sabato 21 novembre 2015

torno alla microstoria

giovedì 10 gennaio 2013

Un intervallo ... microstorico: Racalmuto nel basso medioevo.


Racalmuto alla fine del Trecento

 

L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi predecessori - Scrive il D’Alessandro [1] - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [2] Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.

Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.

Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio  Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.

Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.

Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.

Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.

Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [3]

Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi  e la strada intestata al celebre medico racalmutese.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà  inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.

Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.»  [4]  Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità” , finge di credere la nuova triade regale di Palermo.

Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.

Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso  non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?

Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei  propri beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte  si concludeva il primo giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende.

 

Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.

I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità sul feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.  Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.

Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.

Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fino nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [5] Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.» [6]

 

 

 

Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto

 

Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita [7]:

Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se  criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...

Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse, sicuramente, questa notizia dagli archivi aragonesi, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.

Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte certe.

Nel 1392 giunge, dunque, in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.

Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.

All’inizio del secolo XIV un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo (sempreché la favoletta abbia un fondamento storico - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.

Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.

Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO


 

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del Trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste, a nostro giudizio.

 



[1] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[2]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
 
[3] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
 
[4] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»
 
[5] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[6] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.
[7] )  ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:  ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
 

ostentatamente senza titolo

A costo di venire bruciato vivo a Campo dei Fiori a Roma, peggio di Giordano Bruno, non posso trattenermi dal dire: i fatti di Parigi li giudico "reazioni" vigliacche, criminali omicide quanto vi pare ma "reazioni". Dietro vi stanno "azioni" per me vigliacche criminali omicide, con l'aggravante che non c'è necessità di farsi saltare in aria o farsi crivellare di colpi da "teste di cuoio" o poliziotti bene equipaggiati. Nel 'Settantuno feci il mio viaggio di nozze in Israele, partii filo sionista e tornai ferocemente antisemita nel vedere come codesti vittime dell'Olocausto avessero bene imparato la lezione da Hitler.  Dopo fui in Libano e una guida islamica mi diceva che era dovuto scappare dalla sua casa in Israele. Ora non vi può più tornare. Forse addirittura requisita dai sionisti per darla ai fanatici ebrei che lasciano a frotte le loro terre per riprendersi  quella che valutano la loro terra promessa. Dice Martino che gli arabi giudicano Israele il "piccolo diavolo" (mentre noi saremmo il grande diavolo).E come dovrebbero giudicare codesti piagnoni del Muro del Pianto, nello spiazzo usurpato ai legittimi proprietari musulmani che con Tito non hanno nulla a che spartire, sol perché giudicati dal Sinedrio pericolosi. Se fossi cristiano avrei voglia di ritornare all'anatema di deicidio.

Foto di bella donna atipica

Io non amo il gergo, mi piace una moderna e allusiva lingua italiana. Ecco qui ad esempio una - mi contraddico e parlo in latino - exusatio non petita. Non mi passa per l'anticamera del cervello esternare 'pericolose e oltraggiose' accuse censorie. Semmai son io a subire repressivi ammonimenti. Ma se dico "maschio" e per giunta virgolettato voglio dir qualcosa che l'ambiguo Homo hominis distorcerebbe. Credo che chi si reputa accademico e canonico censore di fotografia non abbia molta dimenstichezza con la lingua italiana. Sono le peculiarità, le digressioni, le acute libertà espressive a fare arte. Questa foto è appunto un capolavoro perché atipica, non accademica tutt'altro che canonica. Mi piace il volto e da 'maschio' non miro troppo le cosce che più gonfie ci porterebbero appunto nel mondo del porno. Immaginate voi che si andava a dire a Bptticelli che il collo ella Primavera era 'spoporzionato' o a Modigliani chissà che, o a Picasso che andava bocciato per scarsa conoscenza della anatomia umana. Qui mi si dà da 'apprezzare' la femminilità di una bella donna dal volto asimmetrico dalle gambe tendenti all'asciutto, dal vestiario poco canonico per i cultori di OUTFIT (non so che significa). Sarò popolino e di "bocca buona" e quindi non resto adescato dalla supponenza di chi si reputa sopra l'altrui "bocca buona" e aristocraticamente librato non so in quale ara di superna nobiltà.

