Da un rivelo del 1658 è possibile trarre un quadro dei
possessori di bestie da soma in quel di Racalmuto. Molto attendibile per motivi
fiscali:
·
il numero dei fuochi era di 1239 per 5.165 ;
·
in paese vi erano 52 cavalli;
·
le giumente, invece, in minor numero, appena 38;
·
i buoi, 218 a testimonianza del fervore dei
lavori agricoli;
·
le “vacche di aratro”, n.° 191.
Pecore e capre non vennero conteggiate; e crediamo anche
gli asini.
Asini e muli s’intensificarono nell’Ottocento con
l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il tempo dei “vurdunara”. Scrive
Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo citato (p. 118): «Il solo
trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia dell’unità richiese l’impiego di
3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e propria armata in permanente stato di
mobilitazione.» Fino all’entrata degli americani, nel 1943, la teoria di asini
con il loro carico di “balate” di zolfo era consueto per le trazzere che da
Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si portavano alla stazione ferroviaria.
Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E l’afrore delle urine che stagnavano
nelle solite pozzanghere è rimasto memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi
sempre al solito posto per le sue evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso
del carretto, appena le carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss degli americani, la
meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per nutrimento, è stata uno sport, una
passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel
feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare
tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a
tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il
bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una volgare guardia
campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo
famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva leggere il racconto del
processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi
si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via
Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta,
passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu
da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci
seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso
vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante era stato il barone;
l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia. Va
letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [1]
«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli
nobiliari, ndr] sta che al mio paese,
dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era
sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e
forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il
barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello
abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile
condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il
barone, mi si faceva un racconto minuzioso:
ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue
spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità
piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di
lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire
popolare la canna, forse perché data all’ecce
homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè
inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra
del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio
dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia
campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera anonima avverso i
Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata –
ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la nuova guardia comunale
Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si
scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà
del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso
non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si
pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette
dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o
meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore
del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre
zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per
l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
i)
Archeologia
e preistoria
In sintonia
con Milena, Racalmuto fa risalire le sue ascendenze umane comprovate al
Neolitico. La fase neolitica dei dintorni racalmutesi è variamente comprovata.
«Frammenti di ceramica impressa [provenienti dalla] contrada Fontanazza presso
Milena» [2] comproverebbero
insediamenti umani risalenti addirittura al VI-V millennio a.C. La citata
contrada non confina con il nostro territorio ma non sta molto discosta e se
insediamenti umani vi erano in quella lontana epoca neolitica colà, non è poi
azzardato congetturare che incuneamenti abitativi vi dovettero essere a
Racalmuto. Futuri scavi archeologici – ne siamo certi – lo comproveranno. A
Serra del Palco, sul versante ovest di Monte Campanella in Milena, scavi
eseguiti negli anni 1981-82-83 hanno messo in luce «un insediamento del
neolitico medio, ripreso attraverso i vari momenti dell’età del rame.» [3] Fu epoca
questa – antichissima – in cui i nostri antenati seppero costruirsi le capanne
abitative, il La Rosa propende per «introduzione della “cultura del recinto”» e
ciò come peculiarità «del processo di neolitizzazione della fascia sud-occidentale dell’Isola,
determinato verosimilmente dall’arrivo di piccoli gruppi transmarini,
rapidamente assimilati.» [4] E
continuando con l’esimio archeologo, vaggiunto che « … l’episodio si consuma
nell’ambito del neolitico medio, magari attardato [attorno al terzo millennio
a.C. dunque, ndr] , e certamente in
un momento anteriore alla introduzione della tessitura (nessun elemento di
fuseruola è stato sinora restituito dallo scavo). […] La documentazione di
questa “cultura del recinto”, la sua brevità, l’assenza finora di materiali più
tardi di quelli stentinelliani associati a ceramica tricromica, sono dunque i
dati di maggior rilevo per uno specifico approccio al fenomeno della
neolitizzazione nella media valle del Platani.»
