giovedì 19 giugno 2014
Socialisti di paese: VINCENZO VELLA DA RACALMUTO
lunedì 7 gennaio 2013
RACALMUTESI VERI QUI A RACALMUTO VENERATI, A ROMA
CROCIFISSI. Fatti e misfatti DOCUMENTATI della Racalmuto prefascista e
protofascista
MI ACCORGO CHE QUESTO (LUNGHISSIMO) POST CHE AVEVO BUTTATO
LI' NELLA SPERANZA CHE FRA UN SECOLO QUALCUNO INCURIOSITO VI DESSE UNO SQUARDO,
MI RISULTA INVECE DISCRETAMENTE CONSULTATO. SI TRATTAVA DI APPUNTI RACCOLTI
ALLA RINFUSA E SENZA SPOLVERIO NE' STILISTICO NE' CONCETTUALE. VOLEVA SOLO
ESSERE UNO SBERLEFFO ALL'UFFICIO VOLPINO DI RACALMUTO CHE NON SO PERCHE' HA VOGLIA
DI SABOTARMI.
LO CONFESSO VOLEVO
ANCHE ESSERE RETICENTE PER NON ESSERE CAPACE DI SPIFFERARE DAVVERO FATTI E
MISFATTI DI PERSONAGGI CHE IN PAESE SONO SUBLIMATI E NEGLI ARCHIVI ROMANI
VENGONO INVECE CROCIFISSI. CHI HA RAGIONE? COME STORICO DOVREI PRONUNCIARMI,
COME RACALMUTESE HO L'OBBLIGO DELL'OMERTIVO SILENZIO.
SIA COME SIA, SENTO
ORA ALMENO L'OBBLIGO DI EMENDARE DAI DOPPIONI QUESTI MIEI APPUNTI E DARE
QUALCHE SFORBICIATA A NOTIZIE SU CHI MAGARI OGGI E' STATO CASSATO DAI RICORDI,
PER PUDORE FAMILIARE.
Nelle nostre ricerche a Roma, di racalmutesi finiti negli
schedari di polizia durante il fascismo troviamo:
1) Vella Vincenzo;
2) Vella Diego;
3) Picone Chiodo Calogero;
4) Sacerdoti Edmondo;
5) Messana Everardo.
Ma dei cinque sudetti nominativi i veri racalmutesti sono
tre (Vella Vincenzo, Picone Chiodo Calogero e Messana Everardo), nessuno viene
schedato in quanto comunista, e i due schedati (Picone Chiodo Calogero e
Messana Everardo) hanno poco di politico.
Vella Vincenzo, è personaggio di risalto durante i Fasci
siciliani, è attivo nell’era prefascista e rientra nei ranghi durante il
fascismo. Schedato già dalla questura di Girgenti sin dal primo settembre del
1896, ne è “radiato” l’8 aprile 1936 «tenuto conto della buona condotta e delle
prove di ravvedimento» ed essendosi «espresso in senso favorevole al Governo
nazionale.»
Nel 1893 si era lanciato nell’agone politico a capo del
movimento contadino e zolfataio del luogo, con cipiglio e furore. Agì anche fuori
di Racalmuto: lo troviamo impigliato nella repressione dei moti rivoluzionari
dei Fasci in quel di Milena. Ecco quel che ci racconta Arturo Petix: «Nel
pomeriggio del 27 luglio del 1893, a Milocca, in casa del contadino Luigi
Schillaci, posta nella robba Valenti (oggi via Gioberti) si riuniva un gruppo
di contadini con lo scopo di costituirsi in fascio dei lavoratori. [...] A
quella riunione furono presenti l’Avvocato Vincenzo Vella, presidente del
fascio dei lavoratori di Racalmuto e l’insegnante Rinaldo Di Napoli, presidente
di quello di Grotte (ASCL, Carp. n. 9, Pubbl. Sicur., lettera del 2 agosto
1893).»( 12). Abbiamo sopra fornito alcuni dati del fascicolo sul Vella
dell’Archivio Centrale dello Stato. Li integriamo qui trascrivendo quant’altro
vi è annotato. N.° 16434 - Prefettura di Girgenti, comune di Racalmuto - Vella
Vincenzo fu Giuseppe e della Vincenza Tinebra nato in Racalmuto il 17 ottobre
1868, residente a Racalmuto mandamento della Provincia di Girgenti.- Laureato
in giurisprudenza - celibe - Socialista rivoluzionario - statura 1,58 -
corporatura robusta, capelli castano scuri, viso oblungo, fronte alta, occhi
castani, naso giusto, barba alla mefistofele e di colore castana scura, mento
tondo, bocca regolare, espressione fisionomica satirica, abigliamento (sic)
abituale, veste decente in nero.
