Introduzione
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi da questa sposare - lui
vecchio e prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di
Finale e di Savona al sorgere del turbolento secolo XIII. Forse davvero
Costanza Chiaramonte, figlia primogenita dell’arrampante cadetto Federico II
Chiaramonte, era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia
del pruriginoso Inveges ci ha propinato nella sua Cartagine Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla
nascita di un ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non
tanto la baronia di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno
fertili lembi di terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote
come beni “burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo
siculo e mezzo ligure. Il solito Inveges
lo attesta: ma era un falsario come il grande storico Illuminato Peri
ampiamente dimostra.
Di
questi oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di
certo abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’Novanta di
questo secolo ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato di
Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro di quel
processo d’investitura sono talmente trasparenti e svelano in modo così
esplicito la voglia di accreditare titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che
resta particolarmente ostico travalicare
i limiti di una fioca credibilità verso quel vantare ascendenze
altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto.
Matteo del Carretto era un rapace esattore delle imposte dei Martino e costoro
erano i noti avventurieri dell’ “avara povertà di Catalogna” che piombarono
sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIII secolo.
A
noi - racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe
Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo
la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta
ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui
riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan
dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo -
disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a
giuste nozze per un inesistente ius
primae noctis; addio servi fedifraghi strumenti di uxoricidi a comando di
principesche padrone dalle propensioni all’adulterio irridente con i propri
giovani stallieri; addio frati omicidi; addio preti in “alumbramiento”; addio terraggi e terraggioli vessatori; addio secrete ove innumeri villici sparivano
e morivano come cani. Addio storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto
credere come verità inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un
quadro - ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora
feudalmente complesso - affiora con tasselli variamente policromi a
testimoniare una vita a Racalmuto sotto il dominio dei baroni del Carretto che
verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il
vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di
aver riconosciuto titolo di marchesato. E proprio codesto titolo avevano
fasullamente in esordio contrabbandato.
Certo
se Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare
orgoglio per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile
figlia dei del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via
ogni briciola di credibilità di una tale ingenua farneticazione.
E quel che si scrive su data e struttura del
Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già,
carta canta e villan dorme!
PERCHE' UNA
STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in
un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo
Sciascia ([1]) su tutta la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è
flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse una sola
volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val
di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella
prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' ....
grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi
profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un
eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile',
nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di
Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte
accresciute angherie che ogni nuova angheria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere
un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e
rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle
araldiche traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo
ugualmente a scrivere sui del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo
rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio
segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo
rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce
nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare
sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato
dagli eruditi locali con topiche, errori, guazzabugli: correggerli alla luce
dei documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo.
Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad
altri il gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando
provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia,
uno dei sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui del Carretto
di Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi
del Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le
parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a
vicende inventate o pasticciate.
PARTE PRIMA
RAPIDA
STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL
CARRETTO
Dalle
brume dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti,
l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud
est e sud ovest racalmutese.
Verso
il 13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto
a paura dei naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena,
Bompensiere e Montedoro.
Arrivano
quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta ed impervia per attirare i coloni
agragantini. Solo attorno al VII secolo la moneta con il granchio di Agragas
sembra far capolino nelle fertili plaghe del nostro altipiano. Poi, si diventa
meri subalterni della potente polis, così come per tutta l’epoca romana.
Tra
il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le risorse solfifere vengono
apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le tegulae o tabulae
sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di scoprire per primo allo
spirare del secolo scorso.
Ai
tempi del declino dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese pare
avere attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei
suoi Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in
località Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno
poi rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che
all’epoca era sicuramente disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano
da occhi indiscreti.
Giungono
gli Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A
Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi,
contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del
luogo.
I
Normanni del Conte Ruggero - 600 cavalleggeri, pare - depredarono il territorio
dell’altipiano ove si presume sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nell’XI secolo, il gaito saraceno
Chamuth, signore della vicina Naro, potrebbe avere avuto il dominio del nostro
Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal
Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi.
I
Saraceni furono, specie sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono
persino il vescovo agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero nei loro
confronti, deportò a Lucera i caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno
appariscenti - si dispersero assumendo nomi latineggianti o fingendo antica
professione di fede cattolica.
Per
uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia
Musca - dicono Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi
fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e
far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con
l’osteggiare il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò del casale
assegnandolo nel 1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli
archivi angioini ne specificava - prima
di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità e dettagli.
