IL SECOLO
DEI LUMI
Premessa
Siamo
giunti al ‘Settecento: il secolo dei lumi, quello tanto caro a Sciascia, quello
di Voltaire cui lo scrittore ammiccava persino quando intese stroncare il pio
p. Morreale che si era permesso di cercare la verità storica della venuta della
Madonna del Monte, quel secolo, dunque, passa per Racalmuto senza propri
eretici, con stravolgimenti tutti interni alla vicenda araldica dei successori
dei Del Carretto, con l’equivoco del terraggiolo, con vicende insomma tutte
minime, tutte paesane, tutte antieroiche, “non narrabili”, direbbe Amérigo
Castro.
Per
celebrare Sciascia alle prese col XVIII secolo, la omonima Fondazione invita
nel 1996 storici, letterati e cattedratici a Racalmuto. Veniamo a sapere da
Antonio Grado che la domanda del Caracciolo: «Come si può essere siciliani?»
può attanagliarsi allo Scrittore come «un’affermazione, un disincantato
epitaffio, che attraversa come un liet-motiv,
come una frase musicale ossessivamente reiterata nella partitura di un requiem, l’intera opera di Leonardo
Sciascia: dal Consiglio d’Egitto a Fatti diversi di storia letteraria e civile.
E proviene, quella domanda, o meglio quella sconsolata constatazione, dal
«secolo educatore», o meglio dal Settecento siciliano di Meli e Tempio, di
Gregorio e Cagliostro, di Vella e Di Blasi, di Matteo Lo Vecchio e del Marchese
di Villabianca: dunque, da un grumo di contraddizioni, di eresie e di raggiri,
di speranze accese da quei remoti «lumi» d’oltralpe, di sconfitte accumulate
nella buia stiva del disincanto.» [1]
Che tutto
ciò si attagli al tetro Leonardo, è pur plausibile, ma che riguardi la storia
del paese di Sciascia, ne dubitiamo fortemente. Più pianamente – e
significativamente – Orazio Cancila ci erudisce, dopo, [2] «Il
Settecento siciliano si apre con la notizia della morte a Madrid nel novembre
del 1700 di re Carlo II, causa di una lunga guerra di successione al trono
spagnolo che coinvolgeva la Sicilia ponendo fine alla plurisecolare dominazione
spagnola; e si chiude con la presenza a Palermo nel 1799 di re Ferdinando di
Borbone, fuggito da Napoli dove era stata proclamata la Repubblica Partenopea.
Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro padroni.»
A
Racalmuto, la scansione degli eventi settecenteschi può essere così
schematizzata, in una sorte di quadro sinottico:
-
9 marzo 1710: muore Girolamo III del Carretto,
sopravvissuto al figlio, e suo unico erede, Giuseppe del Carretto, e così si
estingue la locale casata carrettesca;
-
3 settembre 1713: Die 3 7bris 1713 VII Ind.Vigilia Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum
interdictum generale locale in hac terra Racalmuti: l’interdetto
– riflesso racalmutese della
sciasciana controversia liparitana – ha tragici scoramenti sui locali, per non
potere più seppellire i propri morti nelle proprie chiese, che ben travalicano
lo smarrimento di quel cambio di padroni, dagli spagnoli ai Savoia, che gli
implicati nella politica dovettero provare, in quello stesso periodo;
-
1715: il regio
commissario generale d. Domenico Damiani e Scammacca della città di Randazzo,
in nome di S. Maestàdi Sua Maestà, chiama a raccolta i notai di Racalmuto e
chiede il dettagliato resoconto di tutti gli atti pubblici del clero locale e
dei beni delle chiese: immaginabili il terrore e lo sgomento dei tanti nostri preti e monaci;
-
10 luglio 1716: Brigida Scittini e Galletti, vedova di
Giuseppe del Carretto, si aggiudica, jure crediti, per diritto di credito
dotale, la contea di Racalmuto. Chissà se la notizia giunse in paese;
-
27 agosto 1719: sospiro di sollievo: «L’interditto fu imposto dall’Ill.mo e
Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di Girgenti con il consenso
della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in tutta la Diocesi fu
sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora vigesima seconda dal rev.mo
Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci , Can. Teo. e Vic. Generale Apostolico con
l’Autorità della S. Sede.»;
-
1736: Panormi
die duodecimo mensis aprilis 14 ind. 1736 Fuit prestitum juramentum debitae
fidelitatis et vassallagij e pertanto servatis
servandis concedatur investitura ....
