio nella evangelica predicazion di un francescanesimo sobrio e con miserie umane come tutti e come sempre ma temperate, mortificate. Ne è nato un costume di vita che ci pare di cogliere ancora quando, estranei, villeggiamo nelle calde estati, fuggitivi da Roma in calore tra foschie deprimenti.










La chiesa di Sant'Elpidio è ben descritta (nella sua decrepitezza del 7 marzo del 1574) dal vescovo visitatore Camaiani. S. Elpidio era allora dominio di Giovanni Giorgio Cesarini mentre il territorio contiguo apparteneva al celeberrimo Pompeo Colonna. La chiesa era "inornata et incomposita"; aveva tetto fatiscente solcato da "rimis" (al mio paese si chiamano 'gutteri'; voi non so) " “ et pluvia tutum reddendum" ( come dire che bisognava adoperarsi per non continuare a farvi diluviare dentro). Cento i nuclei familiari, quasi 500 abitanti che per allora e per paesi di montagna erano davvero tanti. Là non si parla di reperti archeologici, ma mio cognato Antonio Marruci mi assicura che dopo vi fu un vescovo reatino diligentissimo in queste cose. Sia come sia, per me varrebbe di più il recupero di quel tempietto romano di cui parla il Lugini ove rimaneva ancora affissa la lapide ora elevata a improbabile decorazione di una parete interna di una chiesa cristiana sicuramente a suo tempo eretta per sommergere ogni residuo di un meraviglioso culto pagano. (Mi permetterà di avere in cose di religione, gusti opposti).














Poggio Poponesco - un sito archeologico da salvare -un unicum per l'archeologia medievale.


In un vecchio atlante geografico del '700 POGGIO POPONESCO appare, vivo, vitale, distinto ed autonomo. Ai suoi piedi, sotto la sua egemonia si distende tra dirupi sino al vecchio fiume Fiamignano, ma apparechiaro che è altra cosa.


E' la vetusta delle origini innanzi tutt a distungue il vecchio insediamento abitativo POGGIO POPONESC appunto dal languido defluire di csali modesti accanto alle pretenzione dimore dei nuovi ricchi del tempo FIAMGNANO.


E sopra Poggoìio Ponensco, come si vertice egemone il Csatrum, medievale sez adubbio, ma antico sino ai tempi del dominio dei frati farfensi ce sinora solo il grande Lugini ha cercato disbirciare. Nel mezzo di una teoria di castelli mediaveli, Il Lugini ne conta una rentina. Nessuna ricerca storica, nessuna salvaguardiacorale, nessuna spesa "produttiva". Solo l'assurdo di quelche ottuso campanilism che di un qualcuno di codestimanieri ve ha fatto il topos di una dell più inverosimili tregende cinuecentesco. Buona coa se in contiguita ad una esaustiva; pessima, se sbricciolante un bel quadro d'assieme


Ed in relazioni a tanti castelli, ma a noi qui interessa per necesità di tesi solo il Castrum di Poggio Poponesco., sempre il dodevlossimo Lugini gettauna luce non ancora adeguatamente scandagliata tra castello e rete viaria nel reatino antica e collegabile all'anno 1151 e alle notule farfenses degi ann 1148 e 1149. Si finanziino pure tracciati incredibii che dall'estremo Nord arrivano sino a Pachino, ma si dia premineza agli studi e alla salvaguardia dei lughi nell'aleo erio e scientifico impostoc dal Lugini (pag. 132)..


Quindiil castrum sopra Poggio Poponesco è faccenda farfense eperanto dislocabile nella prima metà del XII secolo? Il Castrum, molto probabile-occorrono scavo mirati, srati stratigrafii. sondaggi addirittura da laboratori atomici (come sperimentato positivamente a Catania, con la cività sicata il cui epicentro sarenbbe Racalmuto ma per giochi di poteri trslatoa milena). Quanti soldi occorrono? Tanti, tantisssi, ma frattanto perché non si inzia con meno, molto meno, con ricorso a fonti più disceret ma più accessibili? Posso lamentare incurie ancestrali (qundo rinasxe il medico Lugini?)? posso ravvisare incurie, inidoneità, abulie, campanilisi gretti edostativi. acciie, indolenze, dispersioni colpevoli?


Ma basta non perseverare. A chi serve il processo alpassato, anzi ad un rosario di occasioni perdute.


Ma il centro abitativo, no! E' di molto antecedente. Ci soccorre sempre il lugini con questedue epigrafi: la dodicesima e la tredicesima: Molto più complessa, rica e di importanza storica, politica e giuspubblicistica sconfinata. A noi è bastato esibire la foto della lapide murata improvvidamente esenza alcuna raffinatezza culturle in alto all'interno di unciesa cattolica a S. Elpidio - adirittura con la compiacenza di un rappresentante delle autorità di settore ui incombeva qualche dovere di rapporto - al ua specialista francesse che subito mi inabissò on una marea di dari scientifici, storici ed istituzinali degni di un gran trttato di diritto roano, spunti che abbaiamo passato a QUELLI DEL COCOLANO che senza inducia e con molta ortesia hanno reso di pubblica ragione, nel territorio.


Figurarsi de dovessi sottoporre il quesito circa il significato di vasche, fistlae e sigilla ahenea in una lapide romana. E questa lapide dove è stata rinvenuta: nell'ex "convento dei cappuccini di Fiamignano, come dire ai pidi di Poggio Poponesco. Quindi Poggio poponesco risale per lo meno al primo secolo dell'era cristiana.


Non tutto merito del Lugini, ma Grutero (1020, 4, 5), Doni (11, 17) Martelli (tom. II, p. 160), Garrucci (pg. 163 del Bullettino. E come se non bastasse addirittura il Mommsen (I.N. 57 13) al tempo del Lugini edora nei ponderosi epigrafi del CIL.


Ma tanto ben di dio è stato preso in considerazioe in ltre un secolo? Se non andiamo errati, solo la lodevole ma impari inziativa di un volenteroso dilettante locale. Che hanno fatto le autorità di setore? Quale ancor piccolo investimento le dispendiose e dispersive fonti pubblche? Non è arrivato iltempo di riparare.


Alorabastano due milleni di vita per Poggio Poponesco? No! ancora più indietro. Accanto alcastrum squadre di archeologi professionististranieri hanno rinvenuto, studiato, salvaguardato (almeno pro tempore) un insediamento umano preistorico. Vi sono pubblicazioni; non ho avuto modo di studiarle e valutarle. Comunque cose pregevolissime, egne dello stadio scientifico raggiunto nel settore. Cose che in ogni caso non possono venire lasciate - come credo che avvenga-all'incuria ed alla omessa vigilanza,ad un pascolo in mano a sonnecchiosi e talora infoiati albanesi (certi fatti di cronanca sono quelli che sono e pur un filntropo non razzista come me ne resta turbato. Un intensificarsi della viglanza campestre non sarebbe aupicabile, sia per le nostre donne, sia per il buon nome della quasi totalità degli extracomunitari costretti ad inselvatichirsi cone pecore, porci e bovini quanto in egole con le esose pretese del fisco e ell'Inps non so.) Aggiungas che quei ritrovmenti sul crinale di un'altissima montagna non patrimono dell'umanità ome il castrum, come l'abitato residuo (m di questo dpo). Non vi sono costi cospicui che possano assolvere da inadiempienze e da cerenze di investimenti necessari, improcrastinabili, ineludibili, impellenti.


E quanto all'epigrafia romana dell'intero Cicolano e specificatamente a queste due ladipi di Pogio poponesco non vi sono parole pr sottolilearne l'importanza. A mo' di esempio, facciamo qui un richiamo d qantosi è di recente polemizzatoin ordine ad una lapide egrafale ogi mal posta in una chiesa di S. Elpidio. Rieniamo di voner qui riportare i termini essenziali del corelato dibattito:




Didattito sull'epigrafia del Cicolano - La lapide di S. Elpidio


da Calogero Taverna (Note) Lunedì 13 maggio 2013 alle ore 16.32












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· Calogero Taverna


Toto corde plaudo al ritorno sulle mura della chiesa di Sant'Elpidio della epigrafe lapidea risalente ad un arco di un paio di secoli dal I a.C . al I d. C. a dire dei tecnici. Certo mi sarebbe piaciuto che con gli strumenti scientifici d'oggidì e con le cognizioni altamente sofisticate dei nostri migliori archeologi, quell'arco si restringesse di molto, anche per meglio precisare i dati storici del Cicolano. A questo riguardo non so proprio se affiggere una lastra con incisi caratteri latini in alto su una parete esterna di una chiesa sia stata scelta oculata. Iniziare a conservare e ad esporre acconciamente in un antiquarium i tanti preziosissimi reperti archeologici del Cicolano molto gioverebbe alla ricerca storica.


Già quel L. CARCURIN[us?] molto probabilmente edile, per gli specialisti prosopografici potrebbe dir molto specie ai fini della datazione. Noi non sappiamo quel Q e quel TARONIA cui segue TERT ...se siano suscettibili di corrette e illuminanti letture archeologiche. In alto poi non so come si possano misurare le lettere incise (ammesso che non sia stato fatto) che consentono agli specialisti specifiche di importanza non trascurabile.Il Lugini - una volta tanto recuperato - ci avverte che quell lapide, già allora monca, non stava sui meri della chiesa, sibbene "in quel tempietto che sottostà alla stessa dove serve di capitello ad una delle colonne che ne sostengono la volta". Credo che il terremoto abbia fatto tabula rasa ed oggi nulla abbiamo. Magari per un eccesso di pignoleria, segnalo che la epigrafe pubblicata dal Lugini sta a pag. 91 della recente edizione e non a pag. 93 come scrive Mario Buonocore (a meno che non si riferisca ad altra edizione) nella pregevole rivista QUADERNO VALLE DEL SALTO del 1° dicembre 2007; rivista che va propagandata e adeguatamente supportata per il turismo dell’intero Cicolano.


solo una piccola precisazione: la lapide è stata messa sì, su di una parete, ma interna alla chiesa! =)


Calogero Taverna Grazie per la precisazione; del resto (com metto troppo tra parentesi: orribili zeppe; ma spiego in CONTRA OMNIA RACALMUTO perché scrivo così) cerco di pararmi i colpi non essendo sul luogo né del luogo.


Calogero Taverna Non per polemica, solo per una discussione che possa dare qualche frutto. La lapide messa in chiesa a S. Elpidio non so cosa possa avere di sacro, almeno per la religione cattolica. Suppongo ce il tempietto di cui parla il Lugini possa essere stato un residuo di un tempio romano esistente tra il primo secolo a.C. e i primissimi secoli d. C. Un alto funzionario dell'impero romano poteva benissimo mettervi una epigrafe lapidea a futura memoria. Dobbiamo al Buonocore se sappiamo che ne parla nei CIL il Mommsen al n. 4126. Dovrei andare in biblioteca a consultare tale pagina d l CIL, non credo che ne avrò tempo. Dovrei anche consultare grossissimi volumi prosopografici per vedere se trovo qualcosa su un Carcurinus edile. I testi di Mommsen sulla storia romana dovrebbero contenere qualcosa. Mi domando: cosa ci sta a fare materiale simile dentro una chiesa cattolica sia pure di un paesino con nome greco, alla stregua di Sant'Anatolia, Sant'Agapito, S. Ippolito ... Che ci stanno a fare tanti toponomastici greci in una limitata enclave? Non pensa che questi ed altri quesiti potrebbero avere allettante risposta in cartigli attorno a tanti bei reperti archeologici. Avete tanti immobili pubblici ormai in disuso e quanta attrattiva per turismo colto avrebbero antiquarii del genere? Ricordo che tempo fa al Museo Pigorini di Roma attraeva molto la tomba ricostruita di un guerriero longobardo che era stata ritrovata in Val di Varri. Ora non c'è pù nulla nelle sale d'esposizione. el Cicolano quella tomba non sarebbe più confacene? Avete tanta ricchezza archeologica, storica, culturale: valorizzatela. So bene che siete ora in pochi ed è già molto che taluni bei paesini resistono ancora. Ma io per imposizione politica debbo essere ottimista.


posso dire che molto probab ilmente la lapide, con nessuna rilevanza dal punto di vista cattolico è stata "rimessa" in chiesa per due motivi: 1) è stata da lì prelevata in seguito al terremoto del 1915 che ha devastato la Marsica ed anche la quasi totalità del nostro paese, ivi compresa la chiesa (poi perchè fino al 1915 fosse lì io non lo so)


2) la chiesa credo che sia l'unico luogo che permette di poterla visionare a TUTTI i cittadini di S.Elpidio senza andare a ricercarla nei varii musei (ad esempio molti dei resti, oggetti reperti del nostro paese sono nel museo di Borgo S.Pietro o a Rieti, ed io che ho 32 anni, non sono mai andata a cederli, figuriamoci i nostri bei vecchietti).


per quel che riguarda la toponomastica posso dire che il nostro paese porta il nome del Vescovo S.Elpidio poichè leggenda dice che tale Vescovo si era recato a Roma dalla Francia, paese dove attuava il suo operato, e sulla strada del ritorno morì propr...Altro


Calogero Taverna Ho molto apprezzato le sue cognizioni e soprattutto il suo interesse alle cose della storia locale. La mircostoria - che peraltro non dà gloria e per di più fa perdere quattrini -è la mia mania; mi sento il più grande microstorico di Racalmuto che per di più vanta un libro come Le Parrocchie di Regalpetra di Sciascia. In tale contesto -più che plaudente nei suoi confronti-mi permetta di contrapporre alcuni miei dissensi. Non parlo di MUSEI (ho attaccato il Pigurini, figurarsi!) - ma di ANTIQUARIUM. Per quel che conosco io, perché lasciare ai drogati il piano terra del mostro cementizio di Santa Lucia? Ben altro vi sarà a Sant'Elpidio. Quelle delle monache di S. Pietro sono riparazioni dell'allagamento fascista della valle del Salto: buono per l'elettricità, mica tanto per voi cicolanesi: non vi pagano neanche le imposte per occupazione del suolo comunale. e correte il rischio di finire ora sotto Viterbo (pensi ai vecchietti come me!).