Racalmuto = Gardutah = libici di pura religione musulmana

giovedì 15 ottobre 2015

rettifiche







Turisti che approdate  in queste apriche terre racalmutesi forse già note ad Edrisi (il suo Gardutà si riferiva a Racalmuto? Se sì perché non chiarmarlo con il suo vero nome arabo che credo significhi solo "Stazione, villaggio di Hamut", il gaito e neppure quello di Naro dato che il toponimo nostrano era già in uso un secolo prima del Duecento quando Racalmuto fu finalmente nome del paese che si ama dire di Sciascia), non siamo così incolti da non capire cosa relazionava Du Mazel al Papa venuto fresco fresco da Avignone a Roma. Ma gli affari sono affari e gli affarucci affarucci. Non so a chi fa comodo persistere nella boiata che il castello o magari solo le torri sono sveve come dire quando di Racalmuto non c'era sentore alcuno. Le torri sono solo di avvistamento e servivano da interscambio  di notizie con le classiche fiammate e soffocamanti di fiamma da torre a torre, da castello a castello.  Una sorta di pali telegrafici di quei tempi. Noi notiamo una correlazione tra Naro, Castelluccio le torri qui fotografate e Mussomeli. 

Nel 1375 Racalmuto era soltanto un casale, poi fu casalis cum castro. Castrum cum habitatione (o habitationibus) non l'ho mai incontrato e non ci credo. I Chiaramonte a Racalmuto? Dubito. Il "domicellus" delle carte vaticane esiste ma ha ben altro significato. Ma si sa, Sciascia non lo dice e quindi si possono diffondere cartelli in ceramica falsi e bugiardi.


Le due torri incastrano un ospitium quadrangolare. Coevi? I grandi sapientoni dei Beni Culturali neppure questo hanno appurato- Accanto un  corpo non più medievale che ci fa pensare al Giovanni del Carretto se ben leggiamo le querimonie del suo lungo testamento. Quindi  l'appendice terminale molto simile alla Chiesa di San Giuseppe. Fine del Settecento,senza dubbio. E la parte che non so quanto ci è costata e che di giorno in giorno è sempre più collabente, le ex abitazioni Petrotto per intenderci? Non so proprio che c'entrano col castello. Casette abusive sull'ex orto dei Del Carretto secondo me databili in data che basta consultare il catasto capitario che si trova in Comune per saperlo.  

mercoledì 27 febbraio 2013

A commento (già pubblicato) dell'albero genrealogico autografo di SCIASCIA


 


...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo.

venerdì 1 febbraio 2013

CERCAI DI CALAMITARE LA BENEVOLENZA DELLA ARCIGNA SIGNORA ....... FIASCO TOTALE!

 

Roma, 28 aprile 1994

 

 

Gentilissima Signora,

 

 

lusingato ed onorato dalla Sua lettera, non trovo le parole adatte per significarLe il sentimento di gratitudine per l'attenzione che ha voluto riservare alle mie maldestre note sull'albero genealogico di Leonardo Sciascia.

 

La Sua gentile puntualizzazione redime, oltretutto, la mia modesta ricerca archivistica da ingrate incrostazioni di petulanza verso il grande Sciascia in cui non intendo assolutamente incorrere. Anzi! E' stata la voglia di rivendicare uno Sciascia - anche oltre Sciascia - radicalmente racalmutese, fino all'ottava generazione, ad animare il mio scandaglio negli archivi di padre Puma.

 

Ora so, grazie a Lei, che ciò vale solo in linea paterna. Debbo alla Sua cortesia una pregevole ricostruzione genealogica di pugno del grande Sciascia, ove un ramo: quello di Anna Sciascia, nonna del Nostro, porta allo 'Naduri'.

