GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura
centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe
portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del
padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia
feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco - di
cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni
III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato della committenza di un
delitto contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta il suo lontano pronipote
Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il caso che gli atti
disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un uomo religiosissimo,
al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo
notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo
Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva indulgenza verso gli eccessivi
empiti di sperperatrice religiosità del suo assistito in punto di morte,
abbiamo voglia di pensare noi.
Il
Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente elogiativi.
Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto: «da Ercole si
ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù. Carlo
V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia per la
propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i
Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo d’investitura di Giovanni del Carretto, ultimo barone di Racalmuto
Sul
citato Giovanni fornisce lumi il processo n.
1175: ([1])
abbiamo avuto già modo di citarlo. Siccome lo riteniamo basilare per la storia
racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre, dal
latino.
«N.°
1175 - In Palermo nell’ufficio del
Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio
del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore
del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo
e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del
Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che
teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del
prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura della detta baronia
con i suoi diritti e pertinenze sia per la morte del signor nostro Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle maestà
cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri invittissimi,
quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del Carretto,
suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don Giovanni, al tempo
della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la terra di Racalmuto, con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli
ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone
Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi
da vero signore e padrone.
«Del pari,
si testimonia che il prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è
figlio primogenito, legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e
come tale e per tale lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri
tenuto, trattato e reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e
padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al
Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto
la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore
in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso
quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima
redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di
Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel
quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e defunto il detto
magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del Carretto, quale figlio
legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole, e come successore
legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo regno di Sicilia
fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico Re Ferdinando, di
gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita cadde nel mese di
gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui successe in tutti
i suoi dominî e regni la serenissima
Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché il cattolico ed
invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio primogenito e
naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine di prestare il
debito giuramento e l’omaggio della dovuta
fedeltà e del vassallaggio, nonché di ottenere l’investitura della
predetta terra e castello, con tutti i suoi diritti e pertinenze - tanto per la
morte di Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la morte del proprio
padre - seriamente creò ed istituì suo procuratore il magnifico illustre Artale
de Tudisco, come risulta dalla procura agli atti dell’egregio notaio Giovanni
de Malta, in data 26 del presente mese di gennaio VII^ Ind. 1519.
Secondo processo d’investitura di Giovanni III del Carretto
Ma
non è finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il
giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a
Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il
2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe
a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui
sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla
ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni
III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di
“paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Nel
1375 la terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire
non più di n.° 500 abitanti, elevabili a
600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel,
inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio
della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese,
fragili e malandate.
In
piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente
cambiate a Racalmuto: la popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo
pubblicato nel citato nostro lavoro sul Cinquecento racalmutese dati e note sul
censimento del 1548 - Giovanni III del Carretto era barone già da 31 anni - che
sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3.479
|
Dai
1600 del 1505 ai quasi 3500 abitanti del 1548 il salto era stato rimarchevole:
non poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di
Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da
preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche
mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano
stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi
e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio,
Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era
tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se
poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo
(o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione
avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa,
Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un
vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse
per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli
visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva
considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone
non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna
si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In
tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello
delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e
monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a
potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in
affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per
costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento
che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono
corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il
prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano
spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i
preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo
bisogna loro “stuccarici li rini”
beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso
per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti
non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore
laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il
vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa
a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo
Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle
soglie del Settecento.
Monsignor
Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò
molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad
un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è
riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti
chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del
Monte e San Giuliano. [2] Tre anni
dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[3]
Al centro
della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de
Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche
canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a
sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli
emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro
cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera
popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et
emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt
dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su
Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico
diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un
gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla
corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove
sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati
(”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque
domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum
frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti
tantum singulo anno”.)
Nella
visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale
primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una
salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove
capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600
abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V,
Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che
vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori
doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di
secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla
primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa
chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione
di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso
Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le
concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si
dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle
primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini
due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e
dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex
administratione cure”).
Nel 1540 si
constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva
anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e
non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia
funzione: «Ecclesia di la Nuntiata
confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’
comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in
quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme
22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse
quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo
Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non
può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto
populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe
adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato
dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior]
est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo
iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si
mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la
chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le
nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui.
Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte
episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad
altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don
Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto
importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del
vescovo sul luogo. A lui venivano
demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina,
specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor
più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo
era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti
aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates,
titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si
limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure
della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava
il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente.
Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la
trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc
propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte
vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo,
comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega
così perché tenesse alla vetusta chiesa
di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel
1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398.
Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte
rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale
agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est
titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I
contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della
Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un
racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si
assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la
donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il
milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta,
si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra
intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica
del 1108 consacra chierico e chiesa
inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione
del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta
l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento
e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa
“normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e
lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna
certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta
assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra,
però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali
agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle
seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine
196v-198v della Visita)
|
Passando
al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
·
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·
Santa Maria
di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
·
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle
antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano
non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di
Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([4]) steso sul
letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le
grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche
modo abbozzato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete
in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e
dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o
il ‘luterano’ notaio inventava?):
·
5 once al venerabile convento di San Domenico della
città di Agrigento;
·
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del
Monte;
·
10 once al venerabile ospedale della terra di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre
poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di
calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia
sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
·
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è
ritornata in auge);
·
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale
si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i
tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco
perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae
Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi,
et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis
spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis,
granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et
ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali
come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una
sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà
feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere
seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco
(dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era
intensa).
Il
processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in
gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì
in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il
Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu
l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A
Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su
di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di
Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del
Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano
il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato
ed avesse in quel tempo il titolo di
conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la
gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
«
Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da
riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e
recitano: “Filippo etc. A tutti quanti
etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai
del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo
considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non
soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso
titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri
uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e
altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati
verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo
fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre,
l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo
con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che
negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro
colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere
in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto
barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente
si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i
suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in
D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il
titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte
in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto
che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha
origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion
per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la
Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite
prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la
nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro,
ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto
pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui
si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma
marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla
carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste
un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del
Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta
ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di
nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra
benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che
possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da
quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e
la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le
citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Girolamo
I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura
a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di
Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9
agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura
in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della
chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa
di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma
come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana
terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili
accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un
‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la
presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche
battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà
ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde
al vero) nel 1622.
In
altra parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che
erige a contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a
cavare alcun briciolo di microstoria locale.
Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da
questo momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di
striscio colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò
non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della
concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto
vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una
ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia
dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel
tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie
cui sottostettero i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a Racalmuto
Il
carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università
feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel
1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a
colpire l’Italia intera.
Del
pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel
carteggio che «per lo contaggio del morbo
che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a
Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel
precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso
che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della
consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in
pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di
scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio
tributario.
Tuttavia,
la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un
dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle
tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua
corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le
“tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo
grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse
arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è
agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati
racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della
terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di
quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per
donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti
per il Regno à Sua Maestà, come per le
tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del
morbo che in quella s’hanno ritrovato
... , à vostra Eccellenza
l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta
università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università
fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva
pagare ..»
La
burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non
conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una
gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene
alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un
localismo, il nostro, quello di Racalmuto,
che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che
isola nell’isola ..
Remissivamente
i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente
annotano:
[Ma
tale petizione non ha avuto esito] “per
lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra
Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per
l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa,
poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e
raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per
consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato
ad essa università circa detta
diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra
per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che
di sopra si è detto per detto consiglio
concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non
potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser
sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro
patrimonio ut Altissimus. ..”»
La
messa in mora della locale
amministrazione per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena
dunque la cupidigia di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato
paese moroso ad esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali
diarie per missioni) e ad aggravare le esauste finanze locali «con
eccessivi danni ed interessi».
Si
accordino - si chiede da Racalmuto - due
mesi di dilazione per trovare un
sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa
seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una
serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo
sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il
carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna.
Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene
fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero
dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa
trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità
tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente
organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine,
certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare
le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali
consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a
raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari,
ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la
giunta comunale: la giurazia.
* * *
Per
inciso, richiamiamo l’attenzione sul giurato racalmutese del 1577 Vincenzo
Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il
titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente
che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio
democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da
quello del sorgere dello stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare
alla tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una
solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel
centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava
nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava
nell’attuale Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i
palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza
di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa
intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di
Racalmuto dello scorso secolo di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati
sulle case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza
dell’Università di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle
menti più elette del nostro paese come
dei benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda
fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che
oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per
Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento,
tal Caputo, superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
* * *
Terraggio e terraggiolo sotto il primo conte di
Racalmuto
In
prossimità della morte, Girolamo primo del Carretto riusciva a raggiungere un
accordo con i suoi vassalli di Racalmuto. Era l’anno 1580. Il 15 gennaio, a
rogito del notaio Nicolò Monteleone di Racalmuto veniva stilata una transazione
(transactio et accordium) [5] tra il
conte e l’università variamente articolata; tra l’altro i cittadini e gli
abitanti di Racalmuto s’impegnavano per loro e per i propri successori di
corrispondere al conte e suoi successori il terraggiolo (tirragiolum) in ragione di due salme di frumento per ogni salma di
terra seminata dai racalmutesi fuori del territorio dello stato comitale.
Il
carteggio relativo a tale transazione del 1580 è disponibile presso il Fondo
Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo. Per i riverberi sulla storia
locale, ci si deve qui dilungare nello stralciare ampi passi.
Iniziamo
dal testo della lettera inviata dai deputati racalmutesi eletti in un apposito
consiglio del 1580:
«Illustrissimo et eccellentissimo Signore,
Bartolo Curto, Pietro Barberi, Giacomo Capobianco, Angelo Jannuzzo, Antonuzio
Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonio Lo Brutto, Vito Bucculeri,
Pietro d’Alaymo, Joan Vito d’Amella, Antonio Gulpi e Giacomo Morreale, li quali
furo deputati eletti per consiglio congregato circa la questione e lite
vertenti tra l’altri, e l’illustris.mo Conte di Racalmuto in la R.G.C. esponino
a Vostra Eccellenza che sono più anni che in detta R.G.C. ha vertuto lite fra
detto conte e suoi antecessori in detto contato ex una, e li Sindaci di detta
terra ex altera sopra diversi pretenzioni, particularmente addutti nel libello,
e processo fra loro compilato per li quali intendiano detti Sindaci essere
esenti, e liberi di certi raggioni e pagamenti, come in detto processo si
contiene, e poichè s’have trattato certo accordio fra esso conte ed essi
esponenti come deputati eletti per detta università circa le pretentioni
predetti, e circa il detto accordio s’hanno da publicare per mano di publico
notaro per comuni cautela dell’uno, e l’altro, e stante che è notorio che detti
capitoli s’habbiano da publicare con vocarsi per consiglio onde habbiano da
intervenire li genti di detta università, e la maggior parte di quella per ciò
supplicano a V. E. si degni restar servita provedere che s’abbia a destinare
uno delegato dottore degente in la città di Girgenti per manco dispendio (o di
spesa) dell’esponenti, e benvista a V.E. il quale s’abbia da conferire in detta
università di Racalmuto,, ed in quella abbia da congregare consiglio si la
detta università è contenta si o no di pubblicare il detto atto d’accordio, li
quali si abbiano di fari leggiri per il detto delegato a tutte le persone che
interverrano in detto consiglio per potersi stipulare il detto atto con lo
consenso di tutta l’università, o maggior parte di quella - e restando
l’esponenti d’accordio V.E. sia servita al detto delegato concederli autorità,
e potestà di tutto quello e quanto sarrà concluso per detto accordio che possa
interponere l’authorità, potestà, e decreto di V.E. e sopra questo possa
interponere perpetuo silenzio, e decreto con tutte le clausole, e condizioni
solite, e necessarie farsi in detti atti ut Altissimus. »
La
curia viceregia acconsente ed impartisce le opportune istruzioni con lettera Data Panormi die vigesimo nono Februarij
nonae Ind. 1580.