Calogero Taverna Aggiungo: correre nei musei è vizio forse solo di certi "bei vecchietti", ma andare a visitare sale adeguatamente illustrative nelle località cui si riferiscono i reperti antichi non ha ostacoli legati all'età, sibbene agli interessi culturali che non ...Altro


La chiesa di Sant'Elpidio è ben descritta (nella sua decrepitezza del 7 marzo del 1574) dal vescovo visitatore Camaiani. S. Elpidio era allora dominio di Giovanni Giorgio Cesarini mentre il territorio contiguo apparteneva al celeberrimo Pompeo Colonna. La chiesa era "inornata et incomposita"; aveva tetto fatiscente solcato da "rimis" (al mio paese si chiamano 'gutteri'; voi non so) " “ et pluvia tutum reddendum" ( come dire che bisognava adoperarsi per non continuare a farvi diluviare dentro). Cento i nuclei familiari, quasi 500 abitanti che per allora e per paesi di montagna erano davvero tanti. Là non si parla di reperti archeologici, ma mio cognato Antonio Marruci mi assicura che dopo vi fu un vescovo reatino diligentissimo in queste cose. Sia come sia, per me varrebbe di più il recupero di quel tempietto romano di cui parla il Lugini ove rimaneva ancora affissa la lapide ora elevata a improbabile decorazione di una parete interna di una chiesa cristiana sicuramente a suo tempo eretta per sommergere ogni residuo di un meraviglioso culto pagano. (Mi permetterà di avere in cose di religione, gusti opposti).


eheh... mi dispiace contraddirla, ma attualmente qui da noi non ci sono luoghi utilizzabili per poter esporre alcunchè... fino a qualche giorno fa si poteva pensare alla sala parrocchiale, ma ora è chiusa per la rimozione dell'amianto, e chissà quanto tornerà usufruibile, per tutto il resto non ho risposte, devo ammettere di essere mooolto ignorante in materia, sono ben altre le cose di cui mi occupo, per questo ritengo che la chiesa possa risultare uno dei luoghi più idonei per l'esposizione della lapide, forse sbaglio, m


Giovedì alle 11.28 · Mi piace


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forse sbaglio, ma conoscendo paese e paesani, credo che in altro luogo non si sarebbe potuta mettere


Calogero Taverna Capisco. Ogni estate questa splendida terra del Cicolano mi ospita liberandomi dai plumebi calori romani. Ne sono innamorato. Apprezzo tante grandissime persone e la civiltà raffinatissima che alberga da voi. Ma un piccolo difetto lo riscontro. Siete m...Altro


ha colto in pieno lo spirito paesano!!!!! complimenti! =)


Si sarà resa conto che io amo il Cicolano senza se e senza ma. Ma tutto il Cicolano e sono convinto che tanto si dorvà ancora fare. Certo molto è stato fatto e per merito esclusivo dei Cicolani, chiamiamoli anche Equi. Il frazionismo però qualche guaio l'ha prodotto. Vi sono quattro capoluoghi (Petrella, Pescorocchiano, Fiamignano e Borgorose, certo Corvaro scalpita) ma vi sono pure due o tre frazioncine (manco il 15% dell popolazione) che fanno comune a sé e determinano maggioranze in importanti istituzioni ove v'è il sistema capitario: quei sindaci là hanno determinato maggioranze rivolte più a favorirli che a far crescere il circondario. Mettiamo i fondi che vanno ripartiti per comuni a prescindere dalle dimensioni e dalle attese amministrative. Abbiamo posti remunerati che finiscono a piccolissimi comuni e vengono esclusi altri con maggiori titoli e competenze che hanno la disgrazia di appartenere a realtà comunali più consistenti. Il lago fu opera sì fascista ma come opera statale, perché allora tutto nello Stato niente fuori dello Stato. Poi quello Stato si chiamò Enel e con la mania delle privatizzazioni ora pare (così mi dicono) che l'opera non solo è privata o privatizzata che dir si voglia ma è passata di mano a realtà estere. I comuni dovrebbero incassare fior di quattrini. Pare vi sia una piccola consorteria locale che percepisce e ripartisce. Mi dicono che a Pescorocchiano arrivano sì e no 4-5000 euro all'anno. L'Ente delegato paga bene i suoi amministratori. Non so se mi spiego. In compenso, tutti - me compreso-paghiamo l'IMU più alta d'Italia. Proventi ben ripartiti ed adeguati al suolo pubblico comunale occupato sarebbero sufficienti non dico a non dover pagare nulla ma almeno aliquote contenute (sempre giuste comunque). Ho agitato la questione in un post qui gentilmente ospitato. Sollevo anche altre più spinose questioni. Vox clamantis in deserto. Pare che quello che interessa il Cicolano è non mettere in un antiquarium di Santa Lucia le tante epigrafi disperse e male affisse nei muri delle chiese o delle fontane o in muriccioli alti un metro a portata degli scarichi abrasivi delle auto. Oppure pagare fior d'avvocati per far tornare da Fiamignano una crosta di Santa Lucia nel vicinissimo borgo omonimo. Sarebbe come dire che qui a Roma dovremmo portare su al Casaletto il Colosseo perché forse la pietra fu portata là da questo periferico colle. Il Cicolano sia una sola entità amministrativa: non sono più di otto mila abitanti. Non si frazionino con campanilismi da secchia rapita, pena un irrefrenabile decadimento abitativo ed economico.


credo che ormai l'esito sia inevitabile... ciò che è fatto è fatto! siamo cresciuti con tali convinzioni: a noi di S.Elpidio non nominare Pescorocchiano, per l'amor di Dio (ed io sono tra questi ahimè o per fortuna?) e lo stesso vale dall'altra parte.....Altro


Giovedì alle 21.45 · Mi piace


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Calogero Taverna Le informazioni su di lui sono frammentarie confuse. Pietro da Natalibus lo identifica con un eremita originario della Cappadocia e venuto in Italia dove sarebbe morto. Lo scrittore Palladio lo ricorda come un eremita, vissuto presso Gerico per molti a...Altro


=) sono contenta che si sia appassionato così tanto alla nostra terra, e poi sapere che noi siamo bizantini e a Pesco longobardi mi rincuora, nella mia testa i bizantini sono più signorili (col significato odierno, naturalmente) dei Longobardi... ahaha


Giovedì alle 22.32 · Mi piace


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Calogero Taverna I bizantini sono i continuatori (talora in meglio, talora in peggio) della grande civiltà romana; i longobardi? Beh! Gli antenati di Bossi. Mi sa che sant'Elpidio ci guadagna. Augurissimi a lei ed a tutti gli abitanti di S.Elpidio


grazie infinite!!! tantissimi auguri anche a lei! =)


Quelli del Cicolano Una grande soddisfazione leggere su questa bacheca cultura storica e letteraria,specie del periodo di cui sono appassionato.Grande ammirazione per Calogero Taverna per l'accuratezza e la estrema conoscenza dei dettagli.Per non parlare della nostra Carola,che rappresenta la categoria di giovani di cui si è orgogliosi di averli nati e abitanti di questa nostra Valle.FB può essere anche luogo virtuale di aggregazione e scambio di idee e di cultura.


o


Calogero Taverna Una aggiunta: mia moglie nasce a Pescorocchiano ma la sua famiglia si trasferisce in un bel maniero a Baccarecce. Lì mia moglie abita per oltre 22 anni. Io trovo alloggio estivo in una casetta di ex monache in Santa Lucia di Fiamignano (ma non riesco a fare guerra a quelli di Fiamignano per il trafugamento di una icona di Santa Lucia). Se mia moglie origina dai longobardi, quelli che guerreggiavano in Val di Varri (vedasi Museo Pigorini), io dovrei rifarmi ai bizantini visto che al mio paese è stato nel 1940 ritrovato un tesoretto del V-VI secolo d.C. risalenti ad un paio di imperatori bizantini. L'attaccamento alle proprie radici è sublime, il campanilismo solo simpaticissimo diversivo


Ma l'importanza ell'epigrafia èattetata dagi interessi che robustistudiosi tedeschivi hanno dedicato. Certo si sono avvalsi delle relazioniscjientifiche nel CIS di uncolosso come il Mommsen. Ma sia come sia,eccoche già nel1804 unosudioso palare dell'Edille (ilquinto)che risisideva a S. Elpidio, il magistrato Carcovinus.


Val la penafarne qui una sufficiente sintesi.


Il personaggio di S.Elpidio viene citato in un testo tedesco moto importante- Si tratta di Carcurin


magistrato romano citato due volte nel testo:


3) i. Tüinius Pansa Sctccus tr. mil. 400 v. Chr.


PHIL0L06ISGHHIST0BISGHE KLASSE.


NEUE FOLGE. BAND V, 2.


BERLIN.


WEIDMANNSCHE BUCHHANDLUNG.


1904.


INHALT.


Wilhelm Schulze, Zar G-eschichte lateinischer Eigennamen.


------------------------------------------------------


4) Tappo: Tappurius = Mose fnasu: Masurius oben S. 190 Muso musu: Musurrius S. 196


carcu: Carcurin- S. 171 sq. vgl. mit S. G9. Tappilor(um) CIL V 5753 (Mailand). P. VilHus Tap-


pulus COS. 199 V. Chr. Also wie Letito: LentuluSj vielleicht auch wie Cato: Catulus. Plinius bringt


Catus und Corculus zusammen n. h. 7, 118. Man hat aber gewiss für das richtige Verständnis


von Corculus auch das etruskische Oentilicium xurcles x^^x^es Fabretti 2070 sq. zu bedenken.


3) Cafo: Cafumius Bapo: Bapumius SS. 137. 219 carcu: Carcurin- 172 Anm. 3 latuni:


Latumius 176. 178 sacu: Sagurus 223 manttial: Manturanum 274 Causo: Cauaorius 262 Caepio:


Ceporiua 351. Llaturnius 149.


Ci risparmiamo qui doglianze sulle colpevoli assenze delle nostre autorità di settore ed anche della cltura specializzata piùo o meno accademica. Prospettiamo quindi una istanza a correre almeno adesso ai ripari. Problema risolvibilae e quindi da risolvere immediatamente.





E’ il 5 marzo 1574. A Poggio Poponesco arriva il terribile visitatore Pietro Camaiano, noto anche nei testi di storia nazionale e della chiesa di quella scombussolante meta del secolo del risorgente umanesimo. La sua visita in tutta l’intera diocesi reatina è bene inquadrata, trascritta ed annotata dal prof. Vincenzo di Flavio - una miniera che andrebbe socializzata nell’intera provincia, comune per comune, mettendo mani anche al portafoglio degli enti autarchici coinvolti.





Da lì sono scaturiti appunti già resi noti ad illustrazione del collegato centro abitativo di S. Elpidio, quello della sopra spiegata lapide. Non è tanto una digressione quanto un completamento delindilazionabile richiamo alla doverosità di interventi pubblici razionali e coordinati per un impellente salvaguardia del patrimonio archeologoco, storico e di risalto ben ltre i lmiti di un qualsivoglia e comunque giudicabile angolo visuale localistico.Qui è qui un patrimonio dell’umanità negletto e reso sempre più fatiscente. Ogni richiamo è dunque oltre che doveroso improcrastinabile.








Il CICOLANO medio-piccolo borghese


Nei quaderni “valledelsalto.it” Salvatore Luciano Bonventre ben ci spiega e magistralmente ci illumina sulla grande rivolta sociale del Cicolano con l’eversione della feudalità sotto i “napoleonidi” in quel torno di tempo a ridosso della rivoluzione francese, subito dopo il 1806: il «composito e frastagliato panorama di 10 diversi e piccoli ‘Stati’» si componeva in due circondari (Mercato e Borgocollefegato), in quattro comuni centrali (Petrella di Cicoli, Mercato, Pescorocchiano e Borgocollefegato) e in ben ventiquattro frazioni ripartiti tra i comuni centrali (Capradosso, Staffoli, Borgo San Pietro, Petrella, Mareri, Poggioviano, Sambuco, Radicaro, Gamagna, Mercato, Tonnicoda, Girgenti, Macchiatimene e Roccaverruti, Leofreni, Pescorocchiano, Torre di Taglio, Poggio San Giovanni, Castelmenardo, Poggioreale, Collefegato, S. Anatolia, Torano, Corsaro, Spedino).


Si produce conseguentemente «un nuovo assetto della struttura sociale … e si provoca la fine del baronaggio come ceto dominante avendosi l’avvento della borghesia terriera come soggetto capace di gestire a proprio vantaggio le nuove politiche fondiarie riguardanti i beni demaniali, ex-feudali ed ecclesiastici in veste di protagonisti della formazione di un moderno Cicolano amministrativo.»


Dalla variegata società feudataria vengono fuori 217 redditieri (con più di 24 ducati di rendita registrati nel nuovo catasto che si custodisce a Napoli) che in qu<anto “proprietari” costituivano l’élite locale con diritti civici e con eleggibilità nei consigli decurionali.