tituli Comitatus Racalmuti in personam ill.s D. Aloysij Gaetano ducis Vallis
Viridis. Don Luigi Gaetani - che
doveva pur rifarsi delle enormi spese sostenute in questa usurpazione feudale -
non si aspettava una situazione così deteriorata come quella rinvenuta. Cerca
innanzitutto di ripristinare il patto del 1580 sul terraggio. Si dichiara
“mosso da pietà per i suoi vassalli” ma le due salme di frumento per ogni salma
di terra coltivata le vuole tutte;
-
1738: in
quest’anno, sorge una controversia feudale su Racalmuto, con tutti i crismi (e
con tutti i costi). Il duca trova pretermessi anche i suoi diritti di
terraggiolo sui coltivatori racalmutesi dei feudi di Aquilìa e Cimicìa: gli
abili benedettini di San Martino delle Scale di Palermo erano risusciti a farsi
confezionare un decreto di esonero dal vescovo di Agrigento. Don Luigi Gaetani
è costretto ad adire le vie legali: premette che è stato già magnanimo
accontendandosi della metà di quanto dovuto
per terraggiolo (pro terraggiolo dimidium consuetae praestationis exegit). Non
può pertanto tollerare che i benedettini usufruiscano di un falso esonero,
fallacemente accordato dal vescovo di Agrigento, il noto Ramirez, in data 16
settembre del 1711;
-
1741: il 22 giugno 1741 i benedettini risultano
soccombenti, con compenso di spese, però;
-
1747: la contea di Racalmuto passa principessa di
Palagonia Maria Gioacchina Gaetani e Buglio;
-
7.1.1754; SCIASCIA
LEONARDO M.°, di m.° Giovanni ed
Anna Scibetta; sposa ALFANO INNOCENZA
di m.° Bartolomeo e Caterina olim fugati.
- Matrimoni 1751-1763 - 67 –
Nota: d. Albertus Avarello -- Cl. Mario Borsellino e Cl. Giuseppe Lipari,
testi; furono benedetti da d. Giuseppe Pirrera; gli atti della Matrice ci
ragguagliano su questo antenato di Leonardo Sciascia che va ben al di là del
«nonno di suo nonno» che lo Scrittore voleva come suo capostipite racalmutese,
oriundo, per giunta, da Bompensieri;
-
1755: nasce a
Racalmuto il Sac. Giuseppe Savatteri e Brutto (1755-1802) - Sarà
«bello, elegante, colto, raffinato, ricco, sprezzante - quanto casto non è dato
sapere; questo prete svetta sia nelle vicende della famiglia sia in quelle
della locale storia. Leonardo Sciascia, avvalendosi di dati di seconda mano,
tenta di infilzarlo, ma commette una delle sue solite manipolazioni storiche
per prevenzioni ideologiche. Il sac. Giuseppe Savatteri ha coraggio, cultura e
intraprendenza tali da osare una impari contrapposizione con il suo potente (e
dispotico) vescovo agrigentino.»
-
1756: il 19 febbraio viene nominato arciprete di
Racalmuto d. Stefano Campanella: sarà colui che passerà alla microstoria locale
come l’arciprete che debellò il terraggio ed il terraggiolo;
-
1759: all’Itria viene fondata la Confraternita della Mastranza (26 luglio 1759);
-
1767: l’arciprete Campanella completa la costruzione
del «cappellone grande» della Matrice;
-
1771: i Requesens si appropriano di Racalmuto il 28
gennaio 1771. Girolamo III del Carretto aveva contratto matrimonio con una
Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina.
La Lanza – pu avanti negli anni - riesce a partorire il figlio maschio
Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti
dopo un secolo consentono ai Requesens di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto. Annota il San Martino de
Spucches: «Giuseppe Antonio REQUISENZ
di Napoli, P.pe di Pantelleria, s'investì, a 28 gennaio 1771, della Terra,
Castello e feudi di Racalmuto; successe in forze di sentenza pronunziata a suo
favore dal Tribunale del Concistoro e Giudici aggiunti, per voto segreto,
contro Maria Gioacchina GAETANO e BUGLIO, P.ssa di Palogonia, già c.ssa di
Racalmuto; quale sentenza porta la data 2 ottobre 1765 e fu pubblicata, in
esecuzione degli ordini del Re, da detto Tribunale li 20 giugno 1770 (Conserv.
Reg. Invest. 1172 [o 1772?], f. 143, retro).
[...] Detto P.pe Francesco a sua volta, fu figlio del P.pe Antonino
Requisenz e Morso e di Giuseppa del
CARRETTO. Questa Dama fu infine figlia del Conte di Racalmuto GIROLAMO di
cui è parola di sopra al n. 4. E' da questa discendenza che i signori REQUISENZ
reclamarono ed ottennero i beni tutti ereditari della famiglia del CARRETTO;
-
1776: lo stesso arciprete continua nei lavori di
abbellimento della Matrice; dicono le cronache: «Nel 1776 si perfezionò con stucchi ed oro fino, si fecero i due
campanili ed arricchì la chiesa di arredi sacri nel 1783.»;
-
1782: «E' noto - abbiamo già scritto - un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..";
-
1783: inizia la causa – intentata dal sac. Figliola
presso il Tribunale di Napoli – contro il «terraggiolo»;
-
-
1785: « Soprusi praticati dal sac. Giuseppe Savatteri,
arrendatore di Racalmuto, verso i poverelli.» Non parve vero a Leonardo
Sciascia di rigonfiare quell’appunto per una delle sue solite tiritere
anticlericali. Nessuna ricerca storica,
da parte sua; nessun approfondimento; nessuno spunto critico. Scrive dunque lo
Sciascia [3]:«Ecco il rapporto di un
altro funzionario al Tribunale della Real Corte sui “soprusi praticati dal
sacerdote Giuseppe Savatteri, verso i poverelli”» e giù, senza analisi critica,
il testo di un’evidente lettera anonima, che crediamo essere dovuta alla penna
del malevolo arciprete Campanella, o peggio del sac. Busuito, contro cui il
Savatteri aveva affilato le armi per l’usurpazione del beneficio del
Crocifisso. Prosegue Sciascia: «Il bello è che dopo questo rapporto il
Tribunale della Real Corte ordinava al giudice criminale di Regalpetra [alias
Racalmuto] “di far restituire ai borgesi tutti gli oggetti che il sacerdote
Savatteri aveva ad essi pignorati”, forse i lettori non lo crederanno ma la
cosa è andata davvero così”.» Con buona pace di Sciascia, a noi pare che le
cose erano molto più complesse e coinvolgono la politica dei re Borboni di
Napoli, che è quanto dire;
-
1785-1786 : ma è Giuseppe Tulumello ad affermarsi in
paese: nel 1785-86 egli figura tra i giurati dell’Università di Racalmuto,
insieme agli ottimati Lo Brutto, Scibetta, e Gambuto. Il sindaco è Antonino
Grillo. Il collettore risulta don Giuseppe Amella.
