sabato 12 gennaio 2013


ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO

 

[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..]

Dux Montis Albi etc.

 

Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli   quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente (?) defrodaru (?) e fichiruli (?) assai dispiachiri (?) per la quali cosa si ita est  la nostra maiestati haviva (?) causa (?) di meraviglia (?) et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna affanu (?) di chircarisi che (?) cumandamu ki con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divunu restituiri tutti li cosi predicti a lu  procuraturi di la presente (?) per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria  ... plui di questu cosa (?) boi (?) ki  ... duviti (?) .. per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.

Dirigitur Matheo di Carrecto.

venerdì 11 gennaio 2013

Je accuse .... moi!


Quando l’avvenente signora agrigentina sciorinava quel suo immenso sapere in materia di tributi monnezzari e l’amico speaker  pendeva dalle sue labbra, mi rammentai di una mia non esemplare avventura. Oltre vent’anni fa mi donavano un contratto dirigenziale i cui termini appaiono in allegato. Senza aver fatto neppure un giorno di vita direttiva bancaria avevo già il tasca un’anzianità di 15 anni. A questa cuccagna rinunziai subito come da accluse fotocopie, non tanto per bontà d’animo o per sensi di giustizia o per paura dell’ allora vigente 2630 secondo comma sub 1) del codice civile o per altro ma solo perché non mi sono mai sentito uomo da marciapiede e la mia libertà vale tantissimo più di tante false anzianità. Me lo sono potuto permettere perché non ho figli e i figli dei miei fratelli non hanno mai avuto bisogno di me e sono per di più alquanto schifiltosi.

Certo quel tapino anonimo che una volta si mise a ragliare come l’asino cervantesiano di Sciascia non mi crederà. Guardi i documenti e dovrà pure convincersi.

Ma quei contratti ebbero poi sofisticatissimi miglioramenti tanto da poter leggere di milionarie liquidazioni di cosiddette indennità di anzianità, dichiarate per giunta come proventi assoggettati a tassazione separata e chi conosce i congegni fiscali sa quali vantaggi si conseguono.

Perché dico questo? Perché fino a quando taglieggiata è una multinazionale assicurativa, dico: e chi se ne frega. Ora però che l’avvenente signora corra a mettersi in pensione invocando siffatti marchingegni locupletanti dico: e no! Stavolta mi buggeri con rastrellamenti insensi di TARSU arretratissima (e indebita) in quel di Racalmuto che mai è stato il paese della ragione come scrisse Sciascia e come qualcuno rammenda al viandante che scende dalla stazione, ma paese di “babbi” proprio non è.

Prima di parlare di evasione sì, evasione no, dobbiamo chiarire una faccenda. Sono pronto a procurare al Comune di Racalmuto un SERVIZIO inappuntabile di raccolta di tutte le specie di rifiuti per non oltre 200-250 mila euro l’anno,  tasse incluse ed assicurazioni dei lavoratori impeccabili. Quando i nostri amministratori hanno barattato il servizio affidandolo a società per azioni di cui conseguire la partecipazione societaria  quale dispersione patrimoniale hanno compiuto a danno degli amministrati (e no) che dalla sera alla mattina dovettero sobbarcarsi a costi per oltre dieci volte. E tra i costi oltre al lauto rimborso spese del portatore del voto societario  ribollono quelli dei compensi milionari a dirigenti ed appaltanti della libera novella società per azioni. Non c’è materia per una indagine penale?

Sotto  la documentazione in fotocopia .