Da nostre ricerche nell’ambito della prima visita pastorale di Mons. Camaiani la ripartizione abitativa del Cicolano può così raffigurarsi:

- STAFFOLI: 80 abitanti;

- PETRELLA: 100 famiglie (circa 450 abitanti)

- PONTE DELLA SPONGA 15 famiglie (circa 70 abitanti);

- MARERI: 35 abitanti;

- OIANO: 3 famiglie (non più di 15 abitanti);

- MERCATO: 90 famiglie (circa 400 abitanti, sparsi in quatuor villis parum ab invicem dintantibus);

- FIAMIGNANO: v. Mercato;

- MARMOSEDIO: 25 famiglie (oltre 110 abitanti);

- GAMAGNA: non precisato;

- SANT’AGAPITO: 40 famiglie (circa 180 abitanti);

- SAN SALVATORE: 35 famiglie (circa 155 abitanti);

- COLLEMAZZOLINO: 20 famiglie (circa 90 abitanti);

- SANTA LUCIA DI FIAMIGNANO: 28 famiglie (quasi 125 abitanti);

- FAGGE: 57 famiglie (oltre 250 abitanti);

- BRUSCIANO: 85 abitanti sparsi in quatuor villis;

- SAMBUCO: 72 famiglie (325 abitanti circa sparsi in quinqe villis);

- FORNELLO: numero di famiglie non segnalato;

- SANTO STEFANO: 30 famiglie (circa 135 abitanti);

- RADICARO: 40 famiglie (circa 180 abitanti);

- SAN PIETRO: 9 famiglie (circa 40 abitanti);

- ROCCA RANDISI: 35 famiglie ( circa 155 abitanti);

- SANT’ELPIDIO: 100 famiglie (450 abitanti sparsi in quinque villis);

- POGGIO SAN GIOVANNI: 35 famiglie (circa 155 abitanti);

- TORRE DI TAGLIO: dato anagrafico non segnalato;

- ALZANO: 45 famiglie (oltre 200 abitanti);

- CASTELMENARDO: 20 famiglie (circa 90 abitanti);

- CASTIGLIONE : dato anagrafico non segnalato;

- BORGOROSE: 72 famiglie (circa 325 abitanti);

- SANTO STEFANO: 17 famiglie (circa 75 abitanti);

- CORVARO: 120 famiglie (540 abitanti circa);

- CARTORE: 7 famiglie (oltre 30 abitanti);

- SANT’ANATOLIA: 100 famiglie (circa 450 abitanti);

- SPEDINO: 25 famiglie ( circa 115 abitanti);

- TORANO e VILLA TORANO: 100 famiglie (circa 450 abitanti);

- VILLEROSE: 35 famiglie (circa 155 abitanti);

- CIVITELLA: 28 famiglie (circa 125 abitanti);

- PESCOROCCHIANO: 40 famiglie (circa 180 abitanti);

- NESCE: 20 famiglie (circa 90 abitanti):

- POGGIOREALE: 35 famiglie (circa 155 abitanti);

- LEOFRENI: 35 famiglie (circa 155 abitanti);

- CASTELLUCCIO: 8 famiglie (circa 35 abitanti);

- PACE: 27 famiglie (circa 125 abitanti);

- GIRGENTI: 45 famiglie (circa 200 abitanti);

- BACCARECCE: 24 famiglie (circa 100 abitanti);

- COLLI: 30 famiglie (115 abitanti sparsi in tre villaggi);

- ROCCABERARDI; 40 famiglie (circa 180 abitanti);

- SANTA LUCIA di GIOVEROTONDO; famiglie 17 (circa 75abitanti);

- TONNICODA: 20 famiglie (90 abitanti circa);

TEGLIETO: 30 famiglie (circa 135 abitanti).










Allo stato dell'arte questo è quanto può rintracciarsi tra i mass-media. E' tanto, non è troppo ma manco possiamo dire adeguato all'importanza di certi siti archeologici soprattitto medievali (ma una epigrafia di prim'ordine romana potrà sconcolgere tanti luogh comuni assodati ma falsi). Abbiamo ad esempio un unicum quale è il pendio sotto il castrum di Poggio Poponesco, qui mi pare manco accennato. Ci ripromettiamo di supplire, con le nostre modeste forze. Speriamo che possa essere per lo meno il seme per il doveroso rilancio archeologico di una plag a ridorro della Roma Antica davvero unica nel suo genere.




Gli Equicoli erano un popolo dell' Italia antica, limitati nel Cicolano,residuo dell' antica nazione degli Equi dopo la conquista romana(fine IV- inizi III sec. a.C.)...

...Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo:


§ Ferter Resius / rex Aequeicolus / is preimus / ius fetiale paravit / inde p(opulus) R(omanus) discipleinam excepit.




Nel Cicolano, nella frazione di Corvaro, sono stati rinvenuti tre tumuli degli Equicoli. Il primo tumulo e stato rinvenuto in località Cartore, il secondo ed il terzo nella piana di Corvaro, in località Montariolo.






Ultimo importante ritrovamento archeologico nel tumulo degli Equicoli nella località Montariolo in Corvaro, e lo scheletro integro di un cavallo. L' eccezionale scoperta archeologica ......


Ringraziamenti particolari al :
Prof. Enzo Di Marco (per il lungo e duro lavoro che svolge),
Rivista Aequa, per la concessione dell' Articolo sul Tumulo degli Equicoli in località Corvaro,
scritto dalla Dott.ssa Giovanna Alvino.


Contatti : info@equicoli.com


Equi


Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.


Gli Equi nel Lazio


Gli Equi (Lat. Aequi) erano una antica popolazione, che occupava un'area oggi compresa fra il Lazio e l'Abruzzo, in Italia, costantemente citata nella prima decade di Livio come ostile a Roma nei primi tre secoli dell'esistenza della città.


Indice
· 3 Note


Territorio[modifica]


Occupavano l'estensione superiori delle valli del fiume Anio (Aniene), affluente del Tevere, Tolenus (Turano), Himella (Imele) e Saltus(Salto), che scorrono verso nord e confluiscono nel fiumeNera. Il loro centro principale sarebbe stato conquistato una prima volta dai Romani verso il 484 a.C. [1] e di nuovo circa novanta anni più tardi [2], ma non furono sottomessi definitivamente che alla fine della Seconda guerra sannitica [3], quando sembra che abbiano ricevuto una forma limitata di libertà [4].


Insediamenti [modifica]


Tutto ciò che sappiamo della loro successiva situazione politica è che dopo la guerra sociale le popolazioni di Nersae(quest'ultima oggi nel comune di Pescorocchiano) sembrano unite in una res publica Aequiculorum, che era un municipiumdi tipo ordinario [5] insieme a Cliternia(probabilmente oggi Petrella Salto). Le colonie latine di Alba Fucens (304 a.C.) e Carsoli (298 a.C.) dovevano aver diffuso l'uso del Latino (o di una variante di esso) per tutto il distretto. Il territorio era attraversato dall'itinerario verso Lucera e l'Italia meridionale (via Valeria). Sicuro insediamento di questo popolo fu anche un villaggio dove oggi sorge Marano Equo, situato nella valle dell'Aniene, nel cui territorio sono presenti, delle sorgenti di acque minerali di 7 tipi diversi, di eccezionale qualità; altra città ricondotta agli Equi è Tora.


Il sito archeologico della colonia latinadi Alba Fucens in territorio equo.


Lingua [modifica]


Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo notizie: poiché le popolazioni confinanti dei Marsi, che vivevano subito ad est, e degli Ernici, loro vicini a sud-ovest, erano di sicura etnia osco-umbra, si può ipotizzare che anche gli Equi facesso parte dello stesso ceppo.


Alla loro lingua originaria doveva appartenere il nome stesso della popolazione, ricordato come Aequi o Aequiculi (con la "i" lunga)[6]. In particolare la forma più lunga del loro nome sembrerebbe collegata ad un locativo derivante dal termine aequum (con il significato di "pianura"), indicando quindi gli "abitanti della pianura": in epoca storica tuttavia furono stanziati in un territorio prevalentemente collinoso.


La presenza della "q" nel nome potrebbe derivare da una "q" indoeuropea: in questo caso si confermerebbe l'appartenenza al gruppo latino, che conserva infatti la "q" indoeuropea originaria, mentre questa diviene una "p" nei dialetti volsci umbri e sanniti (il latino quis corrisponde all'umbro-volsco pis). La "q" del nome potrebbe tuttavia derivare anche da un originario termine indoeuropeo con "k" + "u" (come nel latino equus, corrispondente all'umbro-volsco ekvo). L'aggettivo derivativo Aequicuspotrebbe indicare una parentela con i Volsci o i Sabini, ma il termine non sembra essere mai stato usato come un realeetnico.


Equicoli[modifica]


Per approfondire, vedi la voce Res publica Aequiculorum.


Panoramica del Cicolano


Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersaepresso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonaliche esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


Note[modifica]


1. ^ Diodoro Siculo XI 40


2. ^ Diodoro SiculoXIV 106


3. ^ Livio IX 45 e Diodoro Siculo XX 101


4. ^ Cicerone Off. I, 35


5. ^ CIL IX p. 388


6. ^ Virgilio, Aen.VII. 744


Voci correlate [modifica]


§ Sabini




§ Latini


§ Ufente


Collegamenti esterni [modifica]


§ Il Cicolano, gli Equicoli ed il tumulo di Corvaro Il Tumulo monumentale di Corvaro.


§ Il Tumulo degli Equicoli rinvenimenti località Montariolo nella piana di Corvaro.


§ Acheologia Lazio: gli Equicoli insediamenti umani nel Cicolano.






· Equi


ETNONIMI: EQUI, ERNICI
Continuiamo il nostro percorso sugli etnonimi ciociari seguendo gli insegnamenti del linguista Giovanni Semerano. Partiamo dagli EQUI, che non hanno nulla a che vedere con il mondo equino. Virgilio nell’Eneide disegnò l’indole aggressiva e selvaggia del popolo degli Equi che abitavano i monti dell’alta Ciociaria dall’alta Valle dell’Aniene all’Imelia fino al lago Fucino. Ai tempi della Roma monarchica gli Equi, come ricorda più volte nella sua opera lo storico Livio, confinavano con i Marsi, i Volsci, gli Ernici e i Sabini. Il Fiume Licenza, affluente di destra dell’Aniene, doveva probabilmente segnare il confine con i Sabini, mentre la dorsale sud-est dei Monti Simbruini dagli Altipiani di Arcinazzo e il territorio di Trevi li divideva dagli Ernici. Come per gli altri eponimi che mostrano un substrato linguistico comune risalente a basi sumerico accadiche, il nome EQUI, richiamando l’antico accadico EQLUM, sta ad indicare semplicemente "TERRA, REGIONE", gli Equicoli quindi sono gli "ABITANTI DELLA REGIONE".
Passiamo al "Potente popolo italico dei sassi", gli ERNICI. Da Virgilio sappiamo che erano abilissimi nel lanciare frecce, che andavano in guerra con il piede sinistro nudo e il destro coperto da un calzare, mentre Ovidio ci tramanda che presso il popolo ernico il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per loro l’anno iniziava nel mese di ottobre, come per gli Spartani ed i Fenici. Lo storico Tito Livio nella sua monumentale opera finalizzata all’esaltazione di Roma, nella Prima Decade racconta diversi episodi di guerra tra Romani ed Ernici dal punto di vista dei vincitori, che comunque per quasi due secoli si scontrarono con questa popolazione italica, riunita nella Lega Ernica.
Si tratterebbe di popolazione montana, confinante con i Volsci e i Sanniti a sud e con gli Equi ed i Marsi a nord, genti che abitavano il territorio compreso tra i Monti Prenestini ed Albani fino al fiume Liri, come precisato nel pregevole Latium di Athanasius Kircher attivo a Roma nella seconda metà del Seicento ("Hernica regio comprehendit illos populos qui Praenestinorum, Albanorumque montium dorso utrimque ad Lirim usque fluvium inhabitant"). Alatri, Anagni, Ferentino,Veroli furono i loro oppia principali, che vissero di vita propria prima della conquista romana, circondate da quelle mura pelasgiche di costruzione precedente forse all’ insediamento ernico, che hanno destato stupore e meraviglia ai numerosi viaggiatori e studiosi dell’ Ottocento, se Gregorovius, di fronte alle mura di Alatri poteva affermare: "Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai un’ammirazione per la forza umana assai maggiore di quella, che mi aveva ispirata la vista del Colosseo". "Hernici dicti a saxis quae Marsi herna dicunt", con queste parole il grammatico latino Festo denomina gli Ernici, la popolazione latina di razza sabina che deriva il nome dalla stessa base di Carnia, Carniche, Carnaro, accadico QARNU (punta, letteralmente corno), quindi l’etnonimo sta ad indicare: IL POPOLO DEI SASSI.
EQUI = ABITANTI DELLA REGIONE
ERNICI = IL POPOLO DEI SASSI
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· up. 6 ottobre 2008






· Equi ed Equicoli


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· Gli Equi


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· Gli equi ebbero le origini da colonie sicule; sono annoverati tra i popoli più antichi d'Italia; ebbero fama di gran gente, giusta li decanta anche Cicerone, e sostennero sanguinose guerre, con i vicini aborigeni, rimanendone sempre vincitori. Senonchè fu loro tolta una buona parte del territorio, allorquando gli indicati aborigeni, si collegarono con i sopravvenuti pelasgi. Gli storici antichi non sono concordi sull'epoca della venuta pelasgica in Italia; il Cliton, seguito dai più, la fissa a 1750 anni avanti Cristo. Gli aborigeni avevano bene accetta quella gente, nella loro giurisdizione, per resistere e porre un argine alle invasioni e guerre con i vicini equi, o equicolani, denominati posteriormente in parte Cicoli, dagli originari sicoli o siculi.


· I sicoli, siculi o sicani appartenevano a un antichissimo popolo iberico, situato tra il Caucaso e il mar Nero, che passò prima nella Saturnia e poi dall'Etruria alla Sicilia, a cui diede il nome. I pelasgi, a testimonianza di quanto scrissero Varrone e Dionisio di Alicarnasso, dopo aver avuta una dominazione, anche nella nostra regione, di circa duecentosessanta anni, furono cacciati dall'Italia, con aspri e sanguinosi combattimenti, dalla prima impresa d'indipendenza, sorta con la fraterna lega del sabelli, equi, osci, etruschi e umbri. Virgilio racconta che le schiere del popoli d'Italia, nel 1184 avanti Cristo, marciassero contro Enea, sotto la direzione e comando di Ufente, valoroso capitano equo e di Messapo e Marenzo, provetti condotticri etruschi.


· Tito Livio, che fu il principe del narratoni latini, poi rocconta categoricamente le lunghe e aspre guerre, combattute dagli equi contro Roma, dai tempi di Tarquinio il Superbo, alla loro completa disfatta.


