Questa piccola chiesa di Racalmuto sorgeva all''estremità Nord di Racalmuto, nel vecchio quartiere della FONTIS tradizionalmente FONTANA e per ripicche politiche tra due dioscuri egemoni codesto quartiere oggi è sparito dalla popolare toponomastica alla cui principale arterie hanno cambiato il tradizionale nome di Battesimo di via Fontana con quello improbabile di via Gramsci.
La chiesetta dedicata a S. Nicola di Bari adatta il suo nome alle esigenze foniche di questo strano paese, la nostra Racalmuto, per divenire SANTA NICOLA che resta pur sempre santo maschile ad onta dell'epiteto ambiguo.
"Santa Nicola, Santa Nicola, vi dugno la vecchia e mi dati la nova" pregavamo quando ci cadevano i denti lattei per quelli che più o meno malfermi ci dovevano accompagnare per tutta la vita. E l'invocazione accompagnava il gesto del dentino scagliato sui tetti nella convinzione che se non invocavamo questo santo barese non avremmo mai spuntato in bocca il sostituto.
Iniziamo da questa bella foto, fornitaci dalla signora Rita Grazia Mattina, la nostra scorribanda storica su Racalmuto propiziata dalle foto che Rita Grazia, eccellente fotografa, mano mano ci metterà a disposizione.
Parte da qui una microstoria racalmutese, rapsodica, vagula, ma poggiante su studi e ricerche trentennali.
Filo logico sono l'amore per la verità storica - nonostante tutto, oltre tutto - e lo spasmodico affetto per questo !spazio vitale" in cui siamo nati, che giammai abbiamo rinnegato, che vogliamo integro nella sua storica toponomastica e fedele nel suo genuino toponimo. I vezzi letterari, gli svolazzi di un cervellotico congetturare devono stare stellarmente lontani.
Amiamo con tutta la nostra mente, con tutto il critico e duttile intelletto di cui disponiamo questo nostro irrinunciabile borgo natio, spesso oggetto di interessate mistificazioni, di immeritate denigrazioni.
Ripuliamo la memoria storica di RACALMUTO!
Rita Grazia Mattina con le sue appassionate, non oleografiche e non mercificate foto, ci accompagnerà in questo tortuoso e ondivago percorso.
Due episodi ci rendono cara o interessante questa periferica chiesetta. Ai tempi della mia infanzia davvero vi erano bande di ragazzini terribili da richiamare alla mente i "ragazzi della via Paal". Molto attivi, spesso figli di famiglie dedite al crimine, un tempo all'abigeato, negli anni del dopoguerra del '40 al furto alla grassazioni, e sovente all'omicidio, quei bambinetti respiravano violenza da tutte le parti e consideravano l'atto aggressivo atto coraggioso, Una banda temibile raccoglieva i ragazzini dagli otto ai dodici anni provenienti dalle casupole attorno alla chiesa di San Nicola (vulgo Santa Nicola). In quel quartiere ora abitava gente dura, con precedenti penali e taluni dimoranti nelle patrie galere. Il quartiere di San Nicola, attestato già ai primi del '500 come coevo del tempo in cui la tradizione vuole la venuta della Madonna del Monte a Racalmuto, fu luogo prediletto da certe famiglie emergenti, famiglie di notai, di nobilato addetto alla gestione dell'economia dei Carretteshi, di preti piuttosto affermati. Era poi di molto decaduto, credo per l'insalubrità o ritenuta tale che si addebitava ai luoghi bassi: coincidenze di tisi endemiche in quel quartiere invero si erano avute. I medici consigliavano aria buona: d'estate si andava "fori" alla Culma o alla Marchisa o a Gargilata, considerate campagne atte a rigenerare polmoni malandati e quindi dall'autunno in poi nelle zone alte del Carmelo. Subentravano poveracci che occupano dammusi e se divenivano meno poveri salivano, sempre numerosi, le camere solerate. Promiscuità assoluta, igiene inesistente, moralità attutita.
La banda di Santa Nicola saliva gagliarda e minacciosa a lu Castieddru, Qui trovava l'altra banda un po' meno diseredata ma pur sempre grintosa. In un certo qual senso ne faceva parte un mio cugino vigoroso, molto abile con la fileccia, capace di colpire passeri alla Spina e colombi nelle feritoie della torre carrettesca. C'era la possibilità di organizzare non tanto uno scontro di calcio ché mancavano palloni e anche passione, ma erano le furibonde lotte allo Sceriffo, come nei filmi americani che tutti non so come conoscevano, a determinare infinite sparatorie finte con indice e pollice a simulare la pistola e con la reboante voce a sparare. Stanchi i più piccoli tornavano a casa, i più grandicelli già non più puberi al calare della sera andavano a sedersi sugli scalini della chiesa di San Giuseppe e iniziavano conversari molto spinti. Eccitati poteva nascere una masturbazione a cerchio magari per mostrare chi poteva fiottare più lontano.