-
1786: il sac. Figliola
« … ottenne dal Re, che questa
terra di Racalmuto si reluisse il Mero e Misto Imperio, che di più di centinaia
d’anni ne godeva il Conte. Morì in corso di causa, con pianto e dolore universale,
nell’infermeria dei RR.PP. del Terz’Ordine di S. Francesco nel convento della
Misericordia, in cui sta sepolto il di lui cadavere, in Palermo. 14 luglio 1787
d’anni 38.»;
-
1787: D.
Stefano Campanella prosegue nella controversia antifeudale intentata dal
Figliola e così « … con altri primari del paese
incominciarono a proprie spese la causa per il Terragiolo nel Tribunale di
Palermo e dopo quattro anni di
strepitosa lite dal Tribunale rotondamente si determinò a 28 Settembre 1787.
“Jesus= Jus Terragii, et Terragiolii tam intra, quam extra territorium
declaratur non deberi.”;
-
1791-92 : forte
dell’ascesa dello zio sacerdote don Nicolò Tulumello, don Giuseppe di quella
famiglia di gabelloti, fa il grande
salto nella scala dei valori sociali del luogo: ora il tesoriere comunale è
lui. A lui la borsa. L’apice del Comune può restare agli altisonanti “magnifico
rationale Impellizzieri Santo”, al “magnifico Baldassare Grillo”, al “magnifico
Salvatore Lo Brutto”, a “Francesco Amella”, a “Paolo Baeri e Belmonte” - che
sono sindaco e giurati -, ma è lui che tiene i cordoni della borsa e così,
improvvisamente, i fogli ufficiali della Curia panormitana lo designano con il
nobilitante appellativo di “don”. Finalmente! Ancora non barone come il nipote
Giuseppe Saverio, ma il primo tassello, quello più difficile, è tutto nel
carniere di famiglia;
-
1793: la vecchia. Gloriosa chiesa di S. Rosalia viene
smantellata; era riuscita a resistere sino
al 3 giugno 1793 quando viene ceduta al
sac. Salvadore Grillo che ha intenzione di farne una stalla: fu
barattata dal can. Mantione in cambio di
un altare con statua alla Matrice;
-
1796: il feudo di Gibellini viene venduto con rogito
del «Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li
22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157,
tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2
di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di
onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar
Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò
TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato
lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate
senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77)».
Passeranno 13 anni prima che emerga la persona nominanda. Eccola: «D.
Giuseppe Saverio TOLUMELLO» che «
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»;
-
1799: Il secolo dei lumi si chiude tristemente per
Racalmuto: necessita il paese dei vessatori mutui della locale Comunia della
Matrice – cui con sussiego accondiscende il famigerato vescovo Ramirez – onde i
preposti all’Annona racalmutese possano riuscire ad approvvigionarsi delle più
urgenti vettovaglie. Ecco il diploma vescovile del 23 febbraio 1799: «XAVERIUS
Rever. Archipresbitero et deputatis ...terrae Racalmuti, Salutem. Ci
rappresentano codesti Giurati, Proconservatori, e Sindaco le gravi pressanti
urgenze, che si sperimentano in codesta Popolazione, a segno che si teme molto
della furia della Popolo perché pressato dalla fame, e dalla miseria. Onde sono
in penziero di occorrere quanto si può con mutui, eccedono, e chiedono che per
conto di Codesta matrice Chiesa vi sia nella Cassa una certa somma, che la
reputano sufficiente ad impiegarla nelle presenti istanze, bastevole a
soccorrere la indigenza comune. Noi dunque avendo in considerazione
l'espressati sentimenti del Magistrato, e volendo per quanto ci sarà permesso
anche aiutare codesto Publico, venghiamo colle presenti ad eccitare la vostra
carità , il vostro zelo ed il vostro patrimonio acché concorriate per quanto si
può a sollevarlo nelle urgenti angustie e miserie. Essendovi dunque nella Cassa
la indicata somma, qualora si appronta una sufficiente bastevole fideiussione
di restituirla nell'imminente Agosto e riposta in Cassa, potrete apprestarla a
beneficio comune per distribuirsi in mutuo secondo le intenzioni del
Magistrato. Nostro Signore vi assista. Datum Agrigenti die 23 februarii 1799. = Canonicus Thesaurarius Caracciolo Vicarius Generalis
= Canonicus Trapani Cancell». [4]
-
Il Settecento a Racalmuto sorge con le diatribe tra
padre e figlio degli ultimi del Carretto; cessata quella casata più o meno
dannosa per il paese agrigentino, subentrano altre diatribe feudali che
scariranno l’opaco svolgersi della vicenda umana dei nostri antenati in quel
torno di tempo, tutto sommato sino al 1787; dopo i tempi sono tutt’altro che
felici: i rampanti gabelloti sono peggiori dei loro nobili dante-causa ed in mano di questi emergenti borghesi (i Tulumello in
testa, ma anche i Grillo, gli Amella, i Matrona, i Farrauto) la sorte del
contado è sempre quella: triste e subalterna. A fine secolo, si verifica
addirittura un fenomeno che, nella ferace terra del grano, non si era mai
registrato: la fame. Vendono impegnati gli iogalia
delle chiese per il panizzo quotidiano.