Il
3 gennaio 1581 si presenta a Racalmuto il magnifico ed esimio Ascanio de Barone
della città di Agrigento con le sue credenziali. Il successivo giorno 5 si
aprono i lavori del «Consilium congregatum » sotto la presidenza dell’esimio
signor Ascanio de Barone “ad sonum campanae in maiori Ecclesia terrae Racalmuti
die dominicae” chiamati e convocati i due terzi del popolo. I giurati Lorenzo
Giustiniano, Giacomo Monteleone e Antonio Alaimo assicurano la regolarità della
convocazione e certificano la presenza del numero legale. L’ordine del giorno
consiste nell’approvazione dell’accordo fatto con l’illustre don Girolamo del
Carretto.
Viene subito introdotto l’argomento:
Magnifici Nobili, et persone
decorate [a.v.: honorati] et altri populani, siti congregati in questo loco;
sapiti ch’avendosi tanto tempo ed anni litigato infra l’università di questa
terra con li spettabili illustri ed illustrissimi signori Baroni e Conti di
questa terra sopra alcuni pretenzioni ed esenzioni di tirraggi di fora [a.v.:
supra alcuni pretenzioni et exemptioni di alcuni soluptioni di dupli terragi di
fora] et altri esenzioni come più largamente si contiene per lo libello e
processo contenti nella R.G.C. con detti spettabili ed illustri signori Baroni
e Conti di questa sudetta terra, ed avendosi tant’anni litigato non s’have mai
finito per tanto si congregao consiglio, e si elessero deputati lo magnifico Gio:
Vito d’Amella, Bartolo Curto, Pietro Barberi, Cola Capobianco, Angelo Jannuzzo,
Antonuzio Morreale, Cola Macaluso, Pietro Macaluso, Antonino lo Brutto, Pietro
d’Alaymo, Antonino Gulpi e Giacomo Morreale, li quali deputati esposiro a S.E.
e R.G.C. che avendo più anni litigato in detta R.G.C. con li predecessori
dell’illustre signor Conte di questa terra di Racalmuto ed anche con detto
signor conte sopra diversi pretenzioni d’essere esenti e liberi di diversi
raggioni e pagamenti in detto processo e libello addutti, e contenti, e che
s’ave trattato accordio fra l’università e detto signor conte, e sopra ciò
fatti certi capitoli li quali s’hanno da publicare per notaro publico per
commune cautela ed era di publicarsi con la volontà della maggior parte del Popolo
congregato per consiglio supplicando S.E. resti servita provedere e comandare
che si destinasse un delegato in questa terra per congregare detto consiglio,
ed essendo la maggior parte contenta dell’ accordio, farrà leggere li capitoli
ed essendo contenti quelli detto delegato farrà publicare, e stipulare ed
interponere l’authorità di S.E. e R.G.C. per ciò S.E. mi ha destinato delegato
in questa terra, undechè personalmente mi conferisca a congregare detto
consiglio, ed intendere la vostra volontà se volete accordio per questo siti
convocati in questa maggior chiesa acciò ognuno di voi dasse il suo parere [a.
v.: siti convocati in questa maggior Ecclesia a tal che ogn’uno di voi dugna lo
suo pariri e vuci si vuliti accordio], se volete accordio con detto signor
conte, perché volendo accordio si leggiranno li capitoli che mi sono stati
presentati per detti deputati e notar publico, ed essendo contenti di detti
capitoli per voi s’eligeranno dui Sindaci e procuratori per potere quelli
publicare e fare instrumento pubblico con li soliti obligazioni, renunciationi, stipulazioni giuramento
firmato in forma, alli quali Io come delegato di S.E. e R.G.C. interponissi
l’autorità e decreto acciò omni futuro tempore s’habbiano inviolabilmente
osservare siché ogn’uno venga, e dona la sua vuci, e pariri, lo magnifico Gio:
Vito d’Amella capo di detta terra di Racalmuto dice che è di voto, e parere, e
si contenta che si faccia accordio stante li lite e questioni che sono stati et
su infiniti e sono immortali e non hanno mai diffinizioni e sono dubbij ed
incerti e per evitarsi tante spese che s’hanno fatto e si potranno fare tanto
più che s’ha visto la buona volontà dell’illustrissimo signor conte lo quale
per li capituli ni ha fatto molte grazie ed esenzioni in favore di quest’Università
di Racalmuto e non facendosi accordio interim esigirà come per il passato
s’have fatto e perché in l’accordio e in mancari quelle raggioni che siamo
obligati paghari per questo è contente come è detto di sopra che si faccia
detto accordio e si leggano li capitoli e doppo si contratta in forma; lo
magnifico Lorenzo Justiniano giurato contiene [a.v.: concurri] con il detto
magnifico Gio: Vito d’Amella,
Già tutti voi esistenti in lo
consiglio aviti inteso leggiri detti capitoli per notar Cola Monteleone si
restati contenti di detti capituli ognuno dugna la sua vuci, e pariri, ed
eliggia dui sindaci e procuraturi ad effetto di putiri publicare detti capituli
e farsi istrumento publico con suoi patti renunciazioni cum juramento firmati
in forma, lo magnifico Joan Vito d’Amella capitano di detta terra dici ed è di
pariri che si contenta di detti capitoli letti nelli quali ci sù multi
relasciti e gratij fatti per lo signuri Conti, e che si pubblicano ed eliggiasi
per sindaci e procuratori ad Antonino Lo Brutto ed Antonuzzo Morreale, ad
effetto di putiri fari publicari detti capitoli dictae universitatis con li
soliti obligazioni stipulazioni juramento fitmati in forma; lo magnifico
Lorenzo Justiniano concurri con detto d’Amella; lo magnifico Giacomo Monteleone
ut proximus, lo nobile Antonino d’Alaymo ut proximus et sic omnes et singulae
prenominatae personae concurrerunt cum dicto de Amella et de Monteleone de
Justiniano et de Alaymo, capitaneus et jurati,
L’organizzazione feudale del centro agrario di Racalmuto.
Sorprendentemente,
i religiosi del Carmelo di fine ’500 detenevano tutta una documentazione[6] sugli
strani debiti di uno di tali rami cadetti.
Se ne ricava uno spaccato dell’organizzazione feudale di un centro
agrario qual era Racalmuto. Con una “polisa” il 15 febbraio del 1569 il barone
di Sciabica, don Federico del Carretto s’indebita con Antonio Pistone. «Io don
Fidirico del Carretto per la presente polisa mi fazzo debitori ad Antoni
Pistuni in salmi quaranta e tummina setti di frumento forti et sunno li detti
ad complimento di salmi 70, tt.a 7 si comi chi mi prestao hora dui anni in lo
fego di la Menta quali frumenti prometto darli per tutto lo misi di augusto
proximo da veniri et ad sua cautela hajio fatto la presenti polisa scripta di
mia propria mano in Girgenti a di 15 di frebaro XIJ^ Ind. 1579, dico salme 40 e
tt.a 7 - ditto don Fiderico del Carretto.»
Quale il
rapporto sottostante di questa transizione di frumento della Menta, non è dato
di sapere. E’ da pensare ad una speculazione granaria. Il nobile agrigentino,
un cadetto della celebre famiglia, ha entrature a Racalmuto. Qui pare che non
manchino gli abbienti come questo Antonio Pistuni che può tranquillamente
prestare ingenti quantità di frumento. Federico del Carretto cessò di vivere
qualche anno dopo.
Si ricorda
dei suoi debiti nel testamento: «E’ da sapere - si può volgere dal latino -
come fra gli altri capitoli del testamento fatto a mio rogito il 9 novembre p.^ Ind. 1572 dal
quondam spettabile signor don Federico del Carretto un tempo barone di
Sciabica, sussista l’infrascritto capitolo del seguente tenore:
«Del pari lo stesso spettabile testatore
volle e conferì mandato che qualsiasi persona dovesse ricevere od avere dal
detto spettabile testatore qualsiasi somma di denaro o quantità di frumento, di
orzo o di altro sia saldata dalla propria moglie secondo diritto a valere sui
redditi del detto spettabile testatore, sempreché quei debiti appaiano in atti
pubblici o con testi degni di fede o in scritture ricevute da qualsiasi curia.
E ciò volle e non altrimenti né in altro
modo.»
«Faccio
fede, io notaio Giovan Battista Monteleone».
Vi è un
atto esecutivo della Gran Corte del XV luglio 1573 dai toni pomposamente
ultimativi ma che in definitiva non fanno altro che confermare i fatti
suesposti.
· La
curialità cinquecentesca non scherzava davvero: «secondo la forma della nuova Prammatica, si dovrà procedere con
l’accesso ed il recesso e per la soddisfazione di cui sopra pignorando
qualsiasi bene e vendendo quelli privilegiati ... carcerando e scarcerando ed
operando l’estradizione da un luogo ad un altro o da un castello all’altro ...»
Risulta
il tutto dagli atti della curia del baiulo della terra di Racalmuto, essendone
stata fatta copia dal maestro notaro Giuseppe de Ugone (gli Ugo del Rivelo).
Sotto
Girolamo I Racalmuto dunque consolida il suo vivere contadino: il conte è
lontano, ma i suoi esattori onnipresenti. L’accordo è tutto a favore del
feudatario. I racalmutesi non lo gradirono; cercarono di aggirarlo; lo
contestarono. Le contese continuarono sotto tutti gli altri conti di Racalmuto.
Fino al tempo dei Requisenz, quando il prete Figliola e l’arciprete Campanella
riuscirono a far caducare dalla corte borbonica il terraggio ed il terraggiolo.
Era il 28 settembre 1787 quando il Tribunale borbonico sentenziò: “ius terragii
et terragiolii tam intra, quam extra territorrium declaratur non deberi”.
