sabato 28 marzo 2015

Vescovi e monsignori, preti e i potentissimo padre gesuita Tacchi Ventura in difesa di don Calogero Vizzini, ma il confino col fascismo non gloelo leva nessuno





Il castello chiaramontano. ieri, oggi e domani?

Sto rubando molte foto a Piero Carbone. E manco gli ho chiesto permesso (perché diversamente, che latrocinio è?). Molti ma dai Calo':pochi)  sanno che tra me e la Hamilton Caico (lady Chatterley in miniatura al di là di Gibillini) non corre buon sangue. Lei nei primi anni del Novecento ci ha a noi Racalmutesi DO smerdato in inglese, ridicolizzandoci in tutto il mondo anglosassone, India compresa,  affermando che a Racalmuto di intelligenti c'era solo un prete brigante (il Bufalino Maranella ex frate con messa di Montedoro). Io che me la sono presa finii nei blog di Piero come uno sciatto facitore di false storie locali per decisione dei potenti Messana Monte-meneghini. Non facevo altro he scivolare da un abbaglio all'altro nel ripercorrere la storia (piccola ma rispetto a Montedoro titanica) di Racalmuto.

Una ventina di anni fa quando la Caico Hamilton era cosuccia montedorese ebbi un suo libro datomi da mio fratello preside a Caltanissetta. Vi trovai foto di Racalmuto. Erano del primo decennio del 1900 ed erano preziose nella loro apprssimazione. Ne ho fatto pubblicazione nel mio eterogeneo QR e qui ne riproduco un paio che attengono proprio al Castello che da Fridericiano è divenuto Chiaramontano per abdicazione dei massimi storici locali.

Ora Piero invaghitosi dell'antiracalmutese Caico Hamilton ci mostra quelle foto in bella copia. Il Castello sembra tutt'altra cosa.  Pubblichiano questa:





Invece per decenni il casello era così:









 Ci riserviamo acidi commenti in u prossimo futuro.

La Caico di Montedoro insolentisce Racalmuto. Io, racalmutese fiero, insolentisco la Caico e i suoi giullari.

venerdì 5 luglio 2013

La Caico denigrò Racalmuto ... Sciascia (beffardo) sorrise,

 
Sciascia un paio di altre volte si dedica all'arciprete Casuccio. Ne scrive ad esempio a pag. 10 delle Memorie del Tinebra  ricordando di avere fatto ricorso alla memoria del "vecchisimo ex arciprete (novantasette anni)" per avere modo di sbeffeggiare una certa Caico "- inglese sposata ad un siciliano di Montedoro". Oggi quella Caico, che tanto denigrò i racalmutesi la si vuol beatificare, plaudenti nostri insigni paesani.
Noi ce siamo dovuti occupare a difesa del nostro onore (letterario) atteso che un tal Messana Muntiduuriisi ci addebitava "scivoloni grotteschi". Qualche letterato locale  applaudì. Riportiamo qui un nostro non certo umile post.
 
 
 
 
 
 







 

Si dà il caso che scartabellando tra i mucchi di fotocopie di casa mia a Roma trovo questa impresentabile riproduzione dell’ormai lady Chatterley di Montedoro: il mondo di Louise . L’originale resta a Racalmuto e quindi le foto che qui riproduco non fanno giustizia alla indubbia abilità fotografica di questa fragile creatura d’Inghilterra.
E’ inutile negarlo: scrive soavemente; ha periodo lucido, ha aggettivazione accattivante, la sua paratassi non è di fattura scolastica. Certo, l’animo è femmineo, esile, e l’immagine è talora sdolcinata. Ma i luoghi sono resi per la loro avvenenza. E quel che mi appassiona e una Racalmuto  solare, mediterranea, persino possente con i suoi due torrioni di piazza Castello.
La Louise incontra un prete: padre Giuseppe. Saprà dopo (o crederà di sapere) che da giovane fu brigante  e chiamava “crocifisso il suo coltello”.  Ma sono due villici montedoresi  a cimentarsi a chi la sparava più grossa contro l’invidiato e più evoluto paese contiguo, il mio Racalmuto. Uno si chiamava Alessandro che a Montedoro credo si dica Lisciannaru e l’altro Turiddu (l’inglesina non lo italianizza). Come vede Louise quei due rozzi montedoresi, con tocco di romantico travisamento:  in un misto tra l’armonia dell’aprico monte Castelluccio ed il pittoresco dell’afrore contadino di questi due selvaggi compagni di viaggio.
A guardarli questi due villici accompagnatori della diafana Louise non saprei a chi dare lo scettro dello stalliere di lady Chatterley, ma nessuno dei due mi appare con le phisique du role  di David Herbert Lawrence (1885-1930) e l’arditezza del peccaminoso “strusciamento” a chi toccasse credo che manco l’onnisciente Messana di Montedoro saprebbe dirlo.
Va anche aggiunto che Sciascia non è perspicuo nel sintetizzare queste pagine di Louise, l’inglesina sposatasi a Montedoro: la sua consecutio temporum (storica e logica) mi pare inquinata da un lapsus memoriae come anche la vedova non ebbe ritegno ad ammettere con una mia cosa. Anche Sciascia, quando andava a memoria, cadeva nei “lapsi mamoriae” come ogni comune mortale. E siccome questo è un mio difetto che con il passare degli anni si aggrava , non sarò io a contestarlo. Certo, dimentico quanto volete ma non credo che dopo attente consultazioni possa davvero cascare in scivoloni grotteschi come il motedorese Messana impudentemente mi rinfaccia.
Sciascia invero s’indusse in errore perché indusse in errore l’arciprete Casusscio con quel magro e fuorviante padre Giuseppe della Caico. Forse l’attenzione andava spostata dall’ex francescano all’altro tonacato a cognome Romano, che mi risulta piuttosto discolo. Ma comunque  non tale da potere dire di lui (e men che meno di padre Giuseppe Bufalino Maranella):  un prete  molto “originale … perché nonostante la sua tonaca, viveva da feroce bandito. Chiamava crocifisso il suo coltello, ed era fedele amico e compagno di autentici briganti; arrestato più di una volta come ladro e assassino, è stato condannato a molti anni di esilio, e persino ora da vecchio, non se ne sta tranquillo come dovrebbe, dato che il vescovo gli ha ridato il permesso di dire messa”.
Ciarla di Alessandro da Montedoro, che il Messana mi pare cognomina come Augello. Lasciamolo stare come “grottesco microstorico ecclesiastico di Racalmuto”; ma neppure come loico mi pare che brilli. Se il vescovo a questo innominato padre Giuseppe “ridà il permesso di dire messa” (meglio leva la suspensio a divinis) vuol dire che il vecchio brigante si era ravveduto e che quindi da “vecchio  se ne sta tranquillo come dovrebbe”. Il Messana lo “scivolone grottesco” dovrebbe appiopparlo al suo prediletto compaesano.

Ma dove casca ancor più l’asino è in questo passo della deliziosa Louise: “L’ho mandato a chiamare  rispose Alessandro (alias Lisciannaru), perché sapevo che ci voleva una persona intelligente per parlare con Voscenza, e padre Giuseppe è l’unica persona intelligente a Racalmuto!”.

Non è del tutto fedele Sciascia quando fa dire alla “guida: E’ il solo uomo intelligente che c’è a Racalmuto; purtuttavia cade in uno intenzionale scivolone grottesco il Messana di Montedoro quando vuol tutto attenuare trasformando l’apodittico anatema di Liscianaru Augello in un passabile “ padre Giuseppe è tra le persone PIU’  INTELLIGENTI di Racalmuto”. Et de hoc satis.