· Nel 260 Coriolano, alla testa di un esercito di equi e di volsci, aveva affamato la città di Roma, saccheggiandone il territorio, non le armi, ma le sole preghiere di sua madre Vetruria e di Volummia sua moglie, lo indussero ad abbandonare l'assedio della trepidante città. Nel 290, il proconsole T. Quinzio fu sollecito a intervenire in sostegno dell'esercito condotto da Fuso Furio, che era stato assediato dagli equi, nei suoi accampamenti. Il proconsole salvò l'esercito romano da distruzione certa, ma, a testimonianza di Valerio Anziate, ebbe la perdita di 5300 uomini.


· Nel 295, con le armi, gli equi avevano conquistata Rocca Tuscolana, ove assediati, si arresero per fame e non per forza.


· Nel 296, Cincinnato riuscì a liberare il console Minuccio, dall'assedio di Gracco Clelio, condottiero e imperatore degli equi. Nel 297, costoro distrussero la guarnigione romana a Corbione, loro città dovuta cedere l'anno innanzi a Cincinnato. Nel 305, ottennero grande vittoria sui romani, presso Algido.


· Nel 323, corsero in aiuto del volsci, contro Roma, ma ne rimasero vinti, benchè causassero gravi perdite all'esercito avversario. Nel 337, disfecero l'esercito romano, condotto da Lucio Sergio Fidena e da Marco Papirio Magellano; nel 341, annientarono e fecero a pezzi il presidio romano, rimpossessandosi della loro città Bola e nel 396 invasero Rocca Caventana e ne uccisero la guarnigione. Stretta alleanza con i volsci, combatterono guerre sanguinosissime contro Roma, negli anni 260, 266, 279, 283, 285, 290, 291, 292, 293, 305, 308, 323, 345, 346, e 366; con i sabini negli anni 260, 296, 297, e 304; con i lavicani nel 337 e con i latini, ernici ed etruschi nel 366.


· I sanniti, che sostennero contro i romani, con varia fortuna, lotte feroci, furono aiutati dagli equi dal 429 sino alla loro fine.


· Quindi l'ardimento della confederazione equa, giunse al punto di minacciare di saccheggio e di assedio, sin sotto le mura, la futura dominatrice del mondo,


· Senonchè nel 449, dinanzi a un compatto e poderoso esercito, capitanato dai consoli Saverrione e Sobo, gli equi, temendo la sconfitta, notte tempo abbandonavano il campo, con la intenzione di difendere ognuno i propri luoghi.


· Grave fu l'errore, perchè se uniti erano stati invincibili e potevano sperare la vittoria sui romani, divisi, ne divennero facile preda. Infatti in soli cinquanta giorni, furono dalle schiere romane espugnate ed oppresse ben quarantuno loro città, tra le quali Oricola. Insorsero gli equi nel 451, per riconquistare la perduta città di Albe, e in Roma destarono grande apprensione, ma creato dittatore Caio Bruto Balbutto, rimasero da questi soprafatti. Nel 452 ripresero le armi contro i romani, ma anche questa volta non sortì buon effetto la loro sollevazione, poichè furono affranti da Marco Valerio e può dirsi che venissero a scomparire dalla storia.


· La confederazione equa era formata da città indipendenti le une dalle altre. Si conoscono i nomi di cinque loro capitali: Trebe (Trevi), Carseoli, Nersae, Vetellia (Bellegra), e Albe, l'ultima delle quali è controverso negli storici, se fosse equa o marsa. Tito Livio, Strabone e Dion Cassio, portano Albe come cittá equa, mentre Festo, Silio Italico e Tolomeo la dicono marsa. I primi però sono più attendibili, tanto per la prevalente loro autoritá storiografa, quanto perchè i secondi sono più recenti e possono riferirsi a cambiamenti di circoscrizioni posteriormente avvenuti. Infatti, senza questa logica interpretazione, non potrebbe spiegarsi il tentativo degli equi, nel 451, di ricuperare la città di Albe Fucense. Tali capitali erano costituite solo come centri di luconomie (sic!) e come luoghi destinati alla discussione degli affari della speciale repubblica e non con dominio assoluto sulle altre città.


· Dagli storici antichi, gli equi venivano rappresentati come espertissimi nell'arte delle guerra, come istitutori delle leggi feciale e sacrata e come quelli che diedero agli altri popoli le nozioni del diritto pubblico.


· Secondo le norme feciali, in questo popolo, ravvisiamo la sua indole basata sulla equità e giustizia, inquantochè inspirate nel rispetto della vita e della proprietà altrui, nonchè sulla indissolubilità della famiglia e della Patria. Per le disposizioni della legge sacrata il carattere eminentemente bellico della stirpe era statuito sul dovere di difendere la terra natale, con la vittoria o con la morte. Nè può toglierne l'importanza morale, la descrizione che ci viene tramandata dall'Eneide, libro VIII, quando gli equi ci vengono ricordati usì a guadagnare la vita con la caccia e con la rapina. L'espressione al vivere rapto va intesa non come furto, scorreria e saccheggio, tanto comuni in quelle epoche primitive, ma come conquista di guerra.


· Al par degli altri popoli, anche gli equi ebbero dei re, il primo del quali fu Settimio Modio e il secondo Sertorio Resio, che fu dichiarato istitutore della legge feciale, quando Anco Marzio la fece adottare in Roma. Successivamente, nel 296, ebbero l'imperatore Gracco Clelio, che dopo aver cinto di assedio l'esercito romano, condotto dal console Minucio, fu fatto prigioniero da Cincinnato, accorso in aiuto del predetto console. A testimonianza poi di una epigrafe, rinvenuta nel Cicolano e riportata dal Longini, con il N. 34, in un tempo gli equi erano governati da un medixtuticus, per le cose religiose, civili e militari. Detto supremo magistrato aveva le stesse mansioni che esplicavano il dittatore nel Lazio, l'imperatore nella Sabina e il luconome (sic!) nell'Etruria. Ovidio nei versi, dal 689 al 711 del Fasti, libro IV, ci enumera le occupazioni di questo popolo, quando narra che l'uomo era intento alla coltura del suo terrenuccio con l'aratro, bidente e falce e la donna a racimolare con il rastrello le erbe del prati, a porre in cova le uova, a raccogliere gli erbaggi e i funghi, a riaccendere il fuoco già spento e a tessere la tela.



· Virgilio poi ci narra che gli equi rozzi, gagliardi e forti, erano soliti a coltivare armati il proprio campicello. Fra le loro armi si annoveravano le frecce di selce e di bronzo, la fionda e lo sparo, che era una specie di chiavellotto (sic!) micidialissimo, somigliante al pilo delle romane legioni. Silio Itatico narra che le armi da loro preferite erano nodosi bastoni, spade con punte corte ed elmi di bronzo con superbe creste. Virgilio, nel IX libro dell'Eneide, descrive gli equi belli nelle armature: Continuo Quercens et pulcher Equicolus armis. Quindi la loro vita poteva racchiudersi nel bimonio (sic!) economia domestica e guerra nella quale ultima ponevano ogni impegno e costanza. Nei concili nazionali come in genere i popoli antichi, d'Italia, si adunavano in un determinato luogo, nell'ambìto del proprio territorio, per discutere gli affari più importanti e specialmente se dovevano o no dichiarare una guerra, per la quale se ne eleggevano i supremi capitani.


· Detti concili cessarono, dopo la loro soggiogazione a Roma e li troviamo ripristinati durante la guerra sociale, nella importante Corfinio, presso Pentina nel Sannio, che fu destinata a Capitale, con il cambiamento di nome in quello di Italica. Ebbero corporazioni politico-religiose, tra cui le Augustali di origine romana. A capo degli Augustali, che erano ì ministri del lari di Augusto, vi era un collegio di sei magistrati chiamati Lari. Da qui ebbero origine i giuochi augustali, istituiti da Tiberio, nel 14 dopo Cristo, le cui feste in onore dell'Imperatore, si celebravano dai 5 agli 11 ottobre. I Lari rappresentarono i genii tutelari delle famiglie, costituiti da statuette, che venivano collocate in specie di tempi, chiamati lararium. Gli equi professavano, come quasi tutti i popoli primitivi, la religione monoteistica e conoscevano in origine solo il loro Giano. Con l'immigrazione pelasgica fu introdotto il politeismo e si ebbe un culto speciale per Marte Ultore, giusta l'epigrafe N. 45, rinvenuta in Carseoli e riportata dal Garrucci nel bollettino archeologico napoletano. Si venerarono inoltre Giove, Giunone, Vesta, Diana, Sole, Serapide e Minerva, a testimonianza delle iscrizioni epigrafíche, elencate nell'opera del ripetuto Longini, sulle Memorie Storiche sulla Regione Equicolana.


· Restano memorie che S. Pietro Apostolo si recasse personalmente in questi luoghi per evangelizzarne gli abitanti. Anzi giusta riferisce il Pierantoni nel suo Diario Sacro del Lazio, a pag. 126, S. Pietro Apostolo, reduce dalla inaugurazione dell'emissario del Fucino, ove aveva accompagnato i cristiani, che presero parte al finto combattimento navale, chiamato naumachia, indetto dall'Imperatore Claudio, fu ospite gradito in Carseoli, e per parecchi giorni, del centurione Cornelio, da lui convertito in Palestina. Sappiamo che gli equi, in Roma, furono tenuti in gran prestigio, ma, avvenuta la fusione con quel popolo, non li troviamo più accennati nella storia. Solo il rinvenimento di monete delle varie epoche, ci dimostra che questa regione fu sempre abitata.


· Gli equi vennero dai romani, ripartiti in quattro tribù: Fabia, Aniense, Terentina, e Claudia. La nostra Carseoli e adiacenze, nel 453 di Roma, andò a far parte della tribù Aniense.


· Ai tempi dell'imperatore Augusto, l'Italia venne divisa in undici regioni e gli equi fecero parte della quarta. Durante l'impero di Adriano, passarono a far parte della tredicesima provincia, mentre andarono a formarne la quattordicesima, all'epoca di Costantino. Ai tempi poi di Onorio, della provincia del Sannio, di cui gli equi facevano parte, si disgregò una zona per costituire la provincia Valeria, la quale fu la tredicesima ed era costituita di equi, sabini, peligni e vestini. Con i continui cambiamenti di circoscrizione, gli equi vennero a confondersi con i popoli vicini ed è perciò che rimane difficile fissarne la primitiva ubicazione: essi andarono a ingrandire le regioni del Lazio, della Sabina e della Marsica.


· Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo annotazione; ma poiché i Marsi, che vivevano subito ad est, parlavano nel III secolo a.C. un dialetto molto analogo al Latino e poiché gli Ernici, i loro vicini a sud-ovest, facevano lo stesso, non abbiamo basi per separare qualcuna di queste tribù dal gruppo dei Latini. Se potessimo essere sicuri dell'origine della q nel loro nome e del rapporto fra la forma più corta e quella più lunga (nota che la i di Aequiculus è lunga -- Virgilio, Aen. VII. 744 -- il che sembra collegarla con il locative del aequum "una pianura", in modo che significhi "gli abitanti nella pianura"; ma in periodo storico certamente hanno vissuto principalmente nelle colline), dovremmo sapere se dovevano essere raggruppati con i dialetti con del q o con i dialetti del p, cioè, con da una parte con il Latino, che ha conservato un originale q o dall'altra con il dialetto di Velitrae, comunemente denominato Volsco (e i Volsci erano costanti alleati degli Equi), in cui, come nei dialetti Iguvini e Sanniti, un q originale è cambiato in p.


· Non c'è evidenza decisiva per mostrare se il q Latino di aequus rappresenti una q indoeuropea come nel Latino quis, cioè l'Umbro-Volsco pis, o un indoeuropeo k + u come in equus, Umbro ekvo -.L'aggettivo derivativo Aequicus potrebbe essere preso per metterli con i Volsci piuttosto che con i Sabini, ma non è chiaro se questo aggettivo sia mai stato usato come un reale etnico; il nome della tribù è sempre Aequi, o Aequicoli.


· Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersae presso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonali che esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


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· Gli Equicoli


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· L'alta valle del Salto, denominata Cicolano, deriva il suo nome dagli equicoli che un tempo l'abitavano. Fin dalla tarda età Repubblicana, le popolazioni stanziate nella nostra Valle furono identificate con questo nome. Gli Equicoli, appartenenti al gruppo linguistico tosco-umbro, occupavano la valle dell'Aniene la zona intorno al Fucino, la pianura Carsolana e la Valle del Salto che costituiva la principale via di comunicazione tra le popolazioni del Fucino, la Valle dell'Aniene, e della Pianura Reatina. Con il termine equicoli (Aequiculi /Aequicoli), entrano in uso nella letteratura e nell' epigrafia soltanto a partire dalla tarda età repubblicana (II/I sec. a.C.), si definivano le genti distribuiti lungo la, residuo dell' antica nazione degli Equi, il cui territorio, originariamente ben piu' vasto, dopo la conquista romana (fine IV- inizi III sec. a.C.) venne circoscritto in quest' area nel cuore dell' Appennino centrale, probabilmente corrispondente alla sua sede primitiva. La tradizione letteraria ci parla di due re degli Equicoli, Septimus Modius e Ferter Resius. Al secondo viene attribuita l' introduzione a Roma, al tempo del re Numa od Anco Marzio, dello ius fetiale (diritto dei feziali), attraverso il quale venivano nominati dei sacerdoti, i feziali, il cui compito era quello di regolare i rapporti con le popolazioni confinanti, tanto nei trattati di pace quando nelle dichiarazioni di guerra. Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo: In generale gli Equicoli nelle fonti letterarie greche e latine sono descritti come un fiero popolo bellicoso, che vive di guerre e di saccheggi, ma anche di caccia, praticabile nei rigogliosi boschi della Valle del Salto, ed anche di agricoltura, per quello che l' asperità del territorio consentiva. Emblematica è la loro descrizione fatta da Virgilio nell' Eneide (Aen. VII 744-749) : In seguito alla sconfitta patita dai romani nel 304 a.C. , la popolazione degli Equi venne in gran parte sterminata, e quello che ne rimase venne concentrato proprio nel territorio della Valle del Salto, che assunse appunto il nome di ager Aequiculanus.



