sabato 7 dicembre 2013

Caro Gigi: no! non truduco!

La traduzione sarebbe come la messa tradotta, non sa di sale. E tu non hai bisogno di traduzioni, anzi. Quante cose mi tradurresti. ll mio punto di vista è quello che per lungo e largo ho cercato di rappresentare in un post su di te. Sei mio parente e ogni valutazione in positivo la giudicano un atto di piaggeria verso il parente. Ma  sai che tutto sarò meno che un laudator. Se Racalmuto non avesse esaurito quelle miniere di sale che deteneva nella cervice, non andava cercando sindaci; ce l'aveva a portata di mano, ed eri tu. Ma Giove rende folli quelli che vuol perdere

Santa Maria Maddalena Penitente, di Pietro D'asaro pittore secentesco di Racalmuto

Come bibliografia sul quadro di Santa Maria Maddalena trovo nel catalogo Sciascia citato solo il Tinebra di pag. 187 ove leggo solo "nell'anno 1622 il rev. Santo Agrò, nel suo testamento gli [ a Pietro D'Asaro. n.d.r.] legava 20 onze, per dipingere il quadro di Santa Maria Maddalena penitente, il quale trovasi ora in un altare vicino al SS. Sagramento, nella chiesa di Maria SS.Annunziata, nostra Matrice." Condensata così la notizia è persino innocua quanto vacua. Non legittima Sciasia a scrivere che codesto prete, senza infamia e senza gloria, addirittura "volle' bella una chiesa e vi profuse il suo denaro".  Invero il Tinebra in altra parte del suo volume storico di Memorie aveva precisato che " la chiesa Madre, che allora era detta S. Antonio Abate, assumesse quella di Maria SS. Annunziata, come chiamasi al presente." Vi sono qui improprietà storiche che credo di avere dipanate nei miei scritti resi pubblici a mie spese. Annota il Tinebra: "Devo qualche notizia intorno alla matrice ed alla Chiesa di Maria SS. del Monte alla gentilezza del Signor Salvatore Sferlazza che ringrazio." Su che basi fondasse quelle conoscenze il sig. Sferlazza, non mi è dato di sapere. Per quel che qui interessa, il Tinebra aggiunge "Risulta poi dal testamento del rev. Santo Agrò del 1622 che lasciava questi in legato all'arciprete Traina certe somme per finire le due navate, che erano ancora incomplete, ed onze 12 al pittore Pietro Asaro, per dipingere il quadro di Maria Maddalena penitente, il quale attualmente trovasi posto nell'altare suddetto". Come sia andata veramente la faccenda coll'arciprete Traina crediamo di averla sufficientemente ricostruita: Giustifico che oggi ignorandosi quanto ormai reso acquisito ad una critica storica alquanto documentata, si continua a reiterare topiche disdicevoli per un paese che ha prestigio culturale da difendere. Non posso giustificare i dispensieri di fondi del Comune che optano per efebici scultorelli alabastrini anziché dotare  biblioteche scuole e centri studi, di strumenti e fonti per un approfondimento della storia locale.. Della faccenda Traina abbiamo già qui e nel nostro blog detto oggi abbastanza e non vogliamo ripeterci ancora.
 

Quanto a questo benedetto sacerdote, tutto sommato esaltato da Sciascia, preciso che ho trovato nel LIBER in QUO ... al n. 46 questa annotazione: "D. Santo D'Agrò Beneficiale di nostra Signora dell'Itria .. obiit die 22 Julii 1637". A darvi peso, quel tinebriano testamento del 1622 salta per aria. Voglio qui togliermi l'uzzolo di una mia cervellotica congettura. Ad analizzare il quadri  che dovrebbe chiamarsi di Santa Maria Maddalena, Penitente (è così bello!) mi sembra di scorgere alla sinistra un nobile comitalmente vestito che potrebbe essere quel Girolamo del CARRETTO OCCISUS A SERVO".  Ma è solo congettura che non convince aco me. ALLORA CHI POTREBBE ESSERE QUEL MACILENTO GRAN SIGNORE CON ACCANTO UN RAGAZZETTO DI NOBILE LIGNAGGIO?
 