Finiva,
per altro verso, quella che possiamo considerare la preistoria racalmutese: un
periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per 3271 anni. Quel che per tal
periodo si è scritto - ed è tanto ed anche dalla penna più illustre del luogo -
è solo cervellotica congettura. Possiamo solo credere a quei radi reperti
archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel poco, spesso nulla, che riescono
a svelarci di tanto defluire umano degli antichi racalmutesi.
Con
il Vespro Siciliano, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo
perché può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro
d’Aragona. Il centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti).
Nel 1376 i fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto,
Racalmuto - a dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte
che pare vi abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300.
Si sa che Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede
universale. Che abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e
poi, divenuta vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato
all’inferno da Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani
sembra confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio
dei Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi
Chiaramonte - lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca
a Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene
riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti
once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel
1404, Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel
1505, al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale
a 473 fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del
Carretto. Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal
Giacchetto di Naro la strage dei Barresi di Castronuovo per vendicare
l’uccisione del fratello Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi
decenni del 1600 scriverà una complessa trattazione su Palermo Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi.
Dopo, rimorsi e crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire
chiese e conventi ed a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una
redenzione spirituale sua e del suo popolo. Certo, mero e misto imperio,
terraggio e terraggiolo ed una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui
racalmutesi. Un notaio venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone
(e dei suoi vassalli): era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni
II del Carretto finì sotto l’Inquisizione.
A
metà del secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163
abitanti), segno che la politica del barone non era poi così devastante come
sembra voler far credere Leonardo Sciascia.
Quello
che non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione
racalmutese viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia,
dai 5279 abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel
1577. Ciò non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il
viceré per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di
sfuggita, va detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto.
Le “tande” si basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della
popolazione non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante
tassazione del governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi
con gli stessi esattori, al contempo strozzini.
Sia
come sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di
4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva
trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella
neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in
definitiva tornavano appetibili.
Dalle
brume degli esordi racalmutesi della schiatta dei del Carretto affiora qualche
piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I del Carretto che da Savona
giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto
Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia
sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del
Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo
Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci
nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza
storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana,
questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature
araldiche può farvi ricorso.
Di
certo sappiamo che esistette un Antonio I del Carretto - andato sposo a
Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio, Antonio II del Carretto.
Vi è una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo del Carretto,
che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono
allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi
degli eventi.
Quelle
carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze
narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un Antonio II del Carretto trasmigrato a Genova
(e non a Savona) e lì vi ha fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano
che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e
Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri
coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luoghi
liguri senza neppure un coinvolgimento formale di codesto figlio di un
sedicente legittimo titolare.
Non
v’è ombra di dubbio che i del Carretto provengano dal marchesato di Finale e
Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi
quel marchesato in tre parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad
Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio
Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del
Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al
1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263. [2]
Su
Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e
signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa
l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose
convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di
Clavesana; Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo
quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che
diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in
cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne
l’investitura dei feudi nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli
dei quali costei appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A
seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si
succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del
Carretto I - e cioè colui che sarebbe andato sposo a Costanza Chiaramonte -
sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, cui si accredita la prima baronia di
Racalmuto.
Ma
tornando al nostro Antonio II del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il
1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco
tempo prima del 1320?). Avrebbe ereditato dalla madre Racalmuto nel 1344 per
atto del Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando, sempre, alle notizie
dell’Inveges.
L’atto
di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio
del Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe
arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto
(forse attorno al 1370).
La svolta del 1374
Si
accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle
cui mani «per via di fortunate combinazioni, si veniva a riunire .. l’ingente
patrimonio della casa.» [3] Si afferma
che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte] ereditava dal cugino Giovanni
il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino Matteo, al ’77, il contado di
Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda,
Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella, Misilmeri; in fine campi, giardini,
palazzi, tenute in Palermo, Girgenti, Messina ...». Racalmuto non viene nominato,
ma si dà il caso che in documenti coevi che si custodiscono nell’Archivio
Vaticano Segreto anche il nostro paese appare sotto la totale giurisdizione del
potente Manfredi.
Nel
1355 dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o
pneumonica, fu pestilentia nel senso
allora corrente di gravissima epidemia». [4] Già vi era
stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per un
ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la
scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I
nostri storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed
imbastiscono trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però
provabile. Un fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio
trasferimento, da Casalvecchio all’attuale sito, della residua, falcidiata
popolazione.
I
traumi che la Sicilia soffrì tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a
coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi
certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e
catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia
Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco
Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a
nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio
la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura
una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare
e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di
Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco
Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni)
dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste.
Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di
Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli
Angioini di Napoli.
