martedì 31 dicembre 2013

LI ODIO

 
Quest'uomo avvenente, 37 anni, una bella s ave moglie, cinque figli, una mula di recente acquistata per un salto sociale, viene chiamato alle armi nel 1917. La guerra va male, i comandi militari inetti, le strategie
miserevoli. L'esercito italiano è tutt'altro che glorioso, che eroico. I fanti in trinca infreddoliti, malvestiti, non nutriti, in disumane condizioni igieniche vengono falcidiati dai guerrieri austro-ungarici, militarmente addestrati, cecchini inesorabili.
Mio nonno non sa né di Trento né di Trieste. Viene reclutato per sopperire alle voragini umane che si avevano al fronte. Non dovrebbe andarci. Non è adatto alla guerra di alta montagna. E' ormai anziano. Già due fratelli sono stati immolati alla Patria, - ma Patria  solo per i nobili di paese che si sono fatti tutti riformare alla leva. Poi faranno i patriottardi.
 
Nel mese di marzo mio nonno viene goffamente vestito, gli mettono in mano un'arma che non sa maneggiare. Mio nonno non era un violento. Contadino, amava la terra, gli animali. Non era manco cacciatore. Lo portano ad Adernò. Non so quali elementi guerreschi poterono insegnargli in meno di un mese. Senza pietà, crudamente, cinicamente lo intruppano nella brigata Catanzaro,  nel 142 Reggimento Fanteria. Va a tappar buchi umani. La grande Patria è questa. E subito nelle doline di quota 238. So ora bene che cosa erano le doline di quelle montagne a ridosso di Trieste, oggi beffardamente in Slovenia. Per giorni ad intristire in quelle caverne allucinanti. Pidocchi, scarso cibo, acquattati come bestie in una tana. Di là i cecchini austriaci non perdonano. Hanno mire infallibili. Lì mio nonno vi viene tenuto nei freddi di alta montagna sino al 23 maggio 1917. Ogni giorno si fa scrivere una cartolina postale militare da chi non di eccelsa scolarità ma un periodo lo riesce ad abbozzare. Quando rileggo quelle cartoline di mio nonno, di chi generò mio padre che generò me maledico la Patria i militari i fascisti i reazionari i patriottardi del mio paese, quelli che vogliono i criminali d'India restituiti senza processo per glorificarli.
Il 24 maggio, insipientemente, così come avevano deciso di fare impidocchiare i figli del popolo nelle doline di Slovenia. decidono una folle disordinata ingiustificabile ritirata. Nelle ridenti lande venete si fa la conta. Mio nonno non c'è. Non ci si cura di sapere perché. Burocraticamente lo si dà per disperso. Dovesse risultare vivo dopo la guerra verrebbe degradato a "disertore" da fucilare. Avverrà dopo in Agosto con vicende che fecero inorridire persino il grande vate D'Annunzio.
Ma mio nonno, contadino inesperto, dove poteva andare in quella sgangherata e dissennata ritirata da alta montagna? Un cechino austro-ungarico l'aveva mirato e come coniglio pavido l'aveva stecchito.
Un eroe di guerra mio nonno, magari suo malgrado. Un padre di famiglia immolato per la patria dei ricchi. Per Trento e Trieste, per fare piangere il 4 Novembre presidenti di repubblica e bolsi generali, per il dispendio del monumento al milite ignoto di piazza venezia a Roma. Per tutta la trita retorica militaristica ancora tambureggiante. Ma non per un fiore, per un ricordo riverente, per un nome magari inciso in una lapide commemorativa in questo conclamato paese della ragione che è Racalmuto.
A Racalmuto mio nonno è nato; vi è nato come altri 31 "dispersi in guerra". Nessuno li onora. Eugenio Napoleone Messana anche lui cinicamente se ne serve per rimpinzare il suo vacuo libro di storia racalmutese e  aggiungervi le pagine 530 e 531.
Noi, nel nostro piccolo, li abbiamo onorati tutti e trentadue "dispersi in guerra" (ma no! trucidati in guerra) abbiamo visto che erano tutti della "bassa plebe" del vero popolo racalmutese. Molti loro discendenti oggi sono ascesi socialmente, sino talora ad essere egemoni.
Atri che né loro né i loro antenati hanno fatto un giorno da militare, imboscati insomma, stanno lì ad agitarsi per l'onore dell'ESERCITO ITALIANO, ma si guardano bene di un gesto di pietas cristiana verso questi negletti figli della Racalmuto sofferente. Sono diventati reazionari.