Ecco
perché ci appaiono settari gli aculei che Sciascia (sull’onda degli anatemi del
Tinebra) scagliò contro il solo - ed appena ventiquattrenne - Girolamo II del
Carretto: ben altre erano le responsabilità dei predecessori; ancor più inique
le pretese dei suoi successori e persino dei feudatari settecenteschi che non
portavano più l’esecrato nome dei del Carretto.
Oltre
ad una caterva di figlie femmine, Girolamo I del Carretto lasciò tre figli
maschi: Giovanni IV, suo successore nella contea di Racalmuto, Aleramo, che
diverrà conte di Gagliano e resterà famoso per gli abusi amministrativi, ed un
tal Giuseppe, di cui si occuparono le cronache nere del tempo.
GIOVANNI IV DEL CARRETTO
Giovanni
IV del Carretto fu un torbido personaggio di cui ebbero ad occuparsi le
cronache nere del tempo, anche dopo la sua morte. Ma fu un personaggio che
visse, operò, uccise e fu ucciso in quel di Palermo. Crediamo che a Racalmuto
non abbia mai messo piede. Fece amministrare i suoi beni racalmutesi da un
genero (Russo) che dovette essere parente della prima moglie e che fu sposo
della figlia illegittima Elisabetta, alla quale però il conte teneva tanto da
legittimarla.
Tinebra
Martorana ed Eugenio Messana spendono varie pagine ad illustrare la figura di
questo Giovanni del Carretto: i fatti di sangue che lo riguardano destano
curiosità ed interesse cronachistico, anche a distanza di secoli. Non sono però
molto attendibili questi nostri due storici locali. Sciascia, sul nostro conte
Giovanni IV del Carretto, ragguaglia sapientemente nella sua ricostruzione delle vicende di fra Diego La Matina (vedasi
la pag. 185 della Morte dell’Inquisitore, ed. 1982 cit.)
Ad
onta del fatto che il conte se ne stava a Palermo, o forse appunto per questo,
Racalmuto prospera dopo la terribile peste del 1576. Divenuto contea, sistemata
in qualche modo la faccenda del terraggio e del terraggiolo sotto Girolamo I,
questo nostro centro attira contadini, mastri, piccoli imprenditori, anche
usurai specie da Mussomeli, e diviene un paesone enorme per quei tempi: il
rivelo del 1593 annovera circa quattromila e cinquecento abitanti, e molti di
loro hanno patrimoni apprezzabili.
In un
siffatto contesto demografico, il ‘rivelo’ del 1593 si colloca come il primo
censimento che si ispira ad un certo rigore statistico. Si può pensare che ciò
si deve alla lontananza del conte Giovanni del Carretto. In questi anni,
infatti, Giovanni del Carretto è nel bel mezzo della sua bufera giudiziaria. Vi
era incappato per una vicenda avvenuta attorno al 1590.
Ecco come
ce la racconta un suo parente Vincenzo di Giovanni [7] «In questi tempi [tra il 1589 ed il 15
maggio 1591] successe che essendo riportato a D. Giovanni Carretto, conte di
Racalmuto, che Gasparo la Cannita gli faceva mal’opera riportando alcune sue
opere, ed avendo colui lasciatosi trasportar dalla colera, dicendo contro
quello parole ingiuriose, il detto della Cannita ebbe ardire di mandargli un
disfido per una lettera, dicendogli che aspettava la risposta in Napoli.
Gli mandò
dietro il conte per farlo castigare della presunzione; ma fûro i messi ingannati ivi da quei, che gli avevano
promesso far l’effetto: il che sentì gravemente il conte, ed attese a procurar
meglio ricapito.
In questo, sentendo il conte di Albadalista, viceré in
questo regno, tal negozio, fé venire il Cannita su la sua parola per farlo
accordare col conte; ed assicuratosi di questo, si conferì a Palermo, non uscendo
per la città, per dubbio, che aveva, se non quando andasse in palagio a
trattare col viceré.
Tra tanto il conte di Racalmuto, sentita la venuta del
Cannita, andava per le spie osservandogli i passi, perché aveva concertato
genti per tal effetto.
Lo ingannâro due finalmente, che, offerendosi al Cannita di
accompagnarlo a palagio, lo diedero in mano de’ nemici.
Aveva il conte concertato due con due pistole, e
quattro per far salvar quelli dopo fatto il caso. Venendo a passare il
pover’uomo, gli scaricarono coloro le pistole e l’uccisero; e quelli, che erano
per salvarli, sbigottiti fuggirono.
Fuggì uno schiavo del conte: ma l’altro, essendo in
fuggire, fu sopraggiunto dal marchese della Favara, e seguitandolo, fu preso e
menato al viceré, dicendogli l’eccesso che fatto avea. Se corse [s’indispettì]
assai quello, lo fé tormentare, e chiamato il conte, fé cercarlo con grande
diligenza. Egli, vestito da monaco, fu uscito in cocchio da D. Francesco
Moncata, principe di Paternò, e si salvò in modo, che per molti mesi non se ne
seppe nova.
Salvatore lo Infossato, che era stato preso per
l’omicidio, fu afforcato; e procedendosi in bando contro il conte, si fé dopo
prendere in Messina da gente dell’Inquisizione, e pretese il foro.
Ma vennero lettere di Sua Maestà che fusse dato al
viceré, perché era venuto ordine, che i signori non potessero essere del
sant’Officio; ed in questo modo il viceré ebbe in potere il conte.
Pensò dargli il tormento della corda, con la clausola
‘citra paejudicium probatorium’, e gli aveva fatto provista, che non si eseguì
per venire il giorno di festa con un altro seguente.
Si aspettava il dì di lavoro per eseguirsi la provista
, quando la sera precedente venne un estraordinario con lettere, che aveva
ottenuto D. Aleramo Carretto, suo fratello, che era alla corte, che
soprasedesse il conte viceré sino ad altro ordine. Tra tanto era tenuto il
conte di Racalmuto con dodici guardie.
Si adoperò in questo l’imperatore, che con i Carretti
si trattava da parente; alle cui intercessioni vennero lettere di Sua Maestà,
che il conte per qualche rispetto fusse rimesso al foro: il che sentì molto il
conte d’Alba.
Fu rimesso; e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato, condennandolo solo
ad onze mille, da pagarsi alla moglie del defunto, ed onze duecento al fisco.
In questo modo ottenne il conte la sua liberazione.»
Il Tinebra
Martorana ne fa una fantasiosa ricostruzione a pag. 120-123, apparendo
partigiano dei del Carretto e contro il povero La Cannita quando ricama sul
testo - invero arduo - del Di Giovanni
(che pure cita come fonte). Eugenio Napoleone Messana ricalca la narrazione,
sia pure con qualche personale svolazzo e con qualche arbitraria annotazione
(v. pag. 105-107).
L’intrico (veritiero) del
conte Giovanni del Carretto.
Il Sant’Offizio.
«S’aspettava
ancora il giudizio della corte di Madrid su questa vertenza [quella relativa al caso Ferrante] - scrive l’illustre storico - e chi sa per
quanto tempo se il Conte d’Albadalista insieme al reclamo non avesse forse
fatto pervenire al re le sue dimissioni per mezzo del D.r Morasquino, quando il
19 dicembre ‘89 i due Inquisitori, don Lope Varona e don Ludovico Paramo,
spedirono al G. Inquisitore di Spagna, col Cardinale don Gaspare de Quiroga, un
altro rapporto[9] con le
copie d’un nuovo processo contro Don Vincenzo Ventimiglia, e le informazioni su
due nuovi fattacci occorsi al fratello del conte di Racalmuto ed ai fratelli La
Valle. [...]
[E sono
fatti diversi dalle] due sole notizie tramandateci dai contemporanei: l’una
riguardante il fatto di “Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, rimesso al
foro del S. Officio per essere giudicato d’assassinio, fatto commettere
appositamente e liberatosi mediante la multa di once mille”, e l’altra
riferentesi al caso gravissimo del conte di Mussomeli, che turbò la
cittadinanza palermitana e diede origine all’interdizione del regno, volendo
l’Inquisitore “sostenere la giurisdizione del S. Tribunale esposta, come dice
il Franchina, ad esser gravemente vilipesa”.
[...]».
Ed il Garufi così illustra il caso che avrebbe
coinvolto un fratello di Giovanni del Carretto, Giuseppe del Carretto: « [Dopo
avere affrontato la vicenda del Ventimiglia] il rapporto passa a parlare del fratello del conte di
Racalmuto.
«Premetto
che non è affatto a dubitare che il sistema di rappresaglia e soprattutto gli
interessi materiali abbiano mosso gli Inquisitori a salvare don Giuseppe del
Carretto, tramutato per l’occasione in
un misero commensale del fratello conte di Racalmuto “teniente de oficial” del
S. Officio.
«Arrestato
costui per una serie di gravi ed atroci delitti, a servirci dei termini usati
dalla G. Corte, nel luogo della sua dimora, Messina, da cui foro giudiziario
per le consuetudini della città non poteva esser distratto, gl’Inquisitori, a
favorire il conte di Racalmuto che ne faceva una questione di decoro di
famiglia o meglio di salvezza per il fratello, imbastirono le prove necessarie
a dimostrare ch’egli era commensale di lui dimorante in Palermo, avendolo
alimentato e mantenuto anche a sue spese a Messina: sotto lo specioso pretesto
che il diritto di commensalità non si perde finché non sia intervenuta una
regolare sentenza di magistrato.
«E giacché
la G. Corte suggeriva di definire tale questione per via di consulta, secondo
il Concordato dell’80, gli Inquisitori si rifiutarono dicendo: che “di pieno diritto spettasse loro di
giudicare se il del Carretto fosse o pur no commensale del fratello”.
«Affermato
codesto principio con la sicumera di un diritto indiscusso, procedettero alle
inibitorie ed alle scomuniche, e quindi fu necessario che la G. Corte
sospendesse il processo, e il Viceré indirizzasse nuove proteste e nuovi
reclami a Filippo II
«La
moralità di tutta questa vertenza fu l’assoluzione di del Carretto con un mezzo
molto simile a quello già fatto per il fratello di lui, conte di Racalmuto,
condannato per assassinio ad una multa di mille fiorini.»
Confessiamo
che le vicende ci appaiono piuttosto confuse. Propendiamo, comunque, per
l’ipotesi che i due fatti siano interconnessi. Che per primo si ebbe a
verificare l’incidente di Giuseppe del Carretto (sicuramente databile prima del
19 dicembre del 1589). La «mal’opera» che
Gasparo la Cannita - un
personaggio importante se sta tanto a cuore al viceré Albadalista - faceva al conte Giovanni del Carretto riportando alcune sue opere, fu forse
una pubblica accusa sul comportamento dell’arrogante
conte di Racalmuto in occasione dell’intrigo giurisdizionale del S. Officio contro la G. Corte per salvare
l’omicida Giuseppe del Carretto. Altro che “gravi danni” inferti ai domini del
Conte, come vorrebbero Tinebra Martorana ed Eugenio Messana. Dopo, si consuma
l’orrida esecuzione del La Cannita, mandante Giovanni del Carretto. Quindi la
reiterazione del gioco della competenza del foro per una sentenza di comodo.
