PARTE PRIMA
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri periodizzanti
L’oggetto
della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale,
organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra
agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una
profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda
l’istituto podestarile.
Per
convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non
è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la
vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in
coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa
sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia,
ormai sterminata, sul fascismo.
Sono
criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali
e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce
è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista
definendola «funesto regime che è stato
una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]),
non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve
svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la
“rivoluzione fascista”.
Per
l’Ercole ([2]),
ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla
“marcia su Roma” al discorso del 3
gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle
“corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista -
dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23
marzo-28 ottobre 1922.
Ma
nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un
succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito
del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il
vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il
momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
“insurrezionale”, ‘violenta’, che non è
da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per
l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la
reiterata minaccia della cosiddetta seconda
ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei
gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione
Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe
stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed
effimeri» ([3]).
Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione
periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura
antifascista del dopo guerra. ([4])
In
campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una
svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre
1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto
allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni
sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per
il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il
dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si
sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])
In
campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo
cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina
ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi
del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag.
2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime
reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né
conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella
persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 -
cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è
persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo
sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una
ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri
decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])
Quanto
alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del
Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il
diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della
società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito
del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile
distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36,
1936-39, 1939-43.» ([8])
Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo
nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento
intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936
viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo
fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il
latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte
intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il
Lupo, ([9]) un
affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del
fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve)
trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele
Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel
primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di
Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra
nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si
definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in
periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e
verticale dove le autonomie e i
conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del
passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi
incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal
1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima
impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento
di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
* * *
Il
segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di
microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti.
Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto
significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica
storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», “sosta
estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione
istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto
qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926
il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini
sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno
della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione
dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del
regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata,
istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati
dei datori di lavoro e dei lavoratori ad
organi indiretti della pubblica
amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del
tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno
sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([10])
L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n.
1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni
del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro
per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che
consentiva ad un proprio capo-popolo uno
scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra
conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile
territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna
dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per
lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta
Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per
le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure
no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929
e nel 1934.
* * *
Il
1931 viene assunto come dies ad quem
scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della
legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al
1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e
dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo
dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per
impieghi pubblici di qualsiasi genere o
per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per
le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma
subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia
dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il
contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag.
2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario
del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in
effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica
dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto.
Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’
- come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva
tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano
locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha
dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio
arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire
‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ([11]).
Le
cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate
rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.
Il
24 gennaio 1924 ([12]),
con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei
sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per
un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il
18 maggio 1936 ([13]).
Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura,
praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese
sono in effetti cinque:
1°)
la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°)
il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo
podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°)
il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°)
la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata
in guerra nel 1940;
5°)
il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.([14])
Racalmuto prefascista
Dal
1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato
da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare
titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio
baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di
Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il
Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I
Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto
e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale
del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei
Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio,
dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero
economicamente e sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella
gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi
che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque
gli ottimati locali, i cosiddetti “galantuomini”, con la loro boria di nuovi
ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro
risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi
definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre
peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a
dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà -
trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto
si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale
segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che
hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a
Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino
Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi
Agrigento) il dott. Raffaele Rocco ([15])
partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di
miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in
«Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. ([16])
Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla “marcia su Roma”: avvedutezza degli
zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal
socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle
famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose
sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta costituita a
Racalmuto il 26 dicembre 1926. ([17])
Racalmuto
si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale
del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto -
Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett.
4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla
sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani.
Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo
greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio
(bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale:
Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao
Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame:
(negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio.
E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli
(negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.)
Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè
Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè
Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono
Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco -
Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore -
Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona
cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo -
Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu
Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci
Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli -
Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè
Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore;
Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello
Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode:
(negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone
Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè
Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio
d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore -
Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri:
Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari:
(fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca
ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a
vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo
Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti:
Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano
Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il
quadro economiche che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre
63 esercenti di miniere di zolfo (per
converso solo 4 esercenti di miniere di
salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto
fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore;
paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche
un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di
sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro
effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo:
negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai
ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la
serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della
rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente
racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati;
e poi tanti (troppi) medici (ma molti
sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un
orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il
quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo
- che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben
delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i
mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo
titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico
prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi
Pirandello ne I vecchi e i giovani ([18]
accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi
include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla
giustizia: miseranda la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di
Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per
testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse
un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione
che Nino Savarese ([19])
fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento
fascista. «I fazzoletti di seta
sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con
lo scricchiolìo, il berretto sulle
ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi
della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di
campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche
di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe
nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici,
quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione
domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in
vita e con le tasche piene di danaro ben
guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre,
c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una
certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove
avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli
abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli
occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...]
L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere,
in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.
«Dalla profondità delle loro
viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi
si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro
esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono,
che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di
nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le
linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel
punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento
innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un
disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di
una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di
preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora
basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]
«I molli pascoli, gli orti grassi,
le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa
maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là, tra le distese grige del
tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente
come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto
per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei
calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo
antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono,
sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura
hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio
cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il
mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che
non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso,
sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le
operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia
diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la miniera è appena
segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si
arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone.
Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette
campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper
riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui
campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»
Quanto
al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per
Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore
locale così riferiva alla Giunta per
l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola ([20]):
«Il contadino di questi luoghi non è un
servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è
ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L.
Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia
Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e
costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in
pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua
personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba
il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra
in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto
quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso
ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa
prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E
i carusi? Le infelici creature
vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e,
quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...]
questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente,
sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro
modello i piconieri, anzi con un più
completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo
nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un
odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([21])
Gli
zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo
visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu
domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare
per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. ([22])
Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti
sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura
che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio
moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom.
Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed
i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905
redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti
occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente
inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e
fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi,
vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([23])
Quanto
alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in
fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto,
Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel
1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e
l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali:
Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie
di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale.
Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ([24])
Racalmuto
si consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è
quello demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici 1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i
quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo
emigratorio sono stati:
Comune di Racalmuto
|
|
|
|
|
|
|
|
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel
periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello
naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello
successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
([25])
Rispetto
alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il
seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto
al territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto
scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.
Eugenio Napoleone Messana ([26],
uno storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è
alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive
in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a
Racalmuto è nato: «Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I
ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad
esempio, uno di loro: «Se il passo ha un
valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso
addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare
proprio inattendibile. Racalmuto è solo
uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([27])
Quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali
ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, nato nel 1921,
qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce.
Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa
antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna
depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di
una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si
riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a
Racalmuto, in questo passo molto efficace ([28]):
«Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe
borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del
travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente
in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti.
Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché
un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle
parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse
“una strana quanto benefica mancanza
di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la
scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona
salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di
malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine,
l’esilio»
Sui
rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul
Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non
sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un
lavoro di Christopher Duggan ([29])
«L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di
sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il socialismo è debole; in
Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già
fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la
mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo,
altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo
vigore aveva l’istanza rivoluzionaria
degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni
per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti
delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di
restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più
inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da
Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che
erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la
proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori,
insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.
[...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello
stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del
dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire
per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche
il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne
può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione,
internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile
era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine
pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva
essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarrre,
per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da
tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo
accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico
mancando.)» ( [30])
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene
chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla
Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di
incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([31])
la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del
mafioso antifascista.» ([32])
In
altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che
stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del
pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandierà”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Cos’ americani ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina
il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la Kermesse
della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa
diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da
un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più
stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventenniodi diseducazione, di
adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più
balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo,
venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato
sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta
semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno
dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di
odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([33])
A
voler adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola
(documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°)
in loco l’antidoto al socialismo era
costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già
fascismo”;
3°)
ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)°
“era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al
fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”.
(Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore
Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma,
s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, come
si è visto, al fascismo):
5°)
ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante
miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi
puri del fascismo degli ex-nazionalisti;
6°)
degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”;
“ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura
affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario
della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta
vittorioso l’on. Abisso che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°)
giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle
sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli
esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed
appariscenti”. Questa fase, invero, risulta così nebulosa per Racalmuto da
considerala inesistente;
8°)
inizia la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche elemento di
stridore. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche
quieto racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°)
l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia
sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°)
vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De
Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°)
è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella
classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la “carta del lavoro”
aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte
sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere
d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12)
è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al
luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
La storia nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda
locale prima del 1925.
Quando
il 18 ottobre 1914 Benito Mussolini
pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo «Dalla neutralità assoluta
alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio che qualcuno a Racalmuto
ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa visione l’unico socialista
di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il suo fascicolo che la P.S. da
tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La Lotta di classe», «La
Giustizia sociale», di «Riscossa»
e di certi «opuscoli editi dal Comitato
Regionale della Federazione socialista Ligure» .([34])
Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20 ottobre 1913 - «è
laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte
pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate». Fose fra quelle
letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a prescindere dalle
malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di certo che la
storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta nella storia
dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra il partito
socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette seguire
in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul serio
negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A
noi pare che la lezione di Ernst Nolte ([35])
abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i detrattori ([36])
del fascismo e i suoi coevi esaltatori([37]):
non sembri quindi ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio
dell’opera dello studioso tedesco. «L’articolo
fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in veste di direttore dell’
«Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito si riuniva a Bologna, e
qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un difensore; e, benché si
cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette immediatamente dimissionare dalla
direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni, che egli ne ha dato all’epoca,
permettono di affondare lo sguardo nei suoi moventi: «Io capirei la nuova
neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di arrivare fino in fondo e cioè
di provocare un’insurrezione; ma questa a priori la scartate, perché sapete di
andare incontro ad un insuccesso. E allora dite francamente che siete contrari
alla guerra ... perché avete paura delle baionette ... Se lo volete, se vi
sentite, io sono alla vostra testa: neutralisti fuori della legalità ...
ebbene, bisogna essere decisi. Ma la neutralità assoluta nella legalità ormai è
divenuta insostenibile.»
«Non viene addotto alcun motivo di
natura contenutistica: qui non si parla di democrazia, delle necessità vitali
dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di una radicale coerenza
spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale avrebbe dovuto procedere
assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra, tuttavia Mussolini
sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue frazioni di esso. Pochi
giorni gli sono sufficienti per togliergli le illusione: il 25 ottobre,
Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto aprire il vicolo cieco nel
quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono caduto»
«Mussolini non era uomo da
sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto aspettarsi da lui
che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il partito, e a quanto
pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai compagni della direzione.
Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che riteneva la sua verità, e
nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli antichi amici si scavò un
abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai più sarebbe colmato.
«Pare che alla fine di ottobre,
Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio organo di stampa: già il
15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo d’Italia. E’
perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di «tradimento»,
che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava impossibile che un
uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole forze e nel giro di
pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano. Effettivamente Mussolini,
ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva avuto degli abboccamenti col
direttore di un foglio bolognese, che sapeva organo degli agrari; da costui,
egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio di carattere
tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi ancora, cosa non sufficientemente
chiarita. Si parlò quasi subito di denaro francese, supposizione che però non
si riuscì mai a provare. L’ipotesi più probabile è che organi governativi si
siano assunti il compito di finanziatori indiretti; numerosi erano infatti i
circoli, in Italia, interessati a un indebolimento del partito socialista.
Indubbiamente dunque Mussolini nel momento in cui si fece dare un giornale,
divenne una carta in mano di qualcuno. Affatto infondata è invece la
supposizione che il denaro, il giornale proprio fossero il motivo per il suo passaggio in campo
interventista. Ma proprio questo lasciò supporre l’ «Avanti!», ponendo,
immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e instancabilmente, la
domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane, l’ex-beniamino del partito
era divenuto un «venduto alla borghesia» e un «transfuga», che meritava «il
sacrosanto odio del proletariato italiano». Allorché, il 24 novembre, Mussolini
si presentò alla riunione dei membri della sezione milanese, chiamati a decidere
in merito alla sua espulsione, il suo discorso fu sommesso da un uragano di
ingiurie, fischi e minacce. Il partito socialista compì un linciaggio morale
nei confronti del «traditore»; nessuno dei fogli socialisti italiani si schierò
dalla sua parte, e Mussolini non riuscì a tirare dalla sua parte neppure una
minima frazione del partito. Era la sua prima sconfitta, e insieme quella che
avrebbe avuto le maggiori conseguenze. Mussolini era solo.»
Da
qui «prese le mosse una polemica della
massima violenza e spesso bassamente ostile, nel corso della quale furono poste
le basi per l’interpretazione socialista del fascismo e per l’interpretazione
fascista del socialismo. In ogni caso, la dissociazioneera compiuta. Mussolini
era adesso un generale senza esercito, un credente senza fede. Un piccolo
gruppo di individui, per i quali egli era il «duce», naturalmente gli si
raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre, quando ancora Mussolini lottava
con se stesso, dalle file dei sindacalisti e socialisti si erano costituiti i fasci
interventisti, sotto la guida di Filippo
Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In dicembre
questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma
tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa
alla biografia di Mussolini» (op. cit.
pag. 226).
Le
vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di
Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella
solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli
agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si
confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era
appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte
alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse
erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore
gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a
33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti
quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo).
Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il
diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo
nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una
qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto
limitata, anche a credere a quello
storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe
limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla
politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ([38])
In
ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto
solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben
diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19
marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato
nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili
alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè
di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a
Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a Milano per esercitarvi la
professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a
Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana
così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il
notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un
sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che
amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e
persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano
e vi morì». ([39])
Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel
giornaletto locale del maggio 1993 ([40])
« ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia
con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla
fondazione dei fasci di combattimento,
dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per
diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani
a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino
ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il
2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente,
all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti,
antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il
richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve
per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure
d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato.
Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la
risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI.
Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il
24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv.
Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879
(e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via
Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato con Passoni Maria di
Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome
Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del
Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto
al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [41])
Fino
al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la
prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi.
Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto
anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella
richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per
parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si
erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.
Ma
davvero il Pedalino partecipò a quella adunata
tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in
Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio
di combattimento? Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([42])
Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla
di cinquantadue che “giurarono che la lotta che avevano intrapresa - quella
sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”,
ed altra volta rettifica in cinquantatre (12 febbraio 1925) ([43])
Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola
astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un
avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale,
finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata
primogenitura politica.
Ma
il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè
aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([44])
bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non
mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come
l’inizio di un socualismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E
questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo
delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze,
almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([45])
Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si
inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento
del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta
manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio
1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i
socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma
(7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la
professione mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San
Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921
la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con
collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la
Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino
totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali
(salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima
della marcia su Roma.»
Ma
che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921?
A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([46]).
«Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa»,
afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale
era in foldo rappresentata dal fatto che
esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella
Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle
organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche
quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di
ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la
direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei
tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella
massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per
l’avvenire».
Sarà
stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato
per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta
che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in
Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro
mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel
senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria
coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto
del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e
dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si
apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma
in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).
Nulla
troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto
che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i
padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale,
di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più vasto, regionale) erano
avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto, invero, era troppo in periferia,
persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e
lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per
la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla
Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non
riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i
loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le
sue Cronache economiche e politiche di un
trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una
retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che
«il primo atto concreto dei socialisti
unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla
camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la
scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad
una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna
di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([47])
Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema
del pane” (op. cit. pag. 40 e
segg.) e con quello del 24 febbraio “ed
ora all’opera!” (op. cit. pag.