L’abbiamo scritto quando eravamo innamorati di Montedoro (e su via! Lo siamo ancora ed anzi ancor di più; se una persona degna, intelligente e positiva incappa in una cazzata, poco male: succede a tutti .. il grave sarebbe per qualche carnalivari ca ‘cci va appriessu)  dichiaravamo di grande importanza archeologica lo scritto di Louise e soprattutto le foto di Louise. Ci ha tramandato squarci di Racalmuto unici e preziosissimi. Innanzi tutto, il Castello: hanno avuto di che fracassare padre Cipolla e certi santoni della Soprintendenza (e persino il genio militare nella guerra del 40-43 – per noi di Racalmuto). Louise ci ha tramandato una serie di foto di lu Cannuni (Cannuni, perché i militari del ’40 avevano piazzato in cannone sopra la torre di Nord-est; così almeno noi la sappiamo e potremmo venire documentalmente smentiti ma non per sentito dire), che mi consentiranno quando sarò sindaco di fare sagace e sapiente restitutio in integrum, depurando ogni tintura al ducotone, e recuperando i reperti archeologi del sotto-castello che so esservi a completamento del sarcofago romano di patri Cipudda e delle ceramiche che una ragazzuola protetta ha dichiato del quattrocento saccense.

Louise incontra padre Giuseppe che ci appare molto agguerrito in microstoria Racalmutese (altro che incallito brigante in senescente ladroneria);  dice all’inglesina cose di recente apprese e piuttosto corrette (qualche sbavatura è perdonabile). Si vede che codesto padre Giuseppe ha letto le memorie del Tinebra; e le ha lette per il verso giusto, senza bizzarrie fantasmatiche.

Padre Giuseppe affascina l’inglesina; Lisciannaru ne è geloso: non può competere sul piano dell’erudizione da ostentare a Voscenza. Si sbizzarrisce in “grottechi scivolini” microstorici tanto da fare “inorridire” la lady e le donne son volubili ma non come le vorrebbe Verdi; sempre pronte a mutare “d’accenti e di pensiero”.

Lisciannaru credo che tutto sommato confondesse e l’ex padre francescano o il non santo padre Giuseppe Romano con qualcuno che non la condanna al carcere ebbe ma processi civili sì e sospensioni a divinis tante: il padre Burruano. Questi però a tempo della gita a Racalmuto della lady Chatterley di Montendoro era morto da una quindicina di anni. Ne ho scritto, su codesto  davvero singolare prete capostipite  della gloriosa (almeno per tanti) famiglia Burruano (quella del feci quo potui, faciant melora potentes): mi si è rotto il computer ed ho perso le ricerche. Ne ha una copia quasi integrale l’avvocato Burruano: spero che ne faccia tesoro.

Interessante è soprattutto la descrizione del Castelluccio. Molto più veritiere delle notizie del Tinebra, quelle di carattere storico anche se non del tutto centrate, sono però le foto, davvero di somma importanza. Quella chiesa là è cimelio storico da recuperare. Vi era un vero e proprio villaggio attorno a quel Castrum, fortezza militare comunque imprescrittibile, inalienabile, inusucapibile. Non semplice “piccola cappella ora abbandonata” un tempo rifugio, non di “pacifici abitanti” assaltati da” pirati , sbarcati  nelle baie ridenti” (farneticazioni di inglesine in fregola romatica) ma da veri e propri coloni  dell’altro feudo “quello di Gibillini” in mano a varie nobili famiglie sino alla decadenza dei Tulumello che in quella chiesa, che piccola non era, andavano ogni domenica a sentir messa. Erano i castidddruzzara – ed un sopravvissuto diede uva e ristoro alla triade della lady – che in una numerazione delle anime del 1828 sono in Matrice segnati per come , cognome, età e consistenza familiare.

Seguiamo con voluttà la ormai diruta conformazione archeologica: “ la vista di una misteriosa scala ricavata nello spessore ricavata nello spessore delle mura, che conduceva chissà dove, evocava alla mia mente ogni sorta di romantiche avventure medioevali, e intanto gli uomini, che avevano condotto i cavalli nelle stesse stalle del castello, così ampie da poter accogliere ottanta cavalli, tornavano a disperdere crudelmente il mio fantasticare su quelle misteriose rampe di scale, domandandomi se non avessi fame, etc. etc.”

Preziosità da potere persino sfruttare per un turismo d’élite, scomunicando i nostri contigui nemici architetti di Grotte che penserebbero invece a fare di quel romantico castello una bolgia peccaminosa per ruffianerie e gozzoviglie  di depravato turismo.


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Sciascia sbeffeggia la Caico Hamilton; Racalmuto d'oggidì fa gli onori di casa alla Hamilton-Caico.

Di una cosa io mi arrabbio: ma abbiamo fierezza noi di Racalmuto? Dunque una pischerla si mette a denigrare questo nostro glorioso "borgo natio". Leonardo Sciascia scrive cose di una sapida  ironia d'alto bordo contro questa cavallerizza in giro per i campi col suo stalliere e noi ci mettiamo a omaggiarla oltre misura. E poi magari neghiamo una via al gande Ispettore Generale di P.S. Comm. di San Maurizio e San Lazzaro Ettore Messana perché Malgrado Tutto preferisce sposare le tesi infamanti del Casarrubea.
http://ww
w.trs98.it/?p=107491

Una ventina di anni fa quando la Caico Hamilton era cosuccia montedorese ebbi un suo libro datomi da mio fratello preside a Caltanissetta. Vi trovai foto di Racalmuto. Erano del primo decennio del 1900 ed erano preziose nella loro apprssimazione.

Sto rubando molte foto a Piero Carbone. E manco gli ho chiesto permesso (perché diversamente, che latrocinio è?). Molti ma dai Calo':pochi)  sanno che tra me e la Hamilton Caico (lady Chatterley in miniatura al di là di Gibillini) non corre buon sangue. Lei nei primi anni del Novecento ci ha a noi Racalmutesi DO smerdato in inglese, ridicolizzandoci in tutto il mondo anglosassone, India compresa,  affermando che a Racalmuto di intelligenti c'era solo un prete brigante (il Bufalino Maranella ex frate con messa di Montedoro). Io che me la sono presa finii nei blog di Piero come uno sciatto facitore di false storie locali per decisione dei potenti Messana Monte-meneghini. Non facevo altro he scivolare da un abbaglio all'altro nel ripercorrere la storia (piccola ma rispetto a Montedoro titanica) di Racalmuto.

Una ventina di anni fa quando la Caico Hamilton era cosuccia montedorese ebbi un suo libro datomi da mio fratello preside a Caltanissetta. Vi trovai foto di Racalmuto. Erano del primo decennio del 1900 ed erano preziose nella loro apprssimazione. Ne ho fatto pubblicazione nel mio eterogeneo QR e qui ne riproduco un paio che attengono proprio al Castello che da Fridericiano è divenuto Chiaramontano per abdicazione dei massimi storici locali.

Ora Piero invaghitosi dell'antiracalmutese Caico Hamilton ci mostra quelle foto in bella copia. Il Castello sembra tutt'altra cosa.  Pubblichiano questa:





Invece per decenni il casello era così:









 Ci riserviamo acidi commenti in u prossimo futuro.

controprocesso nella FONDAZIONE SCIASCIA

L'importanza del processo per diffamazione intentato dal generale Giallombardo contro il prof. Casarrubea è estrema. Le carte processali andrebbero tutte quante riconsiderate magari mimando un contro processo alla FONDAZIONE SCIASCIA.
 