Al conte
Giovanni del Carretto - si sa - il crimine portò iella: il 5 maggio del 1608
cade a sua volta , folgorato con due schioppettate in pieno petto, in via
Maqueda a Palermo.
Il figlio
Girolamo del Carretto, se crediamo alle carte del sarcofago del Carmine, venne
fatto fuori da un servo.
Il nipote
Giovanni del Carretto finisce giustiziato nel regio Castello di Palermo il 26
febbraio 1650 (AURIA, Diario Palermitano),
colpevole più di avventatezza e boria che di alto tradimento verso Filippo IV,
re di Spagna.
Ma
qual era la situazione di Giovanni del Carretto nel 1593, all’epoca del ‘Rivelo’?
A
noi sembra, decisamente compromessa.
Un
sintomo si coglie in un lavoro dell’epoca di un funzionario napoletano [11]
che, parlando della nobiltà di Palermo e di Messina, ignora del tutto la
famiglia del Carretto.
I documenti
lo vorrebbero in carcere per tutto il decennio della fine del secolo XVI.
Questo sembrerebbe di capire dalla sibillina frase del Di Giovanni:« e fatte le sue defensioni in sant’Officio,
dopo dieci anni di travagli e gravissime spese fu liberato..». Ma forse
ebbe solo il fastidio di un processo decennale. Libero, però; limitato tutt’al
più nei suoi movimenti e costretto a dimorare in Palermo.
Nel
processo n. 3542 del 1600 [12] , appare
che Giovanni del Carretto, nel 1594, aveva potuto compiere tutte le procedure
per assicurarsi l’investitura della terra di Cerami.
Avrebbe dovuto essere trattenuto in carcere, ma, sia
pure tramite procuratori, riesce ad acquisire il titolo di
barone di Cerami.
La presa
del possesso di Racalmuto.
Veniamo
innanzitutto a sapere che il primo don Girolamo del Carretto - quello che era
riuscito a farsi rilasciare la patente di conte da Filippo II, facendogli
magari credere che erano parenti alla lontana, per via delle pretesi origini
sassoni dei del Carretto della originaria Liguria - aveva abbandonato il
castello di Racalmuto, che pure aveva abbellito, e si era trasferito a Palermo.
Sappiamo
che Girolamo, padre di Giovanni del Carretto, fu sepolto il 9 agosto XI
indizione del 1583 nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura di
Palermo.
Defunto
l’ex pretore di Palermo, il figlio Giovanni non ha il tempo - o la voglia - di
recarsi a Racalmuto per prendere possesso della contea. Ne dà delega al parente
agrigentino don Cesare del Carretto.
Eccone, in
traduzione, l’atto di possesso:
«Atto di
possesso - 8 agosto, XI^ indizione, 1583 -
«Si
premette che il condam d. Girolamo del Carretto, conte della terra di
Racalmuto, morì - come piacque a Dio - nella felice città di Palermo ed a lui
successe - così come dovette e deve - nella contea predetta, per patto e
provvidenza del principe, l’ill.mo don Giovanni del Carretto, in quanto figlio
primogenito, legittimo e naturale, e successore in virtù dei suoi privilegi e
degli altri atti e scritture.
«In
relazione a ciò, nel predetto giorno, lo
spettabile don Cesare del Carretto della città di Agrigento - noto a me notaio,
presente, innanzi a noi - come procuratore del prefato ill.mo signor don
Giovanni, in forza della procura celebrata agli atti miei il giorno sette del
presente mese, in virtù dei detti suoi privilegi ed anche dei relativi diritti,
contratti e scritture, con ogni miglior
modo e forma, con i quali meglio e più utilmente poté essere detto, fatto e
pensato, in favore e per l’utilità dello stesso illustrissimo signor don
Giovanni come figlio primogenito ed indubitato successore per morte del prefato
ill.mo signor don Girolamo del Carretto, suo padre, per patto e provvidenza del
principe ed in forza dei suoi dei suoi privilegi ed in ogni miglior modo e nome
e continuando nel possesso in cui fu ed è e per quanto occorra, il predetto
procuratore prese e acquisì il reale, attuale, naturale, materiale, vacuo,
libero e corrente possesso della detta terra di Racalmuto, della contea e dello
stato della giurisdizione civile e criminale, nonché del mero e misto imperio e
degli altri diritti ed universe pertinenze sue.
«E per me
infrascritto notaio, ad istanza e richiesta dello spettabile procuratore
predetto, fatte seriamente, lo stesso procuratore, per suo tramite ma in nome del
delegante, è stato introdotto, posto ed immesso nello stesso possesso della
predetta terra, contea e stato con tutti i singoli suoi diritti e le pertinenze
universe, nonché nell’integrità dello stato, della giurisdizione civile e criminale e nel mero e misto
imperio, il tutto spettante alla detta contea in forza dei detti suoi privilegi
ed altre scritture.
«E ciò per
acquisizione delle chiavi del castello, con apertura e chiusura delle sue
porte, entrando, uscendo e deambulando in esso castello e nelle sue stanze.
«Così come
si è proceduto alla rimozione, destituzione e revoca dell’ufficio di
castellanìa nella persona del magnifico Giovanni Bartolo Ciccarano, e
dell’ufficio di secrezìa nella persona del magnifico Giovanni Antonio
Piamontesi, dell’ufficio di capitano, giudice e maestro notaio nelle persone di
magnifici Artale Tudisco, Nicolò di Monteleone e Rainero Fanara.
«E tanto si
è fatto anche per i loro sostituti negli uffici della giurazìa nelle persone di
mastro Martino Rizzo, Antonucio Morreali, Filippo Vaccari e Nicolò Capoblanco;
e negli uffici di mastro notaro e dell’erario fiscale nelle persone di mastro
Giacomo Puma e mastro Paolo Cacciaturi.
«Per nuova
elezione e creazione negli uffici predetti, sono stati rinominati gli stessi
ufficiali e gli stessi loro sostituti per beneplacito e sino ad altra nomina
degli ufficiali in altra occasione o circostanza.
«Per la
solenne celebrazione di un tale possesso ed a testimonianza di tale vero,
reale, attuale, naturale e materiale possesso, ed a cautela del predetto ill.mo
signor don Giovanni, viene redatto il presente strumento, corredato del timbro
di avvaloramento, da me notaio Antonino de Gagliano, regio pubblico notaio di
Cerami di questo Regno. L’atto viene rogato, in presenza di testimoni, e quindi
registrato a suo tempo e luogo».
Il truce
personaggio che fu don Giovanni del Carretto (il quarto della sua famiglia), se
ebbe fretta a prendere possesso dell’eredità, appare poi in difficoltà quando
deve prenderne l’investitura (con gli aggravi fiscali che comportava).
Ottiene due
dilazioni e, finalmente, riesce a chiuderla questa fase dell’investitura, come
da questa nota del citato processo:
«Messane die VI^ mensis Settembris XIII^ Ind.
1584 - prestitit juramentum [..]»
Giovanni
del Carretto ereditò una caterva di beni, ma anche un’asfissiante massa di
oneri, pesi e debiti.
I del
Carretto a fine secolo XVI.
Tirando le
somme, su Giovanni del Carretto il buon genitore Girolamo scaricava le doti di
‘paragio’ di otto sorelle e due fratelli.
Poi, si aggiungeranno i carichi di un paio di
figli ‘illegittimi’ e, naturalmente, l’eredità ab intestato per l’unico figlio legale, il conte di Racalmuto per
antonomasia, Girolamo del Carretto.
Su
quest’ultimo si abbatteranno i fendenti di una tale complessa situazione
patrimoniale, carica di soggiogazioni anche per le tanti doti di ‘paragio’.
Sarà stato per questo, ma si dà il caso che il giovane conte del Carretto,
all’età di ventitré anni si spoglia di tutto, facendone donazione ai due figli
Giovanni e Dorotea e nominando governatrice la moglie Beatrice e tutore il
fratello (o fratellastro) don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto.
Un anno
dopo, il primo maggio 1622, Girolamo del Carretto dava l’anima a Dio.
Ma torniamo
al 1593, l’anno del censimento. Il conte Giovanni del Carretto, non era di
sicuro nel suo castello racalmutese.
Una nota di
cronaca lo accosta alla morte del celebre poeta
Antonio Veneziano, nel crollo delle carceri del Santo Offizio.
«In questo stesso anno [1593] - precisa un diarista [13] - dì 19
di agosto. Fu posto fuoco alla monizione della polvere che era in Castell’a
mare di Palermo: perilché quasi tutto il castello brugiò, e morirono più di 200
persone, la maggior parte carcerati; fra’ quali morì Antonio Veneziano poeta,
Argistro Gioffredo, il baron di Sinagra, due maestri di sant’Agostino che
andorno a mangiare con l’inquisitori, et altri cavalieri e plebei.
«Scamporno l’inquisitori, il conte di Racalmuto, il
barone di Siculiana, il castellano ed altri. Ivi fu roina grande delle case del
castello et delli palazzi d’inquisitori; et allora, uscendosi d’ivi, andorno a
stare alla casa di Monetta.»
Che cosa vi
stesse a fare Giovanni del Carretto, non è chiaro. Certo egli era «teniente de
oficial» del Santo Ufficio, ma il presidente della Gran Corte Giovan Francesco
Rao ed il viceré Albadalista erano riusciti ad ottenere da Filippo II che i
nobili non potessero far parte dell’Inquisizione.
Non era
quindi per ragioni di ufficio del suo ruolo nel tribunale inquisitoriale che
potesse stare in quelle carceri. La vicenda che abbiamo prima sunteggiato può
dunque spiegare il perché. Vi stava forse in quanto ‘carcerato’ seppure di
riguardo [14]. Se è
così, non poteva influire sull’andamento del rivelo di Racalmuto.
Che i guai
di Giovanni del Carretto, per quell’efferata esecuzione di La Cannita, siano
stati seri si desume dal fatto che dovette cedere il passo al fratello
rampante, Aleramo del Carretto, nella carica di Pretore di Palermo.
I Diari [15] parlano del «pretore l’ill.mo sig. D. Aleramo del
Carretto conte di Gagliano» sotto la data del 26 ottobre 1595, e narrano che
l’11 aprile del 1596 costui, come pretore, ebbe a carcerare «tutti li mastri di
piazza». Gli ascrivono poi a merito che in quel tempo «fece fare la scala nova
della Corte del pretore e l’arcivo del capitano».
Giovanni
del Carretto dovrà aspettare per tornare nel pubblico agone. Negli stessi Diari (pag. 142) lo incontriamo il 16
dicembre 1601, quando morì il Maqueda. Il feretro «andò alla chiesa maggiore
sopra la lettiga. E lo portarono in spalla quattro titolati, che furono D.