Senza Hegel staremmo ancora in uno stato teocratico, divisi magari fra Guelfi e Ghibellini, come ironizza il mio amico dottor Giovanni Salvo

Testè citai I Lineamenti"di Hegel. Perché? Vi voglio leggere una pagina, sempreché avete doti di divina sopportazione:
" L'origine del male in generale sta nel mistero, cioè nel lato speculativo della libertà, nella sua necessità di uscire dalla naturalità del volere e di essere interiore di fonte ad essa. E questa naturalità della volontà che, in quanto contraddizione di se stessa e incompatibile con sé, viene ad esistere in quell'antitesi; ed è, così, questa 'particolarità' della volontà stessa, che si determina ulteriormente in quanto male. La particolarità, cioè, è soltanto come un che di 'duplice'; qui, è l'antitesi della naturalità di fronte alla interiorità della volontà, la quale , in questa antitesi, è soltanto un esser per sé, 'relativo' e formale, che può attingere il suo contenuto, unicamente dalle determinazioni della volontà naturale: dal desideri, dallo stimolo, dall'impulso ecc.   ...." e via di questo passo. Mi sono rotto e chiudo.  Mi sta andando il cervello in fumo. Non so se questo Hegel mi turlupina .. o è più intelligente di me. Opto per questa seconda ipotesi e  passo ad altro. Ma sia chiaro: lo Stato moderno, lo Stato ETICO, lo Stato come realtà pensata, lo Stato al di là delle angustie della usuale ragione o peggio dell'angustia morale magari di derivazione cristiana; lo Stato laico di oggi promana da questo arduo filosofico vangelo. L'onesto governo deve fare i conti con la superiore etica dello Stato che deve provvedere al benessere dei cittadini, alla crescita civile dell'intera nazione (o della regione o del comune) alla libertà di tutti nell'ineludibile stato di necessità. Tutti i grilleschi piagnistei si sbriciolano, tutte  le arroganti predicazioni degli incompetenti sono vacue voci. Lo Stato provvede al di là del bene e del male, superando le meschine o ottuse logiche degli incolti, di belle anime senza intelligenza.

Sutor ne ultra crepidam

Se dipenderà da me, subito. Però ho una prelazione: quella di una donna. Se la donna che ho in mente mi lascia in braghe di tela (come sano fare le donne) il posto di sindaco è tuo. Ma tu dovrai firmare un protocollo di sottomissione: nella mia concezione - che è americana dove nessun candidato con superiore intelligenza è ammesso ma il presidente non deve dar fastidio a chi è in grado - non solo tu non esigerai nessuna cieca fede ma devi giurare assoluta ubbidienza a quello che io chiamo intellettuale  collettivo, diversamente un calcio nel culo e via. Il marketing poi te lo sogneresti. Quello lo jugulerei io che so come intrecciare i "derivati" cone supplicare tramire D'Alema i cinesi per massicci investimenti nell'aeoroporto solo scalo merci, come impietosire Palazzo Kock e consentitmi di una banca cooperativa locale che prenda tutto il seguito delle due banchette pirata che Campi ci ha sottratto, come esigere la tassa inquinamento sul gas che passa inquinando per le campagne iburtose del paese e finire alle industrie del Nord come dire a quello col dito alto di nome Bossi e via cantando. E a te? ti lascerei la resurrezione del Teatro Margherita perché lì saresti davvero un genio creativo. Per il resto te lo dico in latino Sutor ne ultra crepidam!

Non mi difendo. Stimo D'Alema


Confido che un po’ di stizza la prova quando  anche qualche voce amica storce ll muso per il mio relativismo in tema di “morale pubblica”. Governare onestamente, politici disonesti, mandare al comune persne oneste, esigere correttezza pubblica, niente più casta, nessuno rubi quando governa, quando fa il sindaco o il presidente della regione.

Adeguare l’arduo far quadrare i conti dello stato della regione della provincia (fin quado c’erano) del comune, della circoscrizione ad una angusta casistica da Sant’Alfonso dei Liguori mi fa sorridere. Voglio vedere costo messi di fronte ad attacchi speculativi esteri contro la lira un tempo, contro l’euro adesso cosa farebbero. Ma non è per loro. A mio avviso sono di solito anime morte che si rodono dentro d’invidia.