«Riscuote nell’opinione pubblica fama di fanatico
stravagante. Di carattere volubile. Di educazione limitata, in quanto che si
appartiene a famiglia di esercenti miniere. Di corta intelligenza. Di coltura
scarsissima. Ha compiuto gli studi nel liceo ed il corso di università in
legge. Non possiede titoli accademici. E’ lavoratore fiacco. Ritrae i mezzi di
sostentamento dalla poca proprietà lasciata alla famiglia dall’Avv. Tinebra
Vincenzo. Frequenta la compagnia dei pochi affiliati al partito socialista di
questo Comune e dei Comuni di Grotte ed
Aragona. Mal si comporta nei suoi doveri con la famiglia, di cui dovrebbe
essere il sostegno, causa la morte del padre, trascurandola completamente. Non
gli sono state affidate cariche amministrative e politiche. E’ iscritto al
partito socialista rivoluzionario. Non ha precedentemente appartenuto ad altro
partito.
«Ha molta influenza nel partito socialista locale, di cui è
il capo e di cui fa il promotore. La sua influenza è circoscritta al luogo dove
risiede. E’ stato in corrispondenza epistolare con i componenti il comitato
centrale socialista di Palermo, con l’avv. Maniscalco direttore della Giustizia
Sociale, coi nominativi Rao Gaetano, Presidente del disciolto fascio dei
lavoratori di Canicattì, Di Napoli Rinaldo Presidente del disciolto fascio di
Grotte, coll’onorevole Colajanni e col presidente della Federazione Regionale
Socialista Lombarda. Non è stato, né è in relazione epistolare con individui
del partito all’Estero. Presentemente è in relazione epistolare col Direttore
del periodico ‘La Riscossa’ di Palermo, il presidente del Comitato Regionale
della Federazione Socialista Ligure, coi sudetti Di Napoli e Rao, col Direttore
del periodico ‘La Lotta di classe’, e dicesi in relazione epistolare con Bosco
Garibaldi e l’on. De Felice.
«Non ha dimorato all’estero, nè vi riportò condanne, e non
ne fu espulso. - Ha appertenuto al disciolto fascio dei lavoratori di
Racalmuto, con la carica di Presidente. Presentemente non appartiene ad alcuna
associazione sovversiva di mutuo soccorso o di altro genere. Durante il 1893 ha
collaborato ai periodici sovversivi ‘La Lotta di Classe’ e ‘La Giustizia
Sociale’. Di tanto in tanto spedisce corrispondenze alla ‘Riscossa’, ed alla
‘Lotta di Classe’.
-------------
«Riceve i periodici ‘La lotta di classe’ e ‘la Riscossa’ ed
opuscoli editi a cura del Comitato Regionale della Federazione socialista
Ligure. Fa propaganda fra gli esercenti arti e mestieri, con poco profitto. E’
capace tenere conferenze. Ne ha tenute nel 1893, nel locale di questo disciolto
fascio dei lavoratori, e nel domicilio di qualche socialista di qui. - Verso le
autorità tiene un contegno sprezzante. Non ha preso parte a manifestazioni del
partito cui è ascritto a mezzo della stampa firmando cioè manifesti,
programmetti. Ma ha preso parte in occasione della dimostrazione organizzata in
questa Stazione ferroviaria il 2 Novembre 1893, al passaggio dell’on.
Colajanni, nella quale circostanza il fanatismo dei dimostranti raggiunse il
colmo, intervenne la forza pubblica, fu percosso il Deputato di P.S. del tempo,
malmenati il Maresciallo ed i militi.
«Nelle elezioni ammimistrative di Racalmuto del 1905 è stato
eletto consigliere comunale. »
[Aggiunta in calce la posteriore data: Girgenti 14 gennaio
1908 - il prefetto Mario Rebucci].