Molto più tarda è l'altra simpatica memoria: Siamo negli anni '80. La nuova amministrazione social-comunista organizza addirittura un festival della lirica con concorso a premi. L'emergente on. le Milioto fa convergere nella bella piazzola antistante la chiesetta di Santa Nicola alcune manifestazioni liriche, persino dei balletti, concerti. Seduti dinanzi allo sfondo della facciata che qui si fotografa tra due filari di basse e civettuole case si poteva godere di una accattivante atmosfera. Ho partecipato qualche volta. Mi è molto piaciuto. Una sorta di redenzione artistica, una riabilitazione al suono di "la donna è mobile" o delle rivisitazioni di vecchi strazianti canti (Maria Passa) o di canzonette prossenetiche paesane, (affaccia beddra) che gli eredi di Luigi Infantino riescono a far cantare nel paese d'origine del pienotto tenore da poco deceduto.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
Il quadro della vita religiosa
racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un
vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse
per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori;
tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi
apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene
neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si
conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In
tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello
delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e
monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a
potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in
affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire
chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi
vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni
di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge
un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da
qui il detto tutto racalmutese: monaci e
parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci
nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione
per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e
competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano
inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli
altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia
cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro
Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le
visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione
sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in
sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di
allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e
San Giuliano. [1] Tre
anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]
Al centro della locale
comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’
originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico
agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però,
se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché
l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono
alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis
Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est
assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto
l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex
disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario
in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di
un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate
solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam ..
contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte
terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti
et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella visita del 1540
era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella
misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di
16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La
popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto
lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890
fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di
indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto
elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel
1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di
Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha
decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in
circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni
capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in
statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di
una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime
suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno
elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà
(la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie,
l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli
dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e
dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex
administratione cure”).
Nel 1540 si constatava
che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da
chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si
aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione:
«Ecclesia di la Nuntiata confraternitati
et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore
che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet
primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini
Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di
che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da
chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La
vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle
esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che
venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et
hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo
dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli
ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S.
Antonio.
Le
nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui.
Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali
richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri
sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco
de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse
il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete,
che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per
entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era
titolare.
Il de Leo era vicario,
dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di
curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio
di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i
pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva
accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco
de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel
visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene
compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam
dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario,
oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque,
positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché
tenesse alla vetusta chiesa di S.
Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il
Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de
Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata
e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale
agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est
titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I
contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della
Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un
racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa
inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro
agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta
l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di
riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella
antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci
compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si
appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto
il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa
su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato
che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine
196v-198v della Visita)
|
Passando
al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
la
Nunziata, visto che vi si trovava
una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di
varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
Santa Maria di Gesù col suo
vecchio paramento di borchie stagnate (Item
uno casubolo di borcati vecho stagnato);
Santa
Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano
i “avantiletto” lisi (item dui
avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla
di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III
del Carretto
Di
Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3])
steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello
finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone
viene in qualche modo abbozzato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete
in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e
dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se
si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A
don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà
di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel
contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del
pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile
D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in
Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del
pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento,
orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli
animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento
esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che
seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel
castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et
mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro
dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt,
ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri
pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato,
ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo
figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia
affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni
singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da
chicchessia, e ciò per amore di nostro
Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del
testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato
troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per
Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue
disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi
titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di
Girolamo di far dire tante messe nel convento
di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene
adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito
annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere:
crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per
spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto.
Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato
artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I
del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e
farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di
Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà
storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella
compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro
Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la
costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa
di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea,
barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare
dalle casse del castello);
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi
(altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in
contanti da erogare;
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima,
monaca del convento di Santa Caterina
della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre
20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale:
introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente
alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed
ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis
Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis,
et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque,
nec non relaxavit et relaxit mihi
infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium
praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et
Anima dicti Domini Testatoris per esserci
stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le
cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai
censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella
sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro
fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato”
nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni
dopo la morte e la redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe
salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha
cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in
sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini
d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo
ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano
andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o
il ‘luterano’ notaio inventava?):
5 once al venerabile convento di San Domenico della città di
Agrigento;
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché
il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce
(“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a
concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in
auge);
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si
venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco
perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum,
et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere
seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco
(dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era
intensa).
[1]) ARCHIVIO VESCOVILE DI
AGRIGENTO - "GIULIANA" -
VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE
DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di
laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di
Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto
risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO
- "GIULIANA" - VISITA 1542-43
- colonne 190v-193v.
[3] ) Archivio di Stato di
Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r -
56v.