 

Chi mi vuol contraddire fondatamente si studi prima la Repubblica di Platone. la ‘Etica Nicomachea  di Aristotele e soprattutto Lineamenti di Filosofia del diritto di Hegel (possibilmente passando per Marcuse, Forstoff  Schimdt  Bobbio e Toni Negri) e poi mi contesti pure e se è in grado stigmatizzi questa insolente risposta che mi sono permesso di dare al mio stimato amico Nino Vassallo.

 

 

D'Alema è un mistero che non credo che possa venire esorcizzato con una battutella da seminario vescovile. Credo di conoscere Baffetto Massimo. Mi irritano tantissimo i suoi tic nervosi, il fatto che quando ti riceve, non avendo apparentemente cariche. ti riceve a Campo dei Fiori perché è là che ama ricevere. Se D'Alema dice che qualora qualcuno dovesse arraffare una certa carica sarebbe lo sconq...uasso del paese io credo a D'Alema e manderei a cinema quel bamboccione che osa irridere alle tragiche cose che dice D'Alema. D'Alema non ha bisogno di cariche perché è la carica. D'Alema è lo Stato Italiano e uno Stato ha una morale che la morale degli imbecilli non approva e il suo telefono è il telefono di STATO. D'Alema non ha cariche perché è lui che incarica. D'Alema è il partito, perché senza i finanziamenti occulti che solo lui sa reperire questo Civati non esisterebbe neppure, forse sgranerebbe rosari in qualche sagrestia ex democristiana. Dovrei continuare , ma non me ne frega un cazzo.

Pagine da revisionare di storia racalmutese

Trascriviamo una pagina del Settecento su Racalmuto- Molte notizie sono vere, altre equivoche,talune false, taluni errori poi corretti dallo stesso autore. Il Tinebra vi si abbeverò ingordo non facendo alcuna revisione critica. Sciascia acriticamente si abbeverò nel Tinebra. E noi fatichiamo le sette camicie per cercare i di ovviare a talune incrostazioni insense.
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore

[Copia anastatica dell'edizione Palermo 1759] - RAGALMUTO - [pag. 199 e ss. Parte II Libro IV]
Il nome di RAGALMUTO vuol dire in lingua Araba, cioè DISTRUTTO(i) MASSA - Sic. in Prospett. p. 2 C.E. f.282 -; e questo fa credere essere stata fabbricata dai Saraceni su le rovine di qualche estinta Città. Ella è Baronale con mero e misto imperio, luogo ottenendo tralle mediterranee della Valle di Mazara [a) - ARETII, Liber de situ Sic. ex Bibliot., CARUSII t I f. 22 c. 2], ed ivi fra le piu' belle che abbondino di grano, e di ogni sorte di biade. Fu di ragione di Ruberto MALCOVANAT Signore di Busacchino, il cui figlio Guglielmo adorno videsi dell'eccelsa carica di Maestro Giustiziere del Regno sotto il Conte Ruggieri, come notò Pirri nella sua Cron. de' Rè, f. 38, e nella SIC.Sac. not. Montisreg. fog. 460 c. 2. e 461 c. 1., e la tenne pur anche la Famiglia ABGRIGNANO, se diam fede a MINUTOLO - Mem. Prior. lib. 8, f. 273. Credesi indi concessa dal Rè Ruggieri Normanno figlio del liberatore testé accennato ad ABBO BARRESE in consuso con quelle Terre, che sotto l'aggettivo di pleraque oppida per conto di esso Barrese numera FALZELLO nella sua Stor. di Sic. dec. 2. lib. 9. cap. 9 f. 184 avvegnachè sullo spirare del secolo decimoterzo stava ella in potere di Giovanni BARRESE, il quale al riferire del Padre APRILE Cron. Sic. f. 144 c. 1 fu il primo tra i Baroni del nostro Regno, che nelle guerre fatte dall'armi dei Collegati Angioini in quest'Isola passasse al loro partito col suo vassallaggio consistente nelle Terre di PIETRAPERZIA, NASO, RAGALMUTO, CAPO D'ORLANDO, E MONTEMAURO, terra oggi disfatta, situata in quel monte, che si alza fra la Città di Piazza e 'l MAZZARINO presso il fiume Braeme. Sicché dichiarato fellone esso Giovanni, cadde Tal Baronia nelle mani del Reg. Fisco, da cui l'ottennero i CHIARAMONTESI,  possedendola primieramente Giovanni B. del Comiso, il quale per essa prestò servigio militare sotto il Rè Federigo II, così costando dalla seguente nota della Sic. Nob. di MUSCIA f. 23  D. Joannes de Claramonte pro Casali Comachi, quod emit a Beringario de LUBERA, PETRAMUSUNICHI, MUSARO, RACHALIANATO, S. JOANNIS, ET FABARIA
Quindi acquistandola successivamente FEDERIGO secondo di quedto nome, terzo genito di Federigo primo Chiaramonte, e di Marchisia Prefolio, e fratello di Manfredo Conte di Modica, e del chiarissimo Giovanni il Vecchio, l'accrebbe egli con la fabbrica di una forte Rocca, o sia Castello, che quivi sin oggi si vede in piedi, siccome ce 'l conferma Fazello dec. 1. lib. 10. cap. 3. fog. 468. Inveges nella sua Cartagine Siciliana  lib. 2 cap. 6. f. 230. e Pirri Sic. Sac. not. Agrig. fog. 758 c. 1 colle  seguenti parole; Propè  Gruttas ad duo  hinc p. m. RAYHALMUTUM Sarracenicum oppidum occurrit: ub arx est a Federico Claramontano olim eius Domino erecta. Fu sua mugliera Giovanna, siccome si legge nel testamento di esso Barone Federigo, che vien citato quì sotto: Item eligo meos fidecommissarios Dominum Bertoldum de Labro Episcopum Agrigentinum, Dominam Joannam consortem meam  etc. ma di qual famiglia si fosse, a noi non palese. Da questa Dama nacque Costanza unica di lor figliola, che nel 1307, nobilmente si sposò ad Antonio del Carretto Marchese di Savona, e del Finale [p.201] provieniente dalla Real Famiglia del Carretto derivata da Aleramo figliolo di Vitichindo Secondo Duca di Sassonia, e madre feconda di Pontefici di Porporati (a) [Ciacconio Vite de'Papi, e Cardinali ediz. Vaticana del 1630 t.2. f. 1376.], e Principi Sovrani, come notò Crescenzi par. 1. narraz. 20. cap. I f. 568, Barone nel suo Anfit.  