«Prefettura di Girgenti - Cenno biografico del 20 ottobre
1913 - Andatura attempata. - Gode nell’opinione pubblica fama di uomo di poco
carattere e di nessuna serietà. D’intelligenza ed educazione medie, è mordace
ed aggressivo, quando scrive per i giornali, tanto che ha un frasario tutto suo
speciale, fatto di volgare turpiloquio, appunto perché nelle lotte sia
politiche che amministrative non sa fare a meno di attaccare in modo triviale
le persone degli avversari, invece di combattere le idee. E’ laureato in legge,
ma la sua cultura non va oltre gli studi fatti e le molte pubblicazioni
socialiste lette e ben poco ben assimilate. Di natura fiacca, lavora lo stretto
necessario, approfittando di quello che ricava dalla poca proprietà immobiliare
a lui lasciata da un suo avo. Tenace nelle lotte, ma non nel carattere, egli
varia di continuo e con molta leggerezza di relazioni politiche e di amicizie
personali, a seconda della convenienza e dell’opportunità del momento, non si
può dire quindi egli abbia in ciò una direttiva sicura, per quanto inclini
nella scelta verso gli elementi sovversivi o politicamente esaltati. Si deve a
tale sua malleabilità di carattere ed azione se egli sia stato consigliere
comunale ed anche assessore supplente. Nella presente lotta politica, egli,
transigendo con la sua condotta passata, ha stretto relazione con persone,
altra volta attaccate fino all’insulto, per appoggiare la candidatura socialista
dell’Avv. Marchesano. Nel biennio 1893-1894 - egli dette pensiero ed azione ai
moti convulsionarii dei ‘fasci’ ed ebbe perciò il suo quarto d’ora di influenza
e di popolarità, fra gli elementi sovversivi di allora; ma sopravvenuta la
repressione egli ritornò quello di prima, anzi fu lì lì per essere inviato a
domicilio coatto, a termini dell’art. 3 della legge 19 luglio 1894. [..] Successivamente egli si occupò dei suoi
affari privati per cui fece dimora a Delia ed a Casteltermini. Nel presente fa
qualche pubblicazione sui giornali della provincia a carattere sovversivo; fa
come può, ma con scarso profitto, propaganda fra gli operai ed è presidente
della lega di miglioramento tra gli zolfatai di Racalmuto.
«E’ capace di parlare al pubblico, ma non di tenere
conferenze vere e proprie, ciò quindi ha fatto sempre che se ne sia presentata
l’occasione; in lui però più che la facilità di parola è comune il turpiloquio,
che, in fondo, tradisce la sua origine volgare. Però nel passato tenne verso
l’autorità un contegno altero e sprezzante; ora però si mostra remissivo e
rispettoso. Ma ha preso parte a vere e proprie pubbliche manifestazioni di
carattere del partito. Nel 1893 intervenne in manifestazioni più o meno
violente e, successivamente, in un pubblico spettacolo si lasciò andare a
qualche atto inconsulto. Mai fu sottoposto alla pregiudiziale ammonizione e fu
solo proposto, ma non assegnato, a domicilio coatto. Non ha subito condanne, ma
ha i seguenti precedenti penali. Il 1° settembre 1893 fu arrestato in Milocca
per istigazione a delinquere; a 7 maggio 1894 fu assolto dal Tribunale di
Girgenti dall’imputazione di violenza e resistenza ad agenti della forza
pubblica; a 19 maggio 1894 la camera di consiglio di Girgenti disse non luogo
per l’imputazione di tentativo di fare insorgere gli abitanti del regno contro
i poteri dello stato. Nello assieme il Vella, per quanto sempre relativamente
temibile, non è più il sovversivo di una volta e non è più da ritenersi un
socialista veramente combattivo, perché, in fondo, non riesce a farsi pigliare
sul serio da alcuno. L’età, il male cronico di cui è affetto e qualche debito
hanno fiaccato e piegato il suo carattere, naturalmente a ciò disposto, ed oggi
si aggioga al carro di taluni conservatori, liberali d’occasione, con la stessa
facilità con la quale si metterebbe loro contro, se gli tornasse opportuno,
data anche la sua venalità.»
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«Relazione Prefettura: Dall’elenco allegato al n.° 16085 del
3.7.1911 risulta pericoloso. - Girgenti 1912: N.° 1128 del 23.4.1912 - E’ stato
rieletto Consigliere Comunale di Racalmuto e poscia nominato assessore. Non
tiene più contegno sprezzante con le autorità e si è mostrato favorevole al
Governo per la guerra in Libia - Professa sempre idee socialiste e viene
pertanto vigilato.»