 

Il «'lapsus' della memoria» o lo scambio pirandelliano tra le agnazioni dell'ava e quelle del 'nonno' mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per esigenze dell'intelligenza ai fini di un'altra mirabile metafora sciasciana. Se voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbe allora io sono 'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o «un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se tragicamente o esistenzialisticamente.

 

L'angusto mio disperdermi nelle chiesastiche carte di Racalmuto per rivendicare Sciascia al Seicento del mio paese vola molto basso e non presume di attingere neppure in lontananza le irraggiungibili vette dell'immenso scrittore nato a Racalmuto, da un padre racalmutese e da avi locali sino alla ottava generazione.

 

Racalmuto non ha una storia in qualche modo esemplare. E' la storia di paesani, qualche volta violenti, tal'altra generosi, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile 'mediocrità', neppure definibile 'aurea', alla Orazio. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo nella terra del sale, almeno dalla fine del Seicento, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra' sembrava smentirmi: la Sua precisazione armonizza e semplifica. Non so se potrò utlilizzarla in una eventuale pubblicazione dell' «albero». In ogni caso dovrò riconsiderare le note che ha letto. Sono appunti del mio 'computer' informali ed estemporanei. Vanno rivisti persino sotto il profilo stilistico. Certo, lo scrivere non è il mio mestiere e quindi mai potrò essere efficace e men che meno elegante. Ma ai fini di rivendicare le otto generazioni racalmutesi di Leonardo Sciascia, magari su 'Malgrado tutto', poche scarne note e una teoria di riquadri possono essere più che idonei. E' però evidente che, senza la Sua autorizzazione a rendere pubblica la precisazione sulla provenienza 'nadurisi' del ramo femminile anziché maschile del grande Sciascia, la mia suonerebbe come una ricostruzione d'insolente pedanteria da cui abborro. Il giovane Gigi Restivo potrebbe utilizzare i dati disponibili: si tratterebbe così di una rielaborazione fatta da chi ha sempre dimostrato devozione verso Leonardo Sciascia.

 

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Mi permetto alcune considerazioni sull'albero autografo dello Scrittore.

 

Mi pare che sino ai coniugi Pasquale Sciascia-Angela Alfieri, andando a ritroso in linea retta, non vi sono discordanze con i dati che ho potuto rinvenire presso il Municipio di Racalmuto e la Matrice. Le fonti di cui mi sono avvalso sono riepilogate nel foglio elettronico sub allegato n.° 1. Il passaggio da Pasquale a Calogero Sciascia vi è giustificato con elementi che credo validi.

 

Quanto alla nonna dello Scrittore, 'Anna', il nome risulta tale in Municipio (Stato Civile - n. 48), ma nei vari atti della Matrice figura come 'Maria Anna' o 'Marianna' Sciascia. Non credo che la variante sia di un qualche risalto.

 

L'omonimo nonno di Leonardo Sciascia [che «comincia come 'caruso'» nelle miniere e diviene «poi amministratore»] lo trovo a Roma nell'Archivio di Stato - Regio Commissario Civile per la Sicilia - busta n. 42: trovasi iscritto nella «Lista Generale degli Elettori Politico-Commerciali della Provincia di Girgenti per l'anno 1896» al 250 della 'lista commerciale' e n.° 435 della 'lista politica comunale'. E' dunque tra i pochi racalmutesi di fine Ottocento 'allittrati' - come ancor oggi si dice - , rientra nel novero degli elettori attivi (poco più di 510) ed appartiene alla classe media del commercio in quanto 'negoziante di zolfi' (cfr. All. n.° 2).

 

Questo personaggio dell'Ottocento racalmutese - cui Leonardo Sciascia dedica un accenno riconoscente per la Noce a pag. 13 della sua introduzione al libro del Tinebra Martorana - va comunque tenuto distinto da un altro personaggio omonimo e coetaneo: Leonardo Sciascia di Nicolò, sul quale si appuntarono le maldicenze del paese e gli occhi della polizia, come può desumersi dagli atti dell'Archivio di Stato di Roma. I due Leonardo Sciascia dell'Ottocento non erano però neppure parenti alla lontana. Sono arrivato a questa conclusione solo di recente e grazie all'ordine messo negli archivi parrocchiali della Matrice di Racalmuto nel 1993 dal prof. Giuseppe Nalbone. Prima ero portato a fare una qualche confusione, sia pure senza mai professare certezze (cfr. Allegato n. 3).