Una tavola rotonda contro la TARSU retroattiva a Racalmuto

Espunto dal contesto di Regalpetra Libera- che gentilmente mi sta ospitando  e pertanto rivolgo i miei ringraziamenti al blogger Sergio Scimé -  non so quale valore esplicativo può questo mio post mantenere. Comunque,qualcosa si capirà. Soprattutto si capirà che in faccende così gravi ed esiziali quale l'indulgere a c.d. cartelle pazze, occorre prudenza, saggezza ed umiltà. Da domani sono in paese. Perché non organizzare una tavola rotonda tra addetti ai lavori, autorità competenti e cittadini assennati? Se occorre la mia presenza, bene; se disturbo posso pure starmene seduto quieto quieto ed erudirmi.  Certo i signori del potere comunale non potranno davvero pensare che io possa tanto facilmene venire abbindolato. Osta un sessantennio di esperienze ispettive.


Il signor Tirone mi precede, purtroppo diceva Einaudi che lo Stato è strumento cieco di occhiuta rapina. Ma lo Stato sa bene quello che fa e quando scricchiola si fa leggine che passano inosservate tra le pieghe della finanziaria. Per fortuna di tanti tartassati racalmutesi l'ufficio tributi non ha siffatti attributi normanti. Tanti in questo grande blog stanno asserendo cose che stridono con le mie conoscenze e con quanto vado scrivendo. Chi ha ragione? Non sono un tipo da credere che ha sempre ragione  .. ma spero di averla per il bene dei racalmutesi. Non ci si improvvisa maestri  della finanza degli enti locali. Mi pare che tanti prendono abbagli e si atteggiano a docenti di diritto tributario. Ma posso avere torto io. Del resto le notizie che mi giungono sono vertiginose. Mi si dice ora che sono stati arruolati quattro postini con 1.500 cartelle ciascuno da notificare. Mi si dice che non riguardano solo case di campagna o piani terra che che erano soltano ad uso di garage ... ma c'è dell'altro, c'è di più. Mi sono beccato nomignoli irridenti per avere tediato amministratori di rango con le mie querule istanze a redigere regolamenti, chiari, precisi, e circostanziati. Non c'è più sordo di chi non vuol sentire. Ma se tutta la catastrofe tributaria racalmutese dovesse essere il frutto della iattanza di qualche politico - non importa l'appartenenza - che pur defenestrato ha spinto per l'iscrizione in bilancio di siffatti crediti d'imposta per salvare il posticino di qualche suo o sua infitrata tra i CO.CO.CO. c'è davvero da .....

Calogero Taverna -

Ecco un commento che ho cercato di inviare a Regalpetra Libera, ma non so se ci sono riuscito.


Dal succedersi dei precedenti pregevoli interventi mi pare però che non sia ancora molto chiaro questo disastro tassaiolo per l’INDEBITO recupero di un’imposta che impropriamente si chiama TARSU. Quando il Comune trasla – perché sotto minaccia di commissariamento – il SERVIZIO ad un’azionaria cui  potrà partecipare magari come socio con prospettive di incarichi remunerati, esce dalle strette regole dell’ordinamento tributario della finanza locale per potere operare con le ampie libertà di una normale società di capitale di natura PRIVATISTICA. Quando l’avvenente signora concedeva un’intervista ad un valido giornalista locale poteva far scattare il suo cache  a tanti zeri, per le godurie accordate nel 2002 dalla riforma del diritto societario regalataci dal duo Berlusconi- Castelli; già, era bello potere avere scranni nel CdA con le modifiche del 2389 c.c. e dato un calcio al culo ad un comma del 2630 c.c. Se ero io ad intervistarla, quell’avvenente signora, le avrei chiesto a quanto ascendeva il suo EMOLUMENTO e perché mai dovevo sostenerlo io che avevo magari ereditato un bagliu a li Pantaeddi e a richiesta (potrei provarlo) di chiarimenti con l’ufficio tributi di Racalmuto – ammesso che riuscivo a farmi ricevere in alto loco – mi si rassicurava che case di campagna e piani  terra non erano soggetti a tassa sulla monnezza (per ovvie ragioni oltre che per pronunciamenti unanimi dei nostri baldi amministratori comunali) così come le ubertose terre della Menta o della Noce erano esenti da imposte per avere carpito una certa estensione di un provvedimento voluto da un tale Bonomi della Coldiretti  a solo vantaggio delle terre montane.