Quando
agli inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace,
divenne più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla
Sicilia il suo irriducibile interdetto.
E
qui la minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia
medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa
Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti
Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges
nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto
papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla
cosiddetta "cattività avignonese".
E
così da Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento
culminante di una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la
remissività papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può
procedere alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al
contempo di remissività verso la Francia.
La
meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di
Racalmuto. Altro che isola nell’isola, scrivemmo una volta in pieno disaccordo
con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel
contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce
contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della
microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia
ed investe Racalmuto ove si recò il 29 marzo del 1375. La sua carriera in
Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
La
visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi
eventi storici. In particolare occorre
tener presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re
Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace
sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria,
Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli
si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere
alla Santa Sede questo canone. I siciliani erano chiamati a giurare la pace e
prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e
privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa prometteva di levare
l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.
In
Sicilia la percezione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della
pace, nel dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno
strumento di pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire.
Si decidono modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli
evasori o per i riottosi. Le bolle del dicembre
1372, chiedendo un aiuto per la
lotta contro i nemici della Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse
dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo. In
virtù di una clausola apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano
esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento
di rispettare la pace e d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato,
ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario
si trasformava in imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a
parlare della tassa riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di
Racalmuto, ove invero si accenna ancora più esplicitamente ad un
“subsidio auctoritate apostolica imposito”. E ci siamo dilungati proprio perché in definitiva ciò ci
illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
Il
sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero omogenee, sarebbe stata
distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che sono
nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato quali
fossero. [5]
Intensa
è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per
spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della
Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi
presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare
pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono
mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (Reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il
9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di
ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il
denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro
raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il
precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si
denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale ove si
attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al
re Federico III, gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del
conte, di illegittimi natali, era dunque rientrato. Al vescovo di Sarlat,
nunzio apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso
sul Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere
reali sigillate con una bolla d’oro e finché il re l’osserva lui stesso. Egli
ha promesso di fare versare il sussidio dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle
su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo,
Naro, Delia, Montechiaro, Favara, Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera,
Gibellina, Castronuovo, Mussomeli, Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano,
Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina,
la torre di Capobianco, Pietra Rossa e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è
potuto dire delle proprietà dei Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno
nel grande. Le proprietà di Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la
loro estensione. Esse sono distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse
comprendono buona parte dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa,
Modica, Spaccaforno, Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di
Agrigento e di Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto,
Montechiaro, Camastra, Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro:
Mussomeli, S. Stefano, Castronuovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Adriano ... 4) Le
proprietà della regione di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [6]
Dalla
lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas
ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei
giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un
soggetto giuridico (universi homines).
Rientra tra le terrae nostrae, cioè
di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali),
Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto; ma così non
è.
Le
singole università devono nominare tre probiviri (tri boni homini) cui si demanda il poco gradito compito di spillare
denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non
sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e
svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco
delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un
itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da
lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un
centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per
convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte
omonimo a poco più di 2 km. A Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro.
Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronuovo e quindi a Bivona, Santo
Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ allora la volta di Caccamo e di altri
centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca
dei paesi si eclissa.
Fin
qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere.
L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di
marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere
l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a
S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo
stesso giorno è la volta di Racalmuto.
Dal nostro paese si passa a Castronuovo (8 aprile 1375). La raccolta del
sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione
dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione,
lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo
di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente
svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio
Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del
pari lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Essa andava così ripartita:
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
||
numero fuochi
|
136
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
|
ceto medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
||
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
||
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiare): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per
le campagne non era possibile includerli nel censimento; un venti per cento,
come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro. Nel 1375 Racalmuto
contava dunque circa 650 abitanti.
Come
si è visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i
racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e
della peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa.
Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero
di Francia, Bertrando du Mazel.
Le
carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con rilievi censuari. Abbiamo
solo numeri simboli da cui possiamo dedurre solo qualche ipotesi di lavoro di
carattere demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano
davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da
benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3
tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a
famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e
mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo).
Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per stima aprioristica.
Certamente in misura più limitata dovette essere la densità delle famiglie
veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più vasta quella
della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a
parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessibili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi negli scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti; che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”): una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla
Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il
27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Secondo gli storici,
quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
Il
regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere
regina sul serio - ma solo pro forma
visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come
Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si
reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli
altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e
Guglielmo Peralta.
La
vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità.
In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
trasparire che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro affari
in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [7] Solo che
il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i del Carretto.