Sic. Nob. lib. Proc. f. 5., e Sansovini Case Illustr. d'Italia  ediz. di Venezia del 1670 f. 317 e 319, celebrandosi tal maritaggio nella Città di Girgenti per gli atti di Notar Bonsignor Tomasio Terrana di Girgenti a dì 11 settembre  1307, ratificato in Finale l'istesso anno, come riferisce Barone ragionando di quella Casa Carretto nel suo libro De Maiest. Panorm. lib. 3. c. 11. lit. C., l'istesso anche confermando il testamento testè cennato di esso Barone Federigo fatto  nel 1311. a 27. di Dicembre 10 Ind., e poscia pubblicato a 22. di Gennajo del 1313. negli atti di Notar Pietro di Patti  con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Contantiam fialiam meam, consortem nobilis Domini Antonini Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Contantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditae substituo; ita tamen, quod si forte, [quod absit] dicta Domina Constantia absque liberis statim annos impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Joannem de Claromonte milites fratres meos, legitimè, et integrè revertatur. Venne essa Constanza per la morte di Federigo suo padre ad esser Signora, e Padrona dell'opulenta di lui eredità; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del CARRETTO primogenito, fece a lui libera, e graziosa donazione del retaggio di questa Terra, come appare negli atti di Notar Ruggieri d'Anselmo in Finari a 30 . Agosto 12 Ind. 1344. Rimase però Ella fra breve spazio d'anni Vedova del suo consorte Antonino, morto nella Città  del Finale, e per ritrovarsi bella, nel fiore della sua gioventù , e ricca, passò quivi alle seconde  nozze con Branca, altrimenti detto Brancalione d'Auria (b) [Ansalone, de sua Fam. digress. ult. f. 256] [PICONE lo confonde con un personaggio di DANTE - Inferno canto XXXIII] cioè DORIA, Famiglia nobilissima di Genova, che nell'anno 1335. fu Governatore della Sardegna. Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole, generando essa 1. Manfredo, da cui  discese Mazziotta,  2. Matteo, 3. Isabella moglie di Bonifacio figlio di Federigo ALOGNA; da cui nacquero Ciancone, e Vinciguerra ALAGONA.  Se ne morì finalmente in Girgenti , avendo prima fatto il suo testamento, pubblicato negli atti di Not. Giorlando di Domenico a 28.  Marzo 5  Ind. 1350 [ma il 1350 è 3 e non 5 Ind. - Notizia che sembra tratta da Inveges, v. Picone p. 480 nota 3], transuntato dopo in Catania ad istanza di Manfredo d'Auria  di lui primogenito negli atti di Not. Filippo Santasofia a 24. di Novembre 1. Indiz. 1361., nominando in quello molti esecutori di sua volontà, e fidecommissari, cioè il Vescovo di girgenti, allora Ottaviano di LABRO  Palermitano [p. 202] il suddetto Manfredo d'Auria suo primogenito, ed il Priore del Convento di S. Domenico della Città di Girgenti. E quì finalmente sepolta, essa venne nella Cappella di Federigo Chiaramonte suo genitore, fabbricata nel convento testè cennato di S. Domenico. Fece molti e pii legati, ordinando che si spedisse la fabbrica del suddetto Convento da suo padre cominciata, come anche nella Chiesa del Monasterio delle monache di S, Spirito di Girgenti, che si fabricasse una cappella, e sepoltura per la sua madre Giovanna (a) [Inveges, Cartag. Sic. lib. 2 cap. 6 f. 228  e segg.]. Ammogliossi il riferito Antonio del CARRETTO e CHIARAMONTE figlio primogenito di essa Costanza, come sopra accennai, con SALVASIA, di cui non si fa il cognome per l'antichità dei secoli, e con essa diede i natali a GERARDO, il quale servito avendo il Rè MARTINO nel 1398. contro i Baroni di lui ribelli in questo Regno, come dice SURITA Ann. Arag. par. 2 lib. 10 cap. 67 f. 429. c. 1 volle ritornare in Genova a godere gli antichi suoi vassallaggi degl'incliti suoi predecessori, e gli antichi domini della Città di Savona, e del Finale; sicché per far questo, quasi obbligato videsi a far rinunzia del presente Stato di RAGALMUTO a MATTEO DEL CARRETTO suo fratello germano, accompagnato co' Feudi di Sigliana, o sia Siculiana, Garriolo, e Concietto, ricevendo da lui a titolo di prezzo fiorini 3250 negli atti di Notar Antonio de ROSATA  in Agosto 1399, come dice INVEGES nel suo Palermo Nob. Famiglia del Carretto fog. 55 c. 1 e SAVASTA Caso di Sciacca tratt. 