Della colpevolezza o meno di Ettore Messana si tratta. Se Messana dovesse essere quel CAPO BANDITO politico che avrebbe voluto il comunista Li Causi e che pare vorrebbe rimarcare ancora l'ex comunista Casarrubea, sarò il primo a desistere dalla mia intenzione di far dedicare una importante strada ad Ettore Messana nel suo paese di origine (anche se non ci è nato): RACALMUTO.
 
 
Se no, VOGLIO LA STRADA.
 
Intanto estrapolo passi della sentenza mezzo assolutoria e mezzo  tartufesca (assoluzione per prescrizione e non perché il fatto non sussista). di quel lungo dispositivo   - credo redatto  dal PM - del 26 aprile 2006 (cose dunque di nove anni fa).
Ve li sottopongo al vostro discernimento.
 
Per me è topico questo passaggio:
 
"La tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e PISCIOTTA al processo di Viterbo."
 
Su questo punto esplicherò le mie considerazioni come dire quale contro PM del processo.  Ma rinvio il mio svolgimento del tema  a tempi migliori.

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Infine, giunto sul posto il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, il capitano GIALLOMBARDO, venne convocato presso l’ufficio del gen. Dei CC. CALABRO’, per una riunione insieme all’ispett. di Pubblica Sicurezza MESSANA E al colonnello PAOLANTONIO. Quest’ultimo, però, su richiesta espressa del GIALLOMBARDO, non partecipò alla riunione.

Nel corso di tale incontro l’ispett. MESSANA accusò il GIALLOMBARDO di avere ucciso FERRERI nonostante avesse saputo dal col. PAOLANTONIO che il bandito era un loro confidente ed anzi proprio per tale motivo. Seguì una lite durante la quale il capitano contestò la veridicità di tale affermazione.

Successivamente, nel corso dell’autopsia, alla quale assistette anche il GIALLOMBARDO, questi ebbe modo di verificare che il FERRERI era stato attinto anche all’addome da un pallettone del fucile da caccia sparato dal brig. CALANTONI nel corso del conflitto a fuoco. I medici legali gli riferirono che il FERRERI sarebbe morto comunque di peritonite a causa di questa prima ferita, come del resto annotato anche nel processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947, redatto dal G.I. dott. G. MACALUSO.

Nel corso del suo esame da parte del PM e del difensore di parte civile, il gen. GIALLOMBARDO ha fatto inoltre più volte riferimento ad una serie di documenti, prodotti dalla difesa di parte civile all’udienza del 02.07.04. In particolare il teste ha ricordato l’attestato di conferimento della medaglia d’argento da parte del Presidente della Repubblica, l’elogio della giunta di Alcamo, la lettera di compiacimento del generale dei CC, il Rapporto Giudiziario da lui steso in data 01.07.47, in ordine al conflitto a fuoco, l’archiviazione in data 30.12.1948 del procedimento penale cui il GIALLOMBARDO fu sottoposto per la morte dei banditi. (pag. 10)

Ma rilevanti nuove circostanze, precisazioni ed anche contraddizioni, emergono in sede di controesame del teste da parte del difensore dell’imputato.

In primo luogo è infatti risultato che il confidente che avvertì GIALLOMBARDO dell’incontro, cui doveva partecipare il FERRERI nei pressi di Alcamo, era un appartenente alla mafia locale (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 35).

In secondo luogo il teste ha chiarito che il Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, da lui sottoscritto, era stato in realtà redatto dal suo superiore, maggiore Marinesi Vincenzo (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag. 50).

Rilevante è inoltre la contraddizione emersa in ordine alle condizioni fisiche del Ferreri, al momento in cui questi si fece notare dai gradini del magazzino: il GIALLOMBARDO ha insistito nell’affermare che il bandito appariva perfettamente sano (“era un grillo…un felino”) e che non sanguinava; ma nel Rapporto Giudiziario è invece riportato che il FERRERI disse subito: “Non mi toccate, sono ferito…” (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.04, pagg. 93, 94, 95 e del 14.10.04, pagg. 6, 33, 34).

Altro particolare importante riguarda il momento in cui i carabinieri trovano FERRERI e la consapevolezza del capitano GIALLOMBARDO, già da quel momento, di trovarsi proprio di fronte al bandito. A tal proposito il teste dice: “Io coscientemente sapevo di affrontare Fra’ Diavolo, perché sapevo di affrontare Fra’ Diavolo.” (cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pag. 7). Nonostante ciò il FERRERI non venne ammanettato durante il trasporto né dentro la caserma, perché l’ufficiale aveva dato credito all’affermazione del bandito di essere un agente segreto ( cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pagg. 24-25).

Elemento di assoluto rilievo emerso nel corso del dibattimento è che il Rapporto Giudiziario del 01.07.1947, non solo è stato in realtà redatto dal maggiore MARINESI VINCENZO e non dal firmatario dell’atto, ma riporta delle circostanze false, relative proprio al momento critico dell’uccisione del bandito FERRERI. (pag. 11)

In particolare il gen. GIALLOMBARDO ha riferito che durante la colluttazione né il maresciallo LO BELLO né il carabiniere GUERCIO gli diedero l’aiuto descritto nel rapporto, ma anzi lo lasciarono solo: “Il maresciallo LO BELLO soffriva di stomaco. Se l’era fatta addosso. Ed è andato via. E mi ha lasciato solo. Il carabiniere GUERCIO dichiara che con il moschetto cercava di… Ma non è vero…non poteva esserre armato in caserma…il moschetto si usa nelle perlustrazioni… scappò pure lui”. Ne deriva che i due carabinieri non furono testimoni dell’uccisione del FERRERI, contrariamente a quanto da costoro sostenuto nel corso dell’indagine che seguì a tale fatto (cfr. trascrizione dell’udienza del 14.10.04, pagg. 55,59,60,61). Del resto il testre aggiunge che in realtà solo sua moglie fu presente alla fase finale del confronto con il bandito (cfr. trascrizione dell’udienza del 14 .10.04, pag. 63).

Infine il GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del generale CALABRO’, precisa di aver espressamente richiesto che il col. PAOLANTONIO non partecipasse a tale incontro, proprio perché sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo per tempo informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza (cfr. trascrizione dell’udienza del 14.10.04, pag. 95).

Gli elementi probatori introdotti dalla difesa dell’imputato, mediante escussione di diversi testi e produzioni documentali, hanno fatto luce sullo stato della conoscenza del fatto storico al momento della stesura del libro “Portella della Ginestra- Microstoria di una strage di Stato” e sul metodo scientifico d’indagine seguito dall’imputato, con particolare riferimento alla raccolta del materiale utilizzato e alla verifica delle fonti, dalle quali esso è stato prelevato.

Il teste LUPO SALVATORE, professore ordinario di storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo e autore del libro “Storia della mafia dalle origini ai nostri giorni”, ha affermato che FERRERI, secondo le acquisizioni universalmente note ed accertate da atti giudiziari, era stato un confidente dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza ed aveva (pag. 12) promesso all’ispettore MESSANA di consegnargli GIULIANO (trascrizione dell’udienza del 06.05.05, pag. 12) .