Lo
sprofondo di Gargilata - con le sue
acque (ora purtroppo sparite), con monti gessosi (atti alle tombe e validi per
la difesa), con la sua stretta contiguità alle zone archeologiche già indagate
– fa affiorare ceramiche antichissime, che, quando verranno studiate, non
potranno che dar la prova di un fenomeno di neolitizzazione anche in terra
racalmutese: e la presenza umana verrà posticipata rispetta alla datazione del
Griffo ma risulterà di sicuro presente già da prima del secondo millennio a.C.,
anche se, a quanto pare in base alle recenti risultanze archeologiche, non di
molto.
Sulla falsa riga di quanto tracciato da Carla
Guzzone sul neolitico a Serra del Palco (vicina ed omologa al territorio nostrano
di Nord-Est), ipotizziamo presenze umane racalmutesi del tutto analoghe a
quelle evolutive del Neolitico (ben 5 momenti) e della successiva età del rame
(due momenti). Per abbozzare un quadro di ampia massima, siamo costretti per il
momento, in mancanza degli indispensabili e non più rinviabili scavi
stratigrafici, a riecheggiare la sintesi della Guzzone [5]:
a)
il primo momento è quello dei fori sul banco roccioso,
destinati all’alloggiamento di pali lignei per la perimetrazione e il sostegno
della copertura di capanne;
b)
il secondo momento è quello delle capanne con battuti
pavimentali;
c)
segue poi la fase monumentale; impianti realizzati con
tecnica accurata (grossi blocchi rinzeppati da piccole pietre), con probabili
alcove e con probabili contenitori di derrate;
d)
il quarto momentoè quello dei rifacimenti;
e)
un quinto ipotetico episodio edilizio sarebbe
rappresentato (se davvero può riferirsi al neolitico) da un bel focolare
impostato su di uno strato di giallastro.
Per un
quadro d’assieme, con particolare riferimento all’età eneolitica, riportiamo
queste note di sintesi di Laura Maniscalco: [6]
«L’età del
rame … è rappresentata da un gran numero di stazioni. […] I siti individuati,
sia attraverso scavi che da semplici ricognizioni sul terreno, sono tutti di
carattere domestico, manca una altrettanto ampia documentazione relativa
all'aspetto funerario. Alcune tombe a forno presenti nella zona e
presumibilmente attribuibili a questo periodo, risultano violate da tempo.»
Discorso
questo valido per le tombe a forno di Fra Diego: anche in riferimento alle
affermazioni della Maniscalco, può dirsi che la nostra spettacolare necropoli
di Gargilata va ricondotta temporalmente all’età del rame, a circa l’inizio del
secondo millennio a.C. Vi si attagliano le risultanze archeologiche della
vicina Rocca Aquilia la cui similarità e la cui propinquità con Gargilata sono
incontestabili. Per quel che ce ne riferisce la Maniscalco, «i saggi eseguiti a
Rocca Aquilia hanno restituito sequenze stratigrafiche complete dal tardo neolitico
alla fine dell’età del rame.» Come dire sino alle soglie dell’età del bronzo,
cioè ad immediato ridosso del secolo XVII. Ovvio che le date sono di mero
riferimento, atteso il continuo ripensamento delle datazioni preistoriche.
Scavi
recenti a Milena ragguagliano sulle presenze insediative risalenti alle fasi
finali del bronzo antico; [7] quelle del
bronzo medio sono state comunicate sin dalla loro individuazione nel 1988 dal
prof. Vincenzo La Rosa [8]. Il continuum del vivere preistorico nell’hinterland del fiume Gallo d’oro, la cui
ampia ansa dal Monte Castelluccio al Platani abbraccia anche i displuvi
castellucciani racalmutesi, è ormai ampiamente ed esemplarmente documentato
nell’area nissena; solo per risibili barriere circoscrizionali, ciò manca per
le nostre ancor più ubertose plaghe.