La
tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta
Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli
alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha
l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un
oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene
messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in
Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel
1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana.
Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti
tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto
amichevoli e consociativi.
Morto
anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto
l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccavano la scomunica e
l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante
Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel
1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si
giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di
Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di
Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo
pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano
tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana
si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno
si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le
bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale
un fronte d’opposizione ai Martini.» [8]
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel
lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel
1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale
Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei
conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico
di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto
diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a
credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi
a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne
coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa,
ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladroneschi. Palermo finì con
l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono
arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia del Carretto
che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso
Martino, si riappropria (o si annette?) Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronia
storicamente documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuovo in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte,
erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni
convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale,
evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [9] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo del Carretto: è pronto a
giurare che il del Carretto si era lasciato lusingare dai soccombenti nemici
dei catalani invasori, per “necessità”; finge di credergli la nuova triade
regale di Palermo.
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli
eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della
Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di
portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula torna a dilagare: Andrea II
Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau
Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a
moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed il figlio Martino il giovane.
Il duca si irritava. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc
dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona.
Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di
mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a
prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme
all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo
palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i
sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li
faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, quel Manfredi Alagona
delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto
cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
* * *
I
Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della
Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e
le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano
stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate.
Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo
affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un
registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come
i del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità
del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per
di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si
dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il
re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva
la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350.
Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino
I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» [10] Martino il
giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [11]
I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO
Quando il 22 marzo 1392 la spedizione spagnola approdava a
Favignana, dalla lontana Genova i del Carretto si decidevano a veleggiare verso
la Sicilia per riprendersi le terre racalmutesi cui pensavano di avere diritto
per successione diretta e per lascito di Matteo Doria. Racalmuto si presentava
tripartita: a sud-est il Castelluccio, munito già della sua fortezza, e
dintorni erano un feudo denominato Gibillini, di pertinenza dei signori di
Favara; a nord il castello chiaramontano era coronato da case coperte di paglia
e con il suo toponimo arabo costituiva la terra abitata di un feudo ampio che meglio
definiremo dopo; ed a sud-ovest le
ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano considerate terre burgensatiche, di personale
proprietà del feudatario.
Le terre
dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano dunque
per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia mostrava
la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora è stata denominata
‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma appaiono come
terre allodiali.
Lo stato di
Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni
(come ai giorni nostri) e da quel
versante nord va verso ponente: coinvolge Santa
Margaritella e Santa Maria di Gesù,
arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile
piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo;
include una parte del Serrone (un
altro versante è detto appartenere al feudo di Gibillini); scende per Judio,
Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[12] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare
circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro
Finaiti.
Menta,
Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei del Carretto,
ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli atti
notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre che talora
vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della Menta o della Nuci), tal
altra no, e comunque restano talora coinvolte nell’intreccio delle doti di
‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella famiglia.
L’importanza
dei possedimenti di Garamoli si coglie in una pagina della ‘Fabrica’ [13] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli
doveva essere contornata da un bosco
fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
· Per coprire
il tetto della Matrice occorrevano “burduna”
di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per
trarli fuori provvede la maestranza ma
soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che vengono pagati in modo
inconsueto: con salsicce e vino.
Piena
autonomia ha sempre invece il feudo di Gibbillini. Feudi dei dintorni di
Racalmuto sono - stando a certi atti notarili - quelli Di Grotte, del Chiuppo,
di Scintilia e del Nadore.
I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e
padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di
Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo
con mero e misto imperio, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in
capo a quella famiglia proveniente da
Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo
agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che
inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è qui
sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata
un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si
rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S.
Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei
Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste
vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da
vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza
palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a
metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per
quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia
Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa
aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa
in forza della quale il legato del
Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne
approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti
onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda un documento:
esso fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire
l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici
ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il
beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma
si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite
de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando
scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna
chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia.
Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in
Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S.
Margherita. E prima?
Tanti
collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una
interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere
sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte,
più verosimilmente Manfredi Chiaramonte,
oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello
del concordato col Papa.
I DEL CARRETTO BARONI DI RACALMUTO NEL XV SECOLO
Il
secolo XV vede Racalmuto saldamente in mano di Giovanni del Carretto, figlio di
Matteo, di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc
vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli
Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore
di grano locale dal caricatoio del suo feudo minore di Siculiana. Appare come
creditore dei Martino, come acquirente di quote di feudi in quel di Mussomeli,
ma lo storico francese è perentorio: «La
baisse du prix de la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des
fief vendus par la noblesse - oblige - ritorna sull’argomento in
pubblicazioni a spese della Regione Siciliana e nella sua madre lingua, visto
che mostra gallica diffidenza verso un traduttore siciliano di una precedente
sua opera storica di analogo argomento -
à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers
l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration
des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di
questa espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non
trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di nostra conoscenza. Il
Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([14]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1553 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert
Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto nel 1418 ([15]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare
feudatario di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem
pag. 895; ASO Canc. 65, f. 42).