44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti,
anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921 (op.
cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna
avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è
pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano
ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici
procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco
anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni
sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro,
i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva essere solo
«liberali» (op. cit. pag. 118 e segg.
Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica
nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di
“liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far
propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti
i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con
concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che
asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di
Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa
per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la
porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non
voleva (op. cit. pag. 766 e segg.).
Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert,
a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei
tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per
ampi stralci.
«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le
agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate
hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in
una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da
molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla
crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono
trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il
governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio
appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea
della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da
cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre
il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri
provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri,
alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire
qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli
elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana;
mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri
illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il
quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari
rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole
lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di
Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel
anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio
degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza
contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]
«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i
precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini
capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non
si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione
pubblica? Degli uomini chiamati negli
ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena
considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno
a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da
farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile
che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa
quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe
fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale
probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?
« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una
qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male
fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.
« [ ...]
« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi
insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale.
Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori.
Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e
fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi
rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili
come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso
primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso
il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai
direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10
lire e così via. [...]
«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e
non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando
gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro
errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare
parzialmente la propria strada. [...]
«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le
vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio,
di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno
larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni
fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di
dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito
fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non
impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice»
immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on.
Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito
fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.
«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci
correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere
possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento
fascista.
«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica
opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza
parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese.
Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro
opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura.
Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un
parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a
gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la
guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in
cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche
altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se
stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole
ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla
follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie
legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo.
Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la
nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi
vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di
pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista.
Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal
brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della
vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro
grati.
«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione
immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei
principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida
della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza
critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati
di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità
costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso
le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di
giornali avversari ed infidi.
«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla
tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di
fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire
proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario
di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e
demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata;
vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi
costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio
dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo,
quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente
e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante
il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del
paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La
costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre
quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia
e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora
decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali,
alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali
sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma
che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere
dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa
derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare
l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi
raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se
essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla
vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista.
In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del
Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva
accordato loro «causa vinta» «contro ai
casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi
sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo
citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che
non esista una questione fascista. L’articolo «per
lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit. pag. 926 e segg.), con tutta la
sua dose di supponenza, con il suo tono arrogantemente monitorio, sbuca fuori
inopinato, arcano, inspegabile che non si sapesse aliunde della capitolazione del re di fronte agli ultimatum di Mussolini del 28 ottobre. ([48]).
Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista?
Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà
politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III,
improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi
militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate
risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del
fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel
che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi
sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia,
ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e
noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse
neppure percepita.
Attorno
al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi
finanziaria del settore zolfifero.
Nel
settembre del 1922 una commissione degli
esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al
fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per
120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un
disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma
il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il
decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme
parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.
La
crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata
micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si
era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana» al quale il produttore
era obbligato di consegnare il minerale
estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30
aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di
zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e
si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si
era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo.
Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di
togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata
vendita della nuova produzione. ([49])
Einaudi
era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag.
887) - si arrangi. Può darsi che il
modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione
con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’
accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio,
quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo
stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il
governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A
chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il
governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio
rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai
siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci
ha messo bocca e non osa metterci bocca,
per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi,
in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare,
temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali.
Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se
aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o
di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe
tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla
Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e
lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte
quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava
unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»
Quel
numero del Corriere della Sera sarà
arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore.
Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli
esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al
potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo
con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con
timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta
politica!
Lo
storico locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti
antifascisti del dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando
storicizza le sue personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A
Milano intanto, - annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il
fascio di combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero
respiro di quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a
bravacciare nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di
già menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione
contro la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le
notizie dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al
circolo degli Amici. Qualche do’
esultava a quelle nuove e non nascondeva il desiderio che anche a Racalmuto
venissero i prodi in camicia nera a bastonare gli zolfatai e i contadini.» Ma
la questione - come vedremo in seguito - era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il
biennio 1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario
nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a
chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava,
specie in Sicilia.
Per
il pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione; ma è da credere allo stesso
Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del 1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai
di fronte a questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la
Rivoluzione nel tronco, che io non
ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la Costituzione o
dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la Costituzione. Questo vi
spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi spiega la serie dei
successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un altro discorso al
Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben raffigurato questo
processo di «normalizzazione costituzionale» del primo fascismo: «Si trattava
di riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di rimettere grado a grado
... nell’alveo della legalità la vasta fiumana che aveva rovesciato gli argini.
[...] Chiamai al governo uomini di tutti i partiti. Riapersi il Parlamento, e
ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni poteri. Affrontai e risolsi di lì a
poche settimane il problema gravissimo degli squadristi. Ho esercitato i pieni
poteri per un anno. Potevo chiedere la proroga ... Vi rinunciai. Non avevo
proposte leggi eccezionali e mi proponevo di fare un altro passo innanzi sulla
strada della legalità .... Sciolta regolarmente la Camera, furono nei termini
prescritti dalla legge, indetti i comizi
elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila voti
... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna si
delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi
capisaldi fondamentali:
«1°
far funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere
legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la
situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del
Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della
Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a
questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della
Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini,
alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato
un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava
«Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...».
([50])
Siamo
propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e
del Ragioneieri ([51])
- ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale se non ci fosse
stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento aventiniano. Ciò
- s’intende - tenendo presente che la storia non ammette ipotesi.
Come
veniva ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti,
all’interno del fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole ([52]) i seguenti passaggi:
«Mussolini
pareva esser riuscito ... «a ristabilire
i termini necessari di quella convivenza politica e civile che è più necessaria
fra le parti opposte della Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «”mentre nel Paese si era diffusa la
sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per iniziarsi
[si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on. Matteotti” (IV, 24 giugno al Senatop. 195). Quella sciagurata beffa del giugno, come Egli
la chiamerà in Gerarchia, in uno
articolo scritto alla fine di ottobre ‘25,
“diventa orribile tragedia indipendentemente, anzi contro la volontà degli
autori”, la quale determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la “sosta di un semestre” (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»
«Perché
dal delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il
pretesto per tentare di “annullare tutto
quello che significa, dal punto di vista morale e politico, il Regime che è
uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre” (IV, 25 giugno 1924, alla
maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la secessione parlamentare
cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente eccessiva libertà di
parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto iniziare, il processo al regime,
alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione
... (‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio
‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale
del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui non si nascondeva che la speranza di
potere agganciare Mussolini, isolare materialmente e moralmente, disarmandolo,
il Fascismo e i Fascisti nel Paese, creare una situazione tale da permettere il
ritorno alla paralisi parlamentare,
sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della
Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse
arrivato al potere per la via ordinaria, e questo gli fosse stato dato
da un ordine del giorno: come, cioè, se esso potesse considerarsi “alla stregua di tutti i Partiti e
considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni
politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro
soluzione ordinaria e regolare” (IV, all’Associazione Costituzionale di
Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»
«Alla
quale speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre
1924, al Popolo di Cremona:
«”Noi siamo qui a dire che .. non siamo dei
vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma siamo dei soldati fedeli alla consegna, e
la consegna ci è stata data dal Re e dalla Nazione. Solo al Re, solo alla
Nazione noi dobbiamo rendere atto del nostro operato; non a coloro, che ad ogni
gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni legge, vorrebbero intentarci il loro
ridicolo processo, mentre sono gli esclusie i condannati dalla nuova storia” (IV, p. 335): onde la dichiarazionedel 5
dicembre in Senato: ... “Si è detto: voi
voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di
Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i
diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua
Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna
andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico
Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua
Maestà il Corriere della Sera, allora
no” (IV, p. 411).»
«[
...] “La maggioranza cominciò a perdere
alcuni dei suoi elementi in margine:
liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la
seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia
toccato il punto estremo” (V, Elogio
ai gregari, p. 23)».
Il
tentativo parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché
dall’altra parte stava il Fascismo “con i
suoi ottomila grusppi in ogni angolo d’Italia, con le sue forze politiche,
sindacali, amministrative, sempre imponenti”: il Fascismo che era stato “percosso, non abbattuto”, e a cui il
colpo aveva finito per giovare, facendogli perdere “le scorie funeste” (IV, p. 197). [..] “Se il Regime rapidamente potè
essere in grado di sferrare il contrattacco - il che avvenne il 3 gennaio di
quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali del Fascismo, che non si
sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto nell’imperversare delle
molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu dimentico del passato e non
disperò dell’avvenire” (V, Elementi di Storia, p. 179).»
Non
crediamo che fra quelle “masse rurali” era da includere il ceto contadino
racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali,
esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e
braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di
disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di
Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito democratico-riformista
di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una frangia degli ottimati
racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio dello stato demo-liberale.
Non cìera cultura greca a Racalmuto bastevole per apprezzare l’immagine
classica. Vi era molto buon senso (ed pressanti interessi del quotidiano) per
dissentire dai loro deputati eletti
nel listone “nazionale” del 1924 che ora facevano l’«Aventino». In definitiva,
nepppure Gramsci mostra di apprezzare questi rappresentanti degli agrari
siciliani con i quali, inopinatamente, si trovava in sodalizio.
«Ho
visto in faccia la “piccola borghesia “ con tutti i suoi tipici caratteri di
classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi
lavori dell’Aventino ([53]).
- La parte più ributtante di essa era costituita dai popolari e dai riformisti
(per non parlare dei massimalisti, povera gente di cascia andata a male; i più
simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga dell’opposizione
costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio alla lotta armata e
disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei comunisti, se questi
fossero in grado di organizzare un esercito contro il fascismo. Un deputato
democratico-sociale (è questo un partito siciliano che unisce latifondisti e
contadini) che è duca Colonna di
Cesarò, ministro di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più
rivoluzionario di me perché fa la propaganda del terrore individuale contro il
fascismo. Tutti, naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e
all’appello alle masse proletarie ... ».
Colonna
di Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare “il terrore individuale contro
il fascismo”, a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero disorientarsi non
poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi agli ordini
dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava associarsi
con i bolscevichi del 1921.
A
livello locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per
lo zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora. I più avvertiti avevano l’odiato senatore
Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne del Corriere della Sera.
Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato sotto Facta (D.L.n. 202
dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano dunque riporre attese
meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie provvidenze del
decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi remunerativi dello stock e
si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su obbligazioni dell’ente
garantite sugli esercizi futuri. «Insomma
- scrive Salvatore Lupo [54]-
a pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero - chi come Carlo
Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su quanto si riusciva
a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io posso spiegarmi
che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di
Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del Consorzio
[...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi tentacoli fino a
Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del Consorzio che
subivano la sua azione». ([55])
In quel di Racalmuto, ove gli interessi zolfiferi passavano trasversalmente per
tutti i ceti sociali, vi fu soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del
gennaio 1923 ed iniziava quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà
penetrantemente, in profondità, in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati
dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non
approvare, da rimuovere.
Il
delitto Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica
racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede
da fare: «Fu lui - scrive il Messana ([56])
- che in seguito all’uccisione di Giacomo Matteotti si presentò con la
guantiera a raccogliere il contributo per la corona. Entrò nel salone di
Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi Scimè, giovane figlio del Dr.
Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o meno. Contribuirono molti
racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il comm. Giuseppe Bartolotta
consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè, Pio Messana, Salvatore
Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci Ventura, Giuseppe
Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono segnati a dito e
perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo dell’esercito, non
avanzò più di grado.»
L’emozione
per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente
la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor
oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi
risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in
riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata,
passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:
«Giacomo Matteotti - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994
di Storia e Civiltà ( [57])
- segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola -
dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il
lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il
Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi
difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [AM1][Ad eseguirlo, c’erano] una
brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e suoi quattro complici.
«Come sarebbe emerso, dal
memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini non era stato il diretto mandante, vi aveva
dato il suo tacito consenso. La commozione popolare fu così profonda, che
avrebbe dovuto avere per sbocco, con quale vantaggio per l’Italia è inutile
dire, l’immediato tracollo del fascismo. Mancò una forza organizzata a dirigere
la rivolta. Non vi fu, da parte della Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del
dovere. Al governo venne lasciato il modo, con pochi ritocchi alla sua
compagine, di sopravvivere, e al fascismo di consolidarsi, più per l’altrui
debolezza che per virtù propria, profittando anzi dell’irrimediabile errore
delle opposizioni, di astenersi dalla presenza in Parlamento (l’«Aventino»),
che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne deliberare la decadenza. Non
mancò la “trahison des clercs”, in
un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur
surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si
assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del
fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un
altro, redatto dal Croce.
«[Il processo venne
trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe] l’arrogante
difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla “prima come
segretario del partito, e poi come avvocato” e che il processo non si sarebbe
fatto “né al regime né al partito”). Esclusa dalla stessa pubblica accusa, la
premeditazione ed ammessa la preterintenzionalità, la sentenza, del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli
imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben
quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione
preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»
L’avvento del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.
Nella
Sicilia - scrive Salvatore Leone ([58])
- in cui il fascismo ebbe “natura ricettiva e non radiante”, schematizzando
possiamo dire che l’aristocrazia agraria aderì al regime nei tardi anni ‘20,
quando si renderà contodella sostanziale convenienza ad appoggiare il nuovo
gruppo di potere. La piccola borghesia cittadina darà il suo consenso agli
inizi degli anni ‘20 con uno spirito fortemente protestatario nei confronti di
quello Stato liberale che l’aveva schiacciata al basso al livello contadino.
L’adesione al nuovo regime della media borghesia e degli intellettuali,
parecchi dei quali avevano alle spalle una consistente tradizione autonomista,
avvenne mediante comportamenti incerti e talora contraddittori che si
protrassero fino ai primi anni ‘30».
La
provincia di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo siffatta
diversa datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile rinvenire
intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro accondiscendimento al
nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente al fascismo; Enrico La
Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni Guarino Amella. Francesco
Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele Sclafani «che diede filo da
torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure anche lui non fu alieno dal
cercare l’intesa e la collaborazione con essi
e ddirittura dal proporre soluzioni impossibili, come la costituzione di
un grande partito siciliano clerico-fascista». ([59])
Per non parlare dei socialisti rimasti coerenti, è difficile inquadrare figure
come i fratelli Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o l’avv. Bonfiglio.
Fortemente caratterizzata in termini di pronta adesione al fascismo è la figura
dell’on. Abisso, che alla fine, però, si guarda bene dall’aderire alla
Repubblica sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi per il narese on.
Riolo.
Francesco
Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci di comattimento
di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo 1919-20) sono «avvolte
nella nebbia». ([60])
Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi sino al
consolidamento del Regime, “natura ricettiva, e non radiante.”