------
«Prefettura: 27 11.1925 - Professa tuttora principi
socialisti e non tralascia occasione per fare propaganda antifascista. E’
attentamente sorvegliato. - Prefettura: 21.1.1929. - In data 2.12.1926 venne
diffidato ai sensi dell’art. 166 legge P.S. In atto serba regolare condotta
morale e politica mantenendosi estraneo ad ogni manifestazione contraria
all’attuale Regime. Prefettura: 3.7.1931 - .. socialista rivoluzionario.
Continua a tenere buona condotta politica, dedicandosi esclusivamente alla sua
professione di avvocato. I suoi atteggiamenti nei riguardi del Regime sono
favorevoli e mostra in apparenza di essersi ravveduto. Però non si ritiene
opportuno, almeno per ora, di proporlo per la radiazione dallo schedario dei
sovversivi, e si continua a esercitare su di lui assidua vigilanza. -
Prefettura: 21.2.1933 - Risiede a Racalmuto, dove esercita la professione di
procuratore legale presso quella pretura. Non spiega alcuna attività politica e
tiene atteggiamento favorevole al Regime. Viene sempre sorvegliato non avendo
dato prove sicure di ravvedimento. - Prefettura: 22.12.1934 - Non ha dato luogo
a rilievi in linea politica, e nei riguardi del Regime si mostra apparentemente
favorevole. Viene vigilato. - Prefettura: 25.9.1935 - Durante il terzo
trimestre del corrente anno non ha dato luogo a rilievi con la sua condotta
politica. Viene vigilato.» (13)
Onoriamo il dottor Grossi che ci ha lasciato la settimana scorsa.
sabato 7 giugno 2014
Grossi e la Banca d'Italia
Una istruttiva conferenza del commendatore dottore Salvatore Grossi, già altissimo dirigente della Banca d'Italia:
L'argomento della nostra conversazione si presterebbe ad una trattazione ampia e tale da consentire non una esposizione quale quella che mi appresto a tenere, ma un corso di studi specifico.
Consentitemi, perciò, di restringere il campo di indagine a quanto di più pertinente ad un discorso fra non addetti ai lavori che vogliano ottenere informazioni sulla disciplina che interessa le banche nel loro complesso ed il pubblico per un mantenimento di un settore (appunto il sistema bancario) finalizzato alla tutela dei nostri risparmi ed ai finanziamenti delle iniziative familiari e delle intraprese commerciali ed industriali.
Per intenderci sull'argomento della nostra conversazione, posti i limiti appena indicati, mi sembra opportuno definire
il significato di “sistema” e di “vigilanza”.
Poniamo mente al significato che la nostra lingua attribuisce al termine sistema. Uno sguardo al dizionario
può soddisfare l'esigenza postaci.
Il Devoto – Oli alla voce sistema recita:
“connessione di elementi in un tutto organico e funzionalmente unitario”.
Mi pare (ed è senza dubbio una mia deformazione professionale) che i citati italianisti abbiano appunto avuto presente il sistema bancario nel definire la parola interessata.
L'Italia ha avuto il privilegio di annoverare da tempo fra le sue imprese commerciali l'esercizio del credito. Nei secoli scorsi furono infatti numerose le banche che svolgevano la loro attività anche presso stati e potentati stranieri.
Tuttavia la numerosa presenza di tale anche qualificata compagine di intraprendenti banchieri non portò ad una formazione che potesse essere considerata sistema.
Lo stato italiano sorto nel 1861 annoverava una moltitudine
di piccole aziende bancarie, nate spesso per iniziativa di facoltose famiglie, sorte quali comuni attività commerciali che non potevano dare (e non dettero) luogo ad alcun sistema coeso. La disciplina giuridica di tali esercizi era contenuta, appunto, nell'allora vigente codice di commercio.
Lento fu, pertanto, il procedere verso una disciplina specifica che conducesse ad una situazione di maggiore coesione regolamentare.
E' il caso di ricordare che, accanto a dette minori istituzioni, espletavano la loro attività anche banche che detenevano per concessione la facoltà di emettere moneta cartacea.
Si imponeva pertanto un intervento che tendesse ad uniformare la disciplina di emissione, dal momento che varia era la distribuzione di tali privilegiati istituti nelle diverse parti della nazione appena evoluta in stato unitario.