Il teste ha precisato che fonte molto autorevole sull’argomento è l’archivio documentale lasciato da FRANCESCO SPANO’, capo dell’ispettorato interprovinciale dopo MESSANA e maggiore collaboratore del prefetto MORI. L’ispettore, in particolare sostenne, in documenti poi pervenuti al figlio ARISTIDE, che FERRERI era uomo nelle mani della cosca alcamese dei RIMI, i quali indicarono all’Ispettorato il FERRERI, come possibile tramite per arrivare a GIULIANO. SPANO’ riteneva che VINCENZO RIMI era fiduciario per l’uccisione di FERRERI da parte dei carabinieri, perché temeva che il bandito, arrestato, parlasse.

Il prof. LUPO ha inoltre spiegato che per la gran parte degli storici la fine del FERRERI è da ritenersi “misteriosa” sia per le modalità della stessa sia perché il bandito era un possibile testimone della strage di Portella della Ginestra e forse addirittura conosceva i mandanti della stessa. FERRERI, infatti, aveva riferito al colonnello PAOLANTONIO di una lettera ricevuta da GIULIANO, il quale, dopo averla letta, disse: “Domani dobbiamo andare ad uccidere i comunisti a Portella” (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 17, 21, 33).

Il teste, infine, nella sua qualità di professore universitario e di esperto della materia trattata, ha detto di ritenere che nel libro in questione siano stati esaustivi la raccolta del materiale utilizzabile e lo studio delle fonti dalle quali esso è stato prelevato e che lo scrittore abbia riportato una versione dei fatti largamente condivisa nella comunità degli studiosi (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pag. 23, 24).

Il teste Barrese Orazio, giornalista ed autore del libro “La guerra dei sette anni” sul bandito Giuliano ha riferito di aver seguito, negli anni Settanta, tutti i lavori della Commissione parlamentare di Inchiesta sulla mafia, ed in particolare, della sottocommissione Mafia e banditismo.

Egli ha in particolare affermato che, in base ai suoi studi FERRERI era stato presente il giorno in cui GIULIANO, tra il 27 e il 28 aprile 1947, aveva deciso la strage di Portella, annunciando al resto della banda: “E’ venuta l’ora della nostra liberazione”(pag. 13). Il particolare della sua presenza in tale occasione, é infatti suffragata da diverse testimonianze rese durante il processo di Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia ( trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pag. 47, 48,68,69,70).

Il bandito GIOVANNI GENOVESE, deponendo davanti al giudice istruttore del tribunale di Roma, su tale circostanza aveva rivelato: “Il 27 o il 28 aprile 1947,…..sono venuti a trovarmi GIULIANO con i fratelli PIANELLI ed il FERRERI SALVATORE… verso le ore quindici è sopraggiunto SCIORTINO PASQUALE, il quale portava una lettera….Hanno letto il contenuto della lettera….Dopo averla letta, la bruciarono con un cerino… Egli allora mi ha detto: ‘E’ venuta la nostra ora della liberazione… bisogna fare un’azione contro i comunisti: bisogna andare a sparare contro di loro, il primo maggio a Portella della Ginestra…. Presenti alla nostra discussione erano i fratelli PIANELLI ed il FERRERI” (vedi documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, doc. n. XXIII, n.2, vol. IV, deposizione di GENOVESE GIOVANNI, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).

Barrese ha aggiunto che, dalle stesse fonti, testimonianze rese durante il processo di Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia, si evince anche la presenza del bandito FERRERI a Portella, il giorno della strage.

La circostanza è per altro affermata nella sentenza pronunciata dalla Corte d’ Assise di Viterbo: “Della presenza di costui fra i roccioni della Pizzuta al momento della consumazione del delitto, non può davvero dubitarsi ”. ( Sentenza del 3 maggio 1952 emessa dalla Corte di Assise di Viterbo contro Salvatore Giuliano ed altri, pubblicata nell’ambito dei lavori della Commissione Cattanei, Relazione approvata il 10.02.1972, prodotta in copia all’udienza del 07.11.05).

Venne invece negata dal generale PAOLANTONIO, durante le sue deposizioni nelle citate sedi istituzionali; questi sostenne infatti che il FERRERI in quel periodo stava male, tanto che nei giorni successivi alla strage il bandito venne operato di appendicite grazie a interessamento del PAOLANTONIO (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 68, 69, 70 e testo delle dichiarazioni (pag. 14) rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO al Comitato di indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 25.03.’69, prodotto il copia all’udienza del 07.11.05).

Il teste BARRESE quindi ha precisato che ciò che veramente rileva è che FERRERI era stato a conoscenza della decisione di GIULIANO di compiere la strage: avendo, come pare probabile, il bandito fornito tale informazione all’ispettore MESSANA, quest’ultimo si era trovato nella difficile situazione di chi sapeva e non aveva fatto nulla per evitare la strage, con tutte le conseguenti responsabilità. A quel punto per l’ispettore sarebbe stato inevitabile decidere di eliminare il suo informatore, il quale se arrestato, avrebbe potuto riferire di avere avvisato il MESSANA del progetto di strage, potendo anzi vantare tale informazione come titolo di merito (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 55, 73, 74, 75).

La deduzione in ordine al fatto che FERRERI avesse informato MESSANA dei preparativi per la strage è fondata anche su quanto riferito dal senatore GIROLAMO LI CAUSI. Questi, poche ore dopo l’eccidio si recò in prefettura, ove era presente l’ispettore MESSANA, il quale ebbe a dire: “Per me la strage è stata consumata da GIULIANO”. Alla richiesta di chiarimenti (“Come fa lei a saperlo”?), lui non rispose (vedi copia del libro “Banditi, mandanti e governo nella strage di Portella della Ginestra”, pag. 63, prodotta all’udienza del 0711.05). Il senatore per altro aveva sostenuto tale sua tesi anche nella seduta parlamentare del 23.06.1949 (vedi stralcio della seduta, pubblicato durante i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, doc. XXIII, n. 6 del 28.04.1998, parte prima, prodotto all’udienza del 0711.05).

Il giornalista BARRESE ha anche confermato quanto scritto nel suo libro e da lui appreso dalla lettura delle deposizioni di PAOLANTONIO alla Corte di Assise di Viterbo ed alla Commissione Antimafia: PAOLANTONIO “qualche tempo prima dei fatti DI Alcamo…si era recato presso l’allora capitano GIALLOMBARDO per informarlo dei rapporti che c’erano tra MESSANA…e Fra’ Diavolo” (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 50, 57, 58). (pag. 15)

In effetti il PAOLANTONIO sul punto aveva affermato: “FERRERI ci interessava ed appunto per questo l’ispettore MESSANA disse: “Senti, FERRERI è ad Alcamo; può darsi che GIALLOMBARDO lo peschi. Se ritieni sia il caso, avverti GIALLOMBARDO che noi abbiamo questi contatti e quindi che, per lo meno, ci informi…”. Io andai…. Il capitano GIALLOMBARDO, preoccupato di sue responsabilità poi ha negato a qualcuno che gli ho parlato ed ho avuto contatti con lui…Io sono andato e gli ho detto: “Capisci che se per te FERRERI è un merito, tanto per farti dare un encomio, per noi è una pedina che ci deve portare a un obiettivo molto più importante?” (testo delle dichiarazioni rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO al Consiglio di Presidenza ed al Comitato di Indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.1969, prodotto in copia all’udienza del 07.11.05).