Attorno
alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del
Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti
del protonotaro del Regno in Palermo. Un
grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però
preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate
adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte.
Dominava il barone (non certo conte) Ercole del Carretto. Ebbe costui il suo
bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a
Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia
baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo
letto di alcuni antenati del povero barone. Gli contesta molte irregolarità
d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere ai ripari
formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di Palermo, a
suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta - sui
disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe
Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio
una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna sembra essere
commissionata a Palermo - genericamente si dice presso la scuola del Gagini - e
posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad
ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire
predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può
sommessamente e riservatamente sussurrarsi.
PARTE
SECONDA
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non
c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata
a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di
Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del
Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a
suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche
indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto
che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300.
Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e
l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli
odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione
delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese
Antonio I del Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per
approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II
Chiaramonte, semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo
non significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane
figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che è
andata: dopo il Vespro la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri.
Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei del Carretto,
marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no.
Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri
lontani. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si
dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un
altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da
questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora
violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto
sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che
si trattasse di diritti genuinamente feudali: erano forse solo possessi appena
“burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre,
paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro,
specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio
II del Carretto non lascia traccia di sé: di lui si parla solo negli atti
notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei
suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In
quel documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio
II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa
pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno
Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in
Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle
quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la
dice lunga sul fatto che il preteso titolo era precario, forse del tutto
inconsistente.
A
Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e
Matteo rendiconta su partecipazioni in compagnie navali, oltre che su beni
immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole
rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non
sappiamo dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’
certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento
del 12 marzo 1399.
Antonio
II - pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que
dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis
Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum».
In
altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione
genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze
siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche
molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto
successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro
Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello
che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac
omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè
in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, ....»
Antonio
II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo
arrampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus)
morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo
del Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi
abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha
famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo
feudale della baronia di Racalmuto solo per consentire al fratello minore
Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia
dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che
nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà
ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in
discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato
da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo
il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni
allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri
antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello
che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il
Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima
il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli,
Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
cervellotica congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo
meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto.
Gerardo
del Carretto sposa una tal Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di
Salvagia primogenita (e portante il nome della nonna paterna), Antonio, Nicolò,
Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”.
Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto
designato come “magnificus et egregius
d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In
un atto dell’anno prima ([16]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio
di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei
del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e
debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo
secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà
elevata a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo
decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo
del Carretto sposa una tal Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio
maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di
Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima
del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo
del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira
le rampogne del duca di Montblanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso
diploma di Palermo ([17]) ne
fornisce indubbia testimonianza.
Il
trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è
questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in
tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti
Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono
graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del
Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Montblanc
è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo
del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico:
prima blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappicifica, torna
alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne
diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di
once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni
racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per
quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie,
l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito
ad aggirare.
Certo
il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra
l’incudine del duca di Montblanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte
prima che questi finisse proprio male.
La
storia di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne
un accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla
morte di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia
paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese
le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del
Regno; rifiuta obbedienza a Martino duca di Montblanc e organizza la resistenza
di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove
la riunione dei baroni siciliani a Castronuovo nel 1391. Cerca di impegnarli
alla difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad
onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno.
Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per
Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente
fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un
figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica
siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la
morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che
successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra
abbia finito i suoi giorni.
La
nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua
storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la
dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad
avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la
ebbero i Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il
nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni
tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori
delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi,
i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano
ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano
strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La
turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([18]) del 1395
(die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione
anche del grande storico siciliano Gregorio ([19]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato
Gibillini passa nelle mani di Filippo de
Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([20])
Le
note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono
i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che
non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi
dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato
nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora
accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser
Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a
se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu
burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu
serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di
Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo
del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro
razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma
l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si
accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il
diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser
Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta".
Placet.
Notiamo
il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà
a Malta.
Item peti "Lu dictu misser
Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi,
jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo
inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li
agrigentani". Placet.