Vi era all'epoca:
Al Nord la Banca di Genova e la Banca di Torino che fondendosi avevano dato luogo alla Banca Nazionale del Regno d'Italia;
Al Centro La Banca Toscana e la Banca Toscana di credito per le industrie ed il commercio;
Al Sud il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia (entrambe enti pubblici);
Alle dette Banche si aggiunse nel 1870 la Banca Romana.
La concessione di emettere biglietti di banca costituiva privilegio per gli istituti autorizzati che ebbero in tal modo opportunità di integrare i depositi, all'epoca ancora non molto diffusi.
Detti istituti certamente ebbero una liquidità considerevole che permise loro di finanziare l'economia, ma provocò pure degli squilibri dovuti alla speculazione. Rammentiamo come esemplare negativo la speculazione edilizia che segnatamente si sviluppò in Roma divenuta Capitale del regno e quindi bisognevole di sviluppo cittadino.
Tralasciamo le diatribe politiche dell'epoca e le vicende giudiziarie che a queste si connettevano.
Merita invece menzione la legge bancaria del 1893 che istituì la Banca d' Italia e decisamente riformò l'emissione di carta moneta, stabilendone un limite invalicabile e la copertura metallica di almeno il 40%.
Gli istituti di emissione furono soltanto tre essendosi proceduto a fondere nella Banca d' Italia la Banca Nazionale e le due banche toscane.
Mantennero la facoltà di emissione le due banche meridionali.
Con la nascita della Banca d' Italia cominciò a delinearsi in qualche modo un sistema bancario che tuttavia, in concreto, trovò definita evidenza con la legge bancaria del 1936.
Vi furono nel lungo periodo indicato anche altri provvedimenti legislativi volti a disciplinare le modalità operative di talune categorie di aziende di credito e prevedere in qualche modo un articolato controllo pubblico.
Ma sopratutto vi fu un'opera costante della Banca d'Italia a privilegiare gli obbiettivi pubblici rispetto all'interesse privato degli azionisti.
La Banca d'Italia, infatti, ebbe modo di esplicare tale “vocazione pubblica” favorendo la propria funzione di prestatore di ultima istanza; il che portò ad interventi anche sostanziosi per il superamento di situazioni di crisi. Da tale funzione non poteva che derivare una effettiva centralità dell'istituto di emissione mentre cominciava a delinearsi
l' esigenza di controllo sulle aziende di credito.
Ma, come già detto, è con la legge bancaria del 1936 che si delineò con contorni definiti il “sistema bancario” .
Fin dall'articolo 1 veniva dichiarato che il risparmio fra il pubblico e l'esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico.
Affermazione ripresa dall'articolo 47 della nostra Costituzione che espressamente recita:
“ La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”.
La legge bancaria del 1936 è datata in un periodo particolarmente sfavorevole per l'intera economia.
Vi era stata la debacle della borsa di New York nel 1929.
Vi era stata la crisi industriale; le maggiori banche italiane erano oberate dalla presenza nei propri portafogli di partecipazioni assunte.
E' da dire che la legge bancaria del 1926 aveva svolto la funzione di arginare gli squilibri avvertiti dalle aziende di credito, ma si dimostrava impari alle situazioni che successivamente si verificarono.
E' tuttavia da rappresentare positivamente che nel '26 fu affermata l'attribuzione della vigilanza sulle aziende di credito alla Banca d'Italia, che rimase unico istituto di emissione.
Va soggiunto che provvedimenti sostanziali erano stati adottati con la creazione dell'IRI, istituto rivolto propriamente alla ricostruzione del tessuto industriale mediante la gestione di partecipazioni statali; era sorto l' IMI che aveva il compito di assistere finanziariamente l'economia industriale.
Si imponeva però un sostanziale riordino dell'esercizio del credito con l'emanazione di regole cogenti che inducessero il mondo bancario ad una sana e prudente gestione.
Veniamo a questo punto a definire il significato, anche fattuale del termine “vigilanza”. Non possiamo, infatti, ritenere la vigilanza come sinonimo di controllo; è da chiarire che la Vigilanza contiene nel suo esplicarsi l'azione di verifica dell'adesione del comportamento alla norma, ma assume anche la cognizione utile alla determinazione dell'adeguamento della struttura esaminata, nel suo complesso organizzativo, regolamentare, funzionale, alle finalità sicuramente dirette alla nominata “sana e prudente gestione”.
Senza dubbio la legge bancaria favoriva un atteggiamento dirigistico (e il periodo storico lo consentiva), ma l'intento principale dell'organo di vigilanza era mantenere stabile la condizione del sistema ed in tal modo proteggere il risparmio.