Il teste ARISTIDE SPANO’ , figlio del citato capo dell’ispettorato di Pubblica sicurezza, ha confermato che in un documento del padre è scritto che VINCENZO RIMI “fu il fiduciario per l’uccisione di FERRERI, perché temeva che FERRERI arrestato potesse parlare” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, p. 13).

Egli ha aggiunto che le ipotesi sulla fine del FERRERI erano tante, ma in ogni caso il bandito doveva essere eliminato perché a conoscenza di segreti. La versione ufficiale non pare al teste credibile.

RUTA CARLO, autore del libro “Il binomio Giuliano-Scelba”, in merito alla fine del FERRERI, ha ribadito quanto scritto nel suo libro e cioè che “in realtà si trattò di un’esecuzione a freddo. Si parlò, in particolare, di un ordine perentorio, pervenuto via telefono, dal Comando Regionale Carabinieri di Palermo, che a sua volta dovette ricevere precise direttive da altre sedi. Fra’ Diavolo fu insomma il primo testimone di troppo ad essere stato soppresso dentro un edificio dello Stato”.

Egli ha spiegato di avere fondato il suo ragionamento sugli atti ufficiali, su testi di altri autori ed anche sulla stampa dell’epoca (BESOZZI, ADELFI); in relazione al presunto ordine telefonico, ha tenuto a precisare che non essendoci prove certe (pag. 16) egli ha solo scritto “si parla di un ordine” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, pagg. da 56a 60).

La tesi dell’uccisione a seguito di una telefonata è riportata anche da Giuseppe Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica”. L’autore infatti scrive: “Ritengo, invece, che, dall’altro capo del telefono, siano arrivati ordini perentori di chiudere per sempre una bocca che avrebbe dovuto svelare inquietanti intrighi di Stato” (vedi copia del libro citato, pag. 34, prodotta all’udienza del 07.11.05).

Del resto è GASPARE PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo, a sostenere: “Il capitano GIALLOMBARDO uccise Fra Diavolo in questo modo: prima sparò una raffica di mitra all’auto su cui stavano Fra’ Diavolo, suo padre e i due fratelli PIANELLI che tornavano da un incontro segreto con la polizia di Alcamo. Solo Fra’ Diavolo rimase vivo e il capitano lo portò in caserma. Da lì telefonò a Palermo e quando ebbe finita la telefonata, completò il suo lavoro”vedi copia del libro “Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre” di SANDRO ATTANASIO E PASQUALE PINO SCIORTINO, pag. 134, copia del libro “L’impero del mitra di SALVATORE NICOLOSI, pag. 507, nonché il libro “Portella della Ginestra” di ANGELO LA BELLA e ROSA MECAROLO, pag. 97, prodotti all’udienza del 07.11.05).

Anche TERRANOVA ANTONINO, nel corso del processo di Viterbo, sostenne che “prima dell’uccisione del Ferreri vi fu una conversazione telefonica con Palermo ed io seppi che di questa telefonata GIULIANO tutto aveva saputo. Con precisione come pervenne tale notizia a GIULIANO può dirlo GASPARE PISCIOTTA”. (verbale delle dichiarazioni rese da TERRANOVA ANTONINO al processo di Viterbo, prodotto all’udienza del 07.11.05).

La teste PIA BLANDANO HA RIFERITO CHE NEL 1995, PRESSO IL Tribunale di Roma, ha aiutato il prof. CASARRUBEA a selezionare e fotocopiare documentazione relativa al processo di Viterbo ed in particolare la sentenza, le deposizioni e i documenti presenti nel fascicolo. Ha così confermato quanto in realtà si evince facilmente dalla lettura del libro dell’imputato e delle relative note e cioè che una delle fonti principali di tale testo è stata (pag. 17) la documentazione afferente al processo di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra.

NICOLA TRANFAGLIA, professore di storia contemporanea all’Università di Torino e autore del libro “Mafia, politica e affari: 1943-1992”, si è occupato anche dei rapporti tra mafia e banditismo, utilizzando come fonti la relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia presieduta da CATTANEI, in particolare la relazione specifica del commissario BERNARDINETTI sul caso GIULIANO e sui rapporti mafia e banditismo, nonché gli atti del processo di Viterbo ed in generale tutti gli atti delle varie commissioni antimafia.

Il teste, consultando anche documenti dei servizi segreti americani, desecretati dal governo CLINTON, ha potuto comprendere che il bandito FERRERI aveva un rapporto riservato con alcuni esponenti delle forze dell’ordine italiane e morì perché sapeva troppe cose riguardanti la strage di Portella della Ginestra (trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 23, 24).

Rilevanti a tal proposito appaiono alcuni stralci, riportati nel libro sopra citato del teste, della Relazione della Commissione CATTANEI sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MARZIO BERNARDINETTI: “La morte del bandito FERRERI, uno degli informatori e uno dei protagonisti della strage di Portella della Ginestra, già catturato e al sicuro in una caserma, per mano di un ufficiale dei Carabinieri; la stessa morte di GIULIANO, colto nel sonno e quindi inerme e innocuo per mano di un altro bandito: sono fatti questi che sconcertano profondamente e danno adito alle considerazioni più severe e financo al sospetto di collusione tra le forze di polizia ed i banditi… Certo si è che anche la non chiara fine di FERRERI e lo stesso mistero che avvolge la morte di PISCIOTTA non contribuiscono a chiarire quell’ultimo periodo di vita della banda GIULIANO”. (vedi copia del libro “Mafia, politica ed affari:1943-1991”, pagg. 20 e 42, prodotta all’udienza del 07.11.05, nonché trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 33, 34, 35).

Il consulente tecnico di parte, dott. LIVIO MILONE, esaminati i documenti e le foto dell’epoca, nonché gli atti del presente procedimento, ha ritenuto incompatibile la versione del Generale (pag. 18) GIALLOMBARDO in ordine all’uccisione del FERRERI con i dati medici e balistici emersi dagli atti ufficiali e dalle notizie fornite dal Generale (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e ss.).

In particolare il consulente ha evidenziato alcune palesi incongruenze:

1) il Gen. GIALLOMBARDO ha dichiarato di aver esploso al capo del FERRERI due colpi di pistola cal. 6,35, ma il medico intervenuto per la visita esterna del cadavere descrisse “una ferita d’arma da fuoco alla regione sopraciliare destra”. I medici legali che effettuarono l’autopsia rilevarono due ferite al lobo frontale destro, sneza però indicare alcun elemento balistico repertato; ma i proiettili, a causa del loro piccolo calibro, avrebbero dovuto trovarsi all’interno della scatola cranica. I dubbi sulle ferite alla testa sono rafforzati dalla fotografia del cadavere del bandito.

2) Il teste GIALLOMBARDO ha riferito che il FERRERI era stato attinto allo stomaco da un pallettone sparato dal fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma dal processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947 (vedi anche verbale prodotto all’udienza del 07.11.05) risulta che anche la ferita all’epigastrio era stata prodotta da proiettile d’arma da fuoco di piccolo calibro esploso a breve distanza (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e sgg.).

3) Il generale ha affermato che il bandito, al momento in cui fu scoperto, non appariva in alcun modo ferito e di avere appreso solo al momento dell’autopsia che quest’ultimo era stato attinto allo stomaco da un pallettone del fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma il tipo di ferite all’epigastrio, evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una emorragia addominale di una certa intensità, una fuoriuscita di materiale gastrico, di materiale ileale e fecale, tali da comportare il decesso del FERRERI per peritonite (trascrizione udienza del 17.10.05, pag. 108).

