RACALMUTO
NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400
Poco
abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale
emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta
sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla
tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il
medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e
depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente
signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure
dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi
agrigentini.
Pochi
tratti della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in
cui visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.
Sino al
1412 i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto
in guerra per un empito di personale orgoglio -
mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione siciliana.
Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità
indipendentista - per unione personale
del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita
morale – catoneggia il De Stefano [1]
- congiunto al mancato ricambio della
vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città
non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era
frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza
anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione
e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi
stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e
passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano.
Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze
sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del
pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere
all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che
centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a
maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi
della mutata situazione internazionale.»
La Sicilia
perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni
furore, di ogni empito vuoi di furore vuoi di generosa dedizione. Il
parlamento del 1413 si limita a chiedere
che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito.
Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il
governo.
Tralasciamo
qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo
viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento
siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni
rifiutò.
Sotto
Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico può abbagliare, ma
la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore
straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente
– sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di
erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta
straordinaria che si aggiungeva al reticolo impositivo, specie a livello
locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e
strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.
Migliora
l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza
non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause - scrive sempre il De Stefano [2] - l’impedì: la concessione del mero e misto
impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della
necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione,
dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la
difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città
demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le
cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del
foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di
autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e
ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per
cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si
rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»
Con
fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione
regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel
trapanese. Fu arrestato il minorata visto che propalava «multa enormia
concernentia contra catholicam fidem.»
Alfonso
(1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue
anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata
alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia
spagnola. Più per amore di patria che per convinzione, il De Stefano [3]
crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con
un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella
appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale.
La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue
istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali
con la grande nazione italiana.»
Giovanni
d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da
carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché
l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau,
sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno
anni di regno aragonese.
Nel 1475 fu
creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle
decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più
decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico
e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso farsi rappresentare
dai loro delegati.
Succede a
Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di
Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i
viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De
Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).
Il
Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes,
nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré
Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi
per l’economia e la cultura.
In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si
è detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per
coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà
del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[4]
per capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia
riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).
Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli anni 1390-1416 introdussero nella storia del
feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due
conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa
alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che
di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [5]
Il sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa
sanziona ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una
burocrazia largamente in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i
rapporti fra l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia
controlla l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a
seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua
elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [6]
La nobiltà feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata
dall’elemento catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa
congiuntura che caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente
che non compensa più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio
reale, ora difese da un’amministrazione
castigliana strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento
cronico in crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate.
Nel servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici
dell’amministrazione limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati
all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà
qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme
al modello ispanico. [7]
Questi
ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei
baroni, l’emergere di una classe di notabili della piccola borghesia comunale,
determinano un ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere
signorile.
Una buona
gestione patrimoniale, il consenso generale della pubblica opinione e della
monarchia che vedono nella classe feudale l’asse insostituibile della società e
dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa di più di 50 anni,[8]
permettono alla feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto
di svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è
l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita
demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e
dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione
economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo
raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle
rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi
dell’interno. [9] Nel
1513, Giovan Luca Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia
feudale che ha ritrovato e superato largamente le rendite descritte nel Rollo
del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle due fonti che riportano
la rendita – sulla quale poggia
l’imposta feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val
Demone e al 193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove
il campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di
questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale
sono, in effetti, numerose.
L’interesse dell’aristocrazia feudale e delle famiglie
della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai “latifondi” che riesplode, dopo la fase di
stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo dozzina di donazioni di feudi ai monasteri
aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni
ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione
modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni
ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente
vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni
di antichi contratti.[10] Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed
estendono la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando
a proprio beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato
feudale terriero.
Del pari,
dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre”
abitate assicurano una amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini.
Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende
il potere feudale su numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di
giustizia, bannalità, tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio
di finanziamenti della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene
sempre più perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la
parentesi della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta
alla difesa dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento
della terra, un incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più
redditizia gestione della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il
sacrificio di qualche salma di terra, per giardini o per le infrastrutture
sociali occorrenti ai nuovi abitanti.
Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né
al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia
feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene
comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera
del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia
resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri.
Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il
rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e,
spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e
l’aristocrazia fondiaria.
Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero,
riscontro nelle vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi,
esplicitarsi ed evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del
Carretto. Riprendiamo la genealogia carrettesca da dove l’abbiamo lasciata.
Morto Matteo del Carretto, mentre era alle prese con la curia palermitana nel
tentativo di farsi riconoscere l’improbabile titolo nobiliare su racalmuto,
ecco succedergli il figlio Giovanni del Carretto.
[4] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile – 1300-1450.
– Palermo 1986 p. 865 e ss.
[5] ) Nel
1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello Guglielmo
(ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re, e, verso
il 1459, quella del feudo Taya ad Angelo
Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[6] )
Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni
dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento
permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della
figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo).
Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5
napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti
sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le
giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui
9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate,
qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di
diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il
matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto
Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!;
ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[7] ) I
dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri
urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il
movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio
Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello,
Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a
Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo).
La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[8] )
Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in
Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con
il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La
conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la concorrenza,
all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf.
E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p.
87.
[9] ) Nel 1446 la locazione
del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826,
17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17 once: 58%
d’aumento in 5 anni.
[10] )
Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato,
i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più
del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150
salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone
bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.
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