Quando
nel 1942, in piena guerra, vari autori - spesso maldestri, o ingenui o
disinformati - redassero i «Panorami di
realizzazioni del Fascimo» che dovevan essere una ricerca delle primissime
origini del fascismo delle varie province, non avevano molta carne al fuoco,
per quanto riguarda il Meridione e la Sicilia. L’autore agrigentino - tal
Vincenzo Agozzino - deve proprio arrmpicarsi sugli specchi per reperire
esaltanti «cronache della vigilia
rivoluzionaria fascista nella provincia di Agrigento» ([61])
«Agrigento sempre più bella e suggestiva»,
aveva detto Mussolini al popolo di Agrigento il 15 agosto 1937. E’ frase lapidaria che l’Agozzino invoca in
premessa. Ci racconta poi del fascio di Agrigento nel 1919. «..La Camera del
lavoro di Agrigento, - narra - aderente al Partito Socialista Ufficiale, con
rapida azione agganciò le masse delle zone industriali prima e poi delle zone
minerarie ed agricole, creando una forte organizzazione che presto si mosse
alla conquista delle amministrazioni comunali. Così in Canicattì, Ravanusa e Palma
Montechiaro si ebbero maggioranze socialiste e quasi ovunque le minoranze
furono rosse. [..] In questi ambienti [..] solo un manipolo di giovanissimi
intese il richiamo dei valori spirituali della stirpe fondando nel maggio del
1919 il primo Fascio dell’agrigentino. La riunione avvene in una stanza
dell’Albergo Centrale dove si costituisce un nucleo di azione contro il
sovversivismo locale di vario colore, dal rosso, al nero e al verde, che assume
il nome di Fascio Futurista di Azione [..]
«1920-
21 - 22
«Si
forma poi il Fascio di Combattimento che in un secondo tempo viene intitolato
al Caduto Pierino Del Piano. Solo il 20 novembre 1920 avviene il riconoscimento
ufficiale del Fascio di Combattimento di Agrigento. Viene anche ad Agrigento la
propagandista rossa Maria Giudice. Migliaia e migliaia di persone sono adunate
all’Arena Bonsignore [..] La propagandista non doveva parlare e non parlò.
Aveva appena pronunciato la parola ‘Compagni’ che ebbe inizio una fitta
sassaiola [da parte di piccoli bene appostati sulla terrazza di villa Garibaldi].
[Ne seguì] un fuffi fuggi generale,
mentre la stessa oratrice veniva colpita al viso. Legnate da orbi furono
distribuiti agli uscenti dalla arena, mentre la lotta si spezzettava in singoli
episodi dai quali però risultava la coraggiosa fuga dei rossi e il primo
assalto alla Camera del lavoro [..] [Si trattava] di pochi squadristi, circa
quaranta, che [cominciarono a] sgominare le forse rosse, nere e verdi.
«[Altra
aggressione.] La Camera del lavoro viene assalita e devastata, mentre mobilio e
carte son dati alle fiamme fra il canto di Giovinezza.
Successivamente dopo un comizio tenuto
dai combattenti, vien dato un nuovo assalto alla Camera del lavoro con la
completa distruzione del mobilio, delle carte e di una bandiera rossa che è poi
bruciata in piazza Gallo. La stessa sera avviene un conflitto con un gruppo di
guardie regie, risoltosi con una brillante fuga degli agenti di Cagoia [Nitti, n.d.r.]. [..] Altre azioni repressive,
di ritorsione e di propaganda vennero eseguite in tutta la provincia: vengono
impediti alcuni comizi; venne incendiato il circolo ferroviario; [talora]
vengono a dar loro man forte i camerati dei fasci di Porto Empedocle,
Canicattì, Palma Montechiaro e Sciacca. Il 24 aprile del 1921 una squadra
agrigentina partecipò alle azioni di rappresaglia in Caltanissetta in occasione
dell’uccisione di Gigino Gattuso. Alla Marcia di Roma [..] partecipò una
squadra, mentre le altre rimasero mobilitate in sede.
«In
provincia agirono in periodo ante marcia i fasci di Canicattì, Licata, Palma
Montechiaro, Porto Empedocle, Ravanusa, Raffadali, Naro, Sambuca, Grotte,
Bivona. Il fascio di Canicattì venne riconosciuto il 4 dicembre 1920; il Fascio
di Licata, il 1° febbraio 1921; quello di Montechiaro fu fondato il 1° marzo
1921; quello di Porto Empedocle fu riconosciuto nel marzo 1921; quello di
Ravanusa, il 15 ottobre 1920. Altri fasci venero fondati nella seconda metà del
1922 e fra questi Raffadali, Sambuca di Sicilia, Naro, Grotte e Bivona. Naro
soprattutto, fondatosi il fascio nel luglio del 1922 e riconosciuto il 18
ottobre successivo, si segnalò in vivaci interventi locali contro i sovversivi,
che culminarono con la devastazione della sezione socialista.»
Il
volume dei “Panorami” riporta a questo punto un’altro squarcio del discorso che
Mussolini pronunciò “dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo - 5 maggio
1924”: “C’è forse una pietra del Carso,
pietra di quelle doline dove non abbiano sofferto e dove il popolo è diventato
grande, c’è forse zolla di tutto l’arco di trincee che andava dallo Stelvio al
mare che non sia stata bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?»
Prima
della marcia su Roma, il quadro del fascismo agrigentino è rado e sfilacciato.
Iprefetti del luogo non vedevano di buon occchio il nuovo movimento politico;
lo tolleravano appena e se potevano lo disperdevano. Rivelatrice è questa
missiva al Ministero degli Interni del sostituto del prefetto Vergara del 20
giugno 1922 ([62]):
«Significo che al 31 maggio 1922 esistevano in questa provincia le seguenti
sezioni del Fascio di combattimento: Girgenti con 50 aderenti; Canicattì 20;
Ravanusa 80; Sciacca 80. A Palma Montechiaro la sezione è stata sciolta, ma
esistono tuttavia una diecina di simpatizzanti del partito fascista. La sezione
di Naro, segnalata con mia nota dell’11 maggio 1921 n. 225, è composta da
ex-combattenti e non fascisti. Anche la sezione di Porto Empedocle è stata
sciolta».
Con la marcia su Roma, l’atteggiamento dei prefetti ovviamente cambia,
anche perché giungono prefetti di evidente ispirazione fascista. Più che con il
Ministro dell’Interno Benito Mussolini, i rapporti (improntantati alla più
deferente fiducia) sono con il sottosegretario Finzi (almeno sino alla caduta
di costui per il delitto Matteotti). In questa congiuntura fu prefetto di
Agrigento il dott. Ernesto Reale. Già vice prefetto, fu nominato nella carica
il 16 marzo 1923 ed il 22 ottobre 1924 lasciò Agrigento per la prefettura di
Potenza. Era nato a Sassari il 30 giugno 1875 (morirà a Roma il 30/12/1947).
Era dunque un uomo di 58 anni, ma
evidentemente aveva fiutato il nuovo corso e vi si era prontamente adattato.
Non è da credergli quanfo afferma: «Escludo nel modo più formale che io abbia
imposto la costituzione di Fasci nei comuni dove non esistono sotto minaccia
diretta o indiretta di scioglimento dei Consigli Comunali o pressioni di
qualsiasi altro genere.» ([63]) Era una
risposta ad un perentorio telegramma dell’11 luglio 1923, a firma Mussolini,
che reclamava seccamente una giustificazione. « S.E. Cesarò - diceva il testo -
comunicami che V.S. avrebbe invitato costituire fasci dove non esistono sotto
minaccia scioglimento consiglio comunale. Voglia V.S. notiziarmi in propoisto.»
La
puntualizzazione del prefetto è abile come emerge dal seguente “rapporto
dimostrativo”:
«Dal marzo, quando assunsi in questa provincia le funzioni
di Prefetto, ad oggi furono istituiti cinque nuove sezioni del P.N.F. nei
seguenti comuni:
1.
Castrofilippo - dove l’Amministrazione comunale era già
sciolta ed il Comune retto da un R.Commissario;
2.
S. Giovanni Gemini -
Amministrazione Comunale Popolare;
3.
Alessandria della Rocca -
Amministrazione Comunale Riformista;
4.
Raffadali - Amministrazione
Comunale Socialista;
5.
Montaperto - Frazione di
Girgenti - Amministrazione Comunale Popolare.
Per la costituzione di Tali Sezioni non ci fu affatto bisogno di
intimidazioni o minaccie né da parte mia né da parte della Federazione
Provinciale. Fu l’effetto di una attiva propaganda Fascista.
Faccio osservare a V.E. che fra i Comuni sudetti non ve n’è alcuno
amministrato da Democratici-Sociali. Sto esaminando personalmente la posizione
del Comune di Raffadali dove àavvi il feudo di S.E. il Ministro Colonna Duca di
Cesarò, il quale intende porre la Sua candidatura in quel Mandamento, e mi
riservo fare le proposte del caso.
Restano tuttora da costituirsi le sezioni del P.N.F. nei comuni
seguenti:
Aragona
|
Montallegro
|
Villafranca
|
Comitini
|
S. Angelo Muxaro
|
Calamonaci
|
Favara
|
Cianciana
|
Burgio
|
Lampedusa
|
Lucca Sicula
|
|
Ad eccezione degli ultimi due, dove l’Amministrazione Comunale è
Riformista e Popolare, e di Lampedusa, lontana, sperduta nel mare Africano,
tutti gli altri comuni sono amministrati da scritti alla Democrazia Sociale. E
per questi, non solo non fu fatta da me alcuna pressione per la costituzione di
Sezioni del P.N.F., ma dovetti mostrarmi a ciò risolutamente contrario almeno
per ora. Invero quei Comuni - specialmente i maggiori - Favara e Aragona - sono
talmente infestati dalla mafia, che è necessario procedere ad un’accurata
chiarificazione e selezione, per evitare che nelle costituende Sezioni Fasciste
venga ad annidarsi la forma più subdola della delinquenza Isolana.
Nei detti Comuni pertanto, che come ho detto, sono amministrati da
Demo-Sociali, nonché esercitare pressioni, è stato invece necessario a me ed al
Fiduciario Provinciale resistere alle vive e ripetute pressioni che ci vennero
fatte per la costituzione di Sezioni Fasciste da elementi di altri partiti
troppo interessati e troppo malfidi.
Si addiverrà certamente a costituire anche lì Sezioni Fasciste, ma solo
quando il lavoro - delicatissimo - di selezione sarà ultimato. E le Sezioni
dovranno essere formate da elementi puri e sicuri. E senza bisogno di minaccie
di scioglimenti di Consigli Comunali.
A proposito dei quali debbo fare presente alla E.V. che gli
scioglimenti da me proposti furono sempre effettuati per ragioni di ordine
pubblico o per disordini amministrativi e riguardano i seguenti Comuni:
Canicattì - Palma Montechiaro - Ravanusa - già amministrati da
socialisti ufficiali;
Sambuca Zabut - Campobello di Licata - S. Margherita Belice
(quest’ultimo in corso), già amministrati da riformisti (La Loggiani).
Faccio osservare che nessuno di questi comuni è amministrato da
democratici Sociali.
Concludendo:
1. Nessuno dei
Consigli Comunali sciolti dal marzo in poi era amministrato da Democratici Sociali.
2. Non solo non ho fatto minaccie per la costituzione di Sezioni Fasciste
nei Comuni dove mancano (quasi tutti amministrati da Demo-Sociali) ma ho dovuto
e devo tuttora resistere, per le ragioni suesposte, a pressioni che vengono
fatte, anche da elementi Demo-Sociali, per la costituzione di talune Sezioni
stesse».
Nel
successivo luglio il prefetto Reale sembra più un federale fascista che un
dipendente del Ministero degli Interni. Ecco quanto scrive il 10 luglio 1923:
«Alla vigilia della riunione della Giunta Esecutiva del P.N.F. credo
doveroso inoltrare il seguente rapporto riassuntivo sull’andamento del Fascismo
in questa Provincia.
Dal Marzo in poi si è verificato un considerevole sviluppo ed una
notevole chiarificazione.
Sviluppo: in quanto sono
numericamente cresciuti gli iscritti alle Sezioni dei Fasci (4568) e dei
Sindacati (4382). L’entrata nel Fascismo dell’on. Abisso ed una parziale
fusione, da me caldamente patrocinata, delle forze migliori degli
ex-combattenti, hanno contribuito a tale sviluppo. Occorrerà lavorare ancora
per assorbire nei Fasci almeno un altro migliaio di ex-combattenti che ora sono
fuori perché non possono e non credono di distaccarsi da altri partiti.
Chiarificazione: in quanto, dopo mie vive
insistenze, si è proceduto alla epurazione di talune sezioni, mediante
eliminazione di elementi indegni.
In proposito debbo rilevare di avere dovuto superare non poche
resistenze da parte del Fiduciario Provinciale e della Federazione Provinciale
che non vedevano con eccessiva simpatia l’ingerenza del Prefetto in questo
campo.
Questo processo di epurazione si è accentuato maggiormente nei riguardi
della M.V. i cui iscritti avevano raggiunto il numero di 1800, mentre ora sono
ridotti a poco meno di 1500. Ma è un bene.
Attualmente la situazione, tenuto conto delle difficoltà ambientali, e
dei personalismi da superare, e specialmente dei numerosi elementi malfidi
infiltratisi nelle sezioni, e che debbono man mano eliminarsi, può dirsi
abbastanza soddisfacente.
Però la mia opera assidua di sgretolamento delle camarille locali, dei
vecchi ed agguerriti partiti, e specialmente del partito riformista (La
Loggia), di quelle Social-Comunista e popolare - opera che ha portato allo
scioglimento di sette Amministrazioni comunali, e che intendo continuare -
dovrebbe essere più attivamente fiancheggiata dalle Autorità Fasciste di questa
Provincia. Dovrebbe soprattutto essere ripresa l’azione di propaganda fascista
che ora languisce in una stasi apatica.
E’ d’uopo riconoscere che il Fiduciario Provinciale attuale Ing.
Narciso Dima, se pure non eccessivamente energico, ha finora fatto il possibile
per lo sviluppo del Fascismo, sacrificandosi anche finanziariamente,
contribuendo del proprio, trascurando la sua professione. Le sezioni Fasciste
non gli dànno che un aiuto finanziario scarsissimo.
Occorre, è anzi urgente, che l’On. Giunta Esecutiva stabilisca un
congruo aiuto finanziario.
Nessuna preparazione ha potuto fare la Federazione per le lezioni
Provinciali appunto per mancanza assoluta di propaganda. Occorrerebbe istituire
nuove sezioni nei Comuni dove ancora mancano (18 su 41)), ma occorrono mezzi
sopraluoghi locali ecc., mezzi che mancano.
Se si dovessero fare le elezioni provinciali ora, alla scadenza dei
poteri della Commissione Reale, sarebbe una débacle
dal punto di vista fascista. Mentre gli altri partiti, soprattutto i
Democratici sociali e i popolari, si vanno organizzando e preparando alla
lotta, che ritengono imminente, e dispongono di mezzi finanziari cospicui, i
Fasci poco o niente hanno potuto fare. Occorre, ripeto, finanziarli.
Ho detto débacle se i fasci dovessero
lottare da soli, chiudendosi nella più assoluta intransigenza nei
riguardi degli altri partiti.
Ma occorre esaminare la situazione nei riguardi della Democrazia
Sociale: situazione che in questa Provincia è estremamente delicata.
La Democrazia Sociale si mantiene qui in piede di guerra pronta ad una
lotta, come pronta ad un accordo coi Fasci, per una eventuale collaborazione.
Senonché qui si presenta una difficoltà.
I Deputati Demo-Sociali sono gli On. Pancamo e Guarino-Amella; binomio
indissolubile. L’On. Pancamo è elemento puro, inattacabile. L’ideale sarebbe
poter scindere il binomio, e accordare i Fasci cogli elementi migliori della
Democrazia Sociale che fanno capo all’On. Pancamo. Ma questo è impossibile.