Tratti salienti del Settecento racalmutese
Il Settecento fu un secolo di
riforme sociali e politiche per Racalmuto: uscito dalle grinfie dei Del
Carretto – ormai totalmente decaduti per morti precoci e per debiti devastanti
– il paese subiva uno dei più grossi grovigli giuridici del tempo e cadeva
nell’ipocrita rapacità dei Gaetano. Abbiamo già detto dell’ineffabile Macaluso,
una scialba signora che si presta alle truffe feudali del duca di Naro.
Patetico quel patrizio – che con Racalmuto non aveva avuto mai nulla a che
spartire – quando, con impudenza tutta nobiliare, afferma che egli era niente
meno che “mosso da pietà per i suoi vassalli” nel reclamare le due salme di
frumento per ogni salma di terra coltivata Siamo nel 1738 allorché sorse quella
strana controversia feudale, esemplare per la storia del nostro paese. Ci si
mettono pure i monaci di Milocca (dopo Milena): imbrogliano codesti feudatari
in abito talare ed inventano privilegi da parte del vescovo di Agrigento che,
anche se con l’avallo sacrilego della curia agrigentina, sono il segno della
protervia degli sfruttatori dei lavoratori racalmutesi con quelle aberranti
pretese di terraggio e terraggiolo. In pieno Settecento, il retaggio barbarico
dello schiavismo perdura ancora a Racalmuto. E gli ecclesiastici non ne sono
certo immuni, come dimostra una controversia tra il Convento di S. Martino
delle Scale ed il duca Gaetani. A noi, invero, importa di più questa altra
lamentela del neo conte di Racalmuto: abbiamo ragguagli di prima mano sullo
stato economico e sociale del paese a cavallo del Settecento: Racalmuto era,
dunque, quel centro oppresso, angariato e pieno di debiti che il seguente
documento finisce per tratteggiare:
Ecc.mo Signore
il Ill.mo duca d. Luiggi Gaetano
possessore del Stato e terra di Recalmuto N.bus nelle sue scritture dice a V.E.
che il sudetto stato si ritrova in deputazione ed amministrazione da più anni,
il cui giudice deputato ed amministratore attualmente si ritrova l’illustre
Preside d. Casimiro Drago, e con tutto che la gabella corrente di detto stato
si trova nella più alta somma che giammai non fu il pagato, tuttavia li
creditori suggiogatarij non hanno potuto giammai ottenere l’intera annualità,
anziche nemmeno l’intera mezza annualità, tanto perché le suggiogazioni apo.te
trascendono di gran lunga l’introiti dello stato sudetto, quando ancora perché
consistendo la maggior parte delli introiti
da ... molini situati in parte di lavanchi ki ricercano ogni anno spese
considerevoli per riparo di esse lavanche oltre le vacature che si bonificano
alli gabelloti di detti molini; per quei tempi che non macinano, motivo che
riflettendo oggi il supplicante ed anche le grosse spese di salarij ed altri
che cagionando da detta deputazione, ed amministrazione onde ha considerato
l’esponente come possessore di detto stato di Regalmuto, intervenendo prima che
la maggior parte dei creditori suggiogatarij sopra detto stato gradualmente
fare abolire che a detta deputazione ed amministrazione in circostanza anche di
non potere questa sussistere a tenore degli ordini di S.E. in data 16 agosto
1735 per il quale si stabilì come la deputazione che non possono pagare a
creditori l’annualità ed offerire a detti creditori suggiogatarij per conto
delle di loro respettive suggiogazioni, di pagarli il 60 per 100 ogn’anno per
l’importo di anni dieci; nel qual tempo però si devono consentire che
l’amministrazione di detto stato resti e si faccia per l’esponente, con che per
il consenso prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij non
se li possa dare nè inserire per detti dieci anni dalla minor parte di detti
creditori suggiogatarij veruna sorte di molestia talmente che li detti
creditori suggiogatarij in siffatta maniera vengono a conseguire ogni anno durante la suddetta decennale amministrazione dell’esponente non solamente
l’intiera mezza annualità in due .. di decembre e maggio di ogni anno, che non
hanno mai conseguito, ma anche vengono a conseguire un’altra sesta parte oltre di detti pagamenti, ed inoltre tengono
la futura speranza di conseguire doppo la suddetta decennale amministrazione
maggior somma; per il che possedendo l’esponente senza deputazione il sudetto