A mo’ di
nota conclusiva, per avere una chiave di lettura, della vicenda preistorica
della civiltà sicana racalmutese, valgano questi stralci da uno studio di
Fabrizio Nicoletti [9]:
«Non sappiamo se la nostra regione sia stata
popolata in un periodo anteriore al neolitico. I reperti della grotta
dell’Acqua Fitusa, a monte del fiume, lasciano sperare in future scoperte. Già
da ora la nostra attenzione può concentrarsi su un gruppo di manufatti
inquadrabili tipologicamente tra i pebble tools. [..] La cronologia dei discoidi è .. incerta, per quanto la loro
presenza nel territorio risulti [piuttosto] capillare. Un bifacciale da
contrada Cimicia, di forma ovale, sembra potersi confrontare con esemplari
analoghi diffusi nella Sicilia centrale. Nella maggior parte dei casi si può
pensare ad una datazione compresa tra il neolitico medio e le prime fasi
dell’età del bronzo. […] Il neolitico, sin dai livelli più antichi di Serra del
Palco-Mandria, vede la comparsa di quel singolare e ricercato vetro vulcanico
che è l’ossidiana. La sua origine allogena non lascia dubbi circa la nascita di
una rete di scambi che in questo periodo interessò la valle del Platani.[…]
L’ossidiana grigia segue l’andamento generale: in ascesa durante la fase delle
capanne, in declino durante quella dei recinti, in rapida ascesa alle soglie
dell’eneolitico, quando diviene quasi l’unico tipo attestato.[…] Nonostante le
consistenti importazioni di ossidiana, la materia prima maggiormente usata in
tutti i periodi, almeno a partire dal neolitico medio, è una varietà di selce a
grana fine dai colori variabili dal giallo-verde, al rosso, al marrone, spesso
mescolati su un unico pezzo a testimonianza della medesima origine. […]
L’industria del villaggio sommitale di Serra del Palco è la più tarda tra
quelle conosciute nella media valle del Platani. Il progressivo sviluppo
culturale dalle forme castellucciane a quelle thapsiane è in questo sito
accompagnato dalla presenza di materiali micenei. […] C’è da chiedersi quale possa essere stato il ruolo delle
importazioni micenne in un radicale mutamento che, oltre agli aspetti già noti,
sembra coinvolgere la stessa tecnologia litica. …»
Succede
così il periodo miceneo con le sue belle tombe a tholos e gli evoluti manufatti
metallici [10]. Racalmuto
non ha, però fornito sinora alcun dato che attesti la presenza di quella
civiltà. Per rarefazione antropica o per effetto di puntuale vandalismo che ha
fatto sparire le testimonianze, almeno quelle più evidenti?
Ma se tombe
a tholos dell’età del bronzo il
Tomasello [11] ha
individuato in località Furnieddu
(c/o Sorgente), così prossima ai
confini della Culma, come essere certi che esse non vi fossero più nelle
circonvicine terre racalmutesi?
«La tomba
di Furnieddu – precisa il Tomasello – ma soprattutto le due camere thoidali
costituiscono per le loro caratteristiche una presenza archeologica
significativa nella Sicilia centro-meridionale della media e tarda età del
bronzo e confermano sempre di più l’importanza di questo comprensorio geografico
nel contesto della preistoria siciliana.» Ed aggiunge: «sul piano culturale,
significativa per la puntualizzazione del quadro delle relazioni con il mondo
miceneo risulta la presenza di questa tipologia architettonica di matrice egea
in un territorio così interno della Sicilia; il tradizionale panorama dei
rapporti con l’Egeo sembrava, infatti, voler privilegiare i territori costieri
dell’Isola e quasi esclusivamente quelli sud-orientali. Inoltre, il materiale
funerario attribuito alle due tombe di Monte Campanella e assegnabile quanto
meno al XII secolo a.C. ha consentito di antedatare la penetrazione di questa
tipologia architettonica nella Sicilia centro-meridionale e di tentarne una
periodizzazione. Infatti la tradizionale
datazione delle tholoi in roccia della vicina Sant’Angelo Muxaro, fissata da
Paolo Orsi all’VIII secolo a.C., sembra adesso difficilmente ancora
sostenibile.»