Francesco del Bosco duca di Misilmeri, D. Vincenzo di Bologna marchese di
Marineo, il conte di Cammarata e quello di Racalmuto ..». Ultimo dei quattro, è
vero, ma ci sta.
Giovanni
del Carretto resta vedovo piuttosto presto di Beatrice Russo e Camulo di
Cerami. Ha una relazione non ufficiale da cui - stando solo a ciò che è
documentato - ha una figlia di nome Elisabetta.
Nella
seconda metà dell’ultimo decennio del ‘500 la fa sposare con il nobile Girolamo
Russo. A sua volta, il conte si risposa, piuttosto tardi, con Margherita
Tagliavia di Favara, una potente famiglia che ci tiene a premettere al proprio
cognome quello ancor più prestigioso di Aragona. Tutto fa pensare che il
matrimonio sia stato celebrato nel 1596.
Il
primogenito Girolamo del Carretto viene battezzato a Palermo il 28 ottobre
1597.
Dopo tante
traversie giudiziarie e finanziarie, il conte è chiamato a reiterare
l’investitura per la morte di Filippo II di Spagna (+ il
13/9/1598) Adempie il costoso rinnovo piuttosto tardi (difettava di
liquidità?) e presta giuramento il 18
settembre 1600. [16]
I del
Carretto, dopo il trasferimento a Palermo, non amavano frequentare Racalmuto,
almeno sino all’infelice Girolamo del Carretto, che, dopo l’uccisione del
padre, nel 1606, venne ricondotto,
insieme alla sorella, dalla madre nell’avito castello (e secondo le carte del
Carmelo vi trovò anche la morte nel 1622).
Il figlio,
Giovanni, si ritrasferisce a Palermo per farvisi giustiziare - come detto - nel
1650. Dopo di che, la famiglia del Carretto prende stabile dimora nel nostro
paese, praticamente sino alla sua estinzione (1710).
Finché i
del Carretto si accontentarono del titolo di barone di Racalmuto, vi stettero
proficuamente abbarbicati. L’ultimo barone, Giovanni, muore nel 1560 nel
“castro” racalmutese e viene seppellito a S. Francesco.
Ecco la
testimonianza resa da un maggiorente locale:
«Nob. Innocentius de Puma de terra Racalmuti,
repertus hic presens testes, juratus et
interrogatus supra capitulo probatorio dicti memorialis, dixit tamen scire
qualiter:
«in lo misi di gennaro prossimo passato in la
ditta terra di Racalmuto vitti moriri a lo speciale don Jo: de Carretto, olim
baruni di ditta terra, lo quali si andao et seppellio in la ecclesia di Santo
Francisco di ista terra, a lo quali successi et restao in ditta baronia ipso
spett. don Hieronimo ... come suo figlio primogenito legitimo et naturali, et accussì tempore eius vitae lo vidio
teneri, trattari et reputari per patri et figlio, et cussì da tutti quelli ca lu havino canuxuto
et canuxino ... quia instituit vidit
et audivit ut supra de loco et tempore ut supra».[17]
Dal 1564
comincia la documentazione della Matrice di Racalmuto: battesimi e qualche atto
di matrimonio. Piuttosto rada
all’inizio, verso la fine del secolo s’infittisce. Le presenze importanti in
paese, o per un battesimo o per far da teste o da padrino o madrina, possono
dirsi tutte documentate.
Quanto ai
del Carretto, un Baldassare viene a Racalmuto, con la moglie, per fare da
compare e comare al figlio di un grosso personaggio: i Vuo. La solennità
dell’evento viene così segnata:
«Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 - Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina
di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu
l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Commare l'Ill. S.ora Donna Maria
del Carretto.»
Quattordici
anni prima, il 4 novembre 1579 si era fatto vivo per un’analoga circostanza don
Giuseppe del Carretto: la cerimonia riguarda il battesimo della figlia Porzia
del magnifico “Arthali magn. Thodisco”. Infatti, il documento recita: “I
padrini: ill.mo don Joseppi de lo Carretto et donna Anna de Carretto”.
Troppo
poco, come si vede.
Ebbe
ad attestarsi a Racalmuto, invece, il genero del conte Giovanni, il marito
della figlia illegittima Elisabetta.
La fosca storia del chierico Vella
«Le
controversie poi per la giurisdizione o esenzione ecclesiastica non erano
infrequenti.
«A
Racalmuto il chierico in minoribus
Jacopu Vella fu “infamato” della morte di un vassallo del Conte il quale lo
fece arrestare e volle procedere contro di lui, nonostante monitori e censure,
e per sottrarlo al vescovo lo fece prima portare nelle carceri di Palermo e poi
in quelle di Agrigento.
«“In
detta terra li preti e clerici non godono franchezza nixuna et per ordine del
conte non si da la franchezza della gabella et mali imposti et comprano come li
seculari denegandoli la franchezza.
«”In
detta terra, essendo mandati Vincenzo Carusio, sollicitaturi fiscali, e
Giuseppi Gatta commissario per prendere a notaro Oruntio Gualtieri, foro
detenuti dalli uffiziali temporali, carzerati per molti giorni tenendoli a lassari exequiri l’ordini contra detto
prosecuto”.
«Nella
stessa terra lungamente il conte contrastò con il vescovo e il capitolo per il
diritto di spoglio alla morte dell’arciprete Michele Romano.»
*
* *
Nei
registri della Matrice si hanno, tra l’altro, notizie sulla morte del detto
arciprete. Nel libro dei matrimoni del tempo si annota, ad esempio: «die 28
Julii X Ind. 1597. Incomensa lo conto delli inguaggiati dopo la morte del
arciprete don Michele Romano.»
Il benefizio di Sant’Agata
Al
Vescovo di Agrigento facevano dunque gola i beni dell’arciprete racalmutese.
Rimane
ancora l’eco di un suo maneggio sui beni di S. Agata.
Non si sa se nel 1596 sorgesse nel Beneficio di S.
Agata una qualche omonima chiesa. In uno
studio del 1908 [19], F. M.
Mirabella illustrava la figura di «Sebastiano Bagolino, Poeta latino ed erudito
del Sec. XVI». Vi si parla anche dei difficili rapporti del poeta ed il vescovo
di Agrigento Giovanni Horozco Covarrusias e Leyva di Toledo.
«Certo è
che - si legge a pag. 188 - della sua traduzione [fatta dallo spagnolo in
latino di alcune opere del vescovo] il Bagolino non si tenne adeguatamente
compensato. Aveagli il vescovo fatto l'onore di ammetterlo alla sua mensa;
aveva anche conferito a don Pietro Bagolino, fratello di lui, prima i beneficj
di Santa Lucia e di S. Margherita in Castronovo, di S. Agata in Racalmuto, di S. Maria Maddalena in Naro, di S.
Leonardo fuori le mura di Girgenti, e poi quello di S. Pietro nella stessa
Girgenti col reddito annuo di 250 ducati. Ma questo al poeta non pareva un
guiderdone condegno.»
IL MERO E MISTO IMPERIO
Nel 1582,
nel testamento di don Girolamo del Carretto primo conte di Racalmuto, il
lascito a Don Giovanni quarto comprende, senza ombra di equivoco, la contea di
Racalmuto con il «..mero et misto imperio
dicti comitatus ac titulo dicti comitatus aquisito per dictum dom. testatorem ...».
Ma viste le
successive contese, giocò forse il fatto che nel più importante privilegio di
casa del Carretto - quello della sua erezione a contea con firma autografa di
Filippo II di Spagna - latita un esplicito richiamo al mero e misto imperio,
anche se non mancano le locuzioni equipollenti. [20]
Tra le
varie clausole scegliamo questa (che traduciamo dal latino):
«Concesse e concede a Don Giovanni del
Carretto, suo figlio primogenito, successore indubitato in detto stato, terra,
titolo, feudi .. con le modalità specificate .. il predetto stato e contea di
Racalmuto .. con tutti i suoi singoli feudi, gabelle, mercati, terre, terraggi, terraggioli, censi,
servitù, giurisdizioni civile e
criminale, mero e misto imperio, con il
titolo e la dignità di conte.»
Concetto
che ritorna subito dopo: « Del pari,
doniamo tutti ed integralmente i beni stabili e mobili, allodiali e
burgensatici, redditi, diritti, censi e tutti gli altri diritti, .. nonché il
detto stato di Racalmuto con tutti i singoli relativi feudi, gabelle, mercati,
terre, terraggi feudali, giurisdizioni civile e criminale, nonché il “mero e
misto imperio” con la dignità ed il titolo di conte...».
Nel Privilegium concessionis Comitatus Racalmuti
in personam Don Hieronimi de Carretto[21], dopo la
buriana dell’esecuzione per alto tradimento dell’ultimo Giovanni del Carretto,
il “mero e misto imperio” non si dubita neppure essere prerogativa della Contea
di Racalmuto.
Il diploma
regio è chiaro: «...il feudo, lo stato ed
il titolo confiscati, doniamo, rimettiamo, con la nostra indulgenza, ed a te
don Girolamo del Carretto e Branciforti doniamo di nuovo e concediamo,
investendotene, il feudo e la contea di Racalmuto, con la sua terra, i suoi
dominî, il vassallaggio e con tutti i suoi singoli feudi e territori, nonché la
baronia come si dice di Gibillini e Fico, entro i loro confini, con le case, i
mulini, i corsi d’acqua, i boschi, e con
tutte le altre singole cose della detta Contea e Baronia e relative pertinenze,
comunque e dovunque inerenti, unitamente all’integrità dello stato con ogni sua
causa e modo, nonché alla giurisdizione, il mero e misto imperio, la ’baglîa’, le gabelle, i censi e tutti gli
universi singoli diritti a detta Contea e Baronia spettanti, con tutte le
prerogative, dignità, preminenze e clausole come tuo padre e tuo nonno ed i
tuoi antecessori legittimamente avevano avuto, tenuto e posseduto ... »
Resta
ancora poco chiaro come venissero corrisposti i pesi feudali ai del Carretto,
se in natura (come i termini “terraggio” e “terraggiolo” fanno pensare) o in
contanti (come tanti atti dell’epoca lasciano intendere) o in forma mista.
Non vi
erano solo i diritti feudali veri e propri, ma anche i beni allodiali della
famiglia del Carretto, per la gran parte in mano ai rami cadetti (che erano
soliti dimorare ad Agrigento) a motivo forse del dispersivo gioco del
‘paraggio’.
Lo stato di
Racalmuto
Le terre
dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano per
tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia mostra
intanto, come si è visto, la contrada
della Menta (sempre dei del Carretto) che talora viene denominata ‘feudo’. Sono
dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come terre allodiali.
Lo stato di
Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni
(come ai giorni nostri) e da quel
versante nord va verso ponente: coinvolge Santa
Margaritella e Santa Maria di Gesù,
arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile
piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo;
annette una parte del Serrone (un
altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio,
Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[22] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare
circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro
Finaiti.