Non poca parte degli elementi che fanno parte all’On. Guarino-Amella -
che ha largo seguito - sono bacati dalla mafia che sino a poco tempo addietro
ha imperato in questa provincia, e che ora è smontata, disorientata. Effetto
dei provvedimenti energici di P.S.- Accordarsi cogli elementi demosociali che
fanno capo all’On. Guarino Amella, vorrebbe dire accordarsi anche in certo modo
con la mafia. E allora si ricadrebbe nel vizio delle elezioni precedenti che si
facevano appunto con l’aiuto della mafia.
D’altra parte il partito Guarino Amella vuol dire S.E. Di Cesarò, del
quale il primo è il più fido e autorevole luogotenente in questa Provincia.
I fasci risentono di questa situazione.
Il Fiduciario Provinciale Ing. Dima, sembra contrario a qualsiasi
accordo coi Democratici Sociali. I suoi avversari - e ne ha anche in seno ai
Fasci - dicono che ciò dipende dalla sua origine La Loggiana.
Comunque questa situazione non può risolversi se non si conoscono in
modo preciso e in tempo utile le direttive del Governo al riguardo.
Concludo:
1. Occorre
finanziare la Federazione Provinciale perché eserciti una più attiva azione di
propaganda;
2. Occorre
procedere alla nomina del Fiduciario Provinciale. L’attuale Ing. Dima, in
conseguenza della ritardata conferma ha perduto un po’ di autorità e prestigio.
Urge quindi o confermarlo o nominarne uno nuovo, che possa esplicare con
autorità e energia l’azione Fascista, e fiancheggiare la mia azione politica e
amministrativa.»
Il
prefetto di Agrigento è, peraltro, quello che è in grado di fornire ragguagli
precisi e dettagliati sulla “situazione del Fascismo in Provincia di Girgenti
al 27 ottobre 1923”. Val la pena di riportare integralmente la sua relazione al
ministero:
«In mancanza di fascismo puro, limitato a pochissimi elementi, i Fasci
della Provincia di Girgenti sono costituiti necessariamente da elementi tratti
da altri partiti politici.
Il partito politico finora predominante in questa Provincia era il
partito Demosociale, imperniato sui Deputati Grarino Amella e Pancamo, (agli
ordini di S.E. Di Cesarò) e Abisso. Col passaggio di quest’ultimo al Fascismo,
avenuto nell’Aprile, questo partito cominciò a sgretolarsi. Gli elementi
migliori passarono anch’essi, in buon numero al Fascismo. E se è vero che il
partito personale Abisso si va sempre più rafforzando, è pur vero che il
Fascismo sta prendendo uno sviluppo sempre più grande e più saldo - anche
perché questi elementi ex-demosociali sono assai più sinceri degli altri.
In sostanza non deve credersi che sia il partito Abisso che si faccia
sgabello del Fascismo per rafforzarsi, ma è il Fascismo che acquista realmente
forza e compattezza dai numerosissimi elementi che staccatisi come ho detto
dalla Democrazia Sociale facente capo all’On. Guarino, Pancamo e Di Cesarò, si
sono appoggiati all’on. Abisso.
Al Ministero è noto come io abbia visto con una certa diffidenza il
passaggio dell’On. Abisso al Fascismo.
E’ per me doveroso ora dopo diversi mesi di vigile esperienza porre in
rilievo la disciplina e l’ossequio non solo apparente, ma effettivo alle
Direttive del Duce, dell’On. Abisso verso il quale ora convergono le forze
migliori della Provincia, forze che Egli dirige e orienta risolutamente verso il
Fascismo.
Il Fiduciario Provinciale, d’intesa con lui ha potuto sistemare la
posizione prima equivoca, ora chiara di parecchie sezioni Fasciste, ha potuto
costituirne delle nuove, e rafforzarne delle altre.
Non è quindi vero che il Fascismo non abbia presa in Provincia di
Girgenti. Questo forse poteva dirsi alcuni mesi addietro, quando si verificò
una stasi - da me segnalata - che avrebbe dovuto preludere ad una grave crisi,
dovuta sopratutto all’azione allora scarsamente efficace del Fiduciario Provinciale,
il quale era rimasto per oltre due mesi quasi privo di autorità. Causa il
ritardo della sua conferma. Ma la crisi fu superata e la minaccia di essa, in
certo modo, fu anche benefica. L’attività del P.F. fu da me e dall’On. Abisso
galvanizzata; molte opposizioni più o meno interessate furono smontate. Il
susseguirsi di importanti avvenimenti patriottici, che riunivano in un solo
patriottico sentimento importanti forze Fasciste, valsero a guadagnare anche le
simpatie della grande massa della popolazione
la quale prima diffidente, segue ora con vivissima simpatia, gli
spettacoli sempre bellissimi di giovinezza di forza di disciplina che le
adunate Fasciste hanno dato modo di apprestare. A questo aggiungasi la continua,
dirò quasi sistematica, valorizzazione dei veri combattenti, mutilati e
decorati di Guerra, ai quali spesso per mio personale intervento si sono aperti
i Fasci, portandovi una cospicua forza morale.
Concludendo la situazione nei riguardi del Fascismo è molto migliorata
in confronto al passato, e non credo di peccare di soverchio ottimismo, se
affermo che essa migliorerà ancora di più e più si chiarificherà.
Personalità cospicue di cui non si può mettere in dubbio l’alto
patriottismo e che hanno sempre combattuto palesemente il sovversivismo
mascherato da riformismo e da popolarismo, come l’On. La Lumia ex Deputato
assai molto stimato nella importante zona di Licata, e l’On. Parlapiano Vella,
altro ex Deputato, nella zona di Ribera e Bivona, hanno sinceramente aderito al
Fascismo.
Degli altri partiti anche in conseguenza dell’azione da me svolta; il
Socialista è ormai morto; il Riformista è ridotto ai minimi termini, il
popolare è in continua dissoluzione.
Gravi incidenti tra Fascisti, per l’urto di tendenze diverse, in questa
Provincia non sono mai avvenuti. Incidenti non gravi, sono stati risolti
tempestivamente, anche pel mio intervento diretto, senza strascichi di ire e di
odi.
La situazione, quindi, può dirsi veramente buona, specie se si
raffronta con quella di altre Provincie Siciliane. E diventerà migliore se si
potrà continuare nell’attuale indirizzo, se questo non verrà modificato per
l’intervento, per ora non necessario, di elementi che, per quanto
autorevolissimi, non sarebbero forse in grado di valutare, per la scarsa
conoscenza di questo ambiente, le condizioni specialissime di esso in rapporto
ai partiti ed alle persone. Unisco un prospetto riguardante i sindoli Comuni
della Provincia.»
La
relazione - un vero e proprio resoconto di un propagandista del fascismo - è
comunque perspicua per chiarezza, esaustività, penetrazione dell’ambiente
socio-politico. Il Reale doveva avere entrature preferenziali a Roma - anche in
ambito della direzione del P.F. - se può accennare, in conclusione, alla
eventualità - che poi si verificherà appieno - della venuta ad Agrigento di
“elementi autorevolissimi”. E saranno costoro a cambiare il volto del fascismo
agrigentino.
Frattanto,
valga il prospetto del prefetto Reale, ai nostri fini molto significativo
perché stranamento vi è omesso totalmente il paese di Racalmuto che in questa
ricerca è il nostro oggetto di studio.
«Provincia di Girgenti
1°) - Comuni nei quali i Fasci hanno una posizione dominante: (su un
totale di 41)
Casteltermini
- Siculiana - Porto Empedocle - Sciacca - Caltabellotta - Santa Margherita -
Sambuca - Menfi - Montevago - Calamonaci - Campobello di Licata - Camastra -
Ribera - Licata - Naro - Canicattì (n.°
16)
2°) -Comuni nei quali esistono dei
Fasci, sui quali non è ancora possibile fare sicuro assegnamento, ma la cui
situazione migliora giornalmente:
Cammarata -
S. Giovanni Gemini - Castrofilippo - Grotte - Bivona - S. Stefano Quisquina -
Villafranca - Palma Montechiaro - Ravanusa - Realmonte - Montallegro -
Alessandria Rocca - Favara - Cattolica - S. Biagio Platani - Raffadali (n.° 17:
in effetti sono sedici: il dattilografo omise di battere forse Racalmuto
per mero errore. Se aggiungiamo questo paese torna il totale di n. 41 centri
dell’agrigentino, n. d.r.)
3°) - Comuni dove il Fascismo non
ha ancora presa, specialmente perché combattuto dalla mafia:
Comitini -
Burgio - Lucca Sicula - Cianciana - S. Angelo - Aragona A Lampedusa, data la
grande distanza, e la difficoltà delle comunicazioni marittime (una volta alla
settimana) nulla si è potuto ancora fare.
4°) -
Girgenti - Situazione non buona, ma discreta, a motivo della esistenza degli
Stati Maggiori - attivissimi - dei partiti Riformista (che fa capo all’On. La
Loggia), Popolare (che fa capo al prosindaco Gr. Uff. Sclafani e all’On.
Fronda), e dei residui del partito Demo-Sociale (On. Pancamo e Guarino). I
primi due, specialmente difendono ostinatamente le proprie posizioni.
Fra giorni si verificherà la crisi
nell’Amministrazione Comunale Popolare-Riformista.
Molto vi sarà da guadagnare pel
Fascismo se il R. Commissario che verrà prescelto saprà lavorare bene e
risanare moralmente e finaziariamente il Comune.»
Il
prefetto Reale, alla fine dell’anno, diviene un vero e proprio fiduciario del
fascismo. Ecco, a dimostrazione, quanto scrive all’On. Avv. Francesco Giunta -
Segretario Generale del Partito Naz. Fascista - in data 11 dicembre 1923:
«Situazione del Fascismo nella
Provincia di Girgenti
Ottemperando allo incarico da V.S.
On. Affidatomi a Siracusa di vigilare e seguire da vicino il Fascismo in questa
Provincia, pregiomi riferire quanto segue:
E’ continuata più attiva che mai la ingerenza del Grande Uff. Sacerdote Sclafani, capo del Partito Popolare
nell’organizzazione del fascismo Provinciale.
Alla lettera originale a firma sac. Sclafani in data 25 ottobre, da me
mostratale a Siracusa, con cui egli offriva l’incarico di costituire un Fascio
in Comitini (dove non era stato possibile finora la sua costituzione
trattandosi di un comune infestato dalla mafia) ad un tale Dr. Bongiorno,
congiunto di un capo della mafia locale, si sono aggiunti altri gravi elementi.
E’ infatti in mio potere una dichiarazione del Maggiore Cav. Orestano
R. Commissario di Palma, con cui attesta che il Sac. Sclafani inviò una lettera
analoga al Sac. Zimmili per richiedere “il nome di persona fidata al P.P. da
far passare subito al Fascismo e da incaricare della ricostituzione di quel
Fascio”.
E’ pure in mio potere un rapporto del Colonnello Sindico, R.
Commissario di Raffadali, col quale mi informa che a costituire il fascio di
Joppolo “fu incaricato certo Onorio Sacco, alter ego
del Sac. Camilleri, capo del P.P. che egli dirige secondo gli intendimenti di
Padre Sclafani”.
E non più tardi di ieri ho potuto constatare de visu perché mi trovavo sul posto, un abboccamento tra il Sac. Sclafani e il
Sindaco di Porto Empedocle. Da informazioni certe mi risulta che lo Sclafani
d’accordo col detto Sindaco intende di riorganizzare quella Sezione Fascista,
per asservirla ai suoi fini.
E non posso passare sotto silenzio un episodio che non conferì certo
serietà all’azione del Fiduciario nella riorganizzazione del Fascio di Sciacca.
Giova premettere che egli anziché seguire le direttive opportunamente
dategli da V.S. On., di “lasciare in disparte gli elementi dei vecchi partiti”
incaricò della costituzione del fascio di Sciacca, fra gli altri l’avv.
Giuseppe Imbornone di oltre 60 anni che mai era stato Fascista, bensì
era in quest’ultimo periodo, riformista tanto che aveva nello scorso
anno partecipato ad un banchetto in onore dell’On. La Loggia.
A prescindere dal fatto che l’Imbornone era stato candidato politico
bocciato per due volte, la sua scelta era inopportuna perché cognato e suocero rispettivamente di
Corrado Turano e vella Gaetano, l’uno detenuto nelle Carceri di Sciacca, come
capo di una vasta associazione a delinquere; l’altro espluso dal Fascismo
perché affiliato alla maffia consenziente il Fiduciario Provinciale.
L’Avv. Calogero Guarino, capitano degli Arditi, decorato e ferito,
essendosi dimesso dalla Commissione di
reggenza per protestare contro l’infiltrazione popolare, voluta dagli altri
due membri riceveva da Girgenti un
telegramma a firma Dima con cui si accettavano le sue dimissioni, e quasi
simultaneamente ne riceveva un altro da Roma, a firma dello stesso Ing. Dima
che gli riconfermava lo incarico.
Tali provvedimenti contraddittorii, oggetto di salaci commenti, valsero
a dimostrare che a Girgenti qualcuno sostituisce il Dima, e dà importanti
disposizioni senza neanche interpellarlo. Inutile ripetere chi possa essere
questo qualcuno.
E così a Sciacca in luogo della Sezione sorta nel 1920 esiste ora un
piccolo Fascio trucco composto prevalentemente di popolari.
A Menfi, altro centro dove i combattenti e i mutilati, organizzati sin
dal 1919, si erano trasfusi nel Fascismo, fu incaricato della reggenza, insieme
ad altre figure insignificanti, il Gr. Uff. Bivona, di 75 anni, il quale nelle
elezioni del 1919 distribuì i voti di cui disponeva fra la lista di Nitti e
quella di Don Sturzo; nel 1921 li diede alla lista Verderame, voti annullati
dalla Giunta delle Elezioni per corruzione. Nel 1922, il Bivona fu
successivamente riformista (La Loggiano) e popolare (Sturziano). Ora è a capo
del Fascismo di Menfi, dove fece nominare Segretario Politico Berto Ravedà,
intimo congiunto del Segretario Provinciale del P.P. Sturziano Avv. Molinari.
A Licata il Fiduciario Provinciale dopo avere tolto l’incarico al
signor Ettore Sapio amico e parente dell’On. Verderame lo affidò ad una
Commissione di Reggenza alla quale pure lo tolse per riaffidarlo al Sapio.
Ciò, nel giro di pochi giorni, ha arrecato grave pregiudizio al partito
anche perché è notorio che l’Ing. Dima aveva chiesto al Generale Starace,
l’espulsione del Sapio per indegnità.
La Sezione Fascista di Licata è
ora una succursale del partito riformista, che, è bene si sappia, in questa
Provincia fa causa comune coi popolari.
Analoghe repentine metamorfosi si verificarono a Bambuca di Sicilia.
In taluni Comuni della Provincia, refrattari al Fascismo perché
completamente asserviti alla maffia (Cianciana - Burgio - Aragona - Comitini -
Favara) non era stato possibile - anche perché io mi ero opposto risolutamente
- costituire dei Fasci. In queste ultime settimane, all’unico scopo di
procurarsi segretari politici disposti a votare per la sua rielezione il
Fiduciario fece sorgere per incanto delle sezioni Fasciste, composte di
elementi apertamente devoti all’On. La Loggia, o al partito popolare.
Il Fiduciario Provinciale, sapendo della mia opposizione ad un Fascismo
così impuro ed equivoco, non mi avvertì neppure della costituzione di questi
Fasci.