 

Nel mio computer rintraccio questi dati sugli antenati dello Scrittore:

 

Il nonno del nonno di Leonardo Sciascia risiedeva nel quartieri della Rocca, strada delli Cerami [detta così perchè vi abitava anche la famiglia Cerami]. Tanto emerge da un censimento dell'arciprete di Racalmuto del 1822, la c.d. 'numerazione delle anime'. (cfr. all. n.° 4)

 

A quel tempo, la suocera Calogera Nalbone in Scibetta era ancora viva ed abitava alla 'Barona'. (Cfr. all. n.5)

 

Ho rinvenuto all'Itria documenti della Confraternita della 'Mastranza' riguardanti il ventennio a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento: vi figurano tanti antenati dello Scrittore. Ho rimarcato quelli che a mio avviso appartengono alla famiglia di Leonardo Sciascia o ai suoi ascendenti Alferi, Martorelli e Scibetta, nell'allegato stralcio della trascrizione di quei documenti. (Cfr. all. n.° 6)

 

 

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Mi azzardo ora in alcune annotazioni riguardo all'albero genealogico di Anna Sciascia, tracciato dallo Scrittore.

 

La chiosa su Antonino Sciascia, fratello del nonno di Anna Sciascia, ci conduce senza dubbio alcuno a quel professore di diritto civile di cui parla Tinebra Martorana a pag. 186 e segg. del libro di memorie e tradizioni racalmutesi, ristampato a Racalmuto nel 1982 con la mirabile introduzione del grande Sciascia. E se è così, sappiamo però che i genitori di quei fratelli - 'conciapelli', uno e 'professore all'Università di Palermo', l'altro - sono racalmutesi e rispondono ai nomi di Vincenzo Sciascia e di sua moglie Rosa Mantia. Mi pare di rinvenirli in un censimento del 1808-1810 con questi dati:

 

 

 

 

683
SCIASCIA
VINCENZO
50
MASTRO
ROSA
M
40
ANNA
F
14
SANTA
F
12
ANTONINO
F
11
LEONARDO
F
7
CARMELA
F
3
GIUSEPPE
F
1

 

 

Quegli Sciascia appaiono anche nel sopra citato censimento ecclesiastico del 1822 e risiedevano nel quartiere della Fontana (ai numeri progressivi 81-88 - vedi Allegato n. 7). Il 'nonno della nonna' di Leonardo Sciascia - fresco sposo di Maria Rosa Burruano - era andato invece ad abitare nel 'quartiere del Carmine = Strada di Conti' (nn. progr. 3255 e 3256 - v. Allegato n.° 8).

 

Maria Rosa Burruano - per la quale lo Scrittore non sembra nutrire eccessive simpatie - era anche lei racalmutese, come dimostra questo stralcio del censimento del 1808-1810:

 

 

532
BURRUANO
FRANCESCO
anni 30
DOROTEA
M
anni 22
MARIAROSA
F
anni 4

 

I due rami degli Sciascia: quello di Anna e quello di Leonardo della seconda metà dell'Ottocento, fanno capo al Giovanni Sciascia della prima metà del Settecento, come sembra dimostrare il censimento del 1750, conservato nella Matrice di Racalmuto (cfr. Allegato n. 9).

 

 

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Le mie lungaggini L'avranno certamente annoiata: spero che me le perdonerà. Naturalmente gradirei molto rettifiche o suggerimenti. Voglia anche scusarmi per l'uso del computer: ma la mia pessima calligrafia non consente una spedita lettura.

 

Nel ringraziarLa ancora una volta, La prego di gradire i miei deferenti saluti.