Menta,
Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei del Carretto,
ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti
notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei del
Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta
o della Nuci), tal altra no, e comunque, come si è visto per l’indebitamento
granario di don Federico del Carretto, restano talora attratte nell’intreccio
delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza
dei possedimenti di Garamoli si coglie da questa pagina della ‘Fabrica’[23] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli
doveva essere contornata da un bosco
fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari.
La famiglia
Napoli, quella degli Alcello e l’altra dei Gueli fornivano maestranze
specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna” di enormi proporzione. Si
trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per trarli fuori provvede la
maestranza ma soprattutto un nugolo di
nerboruti facchini che vengono pagati in modo inconsueto: con salsicce e vino.
I beni ecclesiastici di Racalmuto.
Il
singolare vescovo di Agrigento Horozco ebbe modo d’interessarsi delle finanze
ecclesiastiche concernenti Racalmuto nella seconda “Relatio ad limina” della
diocesi di Agrigento, datata 1599 (la prima è del 14 settembre, VIII^ ind. 1599[24]). Il
vescovo dichiarava di essere affetto dalla sciatica «per la quale gli fù
bisogno andare alli bagni » e pertanto non «hà possuto venire personalmente a
baciar i piedi di Nostro Signore e visitare li santi Apostoli». Non era più suo
fiduciario l’arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio. Al suo posto aveva
prescelto come suo mandatario per la visita tridentina al Papa Giovanni Chimia.
Lo stato di infermità del vescovo veniva certificato da un appartenente
all’odiata famiglia dei del Carretto, appunto da quel don Cesare del Carretto,
preso di mira dall’Horozco nel libello prima cennato. Non si poteva evitare: il
17 di agosto 1598 il potente (e prepotente) don Cesare era “juratus civitatis
Agrigenti” [cfr. Relatio cit. f.15].
Dalla
documentazione vaticana risulta che la “Ecclesia Cathedralis Agrigentina” era
in grado di “ingabellare” 9.500 onze di
rendita diocesana. In via diretta o indiretta, Racalmuto è così chiamato in
causa:
· al 15°
posto risulta censita la “prebenda di Racalmuto che vale di Mensa onze 130”;
· tra i
“Beneficij semplici de Mensa”, al n.° 3 viene rubricata “la prebenda Teologale
[che] si dà al Teologo quale eligino il Vescovo ed il Capitulo: è titulo di Sta
Agata [che sappiamo di Racalmuto,
come sappiamo che talora il vescovo la utilizzava non per remunerare teologi ma
il fratello di un letterato, per come abbiamo sopra visto, n.d.r]: [vale]
onze 100;
· l’arcipretura
di Racalmuto è segnata al n° 12 e “vale de mensa onze 250”.
Tirando le
somme, i racalmutesi a fine secolo XV erano chiamati per decime religiose e
tasse episcopali a qualcosa come onze 480, senza naturalmente includervi tutti
gli oneri di battesimo, matrimonio morte e simili, da conteggiare a parte. Era
un gravame misurabile in tarì 3 e 5 grana annui pro-capite.
Ma, allora
- come del resto anche oggi - le pubbliche autorità, civili e religiose, non
amavano riscuotere direttamente le loro tasse: le davano in appalto (in
gabella, recita il documento) e gli aggi esattoriali Dio solo sa a quanto
ascendessero. Pensare ad un 25% d’aggravio è forse da ottimisti.
Giurati a Racalmuto a fine ’500
I giurati
di Racalmuto allo spirare del secolo XVI sono:
1. Nicolò
Macaluso: ha 45 anni; abita nel centro del paese, al 159° fuoco del quartiere
di S. Giuliano; la moglie si chiama Francesca ed è coadiuvata nei servizi di
casa da Dora una “citella di casa”; non ha figli che coabitano con lui;
2. Giuseppe
Cacciatore: ha 42 anni e viene fregiato con il titolo di “magnifico”; abita al
quartiere Fontana al 226° fuoco; la moglie si chiama Giovannella: convivono con
lui quattro figli: Giuseppe di anni 11 e le femminucce Caterina, Franceschella
e Contessella;
3. Giuseppe
Vilardo: ha 30 anni ed anche lui viene fregiato con il titolo di “magnifico”;
abita al quartiere Fontana al 76° fuoco; la moglie si chiama Giovannella:
convivono con lui sei figli: Giuseppe di anni 9 e le femminucce Franceschella, Costanza, Innocenza, Angela e
Fania [Epifania];
4. il notaio
Giuseppe Sauro e Grillo: ha solo 25 anni ed è sposato con Antonella: non ha
figli; professionalmente si affermerà molto; frattanto abita al quartiere di S.
Giuliano al 167° fuoco; si era sposato a
Racalmuto il 20 settembre 1592 appunto con
Antonella Magaluso e le nozze erano state benedette da don Francesco
Nicastro: compari, il sac. don Paolino Paladino e il maggiorente Giovan
Francesco d’Amella. Abbiamo l’impressione che il Sauro e Grillo non fosse
racalmutese: il matrimonio con una locale gli poteva consentire di installarsi
nel feudo dei del Carretto per una esplosiva carriera ed una fortunata
professione notarile.
Sono
chiamati a fungere da delegati per il Rivelo:
per il principale e più popoloso quartiere di Santa
Margaritella:
· Martino di
Messina: ha 35 anni circa; abita al quartiere Fontana al 29° fuoco; la moglie
si chiama Catherinella ed ha un figlio di otto anni;
· Vincenzo di
Amella Pridicaturi: ha 40 anni; abita al quartiere Santa Margaritella al 369°
fuoco; la moglie si chiama Biatricella; ha tre figli maschi: Giuliano di anni
9, Giuseppe di 6 e Diego di un anno, ed una femminuccia, Jurla [Gerlanda];
per il
quartiere di San Giuliano:
· Giovanni
Antonio Sferrazza: secondo noi risiedeva al quartiere Monte di cui, come detto,
non abbiamo il quinterno di dati demografici;
e per il quartiere della Fontana:
· Giovan Cola
Capoblanco;
· Natale
Castrogiovanni;
· Pietro
Bellomo.
Di questi
tre personaggi non abbiamo notizie certe: dovrebbero tutti e tre abitare al
quartiere Monte.
Chiese, quartieri e facoltà nel rivelo del 1593
I ponderosi
volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati,
se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo
quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A
quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi
cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al
Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade
tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di
sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale
Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza).
In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S.
Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di
nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di
nord-ovest.
All’interno
vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per
l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in
effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma
una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che
talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene
se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella
chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava
tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
Località e Rioni
La
suddivisione amministrativa tra i deputati era in quattro quartieri: S.
Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte. Nelle dichiarazione dei privati
(rivelanti) e negli atti notarili si faceva invece ricorso ad una ripartizione
topografica alquanto diversa che faceva sostanzialmente capo alle varie chiese
e qualche volta alle particolarità di alcuni luoghi. Non si trattava di veri e
propri rioni, ma il concetto vi rassomiglia molto. Abbiamo, così:
· il Carmine;
· S.
Margaritella;
· S.
Giuliano;
· S.
Leonardo;
· la Fontana;
· il Castello
(o Castrum);
· S.
Francesco;
· S. Nicola;
· la Cava;
· Santa
Maria;
· li Fossi;
· San
Gregorio;
· S.Antonio;
· la
Nunciata;
· il Monte
(lu Munti);
· lu Spitali
o S. Sebastiano o S. Bastianu;
· la Piazza
(o Platea);
· Santa
Rosalia;
· Sant’Agata;
· li
Bottighelle;
· Zagarano..
Molte di
queste località si estendevano in due e forse, come nel caso di Santa Rosalia,
in tutti e quattro i quartieri.
Centro
topografico del paese era Santa Rosalia - difficilmente collocabile con estrema
decisione, ma certamente - come detto -
non lontano dall’asse Itria-Collegio - che era quartiere ove stavano
botteghe e le abitazioni di alcuni ottimati locali (il padre di Marc’Antonio
Alaimo, il dott. Pietro; i Macaluso; i Taibi; i Lo Brutto; i Sanguineo; gli
Afflitto, i Monteleone; i Cacciatore; i Catalano e via dicendo). Ma il rione
più esclusivo sembra quello di S.Agata (gravitante sull’attuale via Rapisardi):
vi abitavano i potenti Piamontesi ed i nobili Ugo.
Molti
militari stavano invece al Monte. Non molte erano le case ‘solerate’ - quelle
dei benestanti - ma non rare: in cortili a grosso affollamento si ammassavano
attorno le case terrane (di norma un
solo locale) ove dimoravano i poveri.
Le
maestranze riuscivano a farsi soggiogare dalle potenti confraternite di
appartenenza delle discrete abitazioni. Le botteghe (c.d. Apoteghe) erano in mano alle
stesse confraternite e venivano affittate con magniloquenti atti notarili ai
propri confratelli.
Il castello
- rimesso a nuovo a metà del XV secolo dai del Carretto, come abbiamo sopra
visto - era in piena efficienza: non vi stavano più i conti, ma vi erano alcuni
loro stretti parenti che gestivano la cosa pubblica come avvenne sotto i Russo
il marito della figlia spuria di Giovanni del Carretto.
Il Carmine
era piuttosto deserto: del tutto fuori dell’abitato si ergeva il Convento sotto
l’egida dei del Carretto e con un valido priore padre Paolo Fanara. C’era anche
un altro carmelitano sacerdote: padre Roberto Costa. Ben sei coadiutori
semplici frati rendevano fertile la tenuta annessa. Costoro si chiamavano (e
dal cognome sembra che fossero tutti racalmutesi): Fra Salvatore Riccio; Fra
Francesco Sferrazza; fra Angelo Casuccio; fra Geremia Russo; fra Giuseppe
Ragusa e fra Zaccaria Riccio. Le rade case intorno erano ripartite tra il
quartiere di S. Margaritella e quello del Monte.
Rientravano
totalmente nel quartiere Monte i rioni dello Spitali (l’attuale S. Giovanni di
Dio), di S. Antonio, Zagarano e quello strettamente confinante con la chiesa.
Vi confluivano parzialmente quelli di S. Rosalia, della Nunciata e di San
Gregorio.
Erano
annessi amministrativamente al quartiere
della Fontana le località di S. Agata, della Fontana vera e proprio, del
Castello, di San Francesco, di S. Nicola, di Santa Maria, delle Fosse e qualche
frangia di Santa Rosalia. Qualche abitante di San Gregorio viene incluso alla
Fontana.
Il nome
della Nunciata appare a cavallo tra Monte e
Fontana.
Se nel 1540
quella dell’Annunciata era una ‘ecclesiola’ e Sant’Antonio la chiesa
principale; dopo mezzo secolo le parti sembrano invertite. L’Annunciata non ha
la grandezza dell’attuale Matrice (che conseguirà nella seconda metà del
Seicento) ma è già abbastanza capiente con una ‘cupolona’, come recita un atto
notarile del tempo.
Fino al
1608 S. Antonio era ancora operante ma il suo ruolo era di molto scemato.
Persisteva comunque il toponimo che, come abbiamo detto, indicava una zona
gravitante sul quartiere del Monte.