stato independentemente d’ogni altro potrà facilmente invigilare all’augumento
delli introiti del medesimo in beneficio anche di essi creditori, onde in vista
di tutto ciò, considerando l’esponente che abolirsi la sudetta deputazione ed
amministrazione e contentarsi la maggior parte di detti creditori suggiogatarij
.. samministri su detto stato di Recalmuto per detti anni dieci del .. con
l’obbligo di pagare a detti creditori suggiogatarij il 60 per 100 come sopra
ogn’anno e durante la sudetta decennale amministrazione dell’esponente viene à
resultare anche in beneficio delli sudetti creditori suggiogatarij. Pertanto
ricorre a V.E. e la supplica si segni servita provedere ed ordinare che
prestandosi prima il consenso della maggior parte delli creditori
suggiogatarij, che non solo si abolisca la detta deputazione, ma anche che la
minor parte delli creditori suggiogatarij, che forse non interverrà a prestare
il medesimo consenso, fosse tenuta ed obligata a concorrere colla maggior parte
di detti creditori suggiogatarij dalli quali si presterà il consenso nel modo e
forma di sopra espressati, ed acquiescerà e starà alla decennale
amministrazione in persona del supplicante con l’obligazione come sopra per il
medesimo senza che dalla detta minor parte di detti creditori suggiogatarij se
li possa dare, a riflesso del consenso
forse prestando dalla maggior parte di detti creditori suggiogatarij per il
spazio di detti dieci anni, nessuna sorte di molestia nè cancellare l’atti
fatti per la medesima deputazione seu amministrazione, come s’ha pratticato per
l’altre deputazioni fin oggi abolite;
vel ... si vorrà ordonare che sopra l’abolizione suddetta interverrà il
consenso della maggior parte delli creditori suggiogatarij ed obbligare a detta
minor parte delli creditori suggigatarii di concorrere ed acquiescere come
sopra, come il tribunale della R.G.C. della Sede Civile, a cui spetta doversi
provvedere vocatis creditoribus e in vista del consenso che si presterà per
publici documenti della maggior parte dei creditori suggiogatarij, per
resultare in beneficio delli medesimi. E ciò non ostante quasivoglia cosa che in
contrario l’ostasse o potesse ostare, etiam che fosse tale che .. se ne dovesse farre espressa ed
individuale menzione quale s’habbia ..
per la sussistenza della presente, qualmente al tutto disponendo V.E. de
plenitudine potestatis et ex certa scientia ... Datun Primo Junij 1736 ex parte
G.S.d. Joseph Chiavarello .. vocatis
creditoribus per sp: de Paternò: Die sexto settembris 1736.
Jesus Maria
Abbiamo
prima ragguagliato sull’interdetto del 1713, ora ci pare opportuno riportare
alcune annotazioni disseminate nei registri parrocchiali della Matrice.
1713
(Morti dal 1714 al 1724)
Dopo
il 28 agosto 1719:
L’interditto
fu imposto dall’Ill.mo e Rev.mo Signor D. Francesco Remirens Arc. E Vesc. di
Girgenti con il consenso della S. Sede nella Chiesa Cathedrale di Girgenti e in
tutta la Diocesi fu sciolto la domenica di Agosto al dì 27 [1719] dell’ora
vigesima seconda dal rev.mo Sig. Dr. D. Giuseppe Garucci (?) Can. Teo. E Vic.
Generale Apostolico con l’Autorità della S. Sede.
Morti 1707-1714 (Die 3 7bris 1713 VII
Ind.)
Vigilia
Sanctae Rosaliae hora vigesima fuit affixum interdictum generale locale in hac
terra Racalmuti.
Battesimi
1711-1716 - pag. 450.
Ad
perpetuam rei memoriam Die tertio septembris septimae inditionis 1713 Vigilia
Sanctae Rosaliae nostrae Patronae hora vigesima, fuit affixum interdictum in
Civitate Agrigenti et in eiusdem Dioecesi ab Ecc.mo et rev.mo D.no D. Francisco
Remirens Episcopo dictorum
Archipresbitero
D.re D. Frabritio Signorino 1713.
Il
Lo Brutto fu personaggio di spicco; arciprete, in simpatia delle varie autorità
vescovili, di famiglia presso l’ultimo conte Del Carretto, dispensatore di
benefici e di mozzette clericali, finì – come si disse – sepolto in Matrice,
osannato da una lapide a spese del nipote dottor Antonio Pistone:
Matrice
ex Cappella dell’Annunziata.
Monumentum
hoc mortalitatis, quod jure sacelli propriis sibi facultatibus ascito, ante
aram Virginis huius templi patronae, familia Brutto paraverat, doctor don
Antonius Pistone, hic situs, velut optimus heres, honorifico lapide, qui suos
suorumque cineres decentius conderet, exornatum curavit, votumque expletum est.