· Dal 1984 la Soprintendenza Archeologica del Lazio sta portando avanti una serie di campagne di scavo, indagini archeoligiche e ricerche di superficie atte a determinare i principali momenti degli insediamenti nella Valle del Salto, ad individuare le possibili forme di utilizzazione del suolo ed a delineare alcuni aspetti che caratterizzavano la società locale. E' stata condotta un'interessante campagna di scavo archeologico, finalizzata al recupero di una necropoli di tombe databili tra il VI e la prima metà del V secolo a.C.


· I primi insediamenti sono caratterizzati da alcuni villaggi all'interno della piana di Corvaro che sembrano resistere fino alla prima Età Imperiale. Nella stessa area si hanno le testimonianze più numerose di resti archeologici di notevole importanza relativi all'età del Bronzo. Con la costituzione nel 1927 della provincia di Rieti, il Cicolano, fino ad allora parte della regione Abruzzo, venne incluso nel territorio della nuova Provincia.


· Ne fanno parte i Comuni di Borgorose, Petrella Salto, Pescorocchiano e Fiamignano. Questa zona, il cui passaggio è caratterizzato dalla presenza di numerosi terrazzamenti di incerta attribuzione, attirarono l'interesse di alcuni studiosi del secolo scorso. Antichi municipi di quest'area furono Cliternia (l'attuale Capradosso), più vicina all'area sabina e la Res Pubblica Aequiculanorum che costituiva il Municipio territoriale mantenente l'antico aspetto pagano che aveva in Nersae il suo maggior centro ricordato da Virgilio e da Plinio: era L'età Augustea.








Allo stato dell'arte questo è quanto può rintracciarsi tra i mass-media. E' tanto, non è troppo ma manco possiamo dire adeguato all'importanza di certi siti archeologici soprattitto medievali (ma una epigrafia di prim'ordine romana potrà sconcolgere tanti luogh comuni assodati ma falsi). Abbiamo ad esempio un unicum quale è il pendio sotto il castrum di Poggio Poponesco, qui mi pare manco accennato. Ci ripromettiamo di supplire, con le nostre modeste forze. Speriamo che possa essere per lo meno il seme per il doveroso rilancio archeologico di una plag a ridorro della Roma Antica davvero unica nel suo genere.




Gli Equicoli erano un popolo dell' Italia antica, limitati nel Cicolano,residuo dell' antica nazione degli Equi dopo la conquista romana(fine IV- inizi III sec. a.C.)...

...Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo:


§Ferter Resius / rex Aequeicolus / is preimus / ius fetiale paravit / inde p(opulus) R(omanus) discipleinam excepit.




Nel Cicolano, nella frazione di Corvaro, sono stati rinvenuti tre tumuli degli Equicoli. Il primo tumulo e stato rinvenuto in località Cartore, il secondo ed il terzo nella piana di Corvaro, in località Montariolo.






Ultimo importante ritrovamento archeologico nel tumulo degli Equicoli nella località Montariolo in Corvaro, e lo scheletro integro di un cavallo. L' eccezionale scoperta archeologica ......


Ringraziamenti particolari al :
Prof. Enzo Di Marco (per il lungo e duro lavoro che svolge),
Rivista Aequa, per la concessione dell' Articolo sul Tumulo degli Equicoli in località Corvaro,
scritto dalla Dott.ssa Giovanna Alvino.


Contatti : info@equicoli.com


Equi


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Gli Equi nel Lazio


Gli Equi (Lat. Aequi) erano una antica popolazione, che occupava un'area oggi compresa fra il Lazio e l'Abruzzo, in Italia, costantemente citata nella prima decade di Livio come ostile a Roma nei primi tre secoli dell'esistenza della città.


Indice


Territorio[modifica]


Occupavano l'estensione superiori delle valli del fiume Anio (Aniene), affluente del Tevere, Tolenus (Turano), Himella (Imele) e Saltus(Salto), che scorrono verso nord e confluiscono nel fiumeNera. Il loro centro principale sarebbe stato conquistato una prima volta dai Romani verso il 484 a.C. [1] e di nuovo circa novanta anni più tardi [2], ma non furono sottomessi definitivamente che alla fine della Seconda guerra sannitica [3], quando sembra che abbiano ricevuto una forma limitata di libertà [4].


Insediamenti [modifica]


Tutto ciò che sappiamo della loro successiva situazione politica è che dopo la guerra sociale le popolazioni di Nersae(quest'ultima oggi nel comune di Pescorocchiano) sembrano unite in una res publica Aequiculorum, che era un municipiumdi tipo ordinario [5] insieme a Cliternia(probabilmente oggi Petrella Salto). Le colonie latine di Alba Fucens (304 a.C.) e Carsoli (298 a.C.) dovevano aver diffuso l'uso del Latino (o di una variante di esso) per tutto il distretto. Il territorio era attraversato dall'itinerario verso Lucera e l'Italia meridionale (via Valeria). Sicuro insediamento di questo popolo fu anche un villaggio dove oggi sorge Marano Equo, situato nella valle dell'Aniene, nel cui territorio sono presenti, delle sorgenti di acque minerali di 7 tipi diversi, di eccezionale qualità; altra città ricondotta agli Equi è Tora.


Il sito archeologico della colonia latinadi Alba Fucens in territorio equo.


Lingua [modifica]


Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo notizie: poiché le popolazioni confinanti dei Marsi, che vivevano subito ad est, e degli Ernici, loro vicini a sud-ovest, erano di sicura etnia osco-umbra, si può ipotizzare che anche gli Equi facesso parte dello stesso ceppo.


Alla loro lingua originaria doveva appartenere il nome stesso della popolazione, ricordato come Aequi o Aequiculi (con la "i" lunga)[6]. In particolare la forma più lunga del loro nome sembrerebbe collegata ad un locativo derivante dal termine aequum (con il significato di "pianura"), indicando quindi gli "abitanti della pianura": in epoca storica tuttavia furono stanziati in un territorio prevalentemente collinoso.


La presenza della "q" nel nome potrebbe derivare da una "q" indoeuropea: in questo caso si confermerebbe l'appartenenza al gruppo latino, che conserva infatti la "q" indoeuropea originaria, mentre questa diviene una "p" nei dialetti volsci umbri e sanniti (il latino quis corrisponde all'umbro-volsco pis). La "q" del nome potrebbe tuttavia derivare anche da un originario termine indoeuropeo con "k" + "u" (come nel latino equus, corrispondente all'umbro-volsco ekvo). L'aggettivo derivativo Aequicuspotrebbe indicare una parentela con i Volsci o i Sabini, ma il termine non sembra essere mai stato usato come un realeetnico.


Equicoli[modifica]


Per approfondire, vedi la voce Res publica Aequiculorum.


Panoramica del Cicolano


Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersaepresso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonaliche esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


Note[modifica]


1.^ Diodoro Siculo XI 40


2.^ Diodoro SiculoXIV 106


3.^ Livio IX 45 e Diodoro Siculo XX 101


4.^ Cicerone Off. I, 35


5.^ CIL IX p. 388


6.^ Virgilio, Aen.VII. 744


Voci correlate [modifica]










Collegamenti esterni [modifica]


§Il Cicolano, gli Equicoli ed il tumulo di Corvaro Il Tumulo monumentale di Corvaro.


§Il Tumulo degli Equicoli rinvenimenti località Montariolo nella piana di Corvaro.


§Acheologia Lazio: gli Equicoli insediamenti umani nel Cicolano.






·Equi


ETNONIMI: EQUI, ERNICI
Continuiamo il nostro percorso sugli etnonimi ciociari seguendo gli insegnamenti del linguista Giovanni Semerano. Partiamo dagli EQUI, che non hanno nulla a che vedere con il mondo equino. Virgilio nell’Eneide disegnò l’indole aggressiva e selvaggia del popolo degli Equi che abitavano i monti dell’alta Ciociaria dall’alta Valle dell’Aniene all’Imelia fino al lago Fucino. Ai tempi della Roma monarchica gli Equi, come ricorda più volte nella sua opera lo storico Livio, confinavano con i Marsi, i Volsci, gli Ernici e i Sabini. Il Fiume Licenza, affluente di destra dell’Aniene, doveva probabilmente segnare il confine con i Sabini, mentre la dorsale sud-est dei Monti Simbruini dagli Altipiani di Arcinazzo e il territorio di Trevi li divideva dagli Ernici. Come per gli altri eponimi che mostrano un substrato linguistico comune risalente a basi sumerico accadiche, il nome EQUI, richiamando l’antico accadico EQLUM, sta ad indicare semplicemente "TERRA, REGIONE", gli Equicoli quindi sono gli "ABITANTI DELLA REGIONE".
Passiamo al "Potente popolo italico dei sassi", gli ERNICI. Da Virgilio sappiamo che erano abilissimi nel lanciare frecce, che andavano in guerra con il piede sinistro nudo e il destro coperto da un calzare, mentre Ovidio ci tramanda che presso il popolo ernico il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per loro l’anno iniziava nel mese di ottobre, come per gli Spartani ed i Fenici. Lo storico Tito Livio nella sua monumentale opera finalizzata all’esaltazione di Roma, nella Prima Decade racconta diversi episodi di guerra tra Romani ed Ernici dal punto di vista dei vincitori, che comunque per quasi due secoli si scontrarono con questa popolazione italica, riunita nella Lega Ernica.
Si tratterebbe di popolazione montana, confinante con i Volsci e i Sanniti a sud e con gli Equi ed i Marsi a nord, genti che abitavano il territorio compreso tra i Monti Prenestini ed Albani fino al fiume Liri, come precisato nel pregevole Latium di Athanasius Kircher attivo a Roma nella seconda metà del Seicento ("Hernica regio comprehendit illos populos qui Praenestinorum, Albanorumque montium dorso utrimque ad Lirim usque fluvium inhabitant"). Alatri, Anagni, Ferentino,Veroli furono i loro oppia principali, che vissero di vita propria prima della conquista romana, circondate da quelle mura pelasgiche di costruzione precedente forse all’ insediamento ernico, che hanno destato stupore e meraviglia ai numerosi viaggiatori e studiosi dell’ Ottocento, se Gregorovius, di fronte alle mura di Alatri poteva affermare: "Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai un’ammirazione per la forza umana assai maggiore di quella, che mi aveva ispirata la vista del Colosseo". "Hernici dicti a saxis quae Marsi herna dicunt", con queste parole il grammatico latino Festo denomina gli Ernici, la popolazione latina di razza sabina che deriva il nome dalla stessa base di Carnia, Carniche, Carnaro, accadico QARNU (punta, letteralmente corno), quindi l’etnonimo sta ad indicare: IL POPOLO DEI SASSI.
EQUI = ABITANTI DELLA REGIONE
ERNICI = IL POPOLO DEI SASSI
31.1.08
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·up. 6 ottobre 2008






·Equi ed Equicoli


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·Gli Equi


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·Gli equi ebbero le origini da colonie sicule; sono annoverati tra i popoli più antichi d'Italia; ebbero fama di gran gente, giusta li decanta anche Cicerone, e sostennero sanguinose guerre, con i vicini aborigeni, rimanendone sempre vincitori. Senonchè fu loro tolta una buona parte del territorio, allorquando gli indicati aborigeni, si collegarono con i sopravvenuti pelasgi. Gli storici antichi non sono concordi sull'epoca della venuta pelasgica in Italia; il Cliton, seguito dai più, la fissa a 1750 anni avanti Cristo. Gli aborigeni avevano bene accetta quella gente, nella loro giurisdizione, per resistere e porre un argine alle invasioni e guerre con i vicini equi, o equicolani, denominati posteriormente in parte Cicoli, dagli originari sicoli o siculi.


· I sicoli, siculi o sicani appartenevano a un antichissimo popolo iberico, situato tra il Caucaso e il mar Nero, che passò prima nella Saturnia e poi dall'Etruria alla Sicilia, a cui diede il nome. I pelasgi, a testimonianza di quanto scrissero Varrone e Dionisio di Alicarnasso, dopo aver avuta una dominazione, anche nella nostra regione, di circa duecentosessanta anni, furono cacciati dall'Italia, con aspri e sanguinosi combattimenti, dalla prima impresa d'indipendenza, sorta con la fraterna lega del sabelli, equi, osci, etruschi e umbri. Virgilio racconta che le schiere del popoli d'Italia, nel 1184 avanti Cristo, marciassero contro Enea, sotto la direzione e comando di Ufente, valoroso capitano equo e di Messapo e Marenzo, provetti condotticri etruschi.


·Tito Livio, che fu il principe del narratoni latini, poi rocconta categoricamente le lunghe e aspre guerre, combattute dagli equi contro Roma, dai tempi di Tarquinio il Superbo, alla loro completa disfatta.


·Nel 260 Coriolano, alla testa di un esercito di equi e di volsci, aveva affamato la città di Roma, saccheggiandone il territorio, non le armi, ma le sole preghiere di sua madre Vetruria e di Volummia sua moglie, lo indussero ad abbandonare l'assedio della trepidante città. Nel 290, il proconsole T. Quinzio fu sollecito a intervenire in sostegno dell'esercito condotto da Fuso Furio, che era stato assediato dagli equi, nei suoi accampamenti. Il proconsole salvò l'esercito romano da distruzione certa, ma, a testimonianza di Valerio Anziate, ebbe la perdita di 5300 uomini.


·Nel 295, con le armi, gli equi avevano conquistata Rocca Tuscolana, ove assediati, si arresero per fame e non per forza.


·Nel 296, Cincinnato riuscì a liberare il console Minuccio, dall'assedio di Gracco Clelio, condottiero e imperatore degli equi. Nel 297, costoro distrussero la guarnigione romana a Corbione, loro città dovuta cedere l'anno innanzi a Cincinnato. Nel 305, ottennero grande vittoria sui romani, presso Algido.