E' il caso di rammentare che la Banca d'Italia rappresentava e rappresenta anche un centro di studi dell'economia e che il dialogo fra gli studiosi e gli addetti alla Vigilanza, sotto la accorta direzione del Direttorio, ha favorito la scelta opportuna degli indirizzi da suggerire (e talvolta imporre) alle banche per il più favorevole decorso della congiuntura economica.
La legge del 1936 aveva dato forma al sistema e suddiviso perentoriamente i compiti dei componenti il sistema stesso:
⁃ per la costituzione di nuove banche e l'apertura di nuovi sportelli è richiesta l'autorizzazione della Banca d'Italia;
⁃ viene differenziata la competenza fra credito ordinario e credito speciale
⁃ inoltre:
⁃ sono confermati istituti di diritto pubblico il Banco di Sicilia , il Banco di Napoli, la BNL, l'Istituto bancario S. Paolo di Torino e dichiarato tale il Monte dei Paschi di Siena.
⁃ Sono qualificate di interesse nazionale le banche di maggiore importanza aventi sedi operative in più di trenta province.
⁃ Con tale assetto si intendeva sottolineare il particolare interesse statuale alla operatività delle aziende esercenti il credito.
⁃ E' da soggiungere altresì che i criteri che hanno determinato le scelte contenute nella legge di cui ci stiamo occupando non potevano che trasfondersi nella applicazione pratica della funzione di vigilanza.
⁃ E, difatti, vi furono all'occorrenza provvedimenti volti a determinare con direttive inopponibili anche scelte che avrebbero dovuto essere imprenditoriali.
⁃ Valga solo qualche esempio particolare, ma indicativo dell'assunto che andiamo esprimendo:
⁃ negli anni settanta, di fronte alle oscillazioni ed alla svalutazione di taluni titoli, si accettò che nelle situazioni contabili delle aziende di credito non emergessero le svalutazioni degli stessi, ma bastasse evidenziare la presenza di tali valori in appostazioni contrapposte di debitori e creditori diversi;
⁃ furono stabiliti vincoli amministrativi nella composizione degli investimenti in titoli, con ciò chiaramente indirizzando di fatto i finanziamenti verso prescelti settori economici;
Dirigismo assoluto, quindi, ma rivolto alla tutela della stabilità economica interna.
Purtroppo gli eventi talora addirittura delittuosi non consentono di evitare squilibri e dissesti, così come improprietà delle gestioni inducono a situazioni di precarietà o peggio in singole aziende.
Dobbiamo però doverosamente constatare che mai le situazioni negative delle singole aziende hanno coinvolto gli interessi dei depositanti, grazie alla costante tenuta del sistema nel suo complesso.
Vigilanza, dunque, nel duplice aspetto di controllo sulla osservanza delle norme (ed a tal fine interventi sanzionatori anche drastici), ma anche indirizzo per la migliore gestione aziendale e per la tutela dell'utenza bancaria.
E' ordinaria, infatti, sia nelle fase ispettiva con sopralluoghi presso le aziende vigilate, sia nel corso dei frequenti colloqui che gli esponenti bancari intrattengono con gli uffici della Banca d'Italia, l'analisi della struttura aziendale al fine di acquisire informativa atta a delineare l'adeguatezza dell'apparato aziendale alle finalità proprie.
Colloqui che sempre più si rendono necessari stanti le direttive emanate in sede europea per la tutela della funzione creditizia.
Vale a tal proposito far cenno alla disciplina derivante dal Comitato di Basilea.
Il Comitato di Basilea è un gruppo che riunisce le banche centrali dei 10 paesi più industrializzati per trattare di argomenti inerenti la regolamentazione bancaria che nasce nel 1974. Non legifera ma emette indicazioni che sono considerate “vincolanti” in circa 100 paesi.
Nel 1998 ha stabilito i 25 principi fondamentali della supervisione bancaria con cui si introduce il concetto di “adeguatezza patrimoniale “, cioè di patrimonio adeguato ai rischi assunti . Si stabilisce quindi una percentuale minima di copertura tra patrimonio e rischio di credito.
Nel 1999 la riforma si evolve (Basilea 2) creando un sistema più complesso per l'individuazione e la copertura dei rischi , che dovrà gradatamente trovare applicazione attraverso grandi interventi decisionali e organizzativi fino a culminare nel 2005 – 2006 nell'entrata in funzione del sistema di regole.