Risalirebbero
addirittura al XV/XIV secolo a. C. i primi rapporti di questi luoghi con i
micenei. «Gli indizi di una pregressa serie di contatti – si interroga
l’insigne archeologo – con il mondo indigeno, compresi tra il XV ed il XIV
secolo a.C. (TE IIIA) e attestati nello stesso sito di Milena, portano a
chiedersi se la verosimile sequenza cronologica proposta da Pugliese Carratelli
per la famosa “saga” Kokalos e Minosse non risponda ad un quadro storico reale,
articolato sulla ubicazione, natura, dinamica ed esiti di questi contatti nel
lungo termine.» Ritorna l’ipotesi cara a De Miro secondo la quale «nella zona
agrigentino-nissena possano essersi verificati, in concomitanza con l’arrivo
dei manufatti egeo-micenei, dei veri e propri stanziamenti di nuclei
transmarini, che avrebbero poi continuato, pur con identità culturale
progressivamente meno nitida, ad elaborare tipi e motivi del patrimonio
originario. Queste popolazioni avrebbero così contribuito direttamente alla
formazione del sostrato, determinando anche l’adozione di tipi come la tomba a
tholos.» E ciò non poté non riguardare il confinante nostro entroterra.
Una tomba a
tholos pare che ci fosse addirittura alla Noce, proprio nel podere vezzeggiato
da Sciascia e con lui da Bufalino. Pare che fosse subcircolare, volta a
calotta, banchina interna a ferro di cavallo e persino dotata del simbolico
incavo cilindrico sommitale, l’invito segnaletico alle anime di trasmigrare da
lì nel mondo dei cieli. Lo Scrittore pare l’abbia fatta inglobare quando
fabbricò il suo estivo eremo. Sappiamo da Occhio
di capra che il vedersi al
Chiarchiaro era per Sciascia come un dover trasmigrare fra gli inferi, in
un luogo di morte ove tutti ci si incontra. Ed anche su di lui giocava forse il
popolare abbrividire al ricordo «delle
antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne
trovano». Nel dubbio, quella sua grotta della morte antica venne ascosa in
interno ipogeo, risuscitato alla conservazione delle cose della vita.
Confessiamo
che quanto a datazione siamo stati spesso frastornati dall’ondivaga
periodizzazione dell’antica e nuova scienza archeologica. Meritevolissimo
quello che hanno fatto a Milena: hanno rimesso ai vari dipartimenti di fisica e
di fisica nucleare dell’università di Catania i reperti ceramici ed hanno così,
potuto stabilire età, sì, presunte ma
con approssimazioni di mezzo millennio che per le cose preistoriche sono
davvero una bazzecola. Si afferma che sui «campioni ceramici … è stato
possibile operare la datazione tramite termoluminescenza (versione coars grain)» [12] che sono
termini per noi davvero ostrogoti. Ne vien fuori questa serie di età presunte
in BP e cioè a dire before present
(prima del presente):
sito strato
|
età presunta
|
Serra del Palco
recinti
|
|
Recinto maggiore
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6893
|
864
|
864
|
4893
|
5757
|
4029
|
7445
|
1068
|
1068
|
5445
|
6513
|
4377
|
6852
|
871
|
871
|
4852
|
5723
|
3981
|
7770
|
981
|
981
|
5770
|
6751
|
4789
|
7055
|
739
|
739
|
5055
|
5794
|
4316
|
10148
|
2292
|
2292
|
8148
|
10440
|
5856
|
6773
|
398
|
398
|
4773
|
5171
|
4375
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
5361
|
6278
|
4443
|
RECINTO MINORE
|
NEOLITICO MEDIO
|
|
|
7000-6500 BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
6387
|
447
|
447
|
4387
|
4834
|
3940
|
6923
|
600
|
600
|
4923
|
5523
|
4323
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
4655
|
5179
|
4032
|
FONTANAZZA IV
|
|
CAVE
|
RAME
|
|
5500-600O BP
|
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
|||||||
4759
|
427
|
427
|
2759
|
3186
|
2332
|
|||||||
4773
|
615
|
615
|
2773
|
3388
|
2158
|
|||||||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
2766
|
3287
|
2245
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO MEDIO
|
|||
|
3400-3200 BP
|
|||
età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
3248
|
590
|
590
|
1248
|
1838
|
658
|
3690
|
820
|
820
|
1690
|
2510
|
870
|
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1469
|
2174
|
764
|
SERRA DEL PALCO – SOMMITA'
|
|||||||
SEQUENZA STRATIGRAFICA
|
BRONZO ANTICO
|
||||||
|
3800-3600 BP
|
||||||
Età BP
|
+
|
-
|
ETA' PRESUNTA non BP
|
Età a.C. MASSIMA
|
Età a.C. 2 MINIMA
|
||
3420
|
367
|
367
|
1420
|
1787
|
1053
|
||
4205
|
461
|
461
|
2205
|
2666
|
1744
|
||
4303
|
619
|
619
|
2303
|
2922
|
1684
|
||
MEDIA
ETA'
|
MEDIA
ETA' MASSIMA
|
MEDIA
ETA' MINIMA
|
1976
|
2458
|
1494
|
Ne desumiamo che anche per Racalmuto la più antica
presenza umana comprovabile risale al Neolitico medio e cioè attorno a 5361
anni prima di Cristo (al massimo a 8278 anni fa, al minimo 6443 anni addietro).