2 cap. 14 fog. 42. Ciò non ostante voglio credere essere stato fatto tale atto tra essi due fratelli in vim actus di divisione de' beni loro paterni, e materni, e di atto finale di accordo piuttosto, che di vendizione, avvegnaché esso MATTEO ottenuto avea prima l'invest. dello Stato di RAGALMUTO per privilegio di Rè MARTINO data in Palermo a dì 4. Giugno 4. Ind. 1392 (b) [R. CANCELL. lib. an. 1391. fog. 71], e per regie lettere di esso a 5. Frebbraro di detto anno, nelle queli viene egli chiamato da esso Sovrano col titolo di B. di RAGALMUTO, e con il trattamento, che più importa, di Marchese di Savona (c) [PROT. an. 1392. Sign. lit. E. f. 95]. Ed in quest'anno appare altresì aver liberato esso stesso C. MATTEO la Città di Palermo dalla tirannide de i CHIARAMONTANI, restituendola al real Demanio coll'opera insieme di Francesco VALGUARNERA giuniore B. del Godrano, e di Raimondo de Aptilia Pretore di essa città, come dice BARONE nel suo lib. De Majest. Panorm. lib. 3 cap. 11. Fam. Valguarnera, e del Carretto. Quindi è, che in considerazione di tali servigi fu a lui data da esso Sovrano l'eccelsa carica di Vicario Generale del regno, col'altra insieme di Camerlengo, e Maestro Razionale, notandosi da Pirri CHRON. REGUM f. 81. tra i personaggi piu' grandi della Città di Palermo, benemeriti di esso Rè Martino. Fu egli Signore delle Terre di Siculiana, e Calatabia[203]no, come si legge in BARONE loc. cit., ed in tutti i predetti Stati ebbe successore il figlio GIOVANNI, che di essi investissi jure haereditario nel 1401, sotto li 5. Agosto 9. Indiz. per privilegio del summontovato  rè Martino (a) [R. CANCELL. an. 1399. f. 177. - MINUTOLO, Mem. Prior. lib. 9. f. 294 - BARONE, loc. cit.], scorgendosi per essi ancora arruolato nel s ervizio militare de' Feudatari del regno, così presso MUSCIA, Sic. Nob. f. 69. «D. Joannes de CARRETTO pro Casali RAGALMUTI, et Feudis Columbuden, et mediate Sigliane ..7...Aggiunge egli al retaggio paterno i Feudi di Cabacia, Rjava, e Salamone, come appare sulla nota del detto real servizio f. 114 «D. Joannes de Carretto tenet feudum Cabariae, annui redditus unciarum XXXX. Feuda Rayavae, et Salamuni unciarum LXX». E da esso finalmente respirò vita il Barone FEDERIGO che investissi di questo Stato nell'anno 1453 (b) [R. CANC. an. 1453. f. 565. - MINUTOLO loc. cit.], genitore rendendosi di GIOVANNI giuniore, da cui venne ERCOLE (c) [Vien rammentato da Don VINCENZO DI GIOVANNI nel suo PALERMO RISTOR. lib. 4. f. 229. retr. nel famoso caso occorso tra i BONROSI con Paolo del Carretto fratello del Summenzionato Ercole][v.pagg.296-297] e da questo altro GIOVANNI, che col nome di terzo nei Baroni di RAGALMUTO prese sua investitura per essa Baronia nel dì 31 Gennaro 7. Indiz. 1519 (d) [R. CANC. an. 1518. 7. Ind. f. 462 - MINUTOLO, loc, cit.]. Di questo Cavaliere, scrive BARONE lib. cit, Fam. del Carretto, essere stato egli  onorato dall'Imperadore Carlo quinto quando fu un Palermo nel 1535. Con atti di distintissima estimazione  «hunc Carolus V Imperator, dice egli, cum Panormum  accessit miris affecit honoribus, ut pote qui tum propria, tum avita nobilitate dignus, qui susciperetur, quique inter Dynastas omnes precipuo honore habetur». Di esso fu nobile prole GIROLAMO , che fu lo stipite della presente investitura, come diremo appresso, e le due femmine MARIA e PORZIA; la prima delle quali si vede sepolta nella Chiesa del Monastero di Santa Caterina di Palermo dentro un tumolo marmoreo adorno della seguente iscrizione:
MARIAE de CARRETTO Joannis Domini RAHALMUTI filiae antiquissina, et
praeclarissima SAXONIAE Ducum stirpe, et quadam animi probitate
excellenti foeminae, quae annum aetatis agens septimum se ad Divae
Catharinae Coenobium religiosissimum aggregavit vixitqie singu-
lari probitatis exemplo itaque anno 1566 Coenobii Antistita dele-
cta familiam meliore vitae ratione informandam curavit, eiusdem
deinde Coenobii Templo, quod condere inceperat absoluto, vitam omni
laude cumulatam explevit D. PORTIA de CARRETO uxor D. Gasparis
de Barresio illustris vir carissimae sorori hoc amoris, et doloris
monumentum posuit. Vixit annos 70. Antistita annos 30. Obiit
anno 1598.
Scorgendosi la seconda cioè PORZIA testè avvisata dentro un altro tumolo, eretto nella Cappella di Nostra Signora della Grazia della Chiesa de' Padri di S. Cita di Palermo col seguente epitaffio:

Conditur hoc tumulo BARRESIS PORTIA, paris
CARRETTI illustris, candida progenies.
Vivit nobilitas, vivit post funera virtus.
Sic moriens Coeli gaudia laeta subit.
Obiit anno 1607 mense Julii die 25.
Accanto di questo tumolo se ne vede un altro appartanente ad essa casa CARRETTO, ove si legge:
CARRECTI genere et claro jacet orta Beatrix
virtutum ardenti lumine splendior.
Vixit cara viro moriens, coeloque recepta est,
Inde Beatricis nomen, et homen habet.
D. ARDENTIA ARCAN D. Betricis CARRETTOS PHILADELPHI olim Baro-
nissae matri suae suavissemae tumulum propriis expolitum la-
crymis moestissima
Succedono quindi
GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per provilegio del serenissimo  Rè Filippo Secondo, dato nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576 (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1], esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577 (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]. Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f. 242 retr.], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone gloria, ed ornamento. Presedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni 1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p. 205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo nel 1600. (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta di VICARI, e porta di MACQUEDA] di non minor merito di quello del genitore come vuole il citato DI GIOVANNI nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu egli dotato d tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e magnati suoi contemporanei. Quindi prevalse appo il detto di Macqueda  Vicerè di Sicilia, a segno tale che lo fece strategoto di Messina, qual ufficio però non potè egli esercitare, per essere stato provveduto contro la forma de' Privilegi de' Messinesi, che ammetteano  solamente colui, il quale ne avea la real patente. Trascelto videsi Governatore della Compagnia de' Bianchi di Palermo negli anni 1597., 1601. e 1605., e fu Diputato del Regno nel 1600. Festeggiò suo sposalizio con Margherita d'Aragona Tagliavia e Marinis figlio di Giovanni D'Aragona, e di Maria Marinis della Favara, e D. di Terranova jugali (b) [PIRRI Chron. Regum f. 22]; parto della quale fu C.
GIROLAMO del CARRETTO ed Aragona, chiamato il giuniore (c) [BARONE, loc. cit.], da cui vide la prima luce
GIOVANNI quinto, che fu il primo P. di VENTIMIGLIA (d) [Notisi, che il succennato GIOVANNI del CARRETTO non  fu Pretor di Palermo, e Diputato del Regno nel 1600, come si disse per errore par. I lib. 1. f. 24. tom. 1, ma bensì lo fu il lui avolo, cioè il quarto GIOVANNI secondo C. di Ragalmuto, come sopra ho notato; percò tal luogo deve correggersi], come narrai nel capitolo di detto Principato par. 2 lib. I. f. 74], ove si vede il rimanente della genealogia di detti principi del CARRETTO e Conti di REGALMUTO, sin tanto che estinti essi in PALERMO colla morte dell'ultimo Principe GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA, passando detta contea nelle mani della di lui vedova BRIGIDA SCHITTINI e GALLETTI, che jure crediti, delle sue doti aggiudicossela investendosene a 10. Luglio 1716, se ne vede oggi investita sin dal 1747. del dì 16.Marzo la vivente Principessa di Palagonia GRAVINA Maria Gioachina GAETANI e BUGLIO, e C. di Ragalmuto, la di cui invest. per detto Stato cadde a 7. Agosto 1735., e del titolo di essa a 12. Aprile 1736.