4) In ordine alla più volte riferita colluttazione tra il GIALLOMBARDO ed il FERRERI, il consulente osserva che dai documenti (pag. 19) medico-legali dell’epoca non si evincono escoriazioni e lesioni compatibili con tale racconto; in ogni caso la grave ferita allo stomaco riportata dal bandito non avrebbe consentito a questi di aggredire il capitano dei carabinieri (trascrizione udienza del 17.10.05), pagg. 88,90, 107, 108).

5) Il dott. MILONE ha anche confutato la tesi che il GIALLOMBARDO riferisce di avere appreso dai medici legali dell’epoca e cioè che il pallettone sarebbe stato fermato dal contenuto gastrico (una grossa quantità di pastasciutta) e che quindi all’apparenza era come se il bandito avesse ricevuto un forte pugno; il consulente esclude la rilevanza di un qualsiasi contenuto gastrico, ma in particolare in questo caso le stesse lesioni indicate nel processo verbale di descrizione di cadavere indicano che il pallettone (o proiettile) non è stato trattenuto a livello gastrico (trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 104. 105).

Del resto lo stesso GIALLOMBARDO, al processo di Viterbo, riguardo alle condizioni fisiche di FERRERI al momento in cui fu scoperto dai carabinieri, aveva dato una versione differente da quella fornita nel presente processo: “Quando fu fermato da me il FERRERI ferito, egli mi disse di essere ferito…” (verbale della deposizione di GIALLOMBARDO ROBERTO, pag. 2, prodotto all’udienza del 07.11.05).

Il giornalista VINCENZO VASILE, autore del libro “Salvatore Giuliano un bandito a stelle e strisce”, ha confermato quanto riferito dagli altri testi della difesa in merito ai rapporti di FERRERI con l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e con i carabinieri, alla presenza del bandito durante la strage di Portella e durante i preparativi della stessa, alla inverosimiglianza della versione ufficiale sulla fine del FERRERI.

Anche lo scrittore GIUSEPPE CARLO AMRINO, nel suo libro “La Repubblica della forza”, evidenzia: “Sta di fatto che uno dei possibili e più informati testimoni, il bandito SALVATORE FERRERI…un confidente dell’ispettore MESSANA che aveva partecipato alla riunione nel corso della quale era stata organizzata la strage del 1° maggio, era stato eliminato dalla polizia con procedure analoghe a quelle che sarebbero costate la vita (pag. 20) al povero anarchico PINELLI al tempo della vicenda VALPREDA” (vedi libro citato, p. 91, prodotto all’udienza del 04.07.05).

Le dichiarazioni dell’imputato indicate nei capi di imputazione, sia quelle dallo stesso profferite nel corso della trasmissione televisiva del 30.04.1997 che quelle riportate nel libro “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato”, appaiono oggettivamente lesive dell’onore del querelante. Per entrambi i reati ricorre la causa di estinzione della prescrizione ma, ai sensi dell’art. 129 co.2° c.p.p., risulta evidente da quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale che il fatto di cui al capo b) non costituisce reato, in quanto l’imputato ha agito nell’esercizio del diritto di critica storica e nei limiti dello stesso.

Giurisprudenza consolidata della Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. per i reati di diffamazione a mezzo stampa, individua i limiti all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che discendono dall’art. 21 della Costituzione: “l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; la correttezza dell’esposizione di tali fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità, principio comportante l’obbligo del giornalista di accertare la verità della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della fonte” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 5941 del 05.04.2000).

Ma la Corte di Cassazione, con giurisprudenza ormai costante in tema di diffamazione a mezzo stampa, distingue il diritto di critica da quello di cronaca “in quanto, a differenza di quest’ultimo non si concretizza nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio e, più in generale, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica non può che essere fondata su un’interpretazione necessariamente soggettiva dei fatti. Ne deriva che quando il discorso giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non si pone un problema di veridicità delle proposizioni (pag. 21) assertive ed i limiti scriminanti del diritto di critica, garantito dall’art. 21 Cost., sono solo quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione, con la conseguenza che detti limiti sono superati ove l’agente trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta”. (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 2247 del 02.07.’04).

Per altro per la Suprema Corte è “giudizio di mero fatto quello avente ad oggetto la qualificabilità di una data manifestazione del pensiero come cronaca o come critica, fermo restando che nella seconda di tali ipotesi il limite del diritto di critica è segnato solo dal rispetto dei criteri della rilevanza sociale della notizia e dalla correttezza delle espressioni usate”. (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 20474 del 14.02.2002).

La Corte è inoltre intervenuta più volte nell’individuare i confini del corretto esercizio del diritto di critica storica, riconoscendo una più ampia tutela alle affermazioni contenute in un’opera storica, in virtù del principio della libertà dell’arte e della scienza, sancito dall’art. 33 Cost.: infatti “in tema di diffamazione a mezzo stampa (art. 595 cod. pen.), l’esercizio del diritto di critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che il giudice, al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di contestazione, deve accertare l’esistenza – quanto meno sotto forma di indizi certi, precisi e concordanti – delle fonti indicate e utilizzate dall’autore per esprimere i propri giudizi, con la conseguenza che è illegittima la decisione con cui il giudice di perito pervenga alla affermazione di responsabilità il ordine al delitto di cui all’art. 595 cod. pen., da un canto, limitando il diritto della difesa alla controprova e, in particolare, impedendole di pervenire alla prova storica dei fatti posti a fondamento della tesi sviluppata nell’opera suddetta e, dall’altro, pervenendo ad una valutazione di offensività di alcune frasi estrapolandole dal contesto, il cui vaglio è (pag. 22) necessario per pervenire ad un giudizio obiettivo e completo e, quindi, per stabilire se l’opera in contestazione ricada sotto la tutela dell’art. 21 Cost. o sotto quella più ampia dell’art. 33 Cost.” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 34821 del 11.05.2005).

Anche condivisibile giurisprudenza di merito ha individuato “i limiti scriminanti del diritto di critica, che si fonda non solo sull’art. 21 Cost. che tutela la libertà di manifestazione del pensiero, ma anche sull’art. 33 Cost. che garantisce la libertà di creazione artistica e di ricerca scientifica, non coincidono con quelli del diritto di cronaca, non potendosi pretendere il requisito della verità richiesto per la sussistenza di quest’ultima scriminante, proprio perché ogni ricostruzione di fatti passati è necessariamente soggettiva” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).

Nella fattispecie, quindi, appare in primo luogo necessario che le frasi di cui al capo b) della rubrica siano valutate non estrapolandole dal contesto di un’opera di oltre trecento pagine, ma vagliando l’opera nel suo complesso.

In tal modo è possibile valutare se l’opera di Casarrubea debba essere considerata solamente sotto l’aspetto della libera manifestazione del pensiero ovvero trovi tutela anche nel più ampio ambito della tutela della libertà della ricerca scientifica di cui all’art. 33 della Costituzione.

Ed invero, nel libro di Giuseppe Casarrubea “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato” sono sicuramente ravvisabili il metodo scientifico di indagine, la esaustiva raccolta del materiale utilizzabile, l’autorevolezza delle fonti, diverse ed esattamente individuate, nonché la correttezza di linguaggio e l’assenza di attacchi personale i polemici.

Dalle lettura del libro si evince agevolmente inoltre che oggetto di studio è un evento passato, esaminato nella sua ampiezza e sotto varie sfaccettature.