 LI ODIO.
 

Il vecchio glorioso autentico stemma di Racalmuto

Questo è il vecchio stemma di Racalmuto di cui ho detto abbastanza, questa la malcerta foto che siamo riusciti a trarre dalla lisa pala d'altare che si trova nella chiesa dell'Itria a Racalmuto; la pala la si attribuisce a Pietro D'Asaro; vi sono argomenti pro' ma anche contro. La chiesa fu fatta costruire per la sua sepoltura da quello strano arciprete (ammesso che allora vi fossero arcipreti) che fu don Vincenzo del Carretto ex matre incognita e fratellastro di quel Girolamo Questo è il vecchio stemma di Racalmuto di cui ho detto abbastanza, questa la malcerta foto che siamo riusciti a trarre dalla lisa pala d'altare che si trova nella chiesa dell'Itria a Racalmuto; la pala la si attribuisce a Pietro D'Asaro; vi sono argomenti pro' ma anche contro. La chiesa fu fatta costruire per la sua sepoltura da quello strano arciprete (ammesso che allora vi fossero arcipreti) che fu don Vincenzo del Carretto ex matre incognita e fratellastro di quel Girolamo del Carretto occisus a servo di cui tanto si favoleggia. Che questo sia l'unico autentico immarciscibile stemma di Racalmuto non vi dovrebbero essere dubbi: quelli ignudi e immondi e per giunta omertosi del 'Settecento massonico racalmutese dovrebbero lasciare il tempo che trovano. Ma si sa ormai, i racalmutesi ci tendono ad essere di tenace concetto (cocciutissimi). Il che però non significa che siano "infiltrati mafiosi": ma all'antimafia conviene così.
del Carretto occisus a servo di cui tanto si favoleggia. Che questo sia l'unico autentico immarciscibile stemma di Racalmuto non vi dovrebbero essere dubbi: quelli ignudi e immondi e per giunta omertosi del 'Settecento massonico racalmutese dovrebbero lasciare il tempo che trovano. Ma si sa ormai, i racalmutesi ci tendono ad essere di tenace concetto (cocciutissimi). Il che però non significa che siano "infiltrati mafiosi": ma all'antimafia conviene così.

Sindona la Malfa tom Carini altri e i fissati bollati di Lotta Continua

Lotta Continua a fine 1979 pubblica questa serie di fissati bollati. Dirigeva Lotta Continua il grande giornalista Enrico De Aglio. Quasi assistente ecclesiastico Marco Boato. Maliziosissima la foto di La Malfa junior. Intriganti quei fissati bollati: dimostravano fra l'altro che l'odiato e perseguitato don Michele Sindona, con le sue banche aveva fatto pervenire un certo foraggiamento monetario anche al conclamato sacrario dell'onestà politica  che allora si diceva essere il PRI, quello dell'edera insomma. Questa pagina è storica. Venne disseminata sugli scranni di Montecitorio. Vi fu reazione - ovvio - ma molto blanda.  Contra cartas non valet argumentum. Ma come diavolo aveva fatto lotta continua ad avere, capire, pubblicare, documenti e arcani moduli bancari? Pareva che tutto venisse da Romano Gattoni allora rivoluzionario di sinistra. Per quanto geniale era quel barbone alla Marx costui non aveva grado, competenza, accessi privilegiati a queste carte che erano finite alla magistratura di Milano ma erano ancora top secret e soprattutto furono, rimasero e sono ancora incomprese dalla supponente albagia magistratuale meneghina. Gli addetti ai lavori capirono subito chi era stata la talpa  ma temendola, perché ce ne aveva pure per loro, lasciarono in pace quella talpa dell'ispettorato vigilanza sulle aziende  di credito della Banca d'Italia. 