·Nel 323, corsero in aiuto del volsci, contro Roma, ma ne rimasero vinti, benchè causassero gravi perdite all'esercito avversario. Nel 337, disfecero l'esercito romano, condotto da Lucio Sergio Fidena e da Marco Papirio Magellano; nel 341, annientarono e fecero a pezzi il presidio romano, rimpossessandosi della loro città Bola e nel 396 invasero Rocca Caventana e ne uccisero la guarnigione. Stretta alleanza con i volsci, combatterono guerre sanguinosissime contro Roma, negli anni 260, 266, 279, 283, 285, 290, 291, 292, 293, 305, 308, 323, 345, 346, e 366; con i sabini negli anni 260, 296, 297, e 304; con i lavicani nel 337 e con i latini, ernici ed etruschi nel 366.


·I sanniti, che sostennero contro i romani, con varia fortuna, lotte feroci, furono aiutati dagli equi dal 429 sino alla loro fine.


·Quindi l'ardimento della confederazione equa, giunse al punto di minacciare di saccheggio e di assedio, sin sotto le mura, la futura dominatrice del mondo,


·Senonchè nel 449, dinanzi a un compatto e poderoso esercito, capitanato dai consoli Saverrione e Sobo, gli equi, temendo la sconfitta, notte tempo abbandonavano il campo, con la intenzione di difendere ognuno i propri luoghi.


·Grave fu l'errore, perchè se uniti erano stati invincibili e potevano sperare la vittoria sui romani, divisi, ne divennero facile preda. Infatti in soli cinquanta giorni, furono dalle schiere romane espugnate ed oppresse ben quarantuno loro città, tra le quali Oricola. Insorsero gli equi nel 451, per riconquistare la perduta città di Albe, e in Roma destarono grande apprensione, ma creato dittatore Caio Bruto Balbutto, rimasero da questi soprafatti. Nel 452 ripresero le armi contro i romani, ma anche questa volta non sortì buon effetto la loro sollevazione, poichè furono affranti da Marco Valerio e può dirsi che venissero a scomparire dalla storia.


·La confederazione equa era formata da città indipendenti le une dalle altre. Si conoscono i nomi di cinque loro capitali: Trebe (Trevi), Carseoli, Nersae, Vetellia (Bellegra), e Albe, l'ultima delle quali è controverso negli storici, se fosse equa o marsa. Tito Livio, Strabone e Dion Cassio, portano Albe come cittá equa, mentre Festo, Silio Italico e Tolomeo la dicono marsa. I primi però sono più attendibili, tanto per la prevalente loro autoritá storiografa, quanto perchè i secondi sono più recenti e possono riferirsi a cambiamenti di circoscrizioni posteriormente avvenuti. Infatti, senza questa logica interpretazione, non potrebbe spiegarsi il tentativo degli equi, nel 451, di ricuperare la città di Albe Fucense. Tali capitali erano costituite solo come centri di luconomie (sic!) e come luoghi destinati alla discussione degli affari della speciale repubblica e non con dominio assoluto sulle altre città.


·Dagli storici antichi, gli equi venivano rappresentati come espertissimi nell'arte delle guerra, come istitutori delle leggi feciale e sacrata e come quelli che diedero agli altri popoli le nozioni del diritto pubblico.


·Secondo le norme feciali, in questo popolo, ravvisiamo la sua indole basata sulla equità e giustizia, inquantochè inspirate nel rispetto della vita e della proprietà altrui, nonchè sulla indissolubilità della famiglia e della Patria. Per le disposizioni della legge sacrata il carattere eminentemente bellico della stirpe era statuito sul dovere di difendere la terra natale, con la vittoria o con la morte. Nè può toglierne l'importanza morale, la descrizione che ci viene tramandata dall'Eneide, libro VIII, quando gli equi ci vengono ricordati usì a guadagnare la vita con la caccia e con la rapina. L'espressione al vivere rapto va intesa non come furto, scorreria e saccheggio, tanto comuni in quelle epoche primitive, ma come conquista di guerra.


·Al par degli altri popoli, anche gli equi ebbero dei re, il primo del quali fu Settimio Modio e il secondo Sertorio Resio, che fu dichiarato istitutore della legge feciale, quando Anco Marzio la fece adottare in Roma. Successivamente, nel 296, ebbero l'imperatore Gracco Clelio, che dopo aver cinto di assedio l'esercito romano, condotto dal console Minucio, fu fatto prigioniero da Cincinnato, accorso in aiuto del predetto console. A testimonianza poi di una epigrafe, rinvenuta nel Cicolano e riportata dal Longini, con il N. 34, in un tempo gli equi erano governati da un medixtuticus, per le cose religiose, civili e militari. Detto supremo magistrato aveva le stesse mansioni che esplicavano il dittatore nel Lazio, l'imperatore nella Sabina e il luconome (sic!) nell'Etruria. Ovidio nei versi, dal 689 al 711 del Fasti, libro IV, ci enumera le occupazioni di questo popolo, quando narra che l'uomo era intento alla coltura del suo terrenuccio con l'aratro, bidente e falce e la donna a racimolare con il rastrello le erbe del prati, a porre in cova le uova, a raccogliere gli erbaggi e i funghi, a riaccendere il fuoco già spento e a tessere la tela.



·Virgilio poi ci narra che gli equi rozzi, gagliardi e forti, erano soliti a coltivare armati il proprio campicello. Fra le loro armi si annoveravano le frecce di selce e di bronzo, la fionda e lo sparo, che era una specie di chiavellotto (sic!) micidialissimo, somigliante al pilo delle romane legioni. Silio Itatico narra che le armi da loro preferite erano nodosi bastoni, spade con punte corte ed elmi di bronzo con superbe creste. Virgilio, nel IX libro dell'Eneide, descrive gli equi belli nelle armature: Continuo Quercens et pulcher Equicolus armis. Quindi la loro vita poteva racchiudersi nel bimonio (sic!) economia domestica e guerra nella quale ultima ponevano ogni impegno e costanza. Nei concili nazionali come in genere i popoli antichi, d'Italia, si adunavano in un determinato luogo, nell'ambìto del proprio territorio, per discutere gli affari più importanti e specialmente se dovevano o no dichiarare una guerra, per la quale se ne eleggevano i supremi capitani.


·Detti concili cessarono, dopo la loro soggiogazione a Roma e li troviamo ripristinati durante la guerra sociale, nella importante Corfinio, presso Pentina nel Sannio, che fu destinata a Capitale, con il cambiamento di nome in quello di Italica. Ebbero corporazioni politico-religiose, tra cui le Augustali di origine romana. A capo degli Augustali, che erano ì ministri del lari di Augusto, vi era un collegio di sei magistrati chiamati Lari. Da qui ebbero origine i giuochi augustali, istituiti da Tiberio, nel 14 dopo Cristo, le cui feste in onore dell'Imperatore, si celebravano dai 5 agli 11 ottobre. I Lari rappresentarono i genii tutelari delle famiglie, costituiti da statuette, che venivano collocate in specie di tempi, chiamati lararium. Gli equi professavano, come quasi tutti i popoli primitivi, la religione monoteistica e conoscevano in origine solo il loro Giano. Con l'immigrazione pelasgica fu introdotto il politeismo e si ebbe un culto speciale per Marte Ultore, giusta l'epigrafe N. 45, rinvenuta in Carseoli e riportata dal Garrucci nel bollettino archeologico napoletano. Si venerarono inoltre Giove, Giunone, Vesta, Diana, Sole, Serapide e Minerva, a testimonianza delle iscrizioni epigrafíche, elencate nell'opera del ripetuto Longini, sulle Memorie Storiche sulla Regione Equicolana.


·Restano memorie che S. Pietro Apostolo si recasse personalmente in questi luoghi per evangelizzarne gli abitanti. Anzi giusta riferisce il Pierantoni nel suo Diario Sacro del Lazio, a pag. 126, S. Pietro Apostolo, reduce dalla inaugurazione dell'emissario del Fucino, ove aveva accompagnato i cristiani, che presero parte al finto combattimento navale, chiamato naumachia, indetto dall'Imperatore Claudio, fu ospite gradito in Carseoli, e per parecchi giorni, del centurione Cornelio, da lui convertito in Palestina. Sappiamo che gli equi, in Roma, furono tenuti in gran prestigio, ma, avvenuta la fusione con quel popolo, non li troviamo più accennati nella storia. Solo il rinvenimento di monete delle varie epoche, ci dimostra che questa regione fu sempre abitata.


·Gli equi vennero dai romani, ripartiti in quattro tribù: Fabia, Aniense, Terentina, e Claudia. La nostra Carseoli e adiacenze, nel 453 di Roma, andò a far parte della tribù Aniense.


·Ai tempi dell'imperatore Augusto, l'Italia venne divisa in undici regioni e gli equi fecero parte della quarta. Durante l'impero di Adriano, passarono a far parte della tredicesima provincia, mentre andarono a formarne la quattordicesima, all'epoca di Costantino. Ai tempi poi di Onorio, della provincia del Sannio, di cui gli equi facevano parte, si disgregò una zona per costituire la provincia Valeria, la quale fu la tredicesima ed era costituita di equi, sabini, peligni e vestini. Con i continui cambiamenti di circoscrizione, gli equi vennero a confondersi con i popoli vicini ed è perciò che rimane difficile fissarne la primitiva ubicazione: essi andarono a ingrandire le regioni del Lazio, della Sabina e della Marsica.


·Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo annotazione; ma poiché i Marsi, che vivevano subito ad est, parlavano nel III secolo a.C. un dialetto molto analogo al Latino e poiché gli Ernici, i loro vicini a sud-ovest, facevano lo stesso, non abbiamo basi per separare qualcuna di queste tribù dal gruppo dei Latini. Se potessimo essere sicuri dell'origine della q nel loro nome e del rapporto fra la forma più corta e quella più lunga (nota che la i di Aequiculus è lunga -- Virgilio, Aen. VII. 744 -- il che sembra collegarla con il locative del aequum "una pianura", in modo che significhi "gli abitanti nella pianura"; ma in periodo storico certamente hanno vissuto principalmente nelle colline), dovremmo sapere se dovevano essere raggruppati con i dialetti con del q o con i dialetti del p, cioè, con da una parte con il Latino, che ha conservato un originale q o dall'altra con il dialetto di Velitrae, comunemente denominato Volsco (e i Volsci erano costanti alleati degli Equi), in cui, come nei dialetti Iguvini e Sanniti, un q originale è cambiato in p.


·Non c'è evidenza decisiva per mostrare se il q Latino di aequus rappresenti una q indoeuropea come nel Latino quis, cioè l'Umbro-Volsco pis, o un indoeuropeo k + u come in equus, Umbro ekvo -.L'aggettivo derivativo Aequicus potrebbe essere preso per metterli con i Volsci piuttosto che con i Sabini, ma non è chiaro se questo aggettivo sia mai stato usato come un reale etnico; il nome della tribù è sempre Aequi, o Aequicoli.


·Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersae presso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonali che esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


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·Gli Equicoli


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·L'alta valle del Salto, denominata Cicolano, deriva il suo nome dagli equicoli che un tempo l'abitavano. Fin dalla tarda età Repubblicana, le popolazioni stanziate nella nostra Valle furono identificate con questo nome. Gli Equicoli, appartenenti al gruppo linguistico tosco-umbro, occupavano la valle dell'Aniene la zona intorno al Fucino, la pianura Carsolana e la Valle del Salto che costituiva la principale via di comunicazione tra le popolazioni del Fucino, la Valle dell'Aniene, e della Pianura Reatina. Con il termine equicoli (Aequiculi /Aequicoli), entrano in uso nella letteratura e nell' epigrafia soltanto a partire dalla tarda età repubblicana (II/I sec. a.C.), si definivano le genti distribuiti lungo la, residuo dell' antica nazione degli Equi, il cui territorio, originariamente ben piu' vasto, dopo la conquista romana (fine IV-inizi III sec. a.C.) venne circoscritto in quest' area nel cuore dell' Appennino centrale, probabilmente corrispondente alla sua sede primitiva. La tradizione letteraria ci parla di due re degli Equicoli, Septimus Modius e Ferter Resius. Al secondo viene attribuita l' introduzione a Roma, al tempo del re Numa od Anco Marzio, dello ius fetiale (diritto dei feziali), attraverso il quale venivano nominati dei sacerdoti, i feziali, il cui compito era quello di regolare i rapporti con le popolazioni confinanti, tanto nei trattati di pace quando nelle dichiarazioni di guerra. Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo: In generale gli Equicoli nelle fonti letterarie greche e latine sono descritti come un fiero popolo bellicoso, che vive di guerre e di saccheggi, ma anche di caccia, praticabile nei rigogliosi boschi della Valle del Salto, ed anche di agricoltura, per quello che l' asperità del territorio consentiva. Emblematica è la loro descrizione fatta da Virgilio nell' Eneide (Aen. VII 744-749) : In seguito alla sconfitta patita dai romani nel 304 a.C. , la popolazione degli Equi venne in gran parte sterminata, e quello che ne rimase venne concentrato proprio nel territorio della Valle del Salto, che assunse appunto il nome di ager Aequiculanus.



·Dal 1984 la Soprintendenza Archeologica del Lazio sta portando avanti una serie di campagne di scavo, indagini archeoligiche e ricerche di superficie atte a determinare i principali momenti degli insediamenti nella Valle del Salto, ad individuare le possibili forme di utilizzazione del suolo ed a delineare alcuni aspetti che caratterizzavano la società locale. E' stata condotta un'interessante campagna di scavo archeologico, finalizzata al recupero di una necropoli di tombe databili tra il VI e la prima metà del V secolo a.C.


·I primi insediamenti sono caratterizzati da alcuni villaggi all'interno della piana di Corvaro che sembrano resistere fino alla prima Età Imperiale. Nella stessa area si hanno le testimonianze più numerose di resti archeologici di notevole importanza relativi all'età del Bronzo. Con la costituzione nel 1927 della provincia di Rieti, il Cicolano, fino ad allora parte della regione Abruzzo, venne incluso nel territorio della nuova Provincia.