E’
uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e
assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini
e vigne del barone erano stati pesantemente danneggiati (“guastati”, alla
siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser
Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci
li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il
feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la
servitù della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta -
aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone
poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti
fatiche del lavoro dei campi coatto.
La
formula, dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, onnicomprensiva, rassicurante.
Ancora una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione
sulle esauste finanze racalmutesi?
La
chiosa finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende
inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia
che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena
“descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione
passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione
per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo testardaggine)
di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto più valore
civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento dei liguri
del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non
tutto è negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che
s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché
questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio
Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria ([21]) che ha
modo di narrare:
«Costoro
[armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con
cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di
Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel
1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo
del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il
5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo
del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo
scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.» ([22])
Matteo
del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva
riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano
avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana
Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e
quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio
Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400
il barone capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già
defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato
nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la
baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che
la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che
Racalmuto fosse feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se
spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto imperio.
La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del
Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella
che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno
vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel
processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto,
abbiamo vaghi dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra
l’altro:
magnificus
dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat verus dominus et baro dictorum
casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus reditus et proventus paficice
et quiete et de hoc fuit et est vox
notoria et fama publica et ..
dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de
Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus
et uxor ex quibus iugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus
Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad
eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex
dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina Elsa jugalibus natus et
procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de Garrecto ad presens
baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius legitimus et naturalis
subcessit in baronia predicta percipiendo fructus reditus et proventus et de
hoc fuit et est vox notoria et fama publica
etc. ..
Giovanni
del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa
procrea quello che sarà il suo erede nella baronia, Federico del Carretto.
Fu
un legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi
(filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla
presunta morte di Giovanni I, attorno al 1420, sino alla data del processo
d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) induce a
dubitare, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia
passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni
da un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore - secondo
lo stesso Bresc - delle proprie fortune.
Dagli
archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella
gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una
lettera da Catania per la sistemazione
delle pendenze fiscali.
Martino
segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed
alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del
giovane barone di Racalmuto: v’era la
successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si
erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione
(1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne
conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una
quietanza attesta che la posizione era stata sistemata come segue: 30 once in contanti e dieci a
compensazione di un mutuo a suo tempo
approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella
«Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia
pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi
dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più
pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia
all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei
domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422
della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert
Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui
la notizia va presa con le molle.
Nella
nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene
precisata la fonte.
Racalmuto
viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La sua baronia a pag: 417 e
872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag. 880. La parte narrativa
non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In francese, recita: «La baisse du prix de la terre - que l’on
suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse - oblige à
un endettement toujours plus grave et à une gestion très rigoureuse du
patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la monarchie et
de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers et des
seigneuries: Giovanni del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa baronnie
de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de
Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait
joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide
catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». ([23])
Sarebbe
da rintracciare il foglio 54 (in calce citato) al fine di ben ricostruire
questa vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una
quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole:
forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando
piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente
genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità
e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde
gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto
che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano
e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto
o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare
quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei
baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le
cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.
Non
possiamo dubitare che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni I del
Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani dell’investitura del
titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso degli eventi - la
sequenza genealogica è inequivocabile (come abbiamo visto dai passi in latino
sopra riferiti).
“Filius
legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato
ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto
feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo
Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E
morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio primogenito,
legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo
palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi sotto
vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della regia
curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri predecessori
regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande dell’anno 1453
nelle carte 565. » ([24])
Nel
1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il
decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio
determinato dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre
la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine
del regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini
per avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli
accorda quella investitura ma a queste condizioni:
n presti il
cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
n renda
l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n restino
salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
n e del pari
restino riservate alla Corona le
miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
n resti
salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli
equipaggiamenti regi.
Per
il resto possesso assoluto sino al mare.
Una
cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di
Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio
1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo
vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per uno scambio di grano delle
annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a
luglio. Il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse
spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di outright in grano. La domiciliazione
sarebbe stata pattuita presso il "caricatore" di Siculiana. ([25])
Sempre
il Bresc fornisce un'altra interessante notizia: secondo quello che appare
nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto
in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte
citata è un libro: «Luigi Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo,
1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La
rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria
se da quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.
Dalla
ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo di dubitarne - che a
Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il
Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes
natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset.
Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque
semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare
evidenti carenze di notizie. Quali fossero quelle gesta che affidarono la
famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo
nessuna ... memoria.
Accontentiamoci
del fatto che fosse il figlio maggiore
[natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre
falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi
vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità
con i sindaci di Racalmuto ([26]).