Le elezioni compiute per la ricostituzione dei direttorii, tranne che a
Girgenti nella prima votazione durante la mia assenza, sono procedute ordinate,
senza dar luogo a incidenti o proteste. Specialmente la seconda votazione a
Girgenti si svolse calmissima.
I risultati finora furono i seguenti:
1°) A Girgenti riuscì la lista dei vecchi fascisti con carattere di
opposizione al Fiduciario Provinciale.
2°) A Canicattì riuscì una lista ostile al Fiduciario Provinciale
composta quasi tutta di ex Ufficiali combattenti e decorati con a capo il
valoroso Generale Gangitano più volte decorato al valore e ferito.
3°) A Porto Empedocle riuscì una lista degli elementi uscenti, fascisti
di vecchia data, contrarii al Fiduciario.
Vi furono anche elezioni in comuni di minore importanza: Casteltermini,
Bivona, Siculiana e Palma con risultati varî. In complesso
però si è creata una situazione artificiosa specie in queste ultime settimane
per effetto della sovrapposizione degli elementi popolari, riformisti, alla
gerarchia Fascista.
I maggiorenti demosociali si mantengono per lo più inattivi nella
incertezza dell’atteggiamento da assumere di Fronte al Governo Fascista. Una
organizzazione veramente forte e seria del Fascismo, ne potrebbe diminuire di
molto l’efficienza. Le Sezioni di vecchia data, in gran parte ostili al
Fiduciario Prov. Intendono affermarsi sul nome del predetto Generale Gangitano,
come Segretario Politico Provinciale, il quale ha sempre combattuto apertamente
la Democrazia Sociale. Per evitare questo pericolo si minacciano nuovi
scioglimenti da parte della Federazione Provinciale.
Per conto mio, ho ritenuto conveniente mantenermi del tutto estraneo al
movimento fascista di quest’ultima fase. E ho pur dato disposizioni affinché i
funzionari dipendenti si astenessero da qualsiasi ingerenza.
Tali direttive sono state rigorasamente osservate.
Date le circostanze di fatto sopra riferite e delle quali potrei
occorrendo dare la documentazione, ritengo di dover confermare la proposta che
ebbi l’onore di farLe a Siracusa e cioé
lo scioglimento della Federazione Provinciale, con la nomina di una Commissione
di Reggenza che proceda ad una rigorosa revisione delle Sezioni ed il rinvio
delle elezioni.
In linea subordinata ritengo che si debba negare il riconoscimento alle
Sezioni di Comitini, Favara, Cianciana, Burgio, Bivona, Joppolo e Aragona.
Infine per la ricostituzione delel Sezioni di Licata, Sciacca, Menfi e
Sambuca, dove le condizioni sono favorevoli allo sviluppo di un forte e sincero
Fascismo, propongo che vengano rigorasamente seguite le direttive
opportunamente dalla S.V. On. Date coll’ordine del giorno emesso a Siracisa,
affidandone la riorganizzazione a elementi estranei all’ambiente, e non
asserviti ai vecchi partiti locali.»
La
peculiarità di Agrigento di un fiduciario a capo della federazione fascista
provincila si trascinò sino al 26 gennaio 1924. Sotto tale data venne
incaricata di regge il fascismo agrigentino una Commissione Straordinaria, come
aveva proposto il prefetto Reale in via principale. Tale Commissione si resse
sino al 17 aprile 1924, quando venne eletto tal Girolamo Galatioto, che durò
sino al 4 aprile 1925. Dopo abbiamo un certo Paladino Raffaele, che a diverso
titolo, fu capo del fascismo agrigentino sino al 13 settembre 1925. Quindi è il
tempo del celeberrimo Achille Starace che fu commissario straordinario del
federazione di Agrigento dal 13 settembre 1925 al 17 maggio 1926. Il 17 maggio
1926 subentra l’On. Angelo Abisso: esso è il federale di Agrigento sino al 29
dicembre 1927.
Questi
sono i suoi successori:
1. D’Andrea Calogero dal 29 dic. 1929 sino al 14 gennaio 1931;
2. Basile Carlo Emanuele dal 14 genn. 1931 al 17 aprile
1931 (Commissario Straordinario);
3. Morello Vincenzo dal 17 aprile 1931 all’ 11 giugno1932;
4. Puccetti Corrado dall’11 giugno 1932 al 6 febbraio 1933;
5. Gaetani Alfonso dal 6 febbraio 1933 al 1° aprile 1937;
6. Guggino Emerico dal 1° aprile 1937 al 4 aprile 1940;
7. Di Marsciano Ermanno dal 4 aprile 1940 al 3 maggio
1943;
Candrilli Manlio dal 13
maggio 1943 sino all’entrata degli americani. ([64])
Ufficialmente,
la Federazione fu costituita il 15 novembre 1922. I personaggi che si sono
succeduti alla sua guida non sono tutti di grosso risalto. Alcuni dati
biografici aiutano a comprendere l’altalenare di personalità a vario spessore
che si registra nella direzione del fascismo agrigentino.
Dima Narciso
Laurea
in ingegneria - assicuratore. Iscritto ai fasci sin dal 1919. Fiduciario della
Federazione dal 15 novembre 1922. Agente generale dell’INA per Girgenti.
Galatioto Gerolamo
nato
a Ravanusa (Ag.) il 10 agosto 1894. Partecipò alla guerra del 1915-18 con il
grado di tenente di fanteria. Ebbe due medaglie di bronzo.
Paladino Raffaele
nato
a Floridia (Sr) il 10 gennaio 1884. Laurea in lettere, insegnante. Figlio di
Esattore Comunale. Socialista rivoluzionario; interventista; nazionalista.
Iscritto al Fascio nel 1920. Espulso dal PNF nel marzo 1926 «quale elemento
disgregatore», fu riammesso nel maggio successivo. Non aderì alla RSI.
Starace Achille
«”Buttatelo giù
per le scale”, fu l’urlo di Mussolini che scacciava definitivamente Starace
dal’anticamera della Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia. Il “duce” lo aveva
privato di ogni carica e di ogni onore in breve tempo. Nel ‘39 Starace dovette
dimettersi da segretario del partito fascista e nel ‘41 da capo di stato
maggiore della milizia: la sua stella era tramontata per sempre. Cominciarono
per lui gli anni delle umiliazioni e della misera che non ebbero più termine
fino al giorno della sua esecuzione in Piazzale Loreto a Milano, il 29 aprile
1945.» [65]
«La sua vicenda personale non si chiude in se stessa, maè il riverbero
di un costume che andava mutando, la sua biografia è anche il racconto della
vita esemplare d’un gerarca fascista assai potente, di una sacra autorità del
Ventennio. E’ uno specchio in cui si riflettevano gli italiani del Littorio
irreggimentati in una coreografia alienante di cui Starace era regista discusso
e irriso ma ubbidito.
«La condanna del fascismo è nelle cose di tutti i giorni e negli eventi
della storia. Rovesci e sciagure furono addebitati al regista, come conseguenza
d’un’apparente organizzazione del partito che non poteva reggere alla prova del
fuoco. Di lui si fece un capro espiatorio. Misero tutto sul suo conto. Lo
distrussero, e forse lo meritava. Mussolini lo scacciò, e forse aveva buone
ragioni per farlo. L’ingranaggio ormai lo stritolava e nessuno poteva
riabilitarlo. Cercò di risollevarsi da solo, con una morte dignitosa davanti al
plotone d’esecuzione.» ([66])
Nel
“carteggio riservato” della Segreteria particolare del Duce, custodito
nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ben tre voluminosi fascicoli
riservati ([67])
sono destinati allo Starace. Vi è di tutto. Mussolini lo seguiva in tuttto.
Dalle cose pruriginose (pederastia, tradimenti tra fratelli, orge) a quelle
invereconde (le celebri avventure galanti) ai latrocinii, alle concussioni. La
parentesi agrigentina di Starace vi emerge per gli aspetti più inquietanti: la
sua amicizia con Abisso fu molto interessata. Non è provato, ma niente
smentisce la miserevole vicenda dei tanti soldi spillati all’on. La Lumia di
Licata dietro promessa di una resurrezione politica.
Un
anonimo faceva al “duce” in data 28/5/1932 questa delazione ([68])
«A S.E. Benito Mussolini - Ministro degli Interni, Roma - Dopo un
lavoro faticoso e pericoloso di spionaggio, ho potuto appurare i dati di fatto
che vengo ad esporVi, nell’interesse generale del Fascismo e particolare della
Provincia di Agrigento.
«Da parecchi anni l’On.le La Lomia, politicamente di Licata,
corrisponde la somma di lire cincquantamila annue all’On.le Starace.- Detti
pagamenti, che ad oggi ammontano a £. 350.000 sono stati fatti direttamente con
vaglia bancari girati dallo stesso all’attuale Segretario del Partito, oppure a
mezzo del Senatore Abisso, difensore della delinquenza siciliana. Per detta
somma l’On. Starace, fin dalla sua gestione commissariale nella provincia di
Agrigento, si è impegnato di difendere l’associazione Abisso-La Lomia fino alle
estreme conseguenze. In conseguenza di questo fatto l’On. Starace ha inviato
come Questore di Agrigento il Comm. Papa, che appena arrivato in sede si è
premurato di chiamare al telefono il Comm. Lo Dico, ex Preside della Provincia
di Agrigento, al quale comunicava un discorso cifrato, in seguito al quale,
dopo pochi giorni, avveniva nei pressi di Porto Empedocle .. nel villino campestre del detto Lo Dico ,
una riunione segreta alla quale partecipavano, il Questore, Lo Dico, il
senatore Abisso, il dott. Di Leo Calogero sanitario del comune di Sciacca e
fratello del Segretario Federale Agrigentino in pectore, il dottore Venezia medico
chirurgo dentista di Sciacca, fervente
propagandista repubblicano, l’nsegnante
Castellana Alfonso di Lucca Sicula, il cav. Liborio Friscia di Ribera, il Capo
Manipolo Friscia Gaetano di Ribera, il Marturana Salvatore di Agrigento, alcuni
rappresentanti dell’On.le La Lomia ed altri Abissiani della Provincia.
«Scopo della riunione fu di impartire disposizioni perché fosse fatto
molto rumore in Provincia per la promessa dell’On. Starace del rovesciamento
imminente della situazione politica provinciale.
«In seguito a tale riunione infatti in vari paesi della Provincia
furono sguinzagliati degli agenti provocatori che tentarono dappertutto di
sollevare incidenti. A prova della veridicità della promessa dell’On. Starace
in quella riunione l’On.le Abisso riferì per comunicazione avuta dall’On.
Starace che il ritardo del provvedimento di rovesciamento si doveva al fatto
che presso la magistratura di Sciacca giaceva una pratica per la riesumazione
di un processo di associazione a delinquere per stabilire se il padre del
futuro Segretario Federale di Agrigento fosse stato a suo tempo coinvolto in
detta associazione. Al che il Questore Papa prese la parola assicurando ‘in
ogni caso la Segreteria Federale sarà data a persona che pur sembrando neutrale
tuttavia sarà al completo servizio del Senatore Abisso’».
Nella
permanenza ad Agrigento, l’On. Starace ebbe modo di incontrarsi con due uomini
politici: l’on. Abisso e l’on. Cucco; del primo ne consolidò la fortuna, del
secondo ne stabilì l’umiliante radiazione dai ranghi (almeno sino al 1939). La
lotta alla mafia non c’entra affatto. Diversamente la sorte dei due politici
siciliani doveva esse parallella, identica essendo la radice mafiosa.
L’on.
Abisso fu tanto camerata dell’On. Starace da seguirlo in scandalose
frequentazioni di donnine romane. Le spie di Mussolini riferivano. Ma senza
effetto.
Abisso Angelo
E’
figura centrale dell’agone politico agrigentino, almeno dal 1913 sino al 1933
quando il nobile Gaetani diviene federale di Agrigento. Equilibrismi polticici,
repentine conversioni, tradimenti, trasformismo determinano un effetto alone
sul personaggio, che resta equicoco, indefinibile, moralmente opaco. Ciò
trascende l’angusta economia di questa ricerca per il doveroso approfondimento.
Al
nutrito partito di fiancheggiatori - sprezzantemente chiamati abissisiani - si
contrappone quello dei denigratori ad oltranza. Nelle carte di archivio abbondano
le denunzie, le calunnie, le insinuazioni. L’on. Abisso finisce
nell’osservatorio della Segreteria particolare del Duce che apre a suo carico
un folto fascicolo informativo. ([69])
Il potente amico Starace riesce, in ogni caso, a parare i fulmini mussoliniani.
La stella politica di Abisso potè appannarsi alla fine, ma non si oscurò per
tutta la durata del fascismo.
D’Andrea Calogero
Nato
a Campobello di Licata (Ag) il 30 maggio 1877, si laureò in giurisprudenza. Fu
avvocato ed insegnante. Partecipò alla guerra del 1915-18 col grado di
capitano, poi maggiore di fanteria. Iscrittosi al fascio il 20 novembre 1922,
fu preside dell’Istituto Tecnico di Agrigento. Rivestì anche la carica di Vice
Preside dell’Amministrazione Provinciale di Agrigento. Non aderì alla R.S.I.
Basile Carlo Emanuele
nato
a Milano il 21 ottobre 1885, morì a Stresa il 1° novembre 1972. Barone
plurilaureato (giurisprudenza e lettere), giornalista e scrittore, era figlio
di un prefetto. Fu nominato senatore. E’ autore di romazi e novelle. Aderì alla
R.S.I. e fu quindi prefetto di Genova dal 25 ottobre 1943 al 26 giugno 1944.
Ebbe l’incarico di sottosegretario alle FF.AA dal 27 giugno 1944. Venne ad
Agrigento come commissario straordinario di questa federazione per consentire
una svolta in termini di affrancamento dalla influenza dell’On. Abisso. Vi
restò dal 14 gennaio 1931 fino al 17 aprile 1931. Passò le consegne alla
scialba figura di Vincenzo Morello di cui sappiamo che fu fascista fin dal
1920. L’11 giugno 1932 viene sostituito da Corrado Puccetti: da questo momento
la vicenda della federazione agrigentina esula dai limiti della presente
investigazione storica.
Quale
giudizio può formularsi sul primo quindicennio del fascismo agrigentino
(1921-1926)? Ci pare illuminante, pur nel suo settarismo e nella passionalità
per il ribollire delle passioni del tempo, la sguente anonima delazione che si
rinviene nella carte ministeriali romane ([70]):
«La storia politica della provincia di Girgenti, [Girgenti cambia
denominazione in Agrigento durante il fascismo, nel 1927, con il r.d. 16 giugno
1927, n.° 1143, n.d.r.] specie
nell’ultimo quindicennio, rappresenta quanto di più deplorevole possa esservi
nella vita pubblica italiana. Sparitò l’on. Nicolò Gallo, che dal 1884 ne fu
quasi ininterrottamente il dominatore, il suo posto venne assunto dall’on.
Domenico De Michele. Costui, ch’era stato del Gallo il luogotenente fedele non
aveva di lui né l’ingegno né la dottrina né l’ascendente, ma seppe mantenersi
al potere col favore di S.E. Giolitti, del quale fu seguace fedelissimo, e
creando attorno a sé una rete di interessi e di interessati. Contro questa
oligarchia, bollata col nome di cosca, insorsero le forze nuove della
Provincia ch’ebbero come principale loro esponente Giovanni Guarino Amella.