Io tranquillo me ne tornavo a Roma. Povero me! Oggi vengo dichiarato EVASORE dal Dirigente dell’Ufficio Tributi di Racalmuto; non avrei diritto alle decurtazioni pur previste dal regolamento del 1995 (che soggiungo non c’entra più un cavolo) e attesa la mia malafede debbo sopportare anche le penalità di legge (quale legge, bohh!: ma, intanto paga). Per giunta sarei un evasore dal 1995 secondo questo loro dire, ma l’ufficio dormiva; si sveglia il 31 dicembre del 2012 e non avendo più tempo non fa alcun contraddittorio di legge, semplicemente afferma di avere operato un ACCERTAMENTO (quando, come con chi?  Omissione di atti di ufficio? Abuso di potere? Boh!) e scarica sull’ufficio postale per farsi timbrare in fretta e furia  sotto la data del 31 dicembre del 2012 pare tremila cartelle esattoriali. Ora quell’ufficio ha un anno di tempo per ripetere l’operazione per il 2007, due per il 2008, tre per il 2009, quattro per il 2010, cinque per il 2011 e sei per il 2012.

Qui non si tratta di cercare un avvocato – in questo campo non li trovi manco se li cerchi con il lanternino. Parola di Calogero Taverna, già super ispettore del SECIT di Franco Reviglio, quello buono!

Qui si tratta di fare una valida ed efficace DIFESA CIVICA. I partiti? buoni quelli!: in questo momento tremano per paura che i loro eletti al Comune possano subire le mannaie della Corte dei Conti; noi poveri blogger non abbiamo né competenza, né autorevolezza; quelli del Web debbono tenersi buone le fonti governative: diversamente non avrebbero più interviste autorevoli in esclusiva. Allora? Di proposte ne faccio in un mio blog. Potremmo una volta tanto stare uniti, senza baruffe chiazzotte?

 Calogero Taverna

giovedì 10 gennaio 2013

Non sono nobile ma sono racalmutese da secoli: me lo dicono le carte della Matrice (che vanno salvaguardate).


ALBERO GENEALOGICO

di

GIUSEPPE TAVERNA

 

 
Michele Taverna
et Gratia Barba con.bus
terrae Gruttarum et habitatores huius terrae
Racalmuti, muore il 9.9.1700 a 32 anni: era
quindi nato nel 1668. Altri figli: Nicolò
Pietro Paolo nato il 10.9.1694 e Baldassare
nato il 6.5.1696.Fu sepolto nella Matrice,
assistito dal Riformato di S. Agostino
(S.Giuliano) P. Giovan Battista. L'Olio Santo
lo ricevette dall'arciprete d. Fabrizio
Signorino.NN  



1)       

 
TAVERNA
 
 
MARIO ANTONINO
ex Michaele Taverna e Gratia Barba, nato il 2 aprile 1698 (battezzato il 3) sposa il 29.9.1722 la controindicata Petrotto Santa
 
 
PETROTTO
 
 
SANTA
 
schetta di Nicolò e Maria Petrotto
D. Antonino Macaluso li sposa - Matr. 1722-1731 n. 56

                                                                



2)

 
 
TAVERNA
 
 
PIETRO
di Antonino e Santa Pitrotto, nato il 20.4.1738 (battezzato il 21),il 155.2.1756 sposa la controindicata Ricottone Biagia 
 
 
 
LA LICATA RICOTTONE
 
 
 
 
BLASIA
 
 
 
Raimondo e Santa Brucculeri
 
matrimoni 1751-1763 n. 127 - Arch. Matrice Racalmuto



3)

 
 
TAVERNA
 
 
ANTONINO
 
ex Petro et Blasia Ricottone, nato il 25.10.1761, muore a 41 anni il 6.1.1803, epoca della peste, e viene sepolto a S. Francesco - sposa Giovanna [trovare l'ato di matrimonio] attorno al 1780