·Ne fanno parte i Comuni di Borgorose, Petrella Salto, Pescorocchiano e Fiamignano. Questa zona, il cui passaggio è caratterizzato dalla presenza di numerosi terrazzamenti di incerta attribuzione, attirarono l'interesse di alcuni studiosi del secolo scorso. Antichi municipi di quest'area furono Cliternia (l'attuale Capradosso), più vicina all'area sabina e la Res Pubblica Aequiculanorum che costituiva il Municipio territoriale mantenente l'antico aspetto pagano che aveva in Nersae il suo maggior centro ricordato da Virgilio e da Plinio: era L'età Augustea.








Allo stato dell'arte questo è quanto può rintracciarsi tra i mass-media. E' tanto, non è troppo ma manco possiamo dire adeguato all'importanza di certi siti archeologici soprattitto medievali (ma una epigrafia di prim'ordine romana potrà sconcolgere tanti luogh comuni assodati ma falsi). Abbiamo ad esempio un unicum quale è il pendio sotto il castrum di Poggio Poponesco, qui mi pare manco accennato. Ci ripromettiamo di supplire, con le nostre modeste forze. Speriamo che possa essere per lo meno il seme per il doveroso rilancio archeologico di una plag a ridorro della Roma Antica davvero unica nel suo genere.




Gli Equicoli erano un popolo dell' Italia antica, limitati nel Cicolano,residuo dell' antica nazione degli Equi dopo la conquista romana(fine IV- inizi III sec. a.C.)...

...Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo:


§Ferter Resius / rex Aequeicolus / is preimus / ius fetiale paravit / inde p(opulus) R(omanus) discipleinam excepit.




Nel Cicolano, nella frazione di Corvaro, sono stati rinvenuti tre tumuli degli Equicoli. Il primo tumulo e stato rinvenuto in località Cartore, il secondo ed il terzo nella piana di Corvaro, in località Montariolo.






Ultimo importante ritrovamento archeologico nel tumulo degli Equicoli nella località Montariolo in Corvaro, e lo scheletro integro di un cavallo. L' eccezionale scoperta archeologica ......


Ringraziamenti particolari al :
Prof. Enzo Di Marco (per il lungo e duro lavoro che svolge),
Rivista Aequa, per la concessione dell' Articolo sul Tumulo degli Equicoli in località Corvaro,
scritto dalla Dott.ssa Giovanna Alvino.


Contatti : info@equicoli.com


Equi


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Gli Equi nel Lazio


Gli Equi (Lat. Aequi) erano una antica popolazione, che occupava un'area oggi compresa fra il Lazio e l'Abruzzo, in Italia, costantemente citata nella prima decade di Livio come ostile a Roma nei primi tre secoli dell'esistenza della città.


Indice


Territorio[modifica]


Occupavano l'estensione superiori delle valli del fiume Anio (Aniene), affluente del Tevere, Tolenus (Turano), Himella (Imele) e Saltus(Salto), che scorrono verso nord e confluiscono nel fiumeNera. Il loro centro principale sarebbe stato conquistato una prima volta dai Romani verso il 484 a.C. [1] e di nuovo circa novanta anni più tardi [2], ma non furono sottomessi definitivamente che alla fine della Seconda guerra sannitica [3], quando sembra che abbiano ricevuto una forma limitata di libertà [4].


Insediamenti [modifica]


Tutto ciò che sappiamo della loro successiva situazione politica è che dopo la guerra sociale le popolazioni di Nersae(quest'ultima oggi nel comune di Pescorocchiano) sembrano unite in una res publica Aequiculorum, che era un municipiumdi tipo ordinario [5] insieme a Cliternia(probabilmente oggi Petrella Salto). Le colonie latine di Alba Fucens (304 a.C.) e Carsoli (298 a.C.) dovevano aver diffuso l'uso del Latino (o di una variante di esso) per tutto il distretto. Il territorio era attraversato dall'itinerario verso Lucera e l'Italia meridionale (via Valeria). Sicuro insediamento di questo popolo fu anche un villaggio dove oggi sorge Marano Equo, situato nella valle dell'Aniene, nel cui territorio sono presenti, delle sorgenti di acque minerali di 7 tipi diversi, di eccezionale qualità; altra città ricondotta agli Equi è Tora.


Il sito archeologico della colonia latinadi Alba Fucens in territorio equo.


Lingua [modifica]


Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo notizie: poiché le popolazioni confinanti dei Marsi, che vivevano subito ad est, e degli Ernici, loro vicini a sud-ovest, erano di sicura etnia osco-umbra, si può ipotizzare che anche gli Equi facesso parte dello stesso ceppo.


Alla loro lingua originaria doveva appartenere il nome stesso della popolazione, ricordato come Aequi o Aequiculi (con la "i" lunga)[6]. In particolare la forma più lunga del loro nome sembrerebbe collegata ad un locativo derivante dal termine aequum (con il significato di "pianura"), indicando quindi gli "abitanti della pianura": in epoca storica tuttavia furono stanziati in un territorio prevalentemente collinoso.


La presenza della "q" nel nome potrebbe derivare da una "q" indoeuropea: in questo caso si confermerebbe l'appartenenza al gruppo latino, che conserva infatti la "q" indoeuropea originaria, mentre questa diviene una "p" nei dialetti volsci umbri e sanniti (il latino quis corrisponde all'umbro-volsco pis). La "q" del nome potrebbe tuttavia derivare anche da un originario termine indoeuropeo con "k" + "u" (come nel latino equus, corrispondente all'umbro-volsco ekvo). L'aggettivo derivativo Aequicuspotrebbe indicare una parentela con i Volsci o i Sabini, ma il termine non sembra essere mai stato usato come un realeetnico.


Equicoli[modifica]


Per approfondire, vedi la voce Res publica Aequiculorum.


Panoramica del Cicolano


Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersaepresso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonaliche esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


Note[modifica]


1.^ Diodoro Siculo XI 40


2.^ Diodoro SiculoXIV 106


3.^ Livio IX 45 e Diodoro Siculo XX 101


4.^ Cicerone Off. I, 35


5.^ CIL IX p. 388


6.^ Virgilio, Aen.VII. 744


Voci correlate [modifica]










Collegamenti esterni [modifica]


§Il Cicolano, gli Equicoli ed il tumulo di Corvaro Il Tumulo monumentale di Corvaro.


§Il Tumulo degli Equicoli rinvenimenti località Montariolo nella piana di Corvaro.


§Acheologia Lazio: gli Equicoli insediamenti umani nel Cicolano.






·Equi


ETNONIMI: EQUI, ERNICI
Continuiamo il nostro percorso sugli etnonimi ciociari seguendo gli insegnamenti del linguista Giovanni Semerano. Partiamo dagli EQUI, che non hanno nulla a che vedere con il mondo equino. Virgilio nell’Eneide disegnò l’indole aggressiva e selvaggia del popolo degli Equi che abitavano i monti dell’alta Ciociaria dall’alta Valle dell’Aniene all’Imelia fino al lago Fucino. Ai tempi della Roma monarchica gli Equi, come ricorda più volte nella sua opera lo storico Livio, confinavano con i Marsi, i Volsci, gli Ernici e i Sabini. Il Fiume Licenza, affluente di destra dell’Aniene, doveva probabilmente segnare il confine con i Sabini, mentre la dorsale sud-est dei Monti Simbruini dagli Altipiani di Arcinazzo e il territorio di Trevi li divideva dagli Ernici. Come per gli altri eponimi che mostrano un substrato linguistico comune risalente a basi sumerico accadiche, il nome EQUI, richiamando l’antico accadico EQLUM, sta ad indicare semplicemente "TERRA, REGIONE", gli Equicoli quindi sono gli "ABITANTI DELLA REGIONE".
Passiamo al "Potente popolo italico dei sassi", gli ERNICI. Da Virgilio sappiamo che erano abilissimi nel lanciare frecce, che andavano in guerra con il piede sinistro nudo e il destro coperto da un calzare, mentre Ovidio ci tramanda che presso il popolo ernico il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per loro l’anno iniziava nel mese di ottobre, come per gli Spartani ed i Fenici. Lo storico Tito Livio nella sua monumentale opera finalizzata all’esaltazione di Roma, nella Prima Decade racconta diversi episodi di guerra tra Romani ed Ernici dal punto di vista dei vincitori, che comunque per quasi due secoli si scontrarono con questa popolazione italica, riunita nella Lega Ernica.
Si tratterebbe di popolazione montana, confinante con i Volsci e i Sanniti a sud e con gli Equi ed i Marsi a nord, genti che abitavano il territorio compreso tra i Monti Prenestini ed Albani fino al fiume Liri, come precisato nel pregevole Latium di Athanasius Kircher attivo a Roma nella seconda metà del Seicento ("Hernica regio comprehendit illos populos qui Praenestinorum, Albanorumque montium dorso utrimque ad Lirim usque fluvium inhabitant"). Alatri, Anagni, Ferentino,Veroli furono i loro oppia principali, che vissero di vita propria prima della conquista romana, circondate da quelle mura pelasgiche di costruzione precedente forse all’ insediamento ernico, che hanno destato stupore e meraviglia ai numerosi viaggiatori e studiosi dell’ Ottocento, se Gregorovius, di fronte alle mura di Alatri poteva affermare: "Allorquando mi trovai dinanzi a quella nera costruzione titanica, conservata in ottimo stato, quasi non contasse secoli e secoli, ma soltanto anni, provai un’ammirazione per la forza umana assai maggiore di quella, che mi aveva ispirata la vista del Colosseo". "Hernici dicti a saxis quae Marsi herna dicunt", con queste parole il grammatico latino Festo denomina gli Ernici, la popolazione latina di razza sabina che deriva il nome dalla stessa base di Carnia, Carniche, Carnaro, accadico QARNU (punta, letteralmente corno), quindi l’etnonimo sta ad indicare: IL POPOLO DEI SASSI.
EQUI = ABITANTI DELLA REGIONE
ERNICI = IL POPOLO DEI SASSI
31.1.08
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·up. 6 ottobre 2008






·Equi ed Equicoli


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·Gli Equi


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·Gli equi ebbero le origini da colonie sicule; sono annoverati tra i popoli più antichi d'Italia; ebbero fama di gran gente, giusta li decanta anche Cicerone, e sostennero sanguinose guerre, con i vicini aborigeni, rimanendone sempre vincitori. Senonchè fu loro tolta una buona parte del territorio, allorquando gli indicati aborigeni, si collegarono con i sopravvenuti pelasgi. Gli storici antichi non sono concordi sull'epoca della venuta pelasgica in Italia; il Cliton, seguito dai più, la fissa a 1750 anni avanti Cristo. Gli aborigeni avevano bene accetta quella gente, nella loro giurisdizione, per resistere e porre un argine alle invasioni e guerre con i vicini equi, o equicolani, denominati posteriormente in parte Cicoli, dagli originari sicoli o siculi.


· I sicoli, siculi o sicani appartenevano a un antichissimo popolo iberico, situato tra il Caucaso e il mar Nero, che passò prima nella Saturnia e poi dall'Etruria alla Sicilia, a cui diede il nome. I pelasgi, a testimonianza di quanto scrissero Varrone e Dionisio di Alicarnasso, dopo aver avuta una dominazione, anche nella nostra regione, di circa duecentosessanta anni, furono cacciati dall'Italia, con aspri e sanguinosi combattimenti, dalla prima impresa d'indipendenza, sorta con la fraterna lega del sabelli, equi, osci, etruschi e umbri. Virgilio racconta che le schiere del popoli d'Italia, nel 1184 avanti Cristo, marciassero contro Enea, sotto la direzione e comando di Ufente, valoroso capitano equo e di Messapo e Marenzo, provetti condotticri etruschi.


·Tito Livio, che fu il principe del narratoni latini, poi rocconta categoricamente le lunghe e aspre guerre, combattute dagli equi contro Roma, dai tempi di Tarquinio il Superbo, alla loro completa disfatta.


·Nel 260 Coriolano, alla testa di un esercito di equi e di volsci, aveva affamato la città di Roma, saccheggiandone il territorio, non le armi, ma le sole preghiere di sua madre Vetruria e di Volummia sua moglie, lo indussero ad abbandonare l'assedio della trepidante città. Nel 290, il proconsole T. Quinzio fu sollecito a intervenire in sostegno dell'esercito condotto da Fuso Furio, che era stato assediato dagli equi, nei suoi accampamenti. Il proconsole salvò l'esercito romano da distruzione certa, ma, a testimonianza di Valerio Anziate, ebbe la perdita di 5300 uomini.


·Nel 295, con le armi, gli equi avevano conquistata Rocca Tuscolana, ove assediati, si arresero per fame e non per forza.


·Nel 296, Cincinnato riuscì a liberare il console Minuccio, dall'assedio di Gracco Clelio, condottiero e imperatore degli equi. Nel 297, costoro distrussero la guarnigione romana a Corbione, loro città dovuta cedere l'anno innanzi a Cincinnato. Nel 305, ottennero grande vittoria sui romani, presso Algido.


·Nel 323, corsero in aiuto del volsci, contro Roma, ma ne rimasero vinti, benchè causassero gravi perdite all'esercito avversario. Nel 337, disfecero l'esercito romano, condotto da Lucio Sergio Fidena e da Marco Papirio Magellano; nel 341, annientarono e fecero a pezzi il presidio romano, rimpossessandosi della loro città Bola e nel 396 invasero Rocca Caventana e ne uccisero la guarnigione. Stretta alleanza con i volsci, combatterono guerre sanguinosissime contro Roma, negli anni 260, 266, 279, 283, 285, 290, 291, 292, 293, 305, 308, 323, 345, 346, e 366; con i sabini negli anni 260, 296, 297, e 304; con i lavicani nel 337 e con i latini, ernici ed etruschi nel 366.


·I sanniti, che sostennero contro i romani, con varia fortuna, lotte feroci, furono aiutati dagli equi dal 429 sino alla loro fine.


·Quindi l'ardimento della confederazione equa, giunse al punto di minacciare di saccheggio e di assedio, sin sotto le mura, la futura dominatrice del mondo,


·Senonchè nel 449, dinanzi a un compatto e poderoso esercito, capitanato dai consoli Saverrione e Sobo, gli equi, temendo la sconfitta, notte tempo abbandonavano il campo, con la intenzione di difendere ognuno i propri luoghi.