bah! torniamo al mio vecchio amore per Racalmuto, là dove nacqui

CONTRA HOSTES MEARUM DE CARETHESCA GENTE HISTORIARUM
Racalmuto alla fine del Trecento



L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un "impeto di giusto dispetto" come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.

Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.

Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar copo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.

Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della "parzialità" catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.

Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Rma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.

Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per iltrasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.

Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.»

Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno "Catalano", in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto "Catalano". Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico racalmutese.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronià vera e storicamente documentata.

Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti inziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per "necessità" finge di credere la nuova triade regale di Palermo.

Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.

Gli eventi precitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritiva a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?

Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.

I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.

Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgini e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.

Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.»



Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto



Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita :

Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno.
Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...

Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali conoscenze.

Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe.

lunedì 30 dicembre 2013

Si disse tre anni e mezzo fa --- ci siamo accorti che abbiamo autodelazione le cui conseguenza le stamo pagando adesso. Calcellieri e Alfano in questo non hanno colpa alcuna. Siamo tutti colpevoli


Sfogliando i miei tremendi archivi mi trovo questo post. E' pubblicato in un blog di gran successo, non come anonimo che riesce a intrufolarsi e di cui il direttore avrà tutte le responsabilità oggettive di questo mondo ma umanamente non n'è responsabile, ma come articolo di fondo, insomma di un post scritto accettato condiviso e propalato dall'intera testata come pensiero collettivo.
A distanza di tre anni e mezzo, più lo leggo e più non capisco. Ma credo che bene l'abbiano capito l'autorità di settore che avrebbero quindi fatto il proprio dovere  a metterci da oltre tre anni in quarantena democratica. Se oggi abbiamo commissari che applicando solo certe facce della legge ci hanno spalmato per i prossimi deci anni i debiti precorsi del comune  e che frattanto hanno determinato nell'anno scorso una tassazione e recupero di imposte e tasse evase per tre volte il pil locale prodotto, ringraziamo gli autori e propalatori delle successive sparate moralistiche.
C'è  chi va cercando i colpevoli. Ma siamo tutti colpevoli. Se non abbiamo manco la saggezza di astenerci dalla delazione di noi stessi, addirittura dell'autocalunnia, che si vuole? Paghiamo e basta. A meno che non capiamo che non è questione di mandare al Comune un sindaco onesto con una squadra onesta, ma una scelta globale di civiltà, un intellettuale collettivo che sappia accoppiare all'onestà che è da presumere per tutti sino a sentenza passata in giudicato per volere della Costituzione Repubblicana, una grande capacità manageriale che riparando agli errori del passato, purché senza spirito vindice, sappia rilanciare il paese in un prospero avvenire, che francamente noi racalmutesi ONESTI meritiamo

I DEL CARRETTO DI RACALMUTO

L'avvento dei Del Carretto a Racalmuto

L’avvento dei Del Carretto

 

 

PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO

 

 

 

Astrette in un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese.  Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»

Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.

Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.

L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.

 

*   *   *

 

Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le parrocchie di Regalpetra e Morte dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:

1.    Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([2]) è inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto. Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese. Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([3]) forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([4]); e contro la parte abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che poteva costargli una terrificante scomunica.

Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5]), dunque, non è mai esistito.

2.    Giovanni V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([6]) - il Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che  nel maggio del 1622  sarebbe stato perpetrato insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7]).

3.    Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo particolarmente crudele e brigantesco» ([8]) dal conte in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti - quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il terraggiolo con una donazione una tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non dovessero il terraggiolo (e cioè due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).   

Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di  vita 'appena descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.

 

*   *   *

 

Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI,  il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine ligure.

Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([9]):

In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine  è soprattutto da vedere la forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi  quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re Martino  a fare la detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto,  ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.

Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale»,  nel qual caso è di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve presentare e la sua investitura  e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.

Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto.  Nel processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?

Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto. 

In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.

Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in mano a Federico II  Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo per indugiare sui nostri dubbi.

Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([10]) aveva così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:

La terra con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.

Morto costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del cennato suo padre e soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere  per ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo  suo fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.

Il condam Matteo del Carretto, marchese di Savona, acquista i predetti beni e diritti dal  fratello Gerardo,  per il prezzo di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.

  E morto Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta terra  in un diploma ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.

      E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.

      E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.

      Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.



 

      E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il  padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del  proprio genitore. ([11])

 

Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa  per ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto, titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.

I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).» ([12])

Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([13]) Il Di Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque, anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur eccelsi araldisti.

In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto menzogneri  fossero quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.

 

Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione della  storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura tutt’altro che accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però,  è del tutto incolpevole, giusta quanto abbiamo prima illustrato.

 

 

Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce il prelato - l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,  il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti [.....]

 Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.



Et l'exponente processe con tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.



Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.

 



Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.



Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.



Con lo quale di più esso exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.



 

Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([14])

 

Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).

La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata  la base di un libro scritto poi, nel 1630, proprio dal Baronio. ([15])

Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).

Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.

 

Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([16]) alla famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano dei  Del Carretto anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.

Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [17]  e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino.   Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio, mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria araldica. [18] ( E questo già si disse).

 Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico II Chiaramonte  è il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.

 

Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[19] Valerio Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20]

Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano.[21] Quando, ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [22]  che poi segue passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.


 

 

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di comprimario, con tendenza al mendacio.

 

ANTONIO I   DEL CARRETTO

 

Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.

 

ANTONIO II  DEL CARRETTO

 

Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.

In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era solo millantato, comunque inconsistente.

A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.

Non sappiamo quando e dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del 12 marzo 1399.  Antonio II - pare certo - lascia in eredità ai figli:

«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»

In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:

«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in

«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum  civitatis Agrigenti, .... et eciam in  quoddam   hospitio magno existente in civitate Agrigenti  iuxta hospitium magnifici Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti  Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus  et singulis bonis stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis  sistentibus in toto regno Sicilie.»

Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato documento:

«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum Matheum et heredes suos.»

Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.


 

GERARDO  DEL CARRETTO

 

Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.

Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.

Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano.  Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.

In un atto dell’anno prima [23]  era tutto l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.


 

MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di Racalmuto

 

Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.

Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.

Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24] ne fornisce indubbia testimonianza;

 

 

[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.

 

«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli   quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru  e fichiruli  assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est  la nostra maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che  cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu  procuraturi di la presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria  [si occupi] plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.

Dirigitur Matheo di Carrecto»

 

Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.

Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.

Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.

 

La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([25]) del 1395 (die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del grande storico siciliano Gregorio ([26]): « Matheus de Carreto miles baro terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a risposta” così recitano:

"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio  de lu mastru rationali lu quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc providebit eidem.”

Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.

Il diploma prosegue:

"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.

Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a Malta.

Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.

E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.

Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.

Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.