Sono ancora ricordate le polemiche, spesso virulente, dell’organo
dell’opposizione “IL MOSCONE”, nel quale al De Michele ed ai suoi seguaci si fecero
le accuse più atroci e più infamanti.
«In tali consizioni di cose venne l’allargamento del suffragio e
vennero le elezioni del 1913, nelle quali le forze dell’opposizione riuscirono
vittoriose e furono eletti deputati Giovanni Grarino Amella, Antonino
Parlapiano Vella e Angelo Abisso. Costui, fino a pochi mesi prima semplice
segratario al Ministero dei LL. PP., aveva compreso l’enorme capovolgimento che
il suffragio universale avrebbe prodotto nelle imminenti elezioni e ,
dimessosi, si era lanciato a capofitto nella lotta, aggregandosi alle file
dell’opposizione, ma proclamandosi “individualista e simpatizzante per i socialisti
(discorso politico del 1913 a casa Gerardi)”
«Ma l’opposizione, divenuta maggioranza ed impadronitasi del potere
politico ed amministrativo in provincia, non credette di meglio che di ....
seguire i metodi dei precedenti padroni, anzi di perfezionare e incrementare
tali metodi. Il nepotismo più sfacciato, il favoritismo più aperto furono
regola di vita per essa, e poichédopo pochissimo tempo scoppiava la guerra, se
ne trasse motivo per inaugurare in provincia il più sconfinato dispotismo.
Messo da parte l’on. Antonino Parlapiano, che per temperamento e per tradizione
non era adatto a seguire in tutto e per tutto i metodi della nuova cricca,
questa s’imperniò sul binomio Guarino-Abisso, i quali durante la guerra furono
i dominatori incontrastati di tutti gli organi amministrativi, statali e
parastatali della provincia. Non solo l’amministrazione provinciale
propriamente detta e quella dei varii comuni passò nelle loro mani ed in quelle
delle loro creature; non solo per avere più incontrastato dominiol’on. Abisso
ad es. Tenne a Sciacca, malgrado il Consiglio comunale - pu da lui eletto - non
fosse sciolto, un Commissario prefettizio di sua scelta per ben 5 anni; ma
Consorzio granario, Commissione esoneri, Consiglio d’amministrazione del Banco
di Sicilia etc. etc. Commissioni militari di requisizione furono accentrati
nelle loro mani direttamente o a mezzo di persone parenti od amiche. Quello che
fu fatto al Consorzio granario, gli scandali delle varie Commissioni di
requisizione, nelle quali era magna pars il comm. Lo Dico odierno alter
ego dell’on. Abisso in quel di Girgenti, non hanno bisogno di
illustrazione, perché ancora se ne occupano le cronache dei tribunali con i
varii processi, ancora non chiusi, di truffe, falsi e malversazioni a carico
dello Stato, commesse tutte sotto le grandi ali dei due grandi patroni della
provincia. E mentre i due facevano a Roma professione d’interventismo, e l’on.
Abisso indossava la divisa di tenente del genio ma, sebbene appena trentenne,
non andava al fronte pur facendosi bello dell’amicizia di Valentino Coda (dove
mai l’ebbe a conoscere resta sempre un mistero!); a Girgenti e Palermo si
cooperavani per imboscare il maggior numero di gente, fratelli, cognati e
cugini; per esonerare come agricoltori barbieri e murifabbri, e per difendere
avanti ai tribunali militari il maggior numero di disertori o di falsificatori
di esoneri. La cronaca del tribunale militare di Palermo informi. Si cominciava
così da parte dell’on. Abisso a creare quella leggenda d’irresistibile
avvocato penalista, che, stabilitosi pieno ed intero il suo dominio politico,
gli doveva assicurare il monopolio delle Assisie di Sciacca e Girgenti e la
fama di “detentore delle chiavi del carcere”.
Appartiene a questo periodo la persecuzione inflitta dall’on. Abisso,
attraverso a tre inchieste tutte quante negative, ad un capitano - Gravina -
reo di aver preso in contravvenzione lo zio di lui Friscia per vendita illecita
di grano requisito; contravvenzione sfumata per il tempestivo intervento del
Commissario dei Consumi che svincolava “a posteriori” il grano venduto. Ed
appartengono a questo periodo i contorcimenti politici dell’Abisso e la
smargiassata della “messa in stato di accusa dell’on. Giolitti per altro
tradimento” da lui chiesta a S.E. Salandra e da questi qualificata come una
semplice “sciocchezza” del deputato di Sciacca. Ciò che però non impediva,
all’on. Abisso, al feroce interventista del ‘15, di divenire, appena Giolitti
tornò al potere, di divenire un giolittiano ferventissimo, anzi il luogotenente
generale dell’uomo di Dronero in quelle famigerate elezioni del 1921, e di
chiedere e di ottenere da lui, alla vigilia dell’elezioni istesse, la nomina a
commendatore motu proprio, affissa poi
subito alle cantonate di Sciacca e provincia col relativo telegramma di
S.E. Giolitti.
«Venne il dopoguerra e venne di moda il bolscevismo. Ed allora Guarino
ed Abisso, ma questi più del primo, entrambi però sempre in combutta tra di
loro, provvidero a dare alla provincia di Girgenti il saggio migliore e maggiore
del’opera bolscevica. Le occupazioni
delle terre di Ribera e Menfi, ma sopratutto quelle di Ribera, col tentato
sequestro del Duca di Bivona e con i vandalismi conseguenziali, furono opera
diretta, ispirata, suggerita e talvolta predisposta dall’on. Abisso. Il quale
arrivò persino ad ottenere che l’autorità politica impedisse l’esecuzione delle
sentenze del magistrato (come per il rilascio del feudo Scifitelli disposto con
sentenza della Corte di appello, ed impedito dal Prefetto di Girgenti!). Né si
dica che ciò egli abbia fatto per venire in soccorso ai combattenti, perché di
tali occupazioni poco o nulla si sono giovati gli autentici combattenti e le
terre, quando non sono state retrocesse ai proprietari per inadempienza delle
pseude cooperative da lui create, sono andate a finire in mano a gente che la
guerra non vide neanche da lontano. Esempio la lottizzazione dell’ex feudo
Nadore in quel di Sciacca, dell’ex feudo Fiore e Bertolino di Menfi; e, uno per
tutti, l’esperienza disastrosa della celebre Cesare Battisti di Ribera.
Intanto alla Camera il binomio, per sorreggersi, seguiva una linea di
condotta veramente meravigliosa. Data l’instabilità dei governi, i due, per
trovarsi a cavallo, non votavano assieme se non quando l’esito della votazione
era sicuro; ma quando si trattava di votazione incerta i due demo-sociali
(giacché Abisso aveva finito per rinunciare al suo individualismo e seguire
l’amico Guarino anche nel partito di S.E. Di Cesarò) o si dividevano votando
uno contra ed uno a favore, oppure, mentre l’uno si squagliava, l’altro votava
a favore. Così i due poterono rimanere ministeriali con tutti i ministeri ed
essere fautori e sostenitori di quei Governi imbelli del passato, contro di cui
così spesso e volentieri, con riconoscenza ammirevole, ora si scaglia ogni
tanto il fascista on. Abisso. Il quale una sola volta dovette passare
per oppositore, quando cioè l’on. Nitti, accortosi ch’egli erasi prudentemente
squagliato in una votazione non volle accettare le congratulazioni che s’era
affrettato a fargli dopo conosciuto l’esito favorevole del voto! E ministeriali
furono persino col ministero Fatta [Facta, n.d.r.]
del quale uno dei due avrebbe volentieri fatto parte se i popolari non si
fossero opposti facendo a loro preferire il La Loggia.
«Intanto il movimento fascista andava montando, e lo Abisso, sempre
tempista e previdente, disponeva che nei varii comuni della provincia
sorgessero delle sezioni fasciste composte da persone a sé fide, ma di seconda
mano; gente di scarto e sfiduciata al doppio scopo d’impedire che la gente per
bene potesse accostarsi e far proprio il movimento e di poterlo sconfessare, e
buttare a mare gli esponenti stessi senza sua compromissione, ove il movimento
fosse fallito. Né appena avvenuta la marcia su Roma egli permise che quelle
sezioni s’ingrossassero sia con elementi
proprii, sia permettendo l’ingresso di altri elementi estranei alla cricca, non
essendo sicuro che il regime potesse consolidarsi. Ma quando capì che esso ormai
durava, allora fece il gran passo, si separò dal Guarino ed entrò nel fascismo
con tutti i suoi adepti.
«Da quel giorno è stata sua cura costante non solo di sfruttare nel
modo migliore, a vantaggio proprio dei parenti e dei gregari, la sua posizione
dominante; ma sopratutto quella di allontanare dal fascismo tutti coloro che
gli potessero dare ombra costringendo l’elemento migliore della provincia o a
fare del dissidentismo o a starsene a casa o a passare addirittura
all’antifascismo. Del resto non potrebbe essere diversamente. Infatti in provincia
il fascismo non esiste, come del resto non esiste antifascismo: non c’è che
dell’abissinismo e dell’antiabissinismo. Anche coloro che odiano il fascio
possono esservi ammessi purché passino sotto le forche caudine dell’omaggio e
dedizione ad Abisso ed ai suoi luogotenenti. Di esempii se ne possono citare a
migliaia, ma noi citeremo i più gravi ed importanti.
«Sciolto il Consiglio comunale di S. Stefano Quisquina, poiché i veri
fascisti di colà non erano da lui benvisti, egli volle che il Fascio fosse
rappresentato dai sigg. Vincenzo Ippolito e Con osservanza., cioè dagli
autentici maffiosi del luogo. E costoro ebbero l’amministrazione comunale e
furono i padroni del paese finché, passati sinceramente o no poco importa, al
fascismo i socialisti del luogo e denunciato in alto loco i precedenti degli
amministratori scelti dallo Abisso, costui fu costretto di abbandonarli al loro
destino.
«Così in Alessandria della Rocca non ha esitato a silurare i vecchi
fascisti del luogo, rei di poca arrendevolezza a lui, per accogliere e mettere
al loro posto un suo ex-compagno demo-sociale reduce dal comitato
aventiniano-matteottiano di Girgenti.
«Né basta. Abbattuto il La Loggia egli non ha esitato a fare rivolgere
invito ai partigiani di quello perché passassero nelle sue file, e bastò che il
dott. Traina di S. Margherita, anifascista nell’anima, si ponesse a sua
personale discrezione, perché egli senz’altro gli lasciasse il dominio del
paese abbandonando i suoi vecchi compagni, che rappresentano il minor numero.
«Quello però che dimostra viemmeglio quale sia lo spirito che anima lo
Abisso, è dimostrato dal suo accordo col’ora defunto on. De Michele. Costui,
dopo la caduta, era passato nelle file del La Loggia di cui fu fino ad ieri il
seguace più ostinato, anche perché i Baiamonte suoi oppositori nel paese natìo
di Burgio erano passati al fascismo.
«Caduto il La Loggia, il De Michele fece degli approcci per passare al
fascismo, e poiché i Baiamonte avevano mostrato di avere delle preferenze per
il prof. Noto Sardegna, inviso allo Abisso perché a lui superiore per
intelligenza, cultura e ... tutt’altro, questi non esitò a dimenticare il
passato e ad ammettere il De Michele nel direttorio provinciale dietro promessa
di appoggiare, contro Noto, certo Ciaccio un vero Carneade di Sambuca, come
possibile candidato del Collegio di Bivona. Ed i Baiamonte furono cacciati in
galera!
«Del resto che lo Abisso faccia del fascismo a suo uso e consumo lo
dimostra un fatto per quanto piccolo e materiale: a Sciacca, sua cittadella, si
sono spese dal Comune fior di quattrini per creare un lussuoso circolo ANGELO
ABISSO, che tutti i fascisti, sopratutto se impiegati, debbono frequentare;
mentre per la Sezione del Fascio esiste una stanzetta angusta che sta quasi
sempre serrata.
«Non parliamo poi dei criteri amministrativi seguiti al Comune di
Sciacca. Due Consigli comunali, sebbene da lui eletti e composti tutti suoi
gregari, si sono dovuti dimettere rei soltanto di aver voluto qualche volta
ribellarsi agli ordini dello zio Salvatore Friscia, un ex-rappresentante che ha
monopolizzato, durante la guerra attraverso al monopolio dei permessi
d’esportazione, ed oggi attraverso altri sistemi, il commercio locale, e che
crede il Comune essere cosa sua personale. Ed oggi si propone come podestà un
impiegato di prefettura, mentre non mancano nel partito gente idonea alla
carica, per il timore, confessato, che queste possano avere, dopo nominate,
delle velleità d’indipendenza agli ordini delll Abisso e del suo luogotenente!
«Del resto lo stesso sistema si segue negli altri comuni. A Menfi alter
ego dell’Abisso, è certo Volpe, un contadino semi analfabeta, ma esecutore
fedelissimo degli ordini ch’egli gli dà e suo rappresentante ... anche negli
affari professionali; a Girgenti domina incontrastato in suo nome il Comm. Lo
Dico, reduce dei fasti delle Commissioni di requisizione, e che pur essendo un
semplice procuratore legale NON laureato, divide con lo Abisso i maggiori
trionfi in Corte d’Assisie.
«Perché poi la piaga maggiore che il dominio di quest’uomo ha portato
in provincia, è la difesa assunta della peggiore delinquenza, l’esautoramento
completo della giustizia. [...] [Anonimo del 14.10.1926,
n.d.r.]»
Lo
spaccato è senza dubbio tutto in negativo e va accettato per quel che vale: ma
qualche luce la riverbera sul quel periodo. Uno dei suoi limiti più vistosi è
quello di limitare lo sguardo critico alla sola parte occidentale di Agrigento.
Per la restante parte disponiamo di altre carte riservate, anonime ma
informate, che ben si prestano a fornirci altri spunti critici.
L’anonimo
proviene da Naro ed è datato: 15 settembre 1931. Qui viene presa di mira la fazione dell’On.
Riolo.
«Eccellenza - esordisce ([71])
- In nome di sedicimila coscienze, ancora
non vendute né aggiogate al carro del banditismo locale, si ha l’onore di farVi
conoscere quanto segue:
«La Sezione del P.N.F. venne istituita in Naro nel Novembre del 1922 da
pochi giovani animosi, di pura fede nostra, i quali per riuscire SOLAMENTE AD
ACCAMPARSI tra le rive di questa mefitica palude politica dovettero sfidare
tutte le ire e scavalcare tutti gli ostacoli, opposti al loro sano e santo
entusiasmo dagli altri Partiti locali, in modo specialissimo da quella vera
associazione a delinquere che fu il così detto partito della democrazia social
massonica.
«L’avvento del Fascismo al potere avrebbe dovuto segnare la scomparsa
di quella più vera e maggiore piaga di Egitto, ma le prepotenze, le
intimidazioni, le corruzioni, l’intrigo fecero sì che la “COSCA” provinciale
(facente capo allora all’on. Abisso, capo riconosciuto di tutta la mala vita
urbana e rurale) si mantenesse a galla e così nella prima elezione politica
fascista (1924) l’avv. Salvatore Riolo Specchi venne compreso, tra lo stupore e
la indignazione di tutti, nella lista Nazionale.
«Conseguenze dirette della candidatura e quindi della elezione di
questo oscuro satellite abissino furono:
1°) = L’ingresso di tutti i demo social massonici nella sezione del
Partito Fascista di Naro;
2°) = La caduta del direttorio locale e la sostituzione di tutti i
membri di questo, per imposizione del Deputato, con elementi di pura marca
Riolana;
3°) = L’automatico allontanamento dalle cariche e anche dalle fila del
Partito dei fascisti della prima ora.