Lo Spitale
era operante nel 1593 quando ancora non era stato affidato ai Fatebenefratelli.
Tale affidamento avvenne un secolo dopo nel 1693[25] per opera
dell’ultimo Girolamo del Carretto. Ma godeva già di rendite. Tale Giovanna
Vigni aveva soggiogato all’Ospedale due case per tarì sei annui con atto del
notaio Gio: Vito d’Amella del 10 settembre 1585[26].
Giuseppe
Gulpi gli aveva costituito un’onza e 15 tarì di rendita sopra 9 salme di
terra con vigne, stanze ed alberi nel
fego della Menta con due atti soggiogatori: uno del notaio Gacomo Damiano di
Racalmuto in data 24 ottobre 1551 e l’altro a rogito del notaio Nicolò
Monteleone in data 29 dicembre 1582. [27]
Un altro
atto di dotazione dello Ospedale risale al 10 gennaio 1558, sempre a gli atti
del notaio Giacomo Damiano. Risultavano
incisi quasi due secoli dopo “Santo
Cristofalo, Vincenzo e Marc’Antonio di Giglia e Isidoro Mulé Paruzzo”.
Nel 1693
ecco com’era descritto il vetusto ospedale:
«Nella
terra di Racalmuto vi è un Spedale sotto titolo di S: Sebastiano che
dall’antichità di esso non si ha certezza della fondazione e perciò li Prelati
... [ed i del Carretto] have dato la cura ed amministrazione di detto Spedale,
e sue rendite alli Deputati di tutte le Chiese di detta terra, li quali, benché
s’havessero impiegato à tutto potere all’augumento di Esso, e suo servizio, per
le molte occupazioni, e per la poco prattica con esse somiglianti, l’Ammalati
patiscono della loro salute in tanto detrimento del publico di essa terra.»[28]
L’ospedale
era peraltro munito di “chiesa con giogali ed arnesi”.
Qualche immigrato di spicco
Capitava
che dalle vicinanze venisse qualche persona di spicco per trovare moglie a
Racalmuto. Ebbero così inizio famiglie oggi fra le più significative del paese.
Dal libro dei matrimoni della Matrice estraiamo qualche esempio:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli)
“7 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio
di Vito et Angila Carlino cum
Margaritella figlio di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di
Mussumeli, servatis servandis et facti
li tri denunciatione inter missarum solenia
et observato l'ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando
inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa
celebrata per me presti Francesco
Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito
D'Amella et di multa quantità di personj”.
BUSCEMI (provenienza: Agrigento)
“Die 6 di Jongno 1593 - Petro BUXEMI di la
gitati di Jorgenti cum Margaritella
figlia di Jacubo di Graci, servatis servandis
.... contraessiro matrimonio pp.ce e foro benediti per me don Paolino Paladino, presento presbiter
Francesco di Nicastro, don Michele Romano e multa quantità di agenti”.
SCHILLACI (provenienza: Cerami)
“Die 9 februarij 1591 - Vincenzo SCHILLACI di
la terra di Cirami cum Angila figlia di Calogiaro Savuso, servatis servandis
...., contrassiso matrimonio pp.ce e foro beneditti per don Paolino Paladino, presenti Paulino
Buscarino et Antonino di Mole' et multa quantità di genti”.
SCHILLACI (provenienza: Sutera)
“Die 21 di Jongno 1593 - Scipiuni Jngrao di
li Grutti cum Joanedda SCYLACHI di la terra di Sutera, servatis servandis e
fatte le tri denunciationi inter missarum solemnia, non si trovando inpedimento alcono, contra essiro
matrimonio pp.ce e foro beneditti per me don Paolino Paladino, presenti clerico
Jacubo di Avedda e multa quantità d'agenti”.
RIZZO (provenienza: Scicli)
“Die 30
Januarii 1600 - Antonino RICZO di la terra di Xicli cum Diana figlia di lu q.dam Minicu et
Margarita Muraturi, servatis servandis et facti li tri denunciationi inter
missarum solemniarum et observato l'ordini sinodali seu concilio tridentino,
non si trovando impedimento alcuno, contrassiro matrimonio publice et in facie
ecclesie foro benedicti per don Leonardo Spalletta, p.nti Filippo di Graci e
Francesco Furesta”.
BONGIORNO (provenienza: Gangi)
“Die 6 di ferbaro 1583 - Vicenso BONJORNO di
Ganci con Contissa figlia di Petro e Joannella di Antonuczo Caldararo di Agro', a litre (lettera) di monsignore
illustrissimo e reverendissimo di
Jurgenti, servatis servandis e facte li tre denunciaczioni, la prima a li 9 la
2a a li 16 e la tercza a li 20 di Jnaro
inter missarum solemnia, non si trovando
inpedimento alcono contraessiro matrimonio pp.ce in facie ecclesie e
foru benediti jn la missa celebrata per me don Paolino Paladino, presenti lu
magnifico Jacubo Piyamontisi, lu
magnifico Cola Montiliuni, lu magnifico Marino Catalano e multa
quantitati di agenti”
PIAZZA (provenienza: Mussomeli)
“Die 8 Januarii 1594 - Minico di CHIACZA di la terra di
Musumeli con Josepa di Vinciguerra, servatis servandis ..., contra essiro
matrimonio pp.ce et foro benediti per me don
Paulino Paladino, p.nti Mastro Francesco Sachineo, clerico Jacubo
d'Aveda e multa quantità di agenti”.
LO JACONO (provenienza: Aidone)
“Die XVo
Julii Xe ind.is 1589 - Mastro Masi La Iacono della terra di Daiduni cum
Lucretia figlia di Antonj et Hiaronima di Guarino, servatis servandis ....
contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie e foro beneditti per presbiter
Leonardo Spalletta, p.nti Ioanni di
Vigna et Hieronimo Piruchio et multa
quantità di genti”.
Uomini e cose da segnalare
A Racalmuto
sono stanziati come soldati di professione:
1. Salvo
(de) Mg. Ruggero, soldato anni 45, che abita al Monte;
2. Morriali
Antonino di Federico, soldato di cavallo, di anni 75, pure del quartiere Monte;
3. Buxemi
Currau anni 35, soldato, abitante anche lui al Monte;
4. Barberi
Petro anni 50; soldato cavallo, sempre del quartiere Monte;
5. Matina
(la) Gio, soldato di anni 70, residente nello stesso quartiere;
6. Morriali
Federico anni 40; soldato, vicino di casa;
7. Sferrazza
Mariano soldato di anni 22, che abita nel quartiere di S. Antonio.
In paese, a
fine del secolo XVI, non è del tutto ignota la schiavitù. Il magnifico Giacomo Piamontisi di anni 44 e
sua moglie Beatricella tengono una “scava” nella loro abitazione di S. Agata.
La loro
vicina Antonella, vedova del quondam Leonardo La Licata, ricchissimo per i suoi
tempi, emula il singolare rapporto e tiene “Cristina sua serva seu scava” a
farle compagnia.
Del resto a
quei tempi anche l’altezzosa donna Aldonza del Carretto manteneva una schiava
addirittura dentro il convento che l’ospitava.
Sono invece
ben 17 le famiglie che possono permettersi una “citella”, una serva:
1.
AFFLITTO (D') CARLO MAGNIFICO
2.
AGRO'(DI) PETRO
3.
ALAIMO (DI) LU M.co
PETRO
4.
BALDUNI M.co FRANCESCO
5.
CATHALANO MICHELI
6.
CHICCARANO ANTONINO
7.
GUELI (DI) JOSEPPI
8.
GUELI (DE) GIUSEPPE DI
JORLANDO DI ANNI 29
9.
LA LOMIA JOSEPPI
10.
MACALUSO NICOLAO
11.
MACALUSO PETRO
12.
MONTILIUNI Not. Mco
COLA
13.
PAXUTA (LA) MATTHEO
14.
PROMONTORO BALDASSARE
LO S.r
15.
SALERNO JO:
16.
TODISCO Sp. ARTALI
17.TODISCO
Sra SALVAGIA
1.
Sul finire del secolo piuttosto diffuse sono le
maestranze: abbiamo contato 52 mastri
(il 4,11% dei fuochi). Non sono
tantissimi ma rappresentano sempre una discreta forza sociale, anche se “li
jurnatara” e li “burgisi” (per la gran parte contadini poveri) costituiscono la
massa della popolazione, a sfondo quindi proletario e spesso miserabile.
Cinquantadue sono i “mastri”.
Fine di Giovanni IV del Carretto
Giovanni IV
del Carretto fu trucidato in Palermo nel 1608: tanti diaristi annotarono quel
fosco delitto.
La cronaca,
fra l’altro, la troviamo nei Diari della Città di Palermo, pubblicati nel 1869
da Gioacchino di Marzo. [29] Eccola:
«A 5 di
maggio 1608, Lunedì sera, a ora una di notte. In questa città di
Palermo, nella strada Macheda, alla calata a mano dritta dove si va alli
Ferrari, successi uno orrendo caso, che venendo in cocchio lu ill.e conte di
Racalmuto, chiamato D. Ioanni del Carretto, insemi con un altro gentilomo
nominato D. Ioanni Bonaiuto (quali sempre era solito di andare con lui), come
fu alla detta strata, ci accostorno dui omini, li quali non si conoscêro, allo palafango [parafango]di detto; e ci tirarono
dui scopettonate nel petto a detto conti, chi a mala pena potti invocare il
nome di Jesù, con gran spavento di quello che era con detto conti, e con gran
maraviglia di tutti li agenti; e finìo.
« A 7 detto, mercori, ad uri 22. Si gittao un bando
arduissimo della morti del ditto conti di Racalmuto: chi cui sapissi o
rivilassi cui avissi occiso a detto conti, S.E. li donava scuti cincocento,
dudici spatati, quattro testi, sei destinati [nota del di Marzo: .. non è
agevole intendere il significato di spatati e testi, che davansi
in premio a chi rivelasse.
«De’ sei destinati però (qual voce in siciliano
vale esuli, relegati) intendo facilmente, che accordavasi facoltà
al denunziante di ottenere per sei di loro la grazia del ritorno], purché non
sia lu principali ci avissi fatto detto
delitto, et anco la grazia di S. M.».
Ci dispiace
per il nostro Tinebra Martorana: è del tutto destituita di fondamento la
notizia che riporta a pag. 123 e cioè: «..il conte di Racalmuto tornava al suo
castello, seguendo con la sua carrozza la via che attraversa la contrada
Ferraro, sita nel nostro territorio ed a quattro chilometri dal Comune.»
Nello
stesso Diario, pubblicato dal di Marzo (pag. 30-31), leggesi che successivamente:
«A 20
ottobre 1608. Fu martoriato il sig. Baruni dello Summatino. Lo primo iorno
happi quattro tratti di corda, e lo secundo tre, ed il terzo dui, e li sùccari
[Sùccari in sic. canape o fune, con cui si collava, ed era proprio per
uso della tortura. Colla ] soliti; e tinni [intendi che tenne forte
a non confessare]: avendo stato carcerato del mese di agusto passato.