Apprendiamo
dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli ([27]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando
sia avvenuta quella vendita non ci è noto; il rendiconto è del 1486 e come si è
visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisse la vicenda di
cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e
segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui
“venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia
rivendette a Pietro del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”).
Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare
“Archivio Campofranco, Fatto delle cose
notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia,
confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in
Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del
Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo
Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra
dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto si sia bene
ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il
costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso.
Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti:
nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386)
si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3
videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi quattordichi quolibet anno
uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno
da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano
intentendosi quindici anni primi poi di Pasqua.» ([28])
Il
Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto - la fa a ridosso degli anni della baronia di
Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato Federico, gli successe
Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare dall’ufficio della
regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E
subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le saghe sulla venuta della
Madonna del Monte chiamano “conte”. Il Barberi annota su di lui:
«Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole
del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del
quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella
terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once
700.»
Il Baronio,
come si è visto, quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si fosse
trattato di un riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.
Il Barberi
ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che visita
Racalmuto come lascia intravedere il passaggio : al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che non
trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei
moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che
sia, Racalmuto dunque in esordio del ‘500 - e proprio sotto Ercole del Carretto
- ha un salto quantitativo, un sussulto verso il grande centro. Nostri
precedenti studi ([29]) hanno
messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal
rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notate
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta della Madonna del Monte
Era persino
sorto un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della Madonna
del Monte. Sciascia è caustico: «correva l’anno 1503, ed era signore di
Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è della scuola
dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di più di ogni
altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna tra il Gioeni
e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi; inquietante come
l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor Pende, perché
proprio al professore, perché al del Carretto,
perché tra i regalpetresi la Madonna ha voluto fermarsi, la popolazione
di Castronovo essendo in egual misura fatta di uomini onesti e di delinquenti,
di intelligenti e di imbecilli.» ([30]) Ma è
proprio lui che poi negli Amici della
Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di
avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi
siamo legati.
Ma
neppure, a ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente padre
gesuita sui motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad inventarsi la
leggenda della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del passato, ma
intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del paese: così
il barone Ercole del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad
essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della
Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([31]) Osta se
non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio
1771 ed a quella data la saga era ben
salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si
ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato
secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di
Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la
curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago” (immagine
molto miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di
Racalmuto. ([32]) Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante
delicatezza religiosa. Ci limitiamo a pensare che Ercole del Carretto ebbe
davvero a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta
intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a
corredarla facendo venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile:
quella Vergine marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto,
brevilinee e rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi
dei contadini locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice
e coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era
maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo -
recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti anagrafici di Ercole del Carretto
Scarne
sono le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non
sappiamo quando nasce: la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tal
Marchisa di cui ignoriamo il casato.
Dal
processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare questi altri
dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella
terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi
diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli
piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della
baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni
come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come
tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”.
“In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor
Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di
Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne
testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di
Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede
universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Nel suo
processo d’investitura si legge che: a
«Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus filius
legitimus et naturalis.» ([33])
Crediamo
che il noto giurista operante a Racalmuto, Artale de Tudisco, fosse già al
servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile del suo entourage
fu il nobile Alonso de Calderone che così testimonia: «stando ipsu testimonio como uno degli domestichi di lo quondam
magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri
et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotirisi
et fachendosi rescotirj li renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri
et patruni et canuxi lo dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto quondam signuri
Erculi lu Garrecto a lu quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et
reputava per figlio unico et primo genito et da tucti accussi era tenuto,
trattato et reputato; lu quali dicto quondam magnifico Herculi baruni fu mortu
in lo castello di dicta terra et lo presenti lo vitti sepelliri et secondo
intisi dicto magnifico Herculi innanti sua morti fichi testamento.»
Testimoniò
anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il
“nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i “nobili”
Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il cennato
processo include anche uno stralcio del testamento di Ercole del Carretto che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino:
«E’ da
sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile Ercole
del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto capitolo.
«Nel nome
del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517, nel
mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello del
magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E poiché
capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede
universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore,
istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor
D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da
lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un
tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E tale
eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e
futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque
esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia,
nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi,
emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo
spettanti e pertinenti, secondo la serie
ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli atti
miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26 marzo -
VI^ Ind. - 1518.»
Il
testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la
citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III. Ercole poté avere contratto
altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del Carretto
Di quale
madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato sapere.