Il neolitico medio racalmutese risale dunque in BP (before present, prima del presente) a 7000-6500 (5000-4500 a.C.).
Le datazioni del Griffo relative a materiale conservato nel museo regionale di
Agrigento sarebbero quindi confermate.
Non dovrebbero
significare molto le pur cospicue differenze di datazione dei reperti del
recinto maggiore e di quelli del recento minore di Serra del Palco: solo uno
spostamento nel tempo dell’insediamento umano, ma sempre nell’ambito del
Neolitico medio (7000-6500BP). Questo comunque il quadro di raffronto
Denominazione
|
Età media
|
Età massima
|
Età minima
|
Recinto maggiore Serra del Palco |
5361
|
6278
|
4443
|
Recinto minore Serra del Palco
|
4655
|
5179
|
4132
|
differenza
|
706
|
1100
|
311
|
Forse possiamo congetturare che sino al 4100 a.C. nei
dintorni di Milena, e quindi anche a Racalmuto, persisteva il Neolitico medio.
Congetture analoghe per l’età del rame: dal quarto
millennio a.C. sino all’esordio del 3° millennio (i reperti archeologici
oscillano attorno al 2700 a.C. in un arco di tempo ipotizzabile tra un
massimo (3287 a.C.) ed un minimo (2.245 a.C.). Abbiamo quindi le tre fasi
dell’età del bronzo: bronzo antico con ceramica che può pur risalire al 2.303
a.C.; bronzo medio, iniziato probabilmente attorno al 1700 ed il tardo bronzo
che si aggancia all’età del ferro per sfociare nel c.d. miceneo.
Certo, in avvenire, quando scavi stratigrafici verranno
praticati anche a Racalmuto e potranno utilizzarsi i ritrovati (immancabili) di
una tecnologia sempre più sofisticata, le datazioni suesposte risulteranno
senza dubbio imprecise, ma allo stato delle nostre conoscenze (o meglio nel
buio assoluto oggi lamentabile per la preistoria racalmutese) queste
cifre-simbolo una qualche luce, un certo orientamento paiono fornirlo.
Sui Sicani racalmutesi abbiamo solo i ritrovamenti del
Mauceri del 1879 di cui parliamo in vari
punti di questa trattazione: ci pare sbagliata persino la località del
reperimento dei reperti archeologici, essendo forse improprio il toponimo di
Pietralonga (località invero di Castrofilippo). A dieci chilometri di strada
ferrata da Canicattì (come scrive lo stesso Mauceri) non ci pare che ci possa
essere la contrada di Pietralonga: prescindendo dall’esattezza del
chilometraggio, si potrebbe trattare delle cave di pietra ancor oggi visibili a
ridosso del cozzo Mendolia, tra la stazione ferroviaria di Castrofilippo e la
galleria in territorio racalmutese. Abbiamo già riportato ampi stralci delle
note del Mauceri per non doverci qui ripetere. Erano davvero quelle tombe e
ceramiche risalenti al secondo millennio a.C. e cioè alla fase terminale del
bronzo antico? Non lo sapremo mai, almeno fino a quando scavi nella zona non
faranno emergere ceramiche analoghe a quelle dell’ottocentesco ingegnere
ferroviario, andate purtroppo irrimediabilmente perdute.