Il libro in esame ha ad oggetto la strage avvenuta l’1 maggio 1947 a Portella della Ginestra. L’accadimento è affrontato, nel testo dell’imputato, in tutta la sua complessità e cioè avendo riguardo al periodo storico in cui si verificò, al contesto sociale e politico, ai fenomeni della mafia e del banditismo (pag. 23) dell’epoca, agli eventi che seguirono alla strage, alle indagini di polizia ed alle vicende giudiziarie del fatto principale e di quelli in qualche modo connessi.

L’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere che l’autore ha seguito senz’altro un metodo scientifico, basato su una indagine complessa, in cui persone, avvenimenti e rapporti sociali sono divenuti oggetto di un esame articolato, che ha condotto, su base di dichiarazioni e di elementi di fatto espressamente individuati e puntualmente richiamati nelle note, alla formulazione di tesi, per altro condivise da gran parte della comunità scientifica (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, teste LUPO SALVATORE, pag. da 17 a 24).

L’attività di ricerca, raccolta e selezione del materiale utilizzato per realizzare l’opera in questione, è stata La più completa possibile ( vedi le deposizioni dei testi LUPO SALVATORE E BLANDANO PIA). Dalla lettura del libro emerge con chiarezza che le fonti, da cui è stato tratto il materiale, sono essenzialmente atti giudiziari di vari processi, che hanno avuto ad oggetto l’accertamento dei fatti narrati, in particolare gli atti del processo svoltosi presso la Corte di Assise di Viterbo nei confronti di SASLVATORE GIULIANO ed altri e la relativa sentenza del 3 maggio 1952, gli atti del procedimento per l’uccisione di FERRERI SALVATORE e degli altri quattro banditi, nonché atti di varie commissioni parlamentari di inchiesta sulla mafia e sul banditismo e testi di altri autori che hanno studiato la meteria.

Tutte le fonti sono esattamente individuabili, in particolare mediante lettura delle note in calce ad ogni singola pagina.

Il linguaggio adoperato dallo scrittore appare sereno, pacato, scevro da astio personale e mirato esclusivamente a favorire la migliore comprensione del fenomeno descritto.

Il testo in esame infine racchiude in sé aspetti anche solamente informativi, ma essi sono funzionali alla successiva valutazione, nella quale gli avvenimenti descritti vengono riletti in chiave critica, sulla base delle intuizioni logiche e dei collegamenti che l’autore effettua tra i vari fatti (pag. 24).

L’opera del CASARRUBEA può pertanto definirsi “libro di storia” e, in presenza dell’offesa dell’altrui reputazione, può configurarsi operante la scriminante del diritto di critica storica.

Occorre tuttavia verificare se l’imputato, nell’usare le espressioni evidenziate nel capo b) della rubrica, abbia rispettato i limiti del diritto in esame.

Sostenere infatti che in tali casi non si può pretendere il diritto della verità, “non comporta affatto che il diritto di critica, anche nell’ambito della ricerca storica, possa diventare strumento di aggressione dell’altrui reputazione. E’ sicuramente consentito, all’esito di una ricostruzione storica, formulare conclusioni negative che suonino riprovazione morale dell’individuo, purché le intuizioni storiche siano fondate su accadimenti dimostrati, tanto più rigorosamente quanto più squalificante sia il giudizio espresso. Esulano infatti dall’opera storica, proprio per l’imparzialità e l’obiettività che devono caratterizzarla, mistificazioni e ricostruzioni della realtà mutilate e deformate ad arte, o asserzioni e giudizi privi del necessario supporto motivazionale, che presuppone la leale rappresentazione dei fatti riportati e il controllo della corrispondenza alla realtà degli elementi addotti a fondamento della propria opinione” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).

Nel caso di specie appaiono rispettati i limiti del corretto esercizio del diritto di critica storica.

In merito ai fatti descritti nel capo b) della rubrica, l’imputato affettivamente ha scritto: “L’episodio in realtà accadeva in circostanze piuttosto strane perché nell’imboscata cadevano oltre a FERRERI, il padre di questi,VITO, ANTONIO CORACI e i fratelli SALVATORE E FEDELE PIANELLI, confidenti di PAOLANTONIO… tanto più che, stando alle affermazioni di TERRANOVA Cacaova, prima dell’uccisione di FRA DIAVOLO, che era rimasto ferito, vi era stata una conversazione telefonica con Palermo, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO. FERRERI viene ucciso in quello strano conflitto a fuoco dal GIALLOMBARDO, nonostante questi fosse stato avvertito dal (pag. 25) PAOLANTONIO della funzione di questo confidente per la cattura di Giuliano… e quando il bandito ferito, nella caserma di Alcamo, chiese di essere portato a Palermo, e spiegò che era un “agente segreto” al servizio dell’ispettore MESSANA, perché venne ugualmente ucciso, con una “esecuzione a freddo?”.

Tale ricostruzione storica ed il conseguente giudizio sulla condotta tenuta nella circostanza dal cap. GIALLOMBARDO, appaiono fondate su accadimenti dimostrati. Si tratta per altro di intuizioni storiche largamente condivise dalla comunità scientifica (vedi le deposizioni dei testi della difesa e le opere storiche prodotte anche in copia) e di giudizi negativi espressi anche da organi dello Stato (vedi sopra, pag. 15,Relazione della Commissione parlamentare Cattanei sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MAURIZIO BERNARDINETTI).

Occorre sottolineare che lo scrittore ha offerto una ricostruzione completa della morte del FERRERI, riportando, anche se per confutarla, la versione ufficiale, citando il Rapporto giudiziario redatto dall’allora capitano GIALLOMBARDO e indicando persino l’onorificenza ricevuta da quest’ultimo a seguito dell’uccisione del FERRERI ( vedi sopra, pag. 3,4,5).

Analizzando i singoli punti della contestazione si deve osservare, in primo luogo, che il termine “imboscata”, adoperato dallo scrittore per indicare l’operazione che condusse al conflitto a fuoco con i banditi appare di per sé privo di una connotazione negativa, indicando il fatto pacifico che i carabinieri si erano appostati in attesa dei banditi, facendoli così cadere in una trappola.

In secondo luogo risulta dimostrato che TERRANOVA ANTONINO, durante il processo di Viterbo, abbia riferito che, prima dell’uccisione di FERRERI, vi era stata una conversazione telefonica, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO. L’episodio della telefonata è per altro confermato dallo stesso GASPARE PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo (vedi sopra pag. 14).

La circostanza che il PAOLANTONIO avesse per tempo informato GIALLOMBARDO dei rapporti esistenti tra FERRERI e l’ispettorato di (pag. 26) Pubblica Sicurezza emerge dalle deposizioni del primo davanti alla Corte d’Assise di Viterbo ed al comitato d’indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.69 (vedi sopra, pag. 13).

Lo stesso GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio del Gen. CALABRO’, subito dopo la morte DEL FERRERI, ha precisato di aver espressamente richiesto al Gen. che il Col. Paolantonio non partecipasse a tale incontro, proprio perché già sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo tempestivamente informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e MESSANA (vedi sopra, pag. 9) .