Sciascia non apprezzava molto Pietro D'Asaro


Apprezziamo molto questa iniziativa di SEMPLICEMENTE RACALMUTO didi proiettarci vecchie foto che vanno scandendo squarci di una Racalmuto qual era e quale oggi sempre più va scadendo  nell’oblio delle sue memorie.

 

Ma in questa foto viene annotata una sintesi di quanto pubblicato nel catalogo della celebre e celebrata mostra patrocinata da Leonardo Sciascia per onorare una gloria di Racalmuto che corrisponde al Monocolo, il pittore Secentesco Pietro d’Asaro.

Pietro d’Asaro ultimamente è stato accreditato dai massimi cultori del Caravaggio: al nostro paesano tra l’altro gli si riconosce il merito i dedicarsi anche lui ad una vivificante rappresentazione di nature morte che appunto da Caravaggio cominciarono a divenire soggetto pittorici fantasmatici segnando l’abbandono dell’umanesimo, l’uomo al centro dell’universo e di riflesso di un quadro, per cedere il posto alla natura e ai prodotti dell’uomo. Una corrente pittorica che ebbe poi la svolta e la grande consacrazione in Cezane e da questi, per quanto riguarda noi siciliani, a Francesco Trombadori.

 

Sciascia non fu  mai grande estimatore del conterraneo pittore.  Diciamo che non stravide per Pietro d’Asaro. Credo che malvolentieri dovette celiare condivisione sentita per l’iniziativa della mostra. Nel presentarla, si rifugia nell’erudizione, richiama Guicciardini e si inventa per Racalmuto un momento felice “grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa ‘bella’ e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico illustre, di un teologo e di un eretico”. Certo in quel tempo Sciascia era tutt’altro he un “rondista” ma nella sua pur asciutta prosa molto scarno appare nell’omaggiare il celebrando pittore. E non lo gratifica neppure di u n pur semplice aggettivo di circostanza.

 

Meraviglia invece quell’indugiare sul generoso prete che è poi Santo d’Agrò accreditando di un encomio desunto da una topica storica del citato Tinebra. No, Santo d’Agrò non volle nessuna chiesa “bella” e i soldi del suo testamento dovevano servire solo per una “bella” tumulazione alla Matrice,- E sopra tale toma dopo fu apposta dagli eredi questa pala che si attrbuisce (ma non è certo)  a D’Asaro.

 

Leonardo Sciascia a 25  anni aveva scritt0: “ Pietro Asaro, pittore locale non ignobile e di vita inquieta che ha qui [a Racalmuto] lasciato, quasi in ogni chiesa, familiari santi e monumenti della passione.” Addirittura di squincio ebbe a tacciare l’Asaro come familiare del Santo Ufficio. Ma poi dovette desistere pe inesistente documentazione.

 

Leonardo Sciascia ha invece qualche occhio di riguardo per il prete Santo d’Agrò. Accredita, come detto,  fandonie del Tinebra. Noi abbiamo cercato di ridimensionare quelle fantasiose elucubrazioni sui meriti dell’Agrò. Ma niente. Qui continuiamo ed essere negletti. Avevamo sintetizzato nostre ricerche con queste considerazioni. Le riportiamo in contradditorio delle affermazioni storiche che come cartiglio si portano sotto il quadro della Maddalena.

 

“A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637)  dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.”

 

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“Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò.  Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie  è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.” 

RACALMUTO NEL'600

LA CONTEA DI RACALMUTO NELLA PRIMA META' DEL '600  
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto in favore del figlio Giovanni V del Carretto

Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note  di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero forsennate.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.

I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
 
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado.  La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro  c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione  racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622  altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il diploma vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi di del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621  ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto seguente il bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che l’ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello a Racalmuto.
Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino da parte del cardinale Doria.

In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si  parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo. che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'.
II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine  23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
 
   Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del PIRRI. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta  per incuria di alcuni,  ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che travavasi dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per il prof. Giuseppe Nalbone non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato)  nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova”  usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il Prof. Nalbone trova, però, molte inesattezze nell’opera dell’Acquista.
 
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xxliis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la  sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XXlijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XXlijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636.  

GIOVANNI  V   DEL CARRETTO
 

Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un  tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso:
«Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo  del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione  aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per  la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.
[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito  il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del  Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo. »
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto l’abbiamo in un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina . Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’ suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo

Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita)  e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella.  Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis  et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver  dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia  leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano  et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO  e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare.
Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria. 

Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di ricorso perverso, viene riesumato a danno  sul nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano.  E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. () Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato  a pagare entro un mese al monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo.
Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi universali.
In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza,  il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale.
Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In  un arido documento palermitano v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
 
Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.

Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.
Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si consegue l’avallo delle superiori autorità.
La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo.
La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=

Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile! Ma si racchiude tutta qua  la giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de Spucches -  avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.

 Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può.  Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra) inizia la controversia per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur  et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].”  Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda,  così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi  - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ...  Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali: ()
Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.)  - Il margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.
Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die  octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare  delli borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre  et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [] et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.

Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637)  dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis. 
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
 Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò.  Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie  è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti. 
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
 ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
L’interregno di Maria Branciforti
 

Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto torna in potere dei del Carretto.
Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo.
Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla Gancia di Palermo:
(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382  e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui ignoriamo l’età.

GIROLAMO III DEL CARRETTO
 

Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tal Macaluso - in mano dei Gaetani.
Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:
1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA  C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA  BEATRICI CARRETTO C.TA
 
Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.
S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine.
La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:
«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674); Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile.
Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.
E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione.   Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO  1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693  .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:
1. Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti  comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS
Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:
906 10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati che emergono dal Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. 
Il conte ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.