-
Kalendis Septembris MDCC - Post eius
obitum anno sexto.
(Stemma
- Pampini - leone alato ... elmo
chiomato del milite)
LE
PERSONALITA’ DI SPICCO DEL SETTECENTO RACALMUTESE
Diciamolo
subito: il secolo dei lumi è poco illuminato per intelligenze locali che in
qualche modo possano rasentare il genio: le parole del Guicciardini care a
Sciascia sulla “ricolta” di ingegni
negli stessi anni suonano ora del tutto vane. Né grandi medici, né veri
pittori, e neppure – ci dispiace per Sciascia – rimarchevoli eretici. Solo il
bestemmiare del popolino che è poi atto di fede intensa.
Per
contro abbiamo un prete in fama di santità: ma era tanto sessuofobo e sgrana
rosari che non pensiamo ci si possa troppo gloriarne. Il collegio di Maria era
un reclusorio per ragazze, figlie di sventurate, che vi venivano coatte perché
possibili «occasioni di peccato». Per vaccinare contro il vaiolo, non c’erano
medici adatti. Si mandò a Palermo un “cerusico”, un barbiere, per imparare una
tecnica un tantinello meno rudimentale. E m° Giuseppe Romano fu forse meglio
dei medici, ma sempre barbiere era. Siamo alla fine del secolo – 16 giugno
1795, dicono le cronache.
I
preti lasciavano i loro beni – come nel Seicento del resto – alle chiese forse
terrorizzati per l’incombente acceso agli inferi, per pratiche usurarie. Ma le
volevano ampie e nude come il loro vacuo esistere. Il sacerdote Pietro
Signorino, dopo avere smunto il suo asse ereditario con tanti legati,
«instituisce, fa crea e nomina in sua Erede universale la venerabile chiesa fi
S. Maria del Monte». Correva l’anno del Signore 1737 (die decima nona
Septembris, prima indictio, millesimo septingentesimo trigesimo septimo.) Si doveva
vendere tutto – “formenti, orzi, ligumi, superlettili ed arnesi di casa – ed il
ricavato, con il denaro dell’asse, andava speso «nella fabrica della detta ven.
Chiesa di S. Maria del Monte.» Ed il pio e talare testatore soggiunge: «li
frutti annuatim si percepiranno dalli suoi terreni stabili ed effetti
ereditarii, come delle terre, vigne, case, rendite ed altri proventi si
ritroveranno doppo la di lui morte si dovessero pure erogare dall’infrascritti
suoi fidecommissarii nella fabrica di detta Chiesa di S. Maria del Monte, e
questo fintanto che sarrà la medesima chiesa perfezionata tutta solamente di
rustico». Il prete non aveva molta fiducia nelle gerarchie ecclesiastiche, e –
non nuovo a tali tipi di astiosa riserva – vuole che non vi siano intrusioni
della «S. Sede, ovvero della Generale Curia Vescovile di Girginti né d’altra
persona.» Da escludere anche «l’Officiali della Compagnia della detta Ven.
Chiesa di S. Maria del Monte». Il Signorino ha fiducia solo nel «rev.do sac. D.
Baldassare Biondi del quondam don Francesco, del rev.do sac. D. Melchiore
Grillo e del rev. D. Elia Lauricella», sempreché agiscano «coniunctim».
Ancor oggi non si sa se il
Santuario sia rifacimento o ampliamento o – molto più probabilmente – una
nuova costruzione che venne addossata alla vecchia chiesa, divenuta
sacrestia. Il padre Morreale è molto meticoloso ed ovviamente agiografico. [5]
Propende, alla luce del testo delle disposizioni testamentarie, per una
«nuova chiesa» la cui prima pietra sarebbe stata posta il 14 agosto 1736 e
solo attorno al 1746 l’antica chiesa si sarebbe venuta «a trovarsi dentro la
nuova.» Molto disinvoltamente Internet ci propina questa imprecisa versione,
peraltro ingenerosa verso il pio testatore Signorino. Per quell’informatico,
la chiesa del Monte: «Sorge sul
poggio più alto dell'antico borgo medievale. La chiesa fu costruita nel 1738.
Già nel 500 esisteva la chiesetta di S. Lucia. All'interno è ubicata la
leggendaria statua in marmo bianco di Maria Vergine di fattura gaginesca.
Maria SS. del Monte è la compatrona e regina di Racalmuto ed ogni anno, nella
seconda settimana di Luglio, si celebra la festa in suo onore. Durante i tre
giorni della festa viene rievocata la vinuta di la madonna con
recite, cortei con cavalieri in abiti del 500 e prumisioni che
consistono nell'offerta del grano alla Madonna da portare a piedi o su
cavalli che, spronati dalla folla, devono salire lungo la scalinata che porta
al santuario. Altro momento esaltante della festa è la pigliata di lu ciliu (una sorta di cero alto
alcuni metri) che consiste nella conquista della bannera da parte di giovani borgesi scapoli. La lotta per
conquistare la bandiera è talvolta violenta, con pugni e calci da parte degli
avversari. Tutto si quieta quando uno dei borgesi afferra il drappo.»