L'idea forte della nuova risoluzione del Comitato è colpire proprio il cuore delle imprese, facendo sì che esse debbano allineare l'adeguamento del capitale agli effettivi rischi assunti facendo attività bancaria.
Sulla base di questa idea è stato stabilito di definire incentivi al fine di migliorare le capacità di misurazione e gestione del rischio, senza dimenticare l'importanza di un sistema trasparente nei confronti del pubblico e, quindi, anche per questa strada garantire il contenimento del rischio, dal momento che una utenza più informata riduce i rischi di controversie; senza considerare il dovere morale di essere trasparenti.
Da ciò la definizione di tre pilastri:
1) Primo pilastro:
2) richiesta di un capitale minimo in funzione del tipo di rischio.
3) Secondo pilastro:
4) supervisione.
5) Terzo pilastro:
6) Trasparenza informativa.
Meno sinteticamente è da osservare che:
⁃ per gli adempimenti di cui al primo pilastro spetta all'organo di vigilanza di ciascuno stato (per noi alla Banca d'Italia) stabilire – in via generale e/o per singole aziende – stabilire un livello minimo di copertura dei rischi.
⁃ Per soddisfare le direttive del secondo pilastro la banca deve disporre di un procedimento di determinazione del capitale, adeguato ai rischi assunti, e una strategia per il controllo includendo il monitoraggio da parte del Consiglio di amministrazione e dell'Alta Direzione , la misurazione adeguata e continua nel tempo, l'informativa e la revisione dei controlli interni. Il supervisore controllerà e valuterà la capacità di conseguimento e mantenimento dei requisiti prescritti, adottando, se del caso provvedimenti adeguati.
⁃ Per il terzo pilastro occorre assicurare la trasparenza nelle informazioni emesse a favore del pubblico, disponendo di una politica della trasparenza approvata dal Consiglio di amministrazione, nella quale venga evidenziato l'obbiettivo e la strategia della banca riguardo alle informative da rendere pubbliche.
Ritengo evidente che le direttive di Basilea inducono alla presenza di adeguati controlli interni alle aziende e ne individuano principalmente nel Consiglio di amministrazione il responsabile .
Da qui l'attenzione dell'Organo di vigilanza appunto sulle diverse funzioni di controllo di cui le aziende di credito devono ormai essere dotate. Del resto è funzione primaria della vigilanza espletare la propria attività sugli organismi interni preposti alle varie tipologie ed ai diversi livelli di controllo svolti in seno alle organizzazioni aziendali.
Per pura informativa soggiungo che ulteriori direttive del Comitato (Basilea 3) aggiungono ulteriori requisiti volti a tutelare ancor più dai rischi dell'attività bancaria il patrimonio aziendale.
Sugli adempimenti conseguenti occorre ovviamente invigilare, anche intervenendo con professionale competenza per indicare modalità e mezzi per adempiere a quanto previsto dalle direttive.
Da quanto anche per ultimo detto emerge chiaro che il sistema bancario da osservare è , allo stato, sebbene manchi un più completo amalgama amministrativo e giuridico, non più quello attinente solo al nostro paese, ma quello che investe l'Europa che va formandosi, e anche oltre, se si tiene presente che gli indirizzi di Basilea interessano ben 100 paesi.
Solo pochi mesi fa la Cancelliera tedesca trionfalmente dichiarava come prossima l'unificazione della Vigilanza europea , attribuendone la funzione alla BCE. E' però da osservare che recenti ripensamenti rinviano, per ora, tale provvedimento.
A questo punto la conversazione dovrebbe aver termine. Consentitemi, tuttavia, di rubare pochi secondi al vostro tempo per dimostrare con un esempio il comportamento della vigilanza nell'esporre le proprie considerazioni alle aziende oggetto di osservazione.
Ho qui con me un rapporto ispettivo riguardante una banca giudicata favorevolmente.
Ma il positivo giudizio non la esenta da (sia pur non aspre) critiche volte a possibili miglioramenti nella gestione aziendale. Miglioramenti che garantiscano la solidità patrimoniale e, quindi, il presidio degli interessi dei depositanti.
Si ha in questo caso particolare riguardo alla funzione di controllo interno (settore sul quale sempre l'attenzione di verifica si appunta), che, seppur ritenuto sostanzialmente adeguato, viene sottoposto a critiche per taluni aspetti particolari.