4)

TAVERNA
LEONARDO
fu Antonino e la vivente Giovanna olim jugati, sposa il 17.7.1808
LAURICELLA
CONCETTA
fu Giovanni e Calogera Vizzini
Matrimoni 1797-1812 pag. 280



5)

 
TAVERNA
 
CALOGERO
nato nel 1809 ca.
sposa attorno il 1840, muore il 4.8.1879 a 70 anni. - SPOSA IL 20/9/1835 . VEDI N.° 652 (SPONSALI N.° 24)
 
ROSALIA
CARLINO



6)

TAVERNA
GIUSEPPE
di Calogero e Rosalia Carlino, nato il 15.10.1847 (pag. 380, n. 256 dei battesimi Matrice 1849-1850) sposa il 14.9.1873
 
 
CURTO
 
 
GIUSEPPA
 
 
di Leonardo e Anna Maria Carlino
Matrimoni 1864-1877 n.° 399- Sac. Salvatore Mantia interroga e sposa ...
 



7)

 
TAVERNA
 
CALOGERO
nato nel 1877 c.a, sposa attorno il 1907
morto nel 1717 in guerra (maggio 1717)
 
FALCI
 
GIOVANNA



8)

 
TAVERNA
 
GIUSEPPE
 
nato nel 1908, sposa nel 1932
 
 
SACCOMANDO
ROSA, fu Giacomo e Maria Concetta
La Rocca



9)

 
TAVERNA
 
 
GIACOMO
 
nato nel 1936, sposa nel 1967
 
DI MARCO
MARIA di Luigi e Rosetta La Rocca



10)

 
TAVERNA
 
 
GIUSEPPE
 
 
nato IL 25.12.1968
 
 
 
 
 

Un intervallo ... microstorico: Racalmuto nel basso medioevo.


Racalmuto alla fine del Trecento

 

L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.

Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile. «Come i suoi predecessori - Scrive il D’Alessandro [1] - e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla successione, egli disponeva anche una revoca di tutte le concessioni sul patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un codicillo.»

Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.

La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.

Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [2] Solo che il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.

La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.

Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte aragonese.

Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio  Maria e portarla in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.

Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.

Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.

Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale della storia di Sicilia.

Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [3]

Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi  e la strada intestata al celebre medico racalmutese.

Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono in Sicilia, guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà  inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente documentata.

Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronuono in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.»  [4]  Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per “necessità” , finge di credere la nuova triade regale di Palermo.

Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.

Gli eventi precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso  non mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?

Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei  propri beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte  si concludeva il primo giugno 1392, quando venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle passate vicende.

 

Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.

I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità sul feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.  Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.

Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle aliene di Catalogna.

Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fino nei più minuti aspetti. Questa sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una insurrezione in Sardegna.» [5] Martino il giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata direttamente dalla Spagna.» [6]

 

 

 

Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto

 

Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. Essa recita [7]:

Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan Lopez de Luna a Sicilia, para que se  criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...

Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse, sicuramente, questa notizia dagli archivi aragonesi, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.

Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non siamo in grado di dare risposte certe.

Nel 1392 giunge, dunque, in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio; ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato utile.

Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato dagli storici.

All’inizio del secolo XIV un marchese di Finale e di Savona - a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo (sempreché la favoletta abbia un fondamento storico - scende in Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria - un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni (in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del Carretto.

Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura, scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte dell’Aragonese.  In cambio ne ottiene il riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum Racalmuti”.

Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica. Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per essere assegnato ad un altro estraneo “al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.

PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO


 

 

Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Marchesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tale titolato, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di Barone è tale che gli odierni araldisti di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del Trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, semplicemente non esiste, a nostro giudizio.

 



[1] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[2]) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
 
[3] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
 
[4] ) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati gli emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»
 
[5] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[6] ) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.
[7] )  ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO REYNO:  ANALES DE LA CORONA DE ARAGON - ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.