«Da quel giorno sino ad oggi tutto l’immenso ritmo fecondo di idee e di
opere del regime è stato costretto a vivacchiare, in servitù sterile e
semi-boccaccesca, tra una parete e l’altra dell’allegra dimora della signora
TITA RINALDI RIOLO la quale ha voluto dividere col marito, assiduamente,
l’onere e l’onore di governare le sorti e la storia nuove del paese, ad
esclusivo beneficio della sua famiglia naturale e politica. Da allora sino ad
oggi, senza uno scarto, senza rossori, con la medesima flemma vuota e sorniona,
tutte le cariche del Partito, distribuite patriotticamente in famiglia sono
sate occupate nel modo seguente:
AVV. COMM. SALVATORE RIOLO SPECCHI - Classe 1876
Deputato alla Camera. Capo, di nome se non di fatto del P. Fascista
locale. Ex imboscato e protettore di imboscati ed autolesionisti. Presidente
del Consorzio granario durante la guerra, a Girgenti. Capo della massoneria
paesana e gran fratello di quella provinciale. Attualmente, si dice, è
dormiente. Venne incluso nella lista Nazionale con questa esilarante menzogna:
“PER ESSERSI COSTANTEMENTE OCCUPATO DEI PROBLEMI DELL’AGRICOLTURA” = mentre qui
è notorio che egli di agricoltura non conosce neppure l’ortica. Tipo vano e
vuoto ma ambiziosissimo sarebbe capace, pur di conservare la medaglietta, di
accodarsi anche a Don Sturzo, com’ebbe un giorno cinicamente a dichiarare nella
farmacia Bellomo: per sincerarsi chiedere informazioni a costui e ad un
reverendo Polizzi, se questi due individui sono disposti a servire la verità.
Espertissimo nell’intrigo e nelle pastette sa conciliare le opposte tendenze e
le sfrenate ingordigie di parenti, di amici e di protetti, da sette anni tutti
patriotticamente a posto con stipendi da generalissimi chi in Naro chi nel
Capoluogo.
«Nel breve giro di tre anni fece regalare a questo povero Municipio la
bellezza di VENTIDUE Commissari.
«Nel 1919, 20 e 21, imperversando il terrore rosso non mise mai il naso
fuori né permise che l’avessero messo fuori i trenta satelliti della sua
fortuna, lietissimi di poterlo imitare in questa bisogna col medesimo
entusiasmo col quale lo avevano imitato e talvolta superato in viltà durante la
guerra.
«Nel 1922 tradì e strozzo l’amministrazione comunale dei combattenti
dei quali, fin dal 1925, perseguita con ogni mezzo, compresa la maldicenza in
pubblico, la locale sezione.
«Dal 1925 sino al dicembre 1930 assassinò politicamente, moralmente,
finanziariamente il Podestà Cammilleri Sillitti prima e costrinse dopo a
dimettersi da Commissario Prefettizio, successo ad un povero Re Travicello, il
proprio cugino Comm. Totò Riolo Tomasi, reo dinanzi al pubblico d’essere un
povero idiota, sebbene onesto e fattivo come il Cammilleri Sillitti. Lui che sa
appena leggere e scrivere, ha anche l’incarico di Sovrintendente ai Monumenti
di Naro, ma i rari illustri visitatori che capitano qui sono costretti a
chiedersi esterrefatti se Naro è in
Italia o non, tali e tante sono le prove materiali delle rapine, delle
manomissioni, della incuria che hanno sofferto e continuano a soffrire tutti i
monumenti e le reliquie del nostro splendore antico.
«E fianlmente, tanto per conchiudere alla svelta si fa noto che non
sapendo fare altro, da sette anni ha sfruttato tutto il suo genio nel far
conferire croci e commende ad individui i quali rappresentano in Naro o fuori
il fiore della feccia, della incapacità, dell’strionismo, dell’antipatriottismo
e segnatamente dell’ANTIFASCISMO, come si verrà mano a mano dimostrando. [Si butta quindi fango sulle
seguenti persone: Avv. Ignazio Riolo, classe 1887; avv. Giuseppe Riolo, classe
189; avv. Carlo Riolo, classe 1892; Comm. Salvatore Riolo Tomasi; Girolamo
Rinaldi, classe 1889; Ciro Rinaldi, classe 1887; Luigi Rinaldi, classe 1885;
Rosario Specchi-Rinaldi; Cav. Uff. Antonio Castelli, classe 1874; Cav. Antonio
Castelli; Antonio Gueli Alletti, classe 1873; Alfonso Borsellino, classe 1884;
Antonino Costa di anni 37; Cav. Onofrio
Nicolaci, commissario di P.S.- Il corrosivo astio e la vigliaccheria
dell’anonimato rendono quelle note ributtanti e - ai nostri fini - per nulla
significative. Ci asteniamo pertanto dal riportarle, n.d.r.] [...]
« Eccellenza - Sono due anni
giusti che noi meditiamo se valeva proprio la pena di stendere le paginette di
questa deplorevole storia locale, tutt’altro che completa specialemnte nei
riguardi dei maggiori esponenti del P.N.F. di qui i quali, se hanno la tessera
e tutti gli onori del Partito, assolutamente non ne possiedono lo spirito e
meno ne incarnano il dovere e la pericolosa e miracolosa missione.
«A Naro, Eccellenza, il Fascismo è un mito e il feudo è tutto. La
conseguenza, disastrosa, è la seguente:
contro una banda di senzapatria, composta tra ladroni e lacchè, da un
centinaio d’individui c’è tutta intera una cittadinanza la quale vuole da sette
anni e spera indarno che la luce di verità, la febbre di bene, la protezione
augusta del regime, divengano una realtà viva e feconda anche per essa; oggi,
nel momento in cui scriviamo, è il collasso generale con brevissime parentesi
d’insurrezione spirituale sorda e furiosa, di cui qualche cosa devono pur
sapere nel capoluogo. Arriveranno queste povere pagine fino al Tribunale
dell’E.V.? E se arriveranno avrete Voi il tempo e la bontà di degnarle di uno
sguardo?
«Ecco degli interrogativi che spezzano l’anima e, perché no?, anche
l’entusiasmo.
«Ma se Voi non potete e non volete leggere la storia del falso Fascismo
riolano di naro, degnateVi almeno dedicare cinque soli minuti a queste ultime
pagine il cui contenuto dedichiamo alla Vostra serena Giustizia.
1
«A Naro esiste una banca dal pomposo titolo “BANCA COMMERCIALE
INDUSTRIALE AGRICOLA”. Ne è Presidente il Comm. Benedetto Gaetani, COGNATO
DELL’ON. RIOLO, ex massone, falso fascista anch’egli, falso patriotta e nullità
assoluta sotto qualsiasi punto di vista. Gran parte dei debitori di quella
Banca sono tutti della banda Riolo parecchi dei quali sono anche debitori
morosi da anni. Da circa 20 anni questa Banca non fa bilancio e non dà conto a
nessuno dei suoi numerosi azionisti.
«Di questi non parla e non ricorre nessuno perché sta sempre pronta per
chi osa la minaccia delle manette e del
confino.
2
«A Naro esiste una Congregazione della Carità. Anche questo Istituto,
per quanto concerne la sua attività, sino al 30 maggio 1928, è un groviglio di
infamie irregolarità e di ladrerie. L’ex cassiere, un certo Costa Gaetano,
padre del perito Comunale Antonino Costa (del quale ci occuperemo all’ultimo)
deve dare una grossa somma CIRCA LIRE SEDICIMILA e non vuole sentirne. Per
informazioni sottoporre ad inchiesta l’attuale Presidente dott. Salvatore
Aronica e se questi non vuole parlare metterlo a confronto per esempio con
qualche magistrato locale, con un Sac, Polizzi, con un farmacista Ferracani
ecc.
3
«A Camastra (ora frazione di Naro) tre anni addietro veniva costruita
la strada interna principale. Questa è costata centinaia di migliaia di lire ma
è divenuta praticamente impraticabile come la famosa pedonale di Naro. C’è
stata in questi ultimi tempi e proprio per la strada una sollevazione dei
cittadini di quella sventuratissima borgata, ben presto domata con minacce di
deportazione e di altro contro i più cospicui capi di quel movimento,
volutamente presentato come antifascista (il solito argomento dei tirannelli
che vogliono godere in pace il frutto delle pubbliche rapine).
«Autore e direttore tecnico di quell’opera è stato precisamente il perito
comunale di Naro ing. Antonino Costa, Il collaudo è avvenuto di sera e dopo il
ritorno qui del deputato Riolo, tra motti e sarcasmi del pubblico che
assisteva, Quest’anno le autorità provinciali tanto per offrire una offa di
soddisfazione alla opinione pubblica nervosissima, hanno fatto eseguire sul
posto una inchiesta la quale ha avuto la fine di tutte le inchieste della
provincia feudo dei deputati Abisso, Riolo e Con osservanza.
«Il pubblico di Naro e di Camastra non ha più fiducia né ad uomini né a
promesse. E questo è forse il suo torto e il suo debole, del quale profittano
sfacciatamente gli altri, i cosidetti padroni per continuare ...
4
«Il deputato Riolo dice di avere la protezione di eminenti Gerarchi del
Partito, vanta l’appoggio incondizionato del sig. Prefetto Miglio, si dichiara
invulnerabile da parte del Segretario Provinciale Cav. Morello. TUTTO CIO’ IN
PUBBLICO E SENZA RETICENZE.
5
«A Naro il gagliardetto è nome e cosa sconosciutissima. Non si vede in
nessuna ricorrenza. Così per volere espresso di questo Segretario Politico il
quale si scusa dicendo che non ha fascisti ai quali affidarlo.
6
«A Naro il cav. Borsellino Alfonso, individuo privo sin’anche di
licenza elementare, veniva proposto
ripetute volte alle Gerarchie
provinciali, sino a 15 giorni addietro, come podestà di Naro dal
Deputato Riolo.
«Ultima fresca, gloriosa azione di lui è stato lo stupro d’una povera
servetta, costretta dalla miseria a lasciarsi tacitare con poche centinaia di
lire. La servetta è minorenne.
«Il pubblico sa e pensa, mastica
e dice innominabili cose contro l’eroe e i compagni che lo salvarono. Chi ci
guadagna non è certo il Fascismo.
7
«A Naro, dopo l’ecatombe di podestà e di commissari voluta dal deputato
Riolo, nel corso di quest’anno è venuto con funzioni di Commissario Prefettizio
il Cav. Steno Pelatti di Bologna, austera figura di fascista e di
amministratore. Così, per lui da quel mese abbiamo finalmente visto, conosciuto
e toccato la febbre, la forza, l’idea del regime. Ma abbiamo ragione di ritenere
che il Commissario Prefettizio non sia stato mai e oggi meno di prima di
gradimento dell’onesto deputato, che egli cominci ad essere stufo e nauseato
della persecuzione lenta, tenace, ipocrita di questo becchino di Funzionari
patriotti e puliti e che quanto prima se va via lui (Pelatti) si debba annegare
nella solita fradicia baraonda tanto cara a fruttifera alla truppa del nostro
illuminato onorevole.
«Soggiungeremo che il Pelatti in pochi mesi di permanenza al Municipio
è riuscito a cattivarsi talmente la stima e la simpatia del pubblico (riuscendo
così anche a mettere nella voluta luce il viso legale e romano del Fascismo)
che un grosso milionario, famoso per la sua tirchieria, gli ha spontaneamente
messo a disposizione una forte somma acciocché ne faccia uso a suo gradimento
senza darne conto a chicchessia!
8
«Da anni era stata raccolta una ingentissima somma in America e qui per
la erezione di un Monumento ai Caduti.
«La funzione di cassiere venne assunta, manco a dirlo, dal solito
Cav. Dott. Antonio Gueli Alletti - V. Segretario Politico.
«Il Monumento è lì che aspetta d’essere inaugurato, tanta è stata la
patriottica sollecitudine in merito del generalissimo Riolo e consorti, Mai
denari, nelle mani nette e pure di questo caro oculista di vili, si sono come
sempre patriotticamente squagliati e non è possibile ottenere i conti. Lo
stesso generalissimo Riolo convenne talvolta in pubblico dicendo che
effettivamente il costo di quell’opera e delle altre sussidiarie risulta
enorme. Noi diciamo che per molto meno parecchia gente di qui e di altrove è andata a gustare la
muffa e l’onta delle patrie galere.
«Pertanto denunziamo il cav. Antonio Gueli Alletti, cugino del deputato
Riolo, per furto continuato di fondi pubblici in danno del Comitato
Pro-Monumento e forse per disubbidienza agli ordini superiori di presentare
conti di gestione puliti e leggibili. Così facendo riteniamo di aver messo posto la nostra coscienza di cittadini e di
fascisti, e sentiamo di avere servito la giusta esigenza di un pubblico che ha
dato quasi 200 mila lire e da anni non può sapere come queste siano andate a
finire.
«Soggiungiamo che su questo terreno non scenderà mai il desideratissimo
oblìo, unico scampo liberatore cui crede di affidare la propria vita e l’nore
questo fortunato frutto di carabiniere.
«Quindicimila cittadini vaglieranno sempre sino a tanto che il ladro
camuffato fascista renda ai nostri morti l’oro versato con sangue e lacrime di
tutti. Insistiamo: tutto qui sarà possibile, ma giammai permetteremo che vampiri
sfrontati come il Gueli Alletti e C/i, attacchino le loro immondissime labbra
anche sui ricordi dei nostri DUECENTOQUARANTA EROI CADUTI PER LA PATRIA.
9
«Il 13 Settembre u.s. Domenica, in seguito ad accordi presi tra tutte
le Autorità a proposito della Festa dell’Uva, tutta la cittadinanza volle
manifestare apertamente la sua simpatia e la gioia verso il regime incarnato
nel Cav. Pelatti (Commissario Prefettizio) distribuendo ed affissando manifesti
di colore inneggianti al Duce al Prefetto, al Cav. Morello, al Commissario
Pelatti, al Fascismo. Per questa manifestazione, descritta come un delitto
presso la Prefettura di Agrigento, parecchi fascisti della prima ora, rei di
avervi preso parte col solito entusiasmo, furono diffidati dalla Questura di
Agrigento. Vi preghiamo in modo specialissimo di fare indagare su questo fatto.
«Naro, 15 Settembre dell’anno IX° E.F.
I Cittadini»
* * *
L’agone
elettorale agrigentino aveva visto come protagononisti i seguenti deputati:
Elezioni
del 16 novembre 1919:
Partito liberale democratico:
Abisso Angelo (voti di
lista 23.516) voti personali 8.825 + 65;
Guarino Giovanni (
“ “ “
“ ) “
“ 14.267 + 62;
Pancamo Antonino
( “ “
“ “ )
“ “ 6.109 + 153.
(Non
eletti: Brucculeri Giuseppe, La Lumia Ignazio e Scaduto Francesco)
Partito Popolare Italiano
Fronda Eugenio (voti di
lista 12.206) voti personali 5.115 + 72.
(Non
eletti: Arone Pietro, Micciché Giovanni, Montalbano Domenico, Messina Giuseppe,
Parlapiano Vella Antonino)
Partito Democratico
La Loggia Enrico (voti di
lista 19.383) voti personali 5.925
+ 0;
Vecchio Verderame Gaetano Arturo.
(Non
eletti: Vaccaro Michelangelo, Caramazza Ignazio, Picone Gaspare Ambrogio).
Partito Socialista Ufficiale
Voti
6.813: nessun eletto.