Mentre e pacifico che FERRERI si fosse subito qualificato quale “agente segreto “, per quanto attiene alla condizioni fisiche del bandito al momento del arresto, il Gen. GIALLOMBARDO ha in udienza affermato di non essersi accorto che il bandito fosse stato ferito gia nel primo conflitto a fuoco. Lo stesso generale però aveva firmato il Rapporto Giudiziario in cui si dava atto che il FERRERI disse subito di essere ferito; inoltre GIALLOMBARDO ribadì tale informazione deponendo al processo di Viterbo (vedi supra, pag. 17).

Su tale aspetto il CTP ha dichiarato che le ferite all’epigrastrio, evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una evidente emorragia addominale e una fuoriuscita di materiale gastrico, di materiale ileale e fecale (vedi supra, pag. 16).

Infine lo scrittore si chiede perché FERRERI, nonostante si fosse qualificato come agente segreto, fu ucciso con una “esecuzione a freddo”.

Innanzitutto l’autore riporta tale espressione tra virgolette, proprio per segnalare la non originalità della stessa. Tale espressione era stata infatti già usata da Carlo Ruta, nel suo libro “Il binomio Giuliano- Scelba” e da SALVATORE NICOLOSI, nel libro “L’impero del mitra”. Lo stesso concetto è espresso anche da Giuseppe Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica” (vedi supra, pag. 13-14).

La tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e PISCIOTTA al processo di Viterbo.

Si tratta di una intuizione storica che però è in contrasto con quanto narrato dal querelante sul punto e con gli atti giudiziari relativi al procedimento penale subito dal GIALLOMBARDO conclusosi con la sua archiviazione.

Tuttavia il teste GIALLOMBARDO, nel corso della sua deposizione, è caduto in numerose contraddizioni ed in inspiegabili incongruenze con atti ufficiali e considerazioni logiche e medico-legali.

Egli infatti sembra avere mentito in ordine alle condizioni fisiche del FERRERI al moamento dell’arresto, forse per rispondere ai dubbi sulla possibilità di una colluttazione provocata da un soggetto gravemente ferito; così invece giustificando tali dubbi. Del resto o il bandito era gravemente ferito, ed allora non poteva certo scatenare una lite dall’esito scontato, ovvero non lo era, ed allora si trattava di un feroce e pericoloso bandito che non poteva non essere ammanettato e chiuso in una camera di sicurezza ed anche in questo caso non avrebbe potuto avventarsi contro il capitano. Inoltre in quest’ultimo caso resterebbe il mistero su chi e quando avesse procurato al FERRERI la ferita allo stomaco, in effetti descritta nel verbale di autopsia come procurata da proiettile di piccolo calibro da distanza ravvicinata.

Il generale ha inoltre affermato che non era stato informato dal PAOLANTONIO del ruolo di FERRERI come confidente di MESSANA; ma, oltre alle contrarie dichiarazioni rese dal PAOLANTONIO al processo di Viterbo, egli stesso è caduto in contraddizione affermando di avere espressamente richiesto al generale CALABRO’ che il PAOLANTONIO non partecipasse all’incontro previsto, perché sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo informato di tale ruolo del FERRERI.

Nel corso della deposizione del querelante, come detto, è emersa anche la falsità del suo Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, non solo da un punto di vista formale, in quanto in realtà redatto da un soggetto diverso dal firmatario e comunque (pag. 28) non presente ai fatti, ma da un punto di vista sostanziale, nella parte in cui attesta la presenza del mar. LO BELLO e del car. GUERCIO durante la colluttazione con il FERRERI.

Come conseguenza non sembra più utilizzabile dal GIALLOMBARDO, a sostegno della propria versione, il provvedimento di archiviazione emesso dal Giudice Istruttore di Trapani in data 30.12.1948, basato evidentemente proprio su tale rapporto e sulle deposizioni dei due falsi testimoni.

Inoltre tutte le sopra riportate considerazioni del consulente di parte non possono alimentare i dubbi sul reale svolgimento dei fatti che portarono il bandito FERRERI alla morte.

Del resto accettando un’informazione da un confidente appartenente alla mafia, si accetta il rischio di essere strumentalizzati dalla stessa.

In conclusione, a fronte di una poco chiara versione dei fatti offerta dal querelante, la tesi del querelante sulla fine del bandito FERRERI, impossibile da documentare oggettivamente (poiché opinioni e giudizi possono essere condivisibili o meno, ma non certamente essere veri o falsi), trova fondamento in fonti certe ed appare plausibile e sostenibile.

In assenza di testimoni degli ultimi momenti di vita del bandito, in considerazione delle molteplici contraddizioni e falsità evidenziate, nonché del lungo lasso di tempo intercorso dal fatto, non sembra oggi possibile ricostruire una verità processuale sull’uccisione di SALVATORE FERRERI: la vicenda pertanto rimane affidata al giudizio della storia e dei suoi studiosi.

Casarrubea Giuseppe DEVE QUINDI ESSERE ASSOLTO DAL REATO ASCRITTOGLI AL CAPO B) perché IL FATTO NON COSTITUISCE REATO, IN QUANTO COMMESSO NELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI CRITICA STORICA.

Diversamente, in ordine al reato contestato al capo a), non risulta dagli atti evidente, ai sensi dell’art. 129, secondo comma c.p.p. che il fatto non costituisce reato.

In primo luogo si osserva infatti che le dichiarazioni contestate non sono contenute in un libro di storia, ma sono state pronunciate dall’imputato nel corso di un’intervista televisiva che non può certo essere qualificata come opera letteraria tutelata dall’art. 33 della Costituzione. (pag. 29).

Le gravi parole profferite, “eliminato a freddo”, “esecuzione”, “fatto assolutamente criminale”, non hanno trovato adeguata spiegazione nel corso della breve intervista.

In sostanza, mentre il lettore del testo del CASARRUBEA ha la possibilità di apprendere tutto il contesto storico ivi descritto, compresa la versione ufficiale della vicenda, di conoscere le fonti su cui lo storico basa il suo ragionamento, ed eventualmente di giungere a conclusioni diverse da quelle dello scrittore, lo spettatore della trasmissione televisiva del 30.04.1997 ha potuto solo ascoltare la tesi dello scrittore, presentata come unica possibile versione dei fatti: in tal modo non sembrano essere stati rispettati i limiti del diritto di cronaca o di critica, poiché appunto la te3si dello scrittore è stata esposta come unica verità e poiché l’espressione “fatto assolutamente criminale”, peraltro pronunciata al di fuori di un contesto più ampio, viola il sopra descritto principio di continenza.

Ciò posto, il reato ascritto all’imputato al capo a) della rubrica deve essere dichiarato estinto per essere decorso il ternine di prescrizione previsto dalla legge (artt. 157-160 c.p.), rilevato che si tratta di reato commesso in data 30.04.1997 e ritenute concedibili le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, in considerazione dell’incensuratezza dell’imputato e della sua personalità.

P.Q.M.

Visti gli artt. 157 e ss. C.p., 531 c.p.p.

DICHIARA

Non doversi procedere nei confronti di CASARRUBEA GIUSEPPE in ordine al reato di cui al capo A), essendo lo stesso estinto per sopravvenuta prescrizione;

Visto l’art. 530 primo e terzo comma s.p.p. (pag.30)

ASSOLVE

CASARRUBEA GIUSEPPE dal reato ascrittogli al capo b) perché il fatto non costituisce reato, in quanto commesso nell’esercizio del diritto di critica storica;

indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Partinico, lì 27 gennaio 2006-06-29

Il giudice

DOTT. SALVATORE FLACCOVIO

Depositato in cancelleria, lì 27 aprile 2006-06-29 Il Cancelliere