Remictimus et gratiose relaxamus Matteo preditto omnem penam, culpam et offensam, dolum, delictum, fraudem, malitiam et omnem crimen et spetialiter crimen lese maiestatis in omnibus suis capitulis, depradationes, dampna homicidia et robberias et omnem culpe causam que prefatus Mattheus commiserit hactenus et perpetraverit, quesiverit et ordinaverit motu proprio vel alieno, tam contra personas quam contra statum nostrarum maiestatum, nec non contra consiliarios nostros atque fideles et vassallos atque extraneos et loca fidelia serenitatis nostre, parcentes et indulgentes ipsi Mattheo eius uxori et filijs, familiaribus et domesticis suis ac restituentes eosdem ad statum pristinum et honores et famam integram tam quo ad personam quam etiam ad baronias et omnia bona feudalia et burgensatica ubique existentia mobilia et immobilia, et specialiter ad terras et castra predictorum Rachalmuti et ad jura et actiones sibi hactenus competentes et ad bona omnia quocumque nomine censeantur, que omnia etiam si opus est de novo conferimus, concedimus et donamus prefato Mattheo et suis heredibus in perpetuum, eo modo et sub illis oneribus et servitijs quibus ea tenebat et possidebat ante perpetrationem criminis supraditti; donationibus, concessionibus et alienactionibus  quibuscumque  de bonis ipsis aut alterius ipsorum alicui per nostras serenitates factas quas de certa nostra scientia plena concientia et absoluta potestate pro bono pacis  et beneficio publico revocamus, irritamus et penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito etiam quod in prefatis nostris concessionibus sit adietta clausula remissionis fatta et fienda non obstante, vel eciam si in illis nostris concessionibus diceretur quod quecumque remissio non  preiudicet illis nisi in ea ponantur forma dittarum concessionum de verbo ad verbum vel forte alia formula verborum sub quacumque  conceptione verborum sit in illis [3] apposita, quibus clausulis derogamus expresse  de conscientia nostra et plenitudine potestatis regie annullamus etiam et irritamus omnes sententias, editta de certa etiam  iuditia contra ipsum Mattheum edita, lata et promulgata per magnam regiam curiam de crimine lese maiestatis ac si contra eumdem numquam prolata fuisset.

Questa la formula assolutoria, ampia, faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?

 Insuper confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia et singula privilegia per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo vel suis concessa seu indulta sub servitijs et conditionibus contentis in eis et quolibet eorumdem  ac etiam expressatis iuxta modum et formam capitulorum predittorum et responsionum per nos fattarum eisdem ut superius continetur, nostris tamen et alterius iuribus semper salvis.

La chiosa finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.

Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria [27] che ha modo di narrare:

«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...

Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»

[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]

Rex Siciliae etc. Consiliare noster, La nostra maiestati ha gran plachirj di exercitarj et legirj lucanu in franciscu, maxime per mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki vui vi haviti unu bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki nj dijati complachirj et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo plachiriti la excellentia nostra.

Data Cattanie sub nostro sigillo secreto quinto Junij, quinte indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki per portari lu dictu libru vi mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj nj mandiriti lu dictu libru. Data ut supra.

Dirigitur matheo de carrecto.

Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.

(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)

 

Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto


 

GIOVANNI I DEL CARRETTO

 

Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto impero. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del ’Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.

Nel processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto, abbiamo dati alquanto biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:

 

dictus quondam magnificus dominus  Mattheus de Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..

 

 

Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà l’erede nella baronia Federico del Carretto.

Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data del processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) genera incertezze, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni da parte di un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore delle proprie fortune.

Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una lettera ([28]) da Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.

Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto:  v’era la successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è stata sistemata come segue:  30 once in contanti e dieci a compensazione  di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.

Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.

Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene precisata la fonte.

 

 

 

Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». [Per ACA  Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria.  Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto  affidata a Gispert d’Isfar.

Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).


 

FEDERICO  DEL CARRETTO

 

 

Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.

Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo visto dai passi in latino sopra riferiti).

“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto; non manca del requisito della primogenitura maschile come imposto dal diritto feudale dell’epoca [29].  Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo sa - non ha dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:

«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » [30]

Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste condizioni:

n presti il cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;

n renda l’omaggio nelle forme solenni del tempo;

n restino salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;

n e del pari restino riservate  alla Corona le miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;

n resti salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli equipaggiamenti regi.

Per il resto possesso assoluto sino al mare.

Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di forward in grano. La domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850

Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi,  Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».

 

 

GIOVANNI II  DEL CARRETTO

 

La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.

Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo nessuna  ... memoria. Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore  [natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto [31].

Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli [32] che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio

Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. e 7 Ind. et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua[33]