|
Sciascia, che ebbe ad infilzare proprio il mansueto padre
Morreale, forse perché gesuita, a proposito della ricerca storica sulla venuta
della statua della Madonna del Monte, ora finge di non dargli peso per codeste
ricerche testamentarie del sacerdote Pietro Signorino. Al giovane Tinebra
Martorana aveva accordato il peso della sua autorevolezza e in un caso analogo,
quello del testamento del sacerdote Santo d’Agrò, non si era lasciato sfuggire
il destro per sardoniche bardote sul
prete in “alumbiamento”. Altrettanto poteva fare anche in questa circostanza
della Chiesa del Monte, ma se ne è astenuto. E dire che piccante poteva
risultare la ricerca del gesuita p. Morreale sulle propensioni a beneficiare
una pinzochera da parte del pio testatore. Pudicamente il gesuita annota: «nel
testamento – il padre Signorino – determinò alcuni legati a favore della
Perpetua». Invero, la preoccupazione a beneficiare Caterina d’Alberto è
pressante. «Item il sudetto testatore hà legato – si legge nel corpo delle disposizioni
testamentarie – e per ragione di legato lega à Caterina d’Alberto sua serva una
casa, prezzo e capitale di onze 10 circa, quale vuole che se li dovesse
comprare dalli ssopradetti suoi fidecommissarii» e nel codicillo, in termini
ancora più chiari anche se in latino, «item dictus codicillator ligavit et
ligat sorori Mariae de Alberto bizocchae Ordinis Sancti Dominici in saeculo
vocata Caratina eius famulae ultra illas uncias decem in dicto eius testamento
legatas tre infrascripta domus de membris et pertinentiis eius tenimenti
domorum » e passando al volgare «nempe la prima entrata, la camera ed il catoio
sotto detta camera della parte di occidente, seu della parte di San Gregorio» e
tornando al latino «de quibus quidem
tribus corporibus domorum ipsa soro Maria, habet et habere debet solum
usum exercitium». Non solo, ma «dumtaxat – cioè vita natural durante – [le si
devono] tumuli otto di frumento, un letto fornito, due tacche di tela sottile,
il mondello, due sedie di corina, la criva, la sbriga e maiella, ed alcuni
arnesi di cocina.»
Almeno,
quello svolazzo del codicillo, una funzione la esplica: dà materia per un
eventuale museo etnografico.
LA SCUOLA PITTORICA DI PIETRO D’ASARO :
IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini
fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre
personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di
Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m°
Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa
publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del
reverendissimo Sig. V.G. date nella
citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello
predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza
ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo
Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo
a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina
cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo
pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p.
Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’
troppo quando scrive [6] «Tra i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la
sostituzione dell’altare dei santi Crispino e Crispiniano; la tela dei due
santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita
da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte, restiamo ancora nel buio.
Comunque, l’attribuzione non è poi tanto cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi
lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare,
a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore
canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio
danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio
Capizzi per “stucchiare e pingere” la
navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa. A
riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della “fabrica”:
17.11.1660 A
Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto
di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della
matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro
Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato
et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
.
6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di
Girgenti onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze
29. et sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere
la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo
Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/
8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si
pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e
PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante
dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17.
9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a
sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662 Ad Antonio Capizzi onze tre
quali si ci pagano a complimento di onze vinticinque et in conto d'onze
vintinovi si li devono per conto della fabrica della matrice come per mandato
et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d. appare;
10.2.1662
Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze
vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro
vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice
chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per
mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che, secondo
il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev, Santo Agrò nel 1622 per dipingere
il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste annotazioni di
costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad immaginarne
dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante lire
corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit.
7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore
che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido)
non possiamo dirla mal pagata.» [7] etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di
uno sguardo questo vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a
Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli ma con una
serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in
Matrice):
708
|
CAPIZZI
|
ANTONINO
|
|
C.
|
4
|
6
|
10
|
MASTRO
|
|
|
GERLANDA
|
M.
|
C.
|
|
|
|
|
|
|
GASPARU
|
|
|
|
|
|
|
|
|
PASQUA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BARTOLOMEO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
GIUSEPPE
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ROSALIA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
NARDA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
CATARINA
|
|
|
|
|
|
|
|
|
VENA
|
|
C.
|
|
1
|
1
|
FAMULA DI
D.O DI CAPIZZI
|
Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di
semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso
moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore
Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere
praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro
(Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in
fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro
d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE
DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo [8] la nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse
Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non
ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun
accenno nella pubblicistica locale che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa
dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era
trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi
rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La
più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al
grande affresco della natività di Maria: «Antonius
Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731»
Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per
inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate
costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di
s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto
Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti
particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a
quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno,
sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore
di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi
in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si
chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici:
almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si
sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda
nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che
ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel
Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di
p. Fedele da S. Biagio.[9]
Non si può, poi escludere, che taluno dei
tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al
pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e
consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire
dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine
stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel
secolo.
Non
ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon
conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore
di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza
di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto
– e la composizione prolissa che si
sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con
Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi»,
vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza
passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla
agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il
Capizzi non disponiamo – diversamente
che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire
«un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto,
forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi
in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico
rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».
