La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
Ne siamo
quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio,
dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia
sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si
risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure
detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a
Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili
ragioni cronologiche.
Una
signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una
qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza
Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del
XIV secolo.
Nessuna
fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto -
preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti
dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite,
denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico
Musca , comes Mohac, si rinviene tra
i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei
Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI -
Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca,
araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che furono gli Aragonesi nel governo di questo Regno,
appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il
Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero
di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d]
d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che
associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott.
Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
Esplosa la
rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto,
agli appetiti tassaioli del sopraggiunto
re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi
del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere
quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici
eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di
Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici
dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che
incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri,
Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La
Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a
radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna,
quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che,
comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor
oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche
suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si
disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Intercolutoria
ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti
dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli
imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per
intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene
nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis
Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. Il 17 settembre, il Giustiziere viene
invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere
invio del “fodro” (vettovaglie, vino,
vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne
davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece,
sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con
lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella
elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che
si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più,
il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro,
che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a
Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti
nel possesso dei loro beni. (ibidem,
pag. 131 - doc. n.° CXLI).
Occorre
pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con
decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che
le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso
siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem,
doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con
provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non
risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).
Questi
contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da
Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val
di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua
giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per
discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la
controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni,
circa alla promessa del sussidio.»
(Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo
ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala
di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là
del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato
per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:
•
Licata: unc. 238;
•
Delia unc. 3;
•
Naro unc. 166;
•
Calatarapetta (sic)
Mons maior unc. 6;
•
Tusa unc. 2;
•
Misiliusiphus unc. 4;
•
Sciacca unc. 250;
•
Calatabellottum unc. 122;
•
Agrigentum unc. 380.
Il
successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad
armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il
Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è
questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne
fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella
temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a
cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo
consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta
frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere
originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta
fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace
conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al
papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più
volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente
assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi
un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo
sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime
credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al
francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per
diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di
tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente
non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto,
decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì
cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non
immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la
politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che
corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il
10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore
Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche
simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a
comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E
Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche
papali, in loco non sene intuirono le
ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si
smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si
sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante
guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in
Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento
aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica
dei campi non era ingrata. L'universitas
si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.
Nel 1308 e
nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi
pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano
ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate.
L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi
fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del
primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect.
n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae
de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri
termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto
un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.°
97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro
officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro
utraque tt. ix.»
Il che
equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo
ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì.
Racalmuto non viene segnato come castrum
anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto,
la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba
pontificio.
Coteste
ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a
Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure
autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed
è chiamato a corrispondere un’oncia per
le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete” Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove
tarì in relazione all’ufficio
sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo
neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S.
Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna
è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo
de Montecaveoso ha tutta l’aria di
essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno;
ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle
ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo,
l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di
Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa
di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti
all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di
culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali.
Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il
beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine
del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini,
insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della
coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa
dell’endemico stato di guerra. Da qui,
quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi
dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa
chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad
Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento
sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente
Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano
di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti.
Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora
c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande
edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la
terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del
donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche
un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18
) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti
Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente,
trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie».
Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco
tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in
termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato
l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre
Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo
di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale . A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di
Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300,
indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla
distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori
eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei
sepolcreti e ruderi di edifici. »
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette
pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza
nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di
Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era
un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato,
senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano
persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|||
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le
decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|||
Differenza
in percentuale
|
197,58%
|
||||||
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il
doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per
un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, ebbe dal
collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23
agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto
1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre
1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino;
ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter
Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove
tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o
primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori
d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
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