«E fu perché il giorno che sindi andâli galeri di Franza, andando Scagliuni a vidiri cui
era supra detti galeri, trovao uno calabrisi quali era di Paula, e travovauci
certi faldetti che avia arrubati allo Casali.
«E pigliandolo, ci disse, che non ci facissero nenti,
ché isso volìa mettiri in chiaro uno grandissimo caso.
«E cussì Scagliuni ci lo promisi; et isso dissi, che
isso con il sig. D. Petro Migliazzo aviano tirato li scupittunati al conti di Racalmuto,
essendoci ancora in loro compagnia alli
cantoneri il sig. D. Petro e il sig. D. Vincenzo Settimo; e che il detto di
Migliazzo avia tirato il primo; e che il baroni del Summatino ci avea promesso
onzi cento per fari detto caso. E chiamao ancora diversi personi».
In
una pubblicazione dell’Archivio di Stato di Palermo [30]
vengono fornite notizie sulla dovizia di documenti relativi al processo del
presunto mandante dell’omicidio del conte Giovanni del Carretto. Sono documenti
che si trovano nell’ «Archivo General»
di Simancas.
In quegli
Archivi che un tempo erano a Simancas v’è dunque il seguito della storia.
Sembrerebbe un delitto in famiglia: gli Isfar sono poi gli eredi di quel genero
di Giovanni I del Carretto che a dire del Bresc lo avrebbe depredato dei feudi
racalmutesi; a distanza di due secoli un altro Isfar avrebbe trucidato Giovanni
IV del Carretto, evidentemente per interessi.
Ma è storia
di famiglia che a noi non importa gran che. E’ in definitiva storia della
nobiltà palermitana, verso cui nutriamo altrettanta indifferenza.
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi
alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato
sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609,
l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di
Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le
annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al
saggio allora corrente del 7% potevano fruttare
2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa
tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però
che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini
(Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché
l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti
pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile
tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai
patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o
Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta
con il debito rispetto della verità, senza spumeggiamenti anticlericali.
In una memoria del 1738 [31], quando lo
stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la
vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene
inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano
il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio,
il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia
che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto
si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo.
Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da
quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel
1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono
da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La
questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta
misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi
fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che
il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i
racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e
Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce
il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il
1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di
Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo
II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del
convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non
interrelazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno
all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della
pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei
racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli
agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto.
Le
note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale
lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego
La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce
fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi
del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di
finire in un convento che già nel 1667 ([32]) si
tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile.
Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto
di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più
pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo
si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore
inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri
dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa
nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa
consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo
che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al
1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina
dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta
nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe
potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([33]).
Lo
si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un
martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i
vagabondaggi ed i ladroneschi del monaco agostiniano: scrive da cane il frate
della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico
frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E
così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non -
quella locuzione matranghesca.
Si
deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate
di colpe dello spirito (bestemmiatore
ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego ..
eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie
svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli
ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in
abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di
questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle
notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito
all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove
malaccortamente il presule si era
sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni»
risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del
capoluogo agrigentino. ([34]) Da un
contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la
figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per
l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio
gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello
messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue
ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare
questo illuminante passo: «Nella
Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono
ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e
chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e
tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare
con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e
disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo
conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più
del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([35]).
Alla
luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo
Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo
scrittore.
Un
contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di
Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo
talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era
riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello
fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia
quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a
ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle
“sacchette” “un libro scritto di sua mano
con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per
l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto
Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro
di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto
comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli
specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna.
«Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una
polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali,
ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del
processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus
delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il
Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse
stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra
Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di
passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al
secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla
macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S.
Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del
convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto
appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al
terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta
scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora,
essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in
Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p.
Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al
caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La
Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne
dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa
di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in
briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di
santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio
di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita.
I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di
pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e
proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza
indugio giustiziati sul posto. ([36])
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai
primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo
scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo.
Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un
brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana)
che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis,
animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus:
corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea
Communi», come a dire che il “povero
disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato
alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul
patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo
corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in
Matrice, nella fossa comune.” ([37])
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia,
non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché
datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A
prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del
monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al
Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna
per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione,
diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I
crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi
ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri
come meglio aggrada, resta sempre di
censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per
esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di
quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però,
solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla
sfrenata, libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 -
convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben
riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di
coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso,
radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo
scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo
allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale
dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca,
ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per
sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto
Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte
d’Albadalista, e darsi in pasto
all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [38]
E
la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si
dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata.
Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è
blasfemo.
La
mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una
terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai
frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo,
senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse
come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace
concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo.
Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando
indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un
giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577;
nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da
presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico,
ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi”
come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia
questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era
invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego
La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il
Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a
quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso
giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.°
[Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug.
[giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don
Paolino d’Asaro] p./ni [patrini]
iac.° [
illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna]
di Ger.do [Gerlando] di
Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto
nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della
parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza
dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego -
di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso
che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina
ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e
prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore
di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo
Sciascia. A noi risulta, invece, - come
si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente
assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle
Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi,
è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a
Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo
una polisa con il diavolo per
risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla
nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente
travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
* * *
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni,
Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi
figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4
luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie
“governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo
preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario
di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le
imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla
nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche
qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara
al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel
sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto
acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come
quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad
un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti,
vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna
della Catena» (le pretenziose note [39] di coloro
che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto,
quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai
gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile -
resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era
stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto
sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito
destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per
ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla
Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.°
d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del
Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro
tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso
a soli venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che
sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese,
eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice
Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come
unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano
principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito,
ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel
grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le
dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue
preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un
qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva
vedova.
I tempi dell’interregno di
Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane
conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per
compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo
precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di
api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice
dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che
invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli
incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. [40] La curia
invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di
Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta
quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe,
stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte
malandrinerie, dall’altro c’è la
piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto
benessere in diffusi strati della popolazione
racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura
l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci
ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello.
Il 3 settembre 1622 [41] altra
missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del
Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di
donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile -
contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et
tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti
di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta
quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana,
lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati,
derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali
grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro
dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del
fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non
ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di
un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in
tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del
Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del
1621 sotto la data del primo settembre 1621 [42] ). Ma non
è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche
se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto seguente il
bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto
espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del
Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito
si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di
servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure.
Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni
netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare
al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello a Racalmuto.
Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal
primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile
invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale
Doria.
In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in
Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe
nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il
canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a
finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto
manoscritto leggesi che «fui il 13
ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di
leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro
si parla di antiche iscrizioni e di
chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa
"quella di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato
dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di
costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive
lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico
sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo,
comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale
nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si
legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98,
99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica
ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia).
Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta
[aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si
poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e
portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata
alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro
costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa
ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia
sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608,
collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi
dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa
di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno
dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione
dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un
rudere (ampiamente fotografato) nei
pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che
respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di
via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso
Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato
dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato
altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che
non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere
venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel
recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di
culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però,
molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta
ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna:
tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo
sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a
Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo -
dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non
avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del
1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le
reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa
Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la
tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si
fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata
dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e
Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente
vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte
Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata
Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non
aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente
ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre
Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre
Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno
giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene
“quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et
est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è
contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che
nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia,
graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi
figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa
esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed
opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta
festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede
incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor
Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire
da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto
feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata
contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che
testimonia la sua presenza a Racalmuto.
Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al
diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i
documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota
comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna
Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra
l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ...
concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae
Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7
maggio 1636. [43]
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a
Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi:
Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il
battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II
ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è
già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra
a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva
un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero
scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha
peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo
porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un
colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la
squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando
scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti
era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una
congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere
si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria
Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia.
Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il
conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e
protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più
grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto
erano dediti.» [44]
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a
quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: [45]
«Rappresentava
il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome
D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di
Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio
de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe
di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo
straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di
Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i
Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re
proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di
tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il
conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero
all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia
della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce
tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore
importanza e che con più simulazione
aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo
confidente, i dubbi promossi per la
successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto
cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che
alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima
destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale,
che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima
qualità, fra le quali il conte di
RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello
del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe
Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de'
principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e
molti altri.
[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre
SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il
trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con
un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era
allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina,
di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai
congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed
il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12
di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di
Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo
però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir
nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle
mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il
Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed
ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente
avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che
di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una
sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato
l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
Né
meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza
del Pesce, il quale pria di morire
scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor
maggiore la discussione del processo del
conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che
fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani
nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il
segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi
intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle
accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente
contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de'
parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi
servirono, per così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni
V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che
Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina
.[46] Non credo
che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo,
dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni
del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò
che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in
caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del
regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la
notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli
Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato
privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e
nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da
testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino
della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo
de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di
Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma
infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi
passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri,
per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato
castigo.» [v. pag. 367][47]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma
Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei
vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento
ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini
di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che
possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà
il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit
illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui
duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et
naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis
Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.
Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può.
Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia
per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo
Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae
13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol.
Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti
Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in
Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato
montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La
notte, preso da raptus estraeva le
casse, le apriva, e ci si curcava sopra.
Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di
Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava
l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente
ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in
Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte
furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si
trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13
januar. [1632].” Tanto per chi avrà
voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei
diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632
(A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito
della faccenda, così ce la racconta il
Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte
le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso
denaro (e già perché anche allora Roma era ...
Roma ladrona). Fatto sta che
immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che
Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum
rediere locum omnia.
Ma
chi erano i domini terrae Racalmuti?
Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della
copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di
Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo
tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono
in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere
l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera
Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus
Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae
terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus
Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae
terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente
congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque
non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria,
un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali: ([48])
Il Viceré comunica ai Giurati delle
terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO,
Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le
istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere
viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale
1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si
legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni,
Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi
riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus
etc.
Locumtenens
et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis
salutem.
Siamo
stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della
[contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè
fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un
tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il
negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà
di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra
ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi
die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni
fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli
borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di
Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per
ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi
futuri e per il governo delli seminati e terre
et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del
soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et
haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli
feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che
detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di
denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in
caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di
formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse
habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò
faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno
cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [[49]] et che
per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi
dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o
terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno
esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino
loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi
che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare
quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il
soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo
suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene
inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato
il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio
a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e
senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et
massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et
quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la
diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto
benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose
premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la
gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8
inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus
locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più
commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa
Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero
nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un
piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo?
Per avere alleggerite le onnivore tasse.
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