Non mancano altresì raccomandazioni per una sempre attenta cura di altri settori che in maniera più diretta interessano la clientela (trasparenza, usura) o la reputazione aziendale per cause attinenti a non corretto comportamento di clienti (antiriciclaggio).
In breve, l'esperienza acquisita dagli addetti alla vigilanza è costantemente posta a disposizione dei vigilati, in un rapporto di collaborazione che è parte doverosa ed essenziale dell'espletamento della supervisione bancaria.
Pubblicato da Calogero Taverna a 15:23
Grossi e la Banca d'Italia
Una istruttiva conferenza del commendatore dottore Salvatore Grossi, già altissimo dirigente della Banca d'Italia:
L'argomento della nostra conversazione si presterebbe ad una trattazione ampia e tale da consentire non una esposizione quale quella che mi appresto a tenere, ma un corso di studi specifico.
Consentitemi, perciò, di restringere il campo di indagine a quanto di più pertinente ad un discorso fra non addetti ai lavori che vogliano ottenere informazioni sulla disciplina che interessa le banche nel loro complesso ed il pubblico per un mantenimento di un settore (appunto il sistema bancario) finalizzato alla tutela dei nostri risparmi ed ai finanziamenti delle iniziative familiari e delle intraprese commerciali ed industriali.
Per intenderci sull'argomento della nostra conversazione, posti i limiti appena indicati, mi sembra opportuno definire
il significato di “sistema” e di “vigilanza”.
Poniamo mente al significato che la nostra lingua attribuisce al termine sistema. Uno sguardo al dizionario
può soddisfare l'esigenza postaci.
Il Devoto – Oli alla voce sistema recita:
“connessione di elementi in un tutto organico e funzionalmente unitario”.
Mi pare (ed è senza dubbio una mia deformazione professionale) che i citati italianisti abbiano appunto avuto presente il sistema bancario nel definire la parola interessata.
L'Italia ha avuto il privilegio di annoverare da tempo fra le sue imprese commerciali l'esercizio del credito. Nei secoli scorsi furono infatti numerose le banche che svolgevano la loro attività anche presso stati e potentati stranieri.
Tuttavia la numerosa presenza di tale anche qualificata compagine di intraprendenti banchieri non portò ad una formazione che potesse essere considerata sistema.
Lo stato italiano sorto nel 1861 annoverava una moltitudine
di piccole aziende bancarie, nate spesso per iniziativa di facoltose famiglie, sorte quali comuni attività commerciali che non potevano dare (e non dettero) luogo ad alcun sistema coeso. La disciplina giuridica di tali esercizi era contenuta, appunto, nell'allora vigente codice di commercio.
Lento fu, pertanto, il procedere verso una disciplina specifica che conducesse ad una situazione di maggiore coesione regolamentare.
E' il caso di ricordare che, accanto a dette minori istituzioni, espletavano la loro attività anche banche che detenevano per concessione la facoltà di emettere moneta cartacea.
Si imponeva pertanto un intervento che tendesse ad uniformare la disciplina di emissione, dal momento che varia era la distribuzione di tali privilegiati istituti nelle diverse parti della nazione appena evoluta in stato unitario.
Vi era all'epoca:
Al Nord la Banca di Genova e la Banca di Torino che fondendosi avevano dato luogo alla Banca Nazionale del Regno d'Italia;
Al Centro La Banca Toscana e la Banca Toscana di credito per le industrie ed il commercio;
Al Sud il Banco di Napoli ed il Banco di Sicilia (entrambe enti pubblici);
Alle dette Banche si aggiunse nel 1870 la Banca Romana.
La concessione di emettere biglietti di banca costituiva privilegio per gli istituti autorizzati che ebbero in tal modo opportunità di integrare i depositi, all'epoca ancora non molto diffusi.
Detti istituti certamente ebbero una liquidità considerevole che permise loro di finanziare l'economia, ma provocò pure degli squilibri dovuti alla speculazione. Rammentiamo come esemplare negativo la speculazione edilizia che segnatamente si sviluppò in Roma divenuta Capitale del regno e quindi bisognevole di sviluppo cittadino.
Tralasciamo le diatribe politiche dell'epoca e le vicende giudiziarie che a queste si connettevano.
Merita invece menzione la legge bancaria del 1893 che istituì la Banca d' Italia e decisamente riformò l