(Non
eletti: Arancio Antonino, Cammarata Giuseppe,
Friscia Michele, Giuliana Francesco, Sessa Cesare (voti n.° 2.554),
Vernocchi Olindo).
elezioni
del 25 maggio 1921
Partito Democratico Liberale
Verderame Gaetano arturo (voti
12.402)
Alleanza Democratica Sociale
Pasqualino Vassallo Rosario (voti 112.623)
Colajanni Napoleone
Lo Piano Agostino
Abisso Angelo (voti 95.146)
Camerata Salvatore
Guarino Amella Giovanni (voti 93.247)
Sorge Francesco.
(Non
eletti Pancamo Antonino e Adonnino G. Battista).
Partito Democratico Riformista
La Loggia Enrico (voti
31.114)
(Non
eletto: Ambrosini Gaspare con voti 22.032)
Partito Comunista Italiano
Voti
di lista 8.071. Non eletto Sessa Cesare con voti 4.367.
Partito Popolare Italiano
Vassallo Ernesto (voti 46.922)
Cascino Calogero
Aldisio Salvatore.
Partito Socialista Ufficiale
Costa Mariano
Cigna Salvatore Domenico.
Le
elezioni del 6 aprile del 1924 si svolsero - come noto - con un listone
nazionale cui andava il premio di maggioranza in base alla legge Acerbo. Per la
Sicilia, tale premio si risolse invece
in un danno, facendo perdere alla lista nazionale d’ispirazione fascista due
deputati. Annota il Renda ([72]):
«Il risultato elettorale, nella sua essenza, fu il risultato di un ampio e
indiscutibile consenso politico. Il previsto premio di maggioranza si risolse
in danno anziché in vantaggio del listone. In base ai voti ottenuti, infatti, i
deputati eletti avrebbero dovuto essere 40, cioè due in più dei 2/3 (38)
consentiti dalla legge. Non era dunque retorico parlare di trionfo.»
Elezioni
del 16 aprile 1924
Venivano
eletti nel
Partito della Democrazia Sociale
Colonna di Cesaro’ Giovanni (voti
25.307);
Guarino Amella Giovanni (voti 9.455);
Lo Monte Giovanni (voti
12.537);
Fulci Luigi (voti 7.779);
Restivo Empedocle.
(Non
veniva eletto Giulio Bonfiglio: voti 5.715).
Partito dell’Opposizione
Democratica
La Loggia Enrico (voti 5.259).
Partito Comunista
Lo Sardo Francesco (voti 5.057).
Partito Socialista Massimalista
Vella Arturo (voti
2.581)
Il listone nazionale ebbe, come si è detto, il pieno: i
deputati che in qualche modo avessero attinenza con Agrigento furono:
Lista Nazionale (n.° 21)
Cucco Alfredo (voti 52.973)
Abisso Angelo (voti
32.184)
Pasqualino Vassallo Rosario (voti 22.348)
Vassallo Ernesto (voti 21.017)
Palmisano Paolo (voti
18.408)
Riolo Salvatore (voti 21.017)
Gangitano Luigi (voti
5.718).
In
quella tornata elettorale i trombati di lusso della provincia di Agrigento
furono: Giulio BONFIGLIO (voti 5.715) della Democrazia Sociale del duca di
Cesarò e Cesare Sessa (voti 3.004 del Partito Comunista). Riesce a farsi,
invece eleggere, sia pure con pochi voti, il Gangitano, una figura di ex
conbattente e quindi di fascista di vecchia data (lo troviamo attivo a
Racalmuto nel lontano 1919).
I
successivi plebisciti del 1929 e del 1934 hanno tutt’altra fisionomia e le
elezioni al parlamento sono automatiche: basta avere avuto il consenso a Roma,
presso le corporazioni, a venire inseriti nel listone, da approvare o
respingere in toto con un sì o con un
no.
Per
quel che qui occorre basta rammentare che nel 1929, il 24 marzo, vanno
Montecitario, dalla provincia di Agrigento: Luigi Gangitano, Salvatore Riolo,
Vito Palermo e Paolo Palmisano. Luigi Gangitano e Vito Palermo. Angelo Abisso fu invece mandato al Senato.
Nel 1934, nel plebiscito del 25 marzo, salgono al Parlamento Luigi Gangitano,
Vito Palermo; Paolo Palmisano e
Salvatore Riolo si perdono per strada.
Per
la Sicilia, le statistiche ufficiali parlano di un inarrestabile trionfo del
Fascio Littorio:
Proporzioni dei voti ottenuti dalle
liste del Fascio Littorio in rapporto a 100
Anno
|
1924
|
1929
|
1934
|
Percentuale
|
69,8%
|
99,9%
|
100%
|
([73])
* * *
Si
è già visto quale ruolo ebbe a svolgere il prefetto Reale nella penetrazione
del primo fascismo nella provincia di Agrigento. Era da tempo, specie sotto
Crispi e Giolitti, che l’istituto prefettizio aveva un peso determinante
nell’evoluzione politica nella zona d’influenza. Era un gioco occulto ma
penetrantissimo e di risolutiva importanza. Solo lo studio delle carte
d’archivio - mirabilmente custodite nell’Archivio Centrale di Stato -
consentono di squarciare questi misteri della gestione del potere nell’Italia
post-unitaria, almeno sino all’avvento della democrazia di popolo con la
riforma ed il ridimensionamento dei prefetti.
[1]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal
1871 al 1915, Bari 1977, pag. VIII. Una
“parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il
Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”. Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo
napoletano affermava che «non si poteva
aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul
quale formulava il seguente giudizio: «esso non è stato un infatuamento o un
giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni
animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione.
Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non
lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza
e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il
sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e
non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi
sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di
trasformazione.» [cit. Da Antonio
Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg.
264-265]. Risale al maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
attribuibile al Croce, in risposta al
gentiliano Manifesto degli intellettuali
fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità
ad oggi - pag. 2174].
[2]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista
- Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista” cfr. pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg.
155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.
Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo. L’Ercole adotta la terminologia dei “due
tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano.
Mussolini, infatti, in Gerarchia del
1925, p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44)
distingue tra primo e Secondo tempo.
Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un
ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota
confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni
del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo,
tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla
storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda
(Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che
il fascismo, con con l’adesione dei
“nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,
«si arricchì delle prime
personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e
prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale.»
[3]) Benito Mussolini - Il 1924 - vol. IV Milano HOEPLI 1934-5,
pag 236.
[4]) vedasi ad esempio Ernesto Ragionieri nella cit. Storia
d’Italia, pag. 2145.
[5])
Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da
pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio
1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni
possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un
giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle
opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta,
come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda
ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri
termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò
contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della
collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin
dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni
politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti si accorsero, impotenti, del guoco di
Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario,
legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro
gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a
tutto’.»
[6]) Renzo De Felice - Mussolini
il fascista, Einaudi, Torino, 1966, p. 729.
[7])
Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno
precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu
piuttosto, come talune testimonianze asserirono
e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto
dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto
Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione avanzata
C. Silvestri, Matteotti,
Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.
e confutata da L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e
nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967,
pp. 474-79], che esso costituì un
intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del
fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio
sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non
lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle
vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la
strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione
da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di
governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione
dell’ordinamento costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un
disegno coerente ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a tentoni
e con ampi margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo che Mussolini espresse
sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era
nella logica delle cose ...»
[8]) Francesco Renda, op. cit.,
pag. 374.
[9]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo
(1918-1942) in Storia
d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -
La Sicilia - Einaudi 1987
- pagg. 380- 482.
[10]) Franco Catalano - L’Italia dalla dittatura alla democrazia
1919-1949, Feltrinelli 1970 - vol. I pag. 117.
[11]) In nostre ricerche
all’Archivio Centrale di Stato abbiamo, sì, trovato fascicoli su tale
atteggiamento del fascismo riguardo ad alcune località dell’agrigentino, ma non
investivano in alcun modo Racalmuto.
[12]) R.D. 24 gennaio 1924
pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 73 del 26 marzo 1924.
[13]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Affari generali - Podestà e rettorati provinciali -
busta 51.
[14]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 401.
[15]) Il
prefetto dott. Raffaele Rocco non era di nomina fascista; proveniente da
Grosseto fu prefetto di Girgenti dal 18 giugno 1922 al 16 marzo 1923, data in
cui viene collocato a disposizion (cfr.
Mario Missori - Governi, alte cariche
dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma
1989 - pag. 304.)
[16]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[17]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Pubblica Sicurezza - 1925 - busta 115.
[18]) Luigi Pirandello - I vecchi e
i giovani - Oscar Mondadori 1973 - pag. 142-143
[19]) Nino Savarese - La Sicilia nei suoi aspetti poco noti od ignoti - in
Delle cose di Sicilia - vol. IV - Sellerio editore Palermo 1986, pag.
254 e segg.
[20])
Cfr. Atti della Giunta per l’Inchiesa
Agraria sulle condizioni della classe agricola, vol. XIII, tomo I, fasc.
III, Relazione generale, Roma 1885,
pp. 661-662.
[21]) Cfr. L. Hamilton Caico, Vicende e costumi siciliani, Epos, Palermo 1983, pp.
118-121.
[22])
Archivio Centrale dello Stato - Ministero Interno - Pubblica Sicurezza - 1930,
busta 310 fasc. C1 - Relazione del prefetto Miglio del 16 luglio 1931.
[23])
Cit. in S. Bosco, Il
proletariato a Favara. Lotte scioperi ed altre manifestazioni dal 1860 al 1960,
Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa. S.d., p. 75.
[24])
Archivio Centrale dello Stato - Giunta per l’inchiesta sulla Sicilia -
Fascicolo 66.
[25])
Elaborazione dai dati riportati dallo studio di Mario
Cassetti - Fascismo e crollo operaio. I
villaggi minerari (1937-1942)
in Economia e società nell’area dello
zolfo - secoli XIX-XX -
Sciascia Caltanissetta editore 1989 - pag. 456.
[26]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pag. 443.
[27]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione
Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag.
14.
[28]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio
- nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano
1987, pagg. XIII e XIV.
[29]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli,
1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di
Oxford ed allievo di Denis Mack Smith»
[30]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 126-128.
[31])
crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i
fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifiscismo di Sciascia e quello di
Brancati vi sono assonaneze impressionanti, persino sotto il profilo
stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che
ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui
era il suo insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I
due “antifascimi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri
atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per
converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in
positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro
scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di
Pannella.
[32]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani,
Milano 1989, pagg. 138-139.
[33]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in Malgrado
tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII
n.° 4, pagg. 4-5.
[34]) Archivio Centrale
dello Stato - Casellario Politico
Centrale - busta n.° 5344 - fascicolo n.°
16434.
[35]) Ernst Nolte - I tre volti del
fascismo - Oscar Mondadori 1978 - pp. 252-254.
[36]) Tra i tanti includiamo
l’opera del Ragionieri che abbiamo già citata.
[37]) Valga per tutti il
lavoro prima richiamato di Francesco Ercole.
[38]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[39]) ibidem, pag. 345.
[40]) Malgrado tutto - periodico
cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[41])
Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta
n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta
Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[42]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 82
[43]) ibidem pag. 83 e pag. 84.
[44]) E. Nolte, op. cit., pag. 266.
[45]) Paradigmatiche ci
appaiono in tal senso le pagine del Nolte: pagg. 266-302.
[46]) op. cit., passim, ma in particolare pag. 2111 e ss.
[47]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925) - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi
Editore 1963 - pag. 14. (Articolo sul
Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[48]) Per la cronaca puntuale
dei fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio
Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[49])
Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi con il siciliano ing. Raverta sul Corriere
della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito
dell’articolo del 10 settembre (op. cit.
pag. 824 e segg.)
[50])
cit. in ERCOLE, op. cit. pag. 206
e segg.
[51]) Cfr. Nota n.° 7.
[52]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni
Editore Palermo 1936, pag. 234 e segg.
[53]) 2000
pagine di Gramsci, vol. II:
Lettere edite e inedite 1912-1937, a cura di G. Ferrara e N. Gallo, Milano
1964, p. 45.
[54]) Salvatore Lupo, La crisi del monopolio naturale. Dal Consorzio obbligatorio all’Ente
Zolfi, in Economia e società nell’area dello zolfo
- secoli XIX-XX - Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1989,
pag. 354.
[55])
Lettera ad A. Di Nola in Archivio
Carnazza, fasc. 28, III 37, busta “C” ;
Industria zolfifera e legge mineraria. Cit. in Lupo, op. cit. pag. 354.
[56]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto
nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - p. 234.
[57])
Editoriale “Il delitto Matteotti” di Storia
e Civiltà - gennaio-giugno 1994 - Edizione del Lavoro - Roma - a. X, n. 1-2
- a firma P.F.P. (Pier Fausto Palumbo, direttore responsabile), pag.
7-9.
[58]) Salvatore Leone - Per una storia delle strutture culturali: le Società di storia patria -
in Storia d’Italia - Le Regioni: dall’Unità ad oggi - la Sicilia
- Einaudi editore 1987 - pagg. 876-877.
[59]) Francesco Renda - Storia della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio
Editore Palermo, 1985, pag. 365.
[60]) ibidem pag. 354.
[61]) Vincenzo Agozzino - Cronache della Vigilia rivoluzionaria fascista nella provincia di
Agrigento - in Panorami di realizzazioni del Fascismo - Il
movimento delle squadre nell’Italia meridionale e insulare - Vol. VI
- Roma, 1942 , pag. 167 e segg.
[62])
Archivio Centrale dello Stato - M.I. - P.S. - 1925 - busta 115 G1
[63])
Archivio Centrale dello Stato - Gabinetto Finzi - 1922-24 - busta 6 fascicolo
53. Anche i successivi passi virgolettati che si riferiscono al prefetto Reale
sono tratti dal predetto fascicolo dell’ACS di Roma.
[64]) Mario Missori - Gerarchie e statuti del P.N.F. - Roma 1986 - pag. 91.
[65]) Dalla copertina di Starace
- l’uomo che inventò lo stile fascista di Antonio
Spinosa BUR Milano 1988.
[66]) Antonio Spinosa - l’uomo che
inventò lo stile fascista di Antonio Spinosa - BUR Milano 1988,
pagg.8-9.
[67])
Archivio Centrale dello Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio
riservato 1922-1943” - buste nn.° 36; 49 e 94.
[68]) Archivio Centrale dello
Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta
n.° 94.
[69]) Archivio Centrale dello
Stato - Segreteria particolare del Duce “Carteggio riservato 1922-1943” - busta
n.° 78.
[70]) Archivio Centrale dello
Stato - M.I. - P.S. - 1926 - busta 88 - C1.
[71]) Archivio Centrale dello
Stato - M.I. - P.S. - 1931 - busta 310 - C1.
[72]) Francesco Renda - Storia
della Sicilia - dal 1860 al 1970 - Vol. II - Sellerio Editore
Palermo, 1985, pag. 372.
[73]) Per
i dati statistici cfr.: ISTAT Statistiche Elezioni Politiche - XXV Legislatura,
elezioni del 16 novembre 1919 (Roma 1920) - XXVI Legislatura, elezioni del 25
maggio 1921, Collegio di Girgenti pag. 78 - XXVII Legislatura, elezioni del 6
aprile 1924, passim - XXVIII
Legislatura, elezioni del 24 marzo 1929 (Roma 1930), passim - XXIX Legislatura, elezioni del 25 marzo 1934, passim (ma in particolare pagg. 39 e 51).
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