Il poeta Restivo, il vento, e l'albero caduto a Monteverde.
Questo pomeriggio la signora Giovanna Messana, la pugnace nipote diretta del questore Messana, diffonde questa foto sui disastri del vento a Monteverde, il celeberrimo quartiere di Roma.
L'albero caduto, un vento impetuoso lo svelle, le radici si adagiano fuori dalla loro facies. Una idea affiora: mi spinge a ricordare Restivo. Calogero Restivo, è professore emerito, nasce a Racalmuto nel 1938 ma diviene docente nelle apriche terre della folklorica Taormina e dintorni sotto il maestoso Mungibieddru, il vulcano dalle nevi perenni ma sempre reso ilare da un sole luminoso che si specchia sul mare degli omerici ciclopi.
Parte da un paese che piccolo non era, reso arcigno da un fascismo senza gioia, da cadetti impettiti, da podestà irruenti, da capitani della milizia verbosi, dediti all'usura e alla triviale battuta sulle littorine agrigentine, se attorniati dalle caste studentelle di allora.
Il vento, questo Eolo dei miti di poemi irrepetibili, ispira certo chi spunta in queste terre che esuli greci d'antica religione civilizzarono rendendoci sordi ad ogni Dio unico e potente, spinti ad antropizzare le divinità, a rendere gli uomini dei.
Rammento la lirica antica dal verso moderno quale il Poeta Restivo intitola: IL VENTO SCENDE DALLA MONTAGNA che vi costringo a leggere in foto, nella trentottesima pagina della raccolta OLTRE l'ORIZZONTE, autore Calogero Restivo, quale mostro come richiamo bibliografico.
Che vento mi domando: non quello romano e neppure quello paesano, la tremenda tramontana che spira cattiva e algida, dai Nebrodi e piante e fiori, e antenne e staccionate sradica in quel di Bovo a Racalmuto.
No, questo è vento della montagna che scende "come un guerriero antico/ a cavallo di nuvole". E allora "il mare si ritira nei suoi antri/ e lascia la battigia/ ..ad asciugarsi al sole". Immagini levigate eppur possenti, atmosfera lieve nel suo teso addensarsi. Poeta colto e poeta crucciato, tormentato, insicuro, tremulo eppure ardito. E' con la montagna che lotta, la grande montagna come non può essere quel colle cresciuto del suo borgo che poi è anche il mio a nome Castelluccio, quando da tempo lo si diceva Gibillini, arabo, freddo pochi giorni in un anno, eppure sa innevarsi sa intirizzire tutta l'adiposa gente stanziale giù nelle strettoie degradanti sino al fonduto passo.
E neppure è Cammarata come sa innevarsi e gelare specie al finire dell'inverno. No: il poeta Calogero Restivo trascende questa sua atavica visione e così, deliziandoci, canta: "Anche la montagna/ sta in alto sdegnosa/ che di niente abbisogna/ e di nessuno/ stanca di altere solitudini/ all'ombra di nuvole sparse/ tenta abbracci scomposti".
Esiste un tale monte? Ve ne sono tanti, solo che il poeta ora si erge a solitaria, impervia altitudine, sdegnoso, ma con strane voglie, quelle della canuta vecchiaia, che ardono e ti ardono. Sì, bello sarebbe tentare "abbracci scomposti".
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