LA PARENTESI SABAUDA E QUELLA AUSTRIACA
Se volessimo dare le coordinate degli sviluppi politici dalla fine del dominio spagnolo sulla Sicilia (1713) ed l’avvento dei Borboni (1735), dovremmo fare riferimento al trattato di Utrecht che inventa il regno sabaudo in Sicilia; alla rivolta antisovoiarda con l’assalto di Caltanissetta alle truppe sabaude in ritirata del 1718 ed al quindicennio di dominio austriaco, dal maggio del 1720 al 30 giugno 1735 quando Carlo III di Borbone giurava nel duomo di Palermo l’osservanza dei Capitoli del regno.
Il vescovo Ramirez che prima di recarsi in esilio lancia
l’interdetto che investe Racalmuto apre questo tumultuoso periodo:
l’investitura da parte dei Gaetani della contea di Racalmuto, che cadde il 7
agosto 1735 ed il decesso dell’arciprete Filippo Algozini (20 ottobre 1735) lo
chiudono sotto un duplice profilo:
quello feudale, ma in senso involutivo, visto che si ritorna ad una feudalità
vessatoria che la morte dell’ultimo conte del Carretto nel 1710 aveva di molto
rilassata, e sotto quello ecclesiastico con il ritorno agli arcipreti
d’estrazione locale, molto più legati ai loro parrocchiani. Francesco Torretta
inizia una serie di racalmutesi al vertice del locale clero (sia pure come
“economo-vicario” ) che si protrae – fatta eccezione per la scialba arcipretura
di Antonio Scaglione - sino ai nostri
giorni.
Sull’interdetto del 1713 parliamo altrove. Sotto i Sabaudi si intensifica la presenza militare. Ad Agrigento c’è una Sargenzia composta, tra l’altro, da due compagnie di cavalleggeri: una a Naro e l’altra a Racalmuto, nonché da die compagnie di Fanteria a Naro ed a Sutera con 550 soldati. Il contingente di Racalmuto è di 9 cavalli e 65 fanti. L’onere finanziario ricade sulle “università” tra le quale viene ripartito il c.d. “donativo”. [10]
Col
passaggio sotto l’Austria, nel 1720 v’è un allentamento della morsa militare e
l’ordine pubblico ne risente: resta celebre il caso[11] del
bandito Raimondo Sferrazza di Grotte, tra i cui affiliati un qualche
racalmutese vi dovette essere. Lo Sferrazza fu giustiziato a Canicatti il 30
aprile 1727. Iniziò la sua attività criminale vera e propria nel 1723. Vittima
dello Sferrazza risulta tale Mariano Calci di Racalmuto.
Da Prizzi
arriva a Racalmuto il successore di d. Fabrizio Signorino: don Filippo
Algozini, che non dura più di un quinquennio. Muore nel 1735 e pare non abbia
lasciato un buon ricordo nei suoi confratelli se costoro si limitano ad
annotarne la morte sul LIBER, al n° 220 seccamente, senza alcuna
sottolineatura. Invero era stato un arciprete alquanto vivace, piuttosto
energico e sicuramente preciso ed ordinato. Ci lascia un tariffario che
illustra ad abbondanza quanto fiscale fosse la Chiesa di allora: veramente
tassava dalla culla alla tomba come abbiamo avuto modo di rappresentare una
volta in una nostra mal tollerata conferenza alla Fondazione Sciascia. I
balzelli venivano pudicamente denominati diritti
di stola; il maggior peso si aveva per i matrimoni per i quali vi è una
casistica tanto puntigliosa quanto invereconda; ecco, infatti, l’ampia gamma di
aliquote per tasse matrimoniali dovute alla locale Matrice.
[1] )
AA.VV., Leonardo Sciascia ed il
Settecento in Sicilia, Caltanissetta 1998, p. 5.
[2] ) ibidem, p. 9.
[3] ) Leonardo SCIASCIA Le parrocchie
di Regalpetra - ed. Laterza 1982 Bari U.L., pag. 21.
[5] ) Girolamo M. Morreale, S.J. – Maria SS. del Monte di Racalmuto –
Racalmuto 1986, sparsim ma in particolare p. 49 e ss.
[6] ) Girolamo M. Morreale, S.J.
Maria SS. del Monte …, op. cit., p. 67.
[7] ) Leonardo Sciascia, Prolusione a Pietro d’Asaro .., cit. p.
20.
[8] ) Giuseppe Adamo, Storia di Delia dal 1596 ad oggi, Palermo 1988, pp. 163; 171 e
riproduzione policroma dopo p. 192.
[9] ) P. Fedele da S. Biagio, Dialoghi familiari sovra la pittura
col Sig. avvocato D. Pio Onorato palermitano, Palermo 1788.
[10] ) )
Il Regno di Vittorio Amedeo II di Savoia, nell’Isola di Sicilia dall’anno
MDCCXIII al MDCCXIX – Documenti raccolti e stampati per ordone della Maestà del
re d’Italia Vittorio Emanuele II – Torino, Eredi Botta 1863, pp. 304-305.
[11] ) Calogero Valenti,
Grotte – origini e vocende storiche, Grotte 1996, pp. 199-210.
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