·Grave fu l'errore, perchè se uniti erano stati invincibili e potevano sperare la vittoria sui romani, divisi, ne divennero facile preda. Infatti in soli cinquanta giorni, furono dalle schiere romane espugnate ed oppresse ben quarantuno loro città, tra le quali Oricola. Insorsero gli equi nel 451, per riconquistare la perduta città di Albe, e in Roma destarono grande apprensione, ma creato dittatore Caio Bruto Balbutto, rimasero da questi soprafatti. Nel 452 ripresero le armi contro i romani, ma anche questa volta non sortì buon effetto la loro sollevazione, poichè furono affranti da Marco Valerio e può dirsi che venissero a scomparire dalla storia.


·La confederazione equa era formata da città indipendenti le une dalle altre. Si conoscono i nomi di cinque loro capitali: Trebe (Trevi), Carseoli, Nersae, Vetellia (Bellegra), e Albe, l'ultima delle quali è controverso negli storici, se fosse equa o marsa. Tito Livio, Strabone e Dion Cassio, portano Albe come cittá equa, mentre Festo, Silio Italico e Tolomeo la dicono marsa. I primi però sono più attendibili, tanto per la prevalente loro autoritá storiografa, quanto perchè i secondi sono più recenti e possono riferirsi a cambiamenti di circoscrizioni posteriormente avvenuti. Infatti, senza questa logica interpretazione, non potrebbe spiegarsi il tentativo degli equi, nel 451, di ricuperare la città di Albe Fucense. Tali capitali erano costituite solo come centri di luconomie (sic!) e come luoghi destinati alla discussione degli affari della speciale repubblica e non con dominio assoluto sulle altre città.


·Dagli storici antichi, gli equi venivano rappresentati come espertissimi nell'arte delle guerra, come istitutori delle leggi feciale e sacrata e come quelli che diedero agli altri popoli le nozioni del diritto pubblico.


·Secondo le norme feciali, in questo popolo, ravvisiamo la sua indole basata sulla equità e giustizia, inquantochè inspirate nel rispetto della vita e della proprietà altrui, nonchè sulla indissolubilità della famiglia e della Patria. Per le disposizioni della legge sacrata il carattere eminentemente bellico della stirpe era statuito sul dovere di difendere la terra natale, con la vittoria o con la morte. Nè può toglierne l'importanza morale, la descrizione che ci viene tramandata dall'Eneide, libro VIII, quando gli equi ci vengono ricordati usì a guadagnare la vita con la caccia e con la rapina. L'espressione al vivere rapto va intesa non come furto, scorreria e saccheggio, tanto comuni in quelle epoche primitive, ma come conquista di guerra.


·Al par degli altri popoli, anche gli equi ebbero dei re, il primo del quali fu Settimio Modio e il secondo Sertorio Resio, che fu dichiarato istitutore della legge feciale, quando Anco Marzio la fece adottare in Roma. Successivamente, nel 296, ebbero l'imperatore Gracco Clelio, che dopo aver cinto di assedio l'esercito romano, condotto dal console Minucio, fu fatto prigioniero da Cincinnato, accorso in aiuto del predetto console. A testimonianza poi di una epigrafe, rinvenuta nel Cicolano e riportata dal Longini, con il N. 34, in un tempo gli equi erano governati da un medixtuticus, per le cose religiose, civili e militari. Detto supremo magistrato aveva le stesse mansioni che esplicavano il dittatore nel Lazio, l'imperatore nella Sabina e il luconome (sic!) nell'Etruria. Ovidio nei versi, dal 689 al 711 del Fasti, libro IV, ci enumera le occupazioni di questo popolo, quando narra che l'uomo era intento alla coltura del suo terrenuccio con l'aratro, bidente e falce e la donna a racimolare con il rastrello le erbe del prati, a porre in cova le uova, a raccogliere gli erbaggi e i funghi, a riaccendere il fuoco già spento e a tessere la tela.



·Virgilio poi ci narra che gli equi rozzi, gagliardi e forti, erano soliti a coltivare armati il proprio campicello. Fra le loro armi si annoveravano le frecce di selce e di bronzo, la fionda e lo sparo, che era una specie di chiavellotto (sic!) micidialissimo, somigliante al pilo delle romane legioni. Silio Itatico narra che le armi da loro preferite erano nodosi bastoni, spade con punte corte ed elmi di bronzo con superbe creste. Virgilio, nel IX libro dell'Eneide, descrive gli equi belli nelle armature: Continuo Quercens et pulcher Equicolus armis. Quindi la loro vita poteva racchiudersi nel bimonio (sic!) economia domestica e guerra nella quale ultima ponevano ogni impegno e costanza. Nei concili nazionali come in genere i popoli antichi, d'Italia, si adunavano in un determinato luogo, nell'ambìto del proprio territorio, per discutere gli affari più importanti e specialmente se dovevano o no dichiarare una guerra, per la quale se ne eleggevano i supremi capitani.


·Detti concili cessarono, dopo la loro soggiogazione a Roma e li troviamo ripristinati durante la guerra sociale, nella importante Corfinio, presso Pentina nel Sannio, che fu destinata a Capitale, con il cambiamento di nome in quello di Italica. Ebbero corporazioni politico-religiose, tra cui le Augustali di origine romana. A capo degli Augustali, che erano ì ministri del lari di Augusto, vi era un collegio di sei magistrati chiamati Lari. Da qui ebbero origine i giuochi augustali, istituiti da Tiberio, nel 14 dopo Cristo, le cui feste in onore dell'Imperatore, si celebravano dai 5 agli 11 ottobre. I Lari rappresentarono i genii tutelari delle famiglie, costituiti da statuette, che venivano collocate in specie di tempi, chiamati lararium. Gli equi professavano, come quasi tutti i popoli primitivi, la religione monoteistica e conoscevano in origine solo il loro Giano. Con l'immigrazione pelasgica fu introdotto il politeismo e si ebbe un culto speciale per Marte Ultore, giusta l'epigrafe N. 45, rinvenuta in Carseoli e riportata dal Garrucci nel bollettino archeologico napoletano. Si venerarono inoltre Giove, Giunone, Vesta, Diana, Sole, Serapide e Minerva, a testimonianza delle iscrizioni epigrafíche, elencate nell'opera del ripetuto Longini, sulle Memorie Storiche sulla Regione Equicolana.


·Restano memorie che S. Pietro Apostolo si recasse personalmente in questi luoghi per evangelizzarne gli abitanti. Anzi giusta riferisce il Pierantoni nel suo Diario Sacro del Lazio, a pag. 126, S. Pietro Apostolo, reduce dalla inaugurazione dell'emissario del Fucino, ove aveva accompagnato i cristiani, che presero parte al finto combattimento navale, chiamato naumachia, indetto dall'Imperatore Claudio, fu ospite gradito in Carseoli, e per parecchi giorni, del centurione Cornelio, da lui convertito in Palestina. Sappiamo che gli equi, in Roma, furono tenuti in gran prestigio, ma, avvenuta la fusione con quel popolo, non li troviamo più accennati nella storia. Solo il rinvenimento di monete delle varie epoche, ci dimostra che questa regione fu sempre abitata.


·Gli equi vennero dai romani, ripartiti in quattro tribù: Fabia, Aniense, Terentina, e Claudia. La nostra Carseoli e adiacenze, nel 453 di Roma, andò a far parte della tribù Aniense.


·Ai tempi dell'imperatore Augusto, l'Italia venne divisa in undici regioni e gli equi fecero parte della quarta. Durante l'impero di Adriano, passarono a far parte della tredicesima provincia, mentre andarono a formarne la quattordicesima, all'epoca di Costantino. Ai tempi poi di Onorio, della provincia del Sannio, di cui gli equi facevano parte, si disgregò una zona per costituire la provincia Valeria, la quale fu la tredicesima ed era costituita di equi, sabini, peligni e vestini. Con i continui cambiamenti di circoscrizione, gli equi vennero a confondersi con i popoli vicini ed è perciò che rimane difficile fissarne la primitiva ubicazione: essi andarono a ingrandire le regioni del Lazio, della Sabina e della Marsica.


·Della lingua parlata dagli Equi prima della conquista romana non abbiamo annotazione; ma poiché i Marsi, che vivevano subito ad est, parlavano nel III secolo a.C. un dialetto molto analogo al Latino e poiché gli Ernici, i loro vicini a sud-ovest, facevano lo stesso, non abbiamo basi per separare qualcuna di queste tribù dal gruppo dei Latini. Se potessimo essere sicuri dell'origine della q nel loro nome e del rapporto fra la forma più corta e quella più lunga (nota che la i di Aequiculus è lunga -- Virgilio, Aen. VII. 744 -- il che sembra collegarla con il locative del aequum "una pianura", in modo che significhi "gli abitanti nella pianura"; ma in periodo storico certamente hanno vissuto principalmente nelle colline), dovremmo sapere se dovevano essere raggruppati con i dialetti con del q o con i dialetti del p, cioè, con da una parte con il Latino, che ha conservato un originale q o dall'altra con il dialetto di Velitrae, comunemente denominato Volsco (e i Volsci erano costanti alleati degli Equi), in cui, come nei dialetti Iguvini e Sanniti, un q originale è cambiato in p.


·Non c'è evidenza decisiva per mostrare se il q Latino di aequus rappresenti una q indoeuropea come nel Latino quis, cioè l'Umbro-Volsco pis, o un indoeuropeo k + u come in equus, Umbro ekvo -.L'aggettivo derivativo Aequicus potrebbe essere preso per metterli con i Volsci piuttosto che con i Sabini, ma non è chiaro se questo aggettivo sia mai stato usato come un reale etnico; il nome della tribù è sempre Aequi, o Aequicoli.


·Alla fine del periodo repubblicano gli Equi appaiono, sotto il nome di Aequiculi o di Aequicoli, organizzati come un municipium, il cui territorio sembra che abbia compreso la parte superiore della valle del Salto, ancora conosciuta come Cicolano. È probabile, tuttavia, che abbiano continuato a vivere nei loro villaggi come prima. Di questi Nersae presso Nesce, una frazione di Pescorocchiano, era il più considerevole. Le mura poligonali che esistono in considerevole quantità nel distretto, rappresentano una notevole testimonianza della loro cultura.


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·Gli Equicoli


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·L'alta valle del Salto, denominata Cicolano, deriva il suo nome dagli equicoli che un tempo l'abitavano. Fin dalla tarda età Repubblicana, le popolazioni stanziate nella nostra Valle furono identificate con questo nome. Gli Equicoli, appartenenti al gruppo linguistico tosco-umbro, occupavano la valle dell'Aniene la zona intorno al Fucino, la pianura Carsolana e la Valle del Salto che costituiva la principale via di comunicazione tra le popolazioni del Fucino, la Valle dell'Aniene, e della Pianura Reatina. Con il termine equicoli (Aequiculi /Aequicoli), entrano in uso nella letteratura e nell' epigrafia soltanto a partire dalla tarda età repubblicana (II/I sec. a.C.), si definivano le genti distribuiti lungo la, residuo dell' antica nazione degli Equi, il cui territorio, originariamente ben piu' vasto, dopo la conquista romana (fine IV-inizi III sec. a.C.) venne circoscritto in quest' area nel cuore dell' Appennino centrale, probabilmente corrispondente alla sua sede primitiva. La tradizione letteraria ci parla di due re degli Equicoli, Septimus Modius e Ferter Resius. Al secondo viene attribuita l' introduzione a Roma, al tempo del re Numa od Anco Marzio, dello ius fetiale (diritto dei feziali), attraverso il quale venivano nominati dei sacerdoti, i feziali, il cui compito era quello di regolare i rapporti con le popolazioni confinanti, tanto nei trattati di pace quando nelle dichiarazioni di guerra. Questa notizia viene riportata anche da un' iscrizione a Roma sul colle Palatino (CIL VI 1302), e conservato nell' omonimo museo: In generale gli Equicoli nelle fonti letterarie greche e latine sono descritti come un fiero popolo bellicoso, che vive di guerre e di saccheggi, ma anche di caccia, praticabile nei rigogliosi boschi della Valle del Salto, ed anche di agricoltura, per quello che l' asperità del territorio consentiva. Emblematica è la loro descrizione fatta da Virgilio nell' Eneide (Aen. VII 744-749) : In seguito alla sconfitta patita dai romani nel 304 a.C. , la popolazione degli Equi venne in gran parte sterminata, e quello che ne rimase venne concentrato proprio nel territorio della Valle del Salto, che assunse appunto il nome di ager Aequiculanus.



·Dal 1984 la Soprintendenza Archeologica del Lazio sta portando avanti una serie di campagne di scavo, indagini archeoligiche e ricerche di superficie atte a determinare i principali momenti degli insediamenti nella Valle del Salto, ad individuare le possibili forme di utilizzazione del suolo ed a delineare alcuni aspetti che caratterizzavano la società locale. E' stata condotta un'interessante campagna di scavo archeologico, finalizzata al recupero di una necropoli di tombe databili tra il VI e la prima metà del V secolo a.C.


·I primi insediamenti sono caratterizzati da alcuni villaggi all'interno della piana di Corvaro che sembrano resistere fino alla prima Età Imperiale. Nella stessa area si hanno le testimonianze più numerose di resti archeologici di notevole importanza relativi all'età del Bronzo. Con la costituzione nel 1927 della provincia di Rieti, il Cicolano, fino ad allora parte della regione Abruzzo, venne incluso nel territorio della nuova Provincia.


·Ne fanno parte i Comuni di Borgorose, Petrella Salto, Pescorocchiano e Fiamignano. Questa zona, il cui passaggio è caratterizzato dalla presenza di numerosi terrazzamenti di incerta attribuzione, attirarono l'interesse di alcuni studiosi del secolo scorso. Antichi municipi di quest'area furono Cliternia (l'attuale Capradosso), più vicina all'area sabina e la Res Pubblica Aequiculanorum che costituiva il Municipio territoriale mantenente l'antico aspetto pagano che aveva in Nersae il suo maggior centro ricordato da Virgilio e da Plinio: era L'età Augustea.


 






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