Le tombe a forno della parete del costone roccioso, sparse
tutte attorno alla grotta di fra Diego, sono tanto vistose e suggestive, quanto
del tutto inesplorate (ad eccezione dei tombaroli che possono violare a loro
piacimento in assenza di ogni tutela pubblica). Sicuramente sicane, di certo
antiche di svariati millenni, attendono di raccontarci la loro storia
archeologica.
Una tomba singolare abbiamo scoperto nell’estate del 1999
in contrada Piano di Botte: con Pietro Tulumello ne abbiamo fatto un servizio
fotografico, almeno in tempo non potendosi escludere che vandaliche
manomissioni ne stravolgano l’assetto geoantropico. Attorno si è ormai
consolidato l’assestamento steppico che abbiamo sopra segnalato: deturpato da
un osceno traliccio, abbraccia il notevole masso tombale un prato erboso in
inverno-primavera, in giallo per le stoppie in estate-autunno. In fondo, il
caratteristico Cozzo Tondo, in linea ideale con la più caratteristica zona
archeologica milocchese. Ad est, l’ubertosa collina della Culma, a Nord-Ovest:
un minuscolo vigneto ed il melanconico colore degli accumuli dei rosticci di
una dismessa miniera di zolfo. Prima uno
dei mulini sul vallone: uno dei cinque mulini cinquecenteschi dei Del Carretto.
E, prima ancora, la zolfara di Piano di Corsa, così vicina al cimitero, ove fu
rinvenuta la Tegula Sulfuris venduta
al Salinas, da far congetturare essere là attorno la località solfifera
sfruttata al tempo dell’impero romano. In un raggio di cinquecento metri, ben
tre interessantissime testimonianze archeologiche, di ben tre distaccatissime
epoche. Lo scisto gessoso sembra essere disceso dall’apice montano, lungo la
bisettrice della vallata Nord del Castelluccio, a seguito di fenomeni di
distaccamento dovuti agli assetti tellurici del miocene. Piuttosto isolato, fu
utilizzato per evidenti fini tumulativi in tempi sicuramente sicani. L’incavo,
alto ben oltre la statura di un uomo, ma stretto e poco profondo, è un
manufatto antico, posteriore di sicuro ai tempi delle prische tombe a forno di
fra Diego, ma antecedente rispetto alle più evolute forme dei tholoi di Monte
Campanella. Sotto il profilo archeologico, non possiamo vantare competenza
alcuna, neppure dilettantistica, per cimentarci in datazioni o altro
specialistici ragguagli. In via di larga massima, saremmo propensi a ritenere
l’epigeo funereo databile attorno all’anno mille a.C. Lungo tutto il pendio di quella vallata
sporgono qua e là massi similari. Lungo la stessa direttrice, più in alto,
sotto un’ansa della rotabile del Ferraro, un altro analogo masso gessoso,
reclinatosi di recente ad opera dell’uomo, mostra due antiche tombe, ma per
fattura e caratteristiche ci paiono bizantine. Dovremmo, quindi, essere tra il
sesto e l’ottavo secolo d.C., ai tempi cioè del tesoretto di monete bizantine
trovate negli anni Quaranta in località Montagna. [13]
Anche qui, tutt’intorno fino a fondo valle, steppa. L’interruzione delle
piantagioni della Forestale non ci pare perspicua, con quegli estranei,
desolati e desolanti, eucalipti. Sotto la strada, recenti sono i vigneti:
sopra, il lussureggiare delle coltivazioni e dei frutteti che ancora residuano
dall’opera settecentesca degli agostiniani.