Abbiamo un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi dichiarano
Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza del
Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo aspetto
viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio resta. Ed
allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce, oltre un
secolo dopo, nella rinomata Palermo
restaurata? Siamo propensi ad avvalorare l’ipotesi affermativa. Va qui
allora ricordato che nel 1630 circa quello strano personaggio che fu il
cavaliere Di Giovanni scrisse per sé
secentesche memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via
laterale dai del Carretto e addirittura dal padre di Ercole del Carretto -
almeno a suo dire - confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere
il loglio dal grano. Investe la Racalmuto dei primi del ‘Cinquecento e noi non
possiamo esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio
solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco [Lautrec] a Napoli
successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo quel di Sciacca. E
fu il predetto caso, che essendo nella città di Castronovo D. Paolo Carretto,
mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza con uno di casa
Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe fra loro
gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il Carretto andar a
visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi andò con 25 cavalli.
Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla piana di santo Pietro.
Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare nella chiesa di santo
Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire, che far gesto di sé
indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il Carretto investì, e
ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto, investendo il suo nemico,
era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso per il petto, quando uno
de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i nemici, attesero a
salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a servire Sua Maestà,
perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata di adoperarsi
valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del viceré, perché
mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il soccorso; dal
che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene relazione a Sua Maestà,
spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli indultati in vita, e fûro fatti
capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il successo D. Giovanni
Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi i nemici, in quel
momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di gran valore e
chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D. Ercole.
In quel tempo era nella città di Naro
Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di mia ava paterna,
il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco della città di
Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di gente scelta e
valorosa, con li quali faceva allo
spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto, figlio del
predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era amicissimo,
a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse adoperare per lui
in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera Enrico; e perché
si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case da Castronovo, e
portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con quaranta cavalli, e,
venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate, per quel cammino
assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non prima si videro
Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono finalmente giunti,
presi ed uccisi.
E se ne presero le teste, che furono
portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse gran travagli di
giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si estimava l’onore in
quei tempi.
N’ebbe al fine gran travagli: ma col tempo
ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.»
“Più
solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana (op. cit. pag. 95) pensa
che possa avere il suo congetturare sulla genesi della saga della Madonna del
Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati. Francamente non ce la
sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è visto, che Paolo del
Carretto fosse racalmutese e fosse davvero fratello del barone Ercole.
Probabile invece che una volta conosciuta la
tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle prime decadi del
Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della vetusta e pia
memoria della “venuta” di quella
adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il canto
popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla viva
voce delle locali vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna del
Monte, ma ha insiti spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano la
genesi della saga. Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato di
Punta Piccola - , “intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran
Signura”, sono scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci
arrivà mmasciata”, il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il
declinare del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia
nelle brume anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento
della Madonna del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima
alla panoramica altura della omonima chiesa.
[1])
Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado
Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[2]
) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola
- Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[3]
) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti -
Palermo 1891, pag. 14.
[4]
) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[5]
) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[6]
) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[7])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[8]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[9]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonese - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[10]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 115.
[11]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 116.
[12])
Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno per lo meno dal 1714:
non può quindi riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[13])
Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO
ED ESITO di denari per conto della
fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto, incominciando dalli 29 di novembre
8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza - Vol. I “Esito n.° 7
dell’11/12/1658”.
[14])
D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[15]
) Henri Bresc, Un monde, op. cit.
pag. 869.
[16]
) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII
die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de
Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA -
BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[17]
) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[18]
) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[19]
) Rosario Gregorio fu storico e paleologo di grandi meriti: non si riesce a
capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute
nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico,
caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da
uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i
capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e
fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto
reciso delle mani spesse e corte.
Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano
tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[20]
) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[21]
) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi notaro furtugno.
(Registro -
Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
[23]
) Per ACA Canc. s’intende: “Archivio de la Corona de Aragòn,
Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29.
[24])
vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE
N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[25]
) Fonte citata: ASP ND
G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai Defunti -
Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
[26]
) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi 1512-20 - f. 284v 285r
[27]
) Giuseppe Sorge - Mussomeli,
dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane
Palermo 1982 - vol. I - pag. 386 e segg.
[28]
) Il conto enne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentate Pa. 18:
Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco
Post.m.”
[29]
) Giuseppe Nalbone e Calogero Taverna, Racalmuto
in Microsoft - dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[30])
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra
- Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[31]) Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. del Monte di Racalmuto -
Racalmuto 1986, pag. 35.
[32]
) Archivio Vescovile di Agrigento - Registro Vescovi 1686 - f. 785.
[33])
Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487
processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
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