E’ la zona dei calanchi, della nudità arborea per il
dilavamento piovano. Come in quelle zone potessero stanziarsi e gli antichi
sicani, così poveri di mezzi, ed anche le popolazioni bizantine, resta per il
momento un mistero. E’ da pensare che allora là vi fossero boschi e l’humus
perdurasse ancora ferace? Quell’abbarbicarsi ad ogni scisto di roccia per
tumulare i propri estinti, lo farebbe arguire. Diciamo pure che l’irradiazione
dal centro di Gargilata fu nei secoli una costante: ferace il territorio
circostante, fervida l’opera dell’uomo nel coltivare dove fosse possibile,
anche lungi dalla capanna sicana o dalla frugale dimora coperta di tegole, di
canali d’argilla cotta.
In queste desolate contrade, in cima al Castelluccio,
tutt’intorno, al Serrone, giù al Rovetto, alla Montagna, alla Noce, al
Saraceno, ai Malati, al Pizzo di Don Elia, al Giudeo, ed altrove, affiorano ancora le sciasciane necropoli, non
vistose come quella di Gargilata. Invece di sperperare fondi pubblici in
insulsi “musei in piazza”, è da sperare che le future autorità locali
recuperino codeste nostre radici dell’ancestrale memoria sicana.
In questa estate, quando abbiamo fatto vedere il manufatto
sicano di Piano della Botte al noto G. Palumbo di Milena, costui era piuttosto
propenso a valutare il rudere come un tentativo di tholos, lasciato cadere
forse per abbandono coatto della località. E’ tesi suggestiva. Resta, allora,
da spiegare perché, in una certa fase della loro vicenda racalmutese, i sicani
del luogo dovettero fuggire. Le ipotesi tante:
aggressioni belliche; sopraggiunta insalubrità della zona; alluvioni; dissesti geologici. Chissà se
potrà darsi in avvenire una valida risposta. Frattanto, si faccia qualcosa,
come nelle zone del vecchio (e per noi, migliore) toponimo di Milocca. Già, Milena docet!
[1] ) Leonardo Sciascia, Nero su nero, ed, Einaudi Torino 1979, pp. 161-162.
[2] ) Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 219; vds. pure Vincenzo La Rosa, L’insediamento
preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena, in Dalle capanne alle “Robbe”, cit. p. 43.
[3] ) Vincenzo La Rosa, L’insediamento preistorico di Serra del Palco in territorio di Milena,
in Dalle capanne alle “Robbe”, cit.
p. 43
[4] ) ibidem, p. 52.
[5] ) Carla Guzzone, La ceramica del villaggio di Serra del Palco ed il territorio di Milena
in età neolitica, in Dalle capanne alle
“robbe” … cit. p. 55 e ss.
[6] ) Laura Maniscalco, Le ceramiche dell’età del rame nel territorio di Milena, in Dalle capanne alle “robbe” .., cit., p.
63 e ss.
[7] ) Orazio Palio, La stazione di Serra del Palco e le fasi finali del bronzo antico,
in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 111 e ss.
[8] ) Vincenzo La Rosa – Anna Lucia D’Agata, Uno scarico dell’età del Bronzo sulla Serra
del Palco di Milena, in Dalle capanne
alle “Robbe” … cit, p. 93 e ss.
[9] ) Fabrizio Nicoletti, Industrie litiche, materie prime ed economia nella preistoria della
media valle del Platani: continuità e cambiamento, in Dalle capanne alle “robbe” … cit.
p. 117 e ss.
[10] )
Resta ancora basilare il vecchio studio del 1968 del De Miro, riportato anche
nel volume “Dalle capanne alle robbe
..” varie volte qui citato. Molto ha aggiunto Vincenzo La Rosa, come si vede
nello studio riportato a p. 141 e ss. Del citato volume.
[11] ) Francesco Tomasello, Le tholoi di monte Campanella a Milena (Cl),
in Dalle capanne alle “robbe” .. cit.
p. 165 e ss.
[12] ) vds. Dalle capanne alle “robbe” .. cit. p.
241 nota a Tab. 1)
[13]
) v.d.s. André
Guillou, L'Italia bizantina
dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316., per la
datazione e Pietro Griffo, Il museo archeologico regionale di Agrigento,
Roma 1987, p. 192 per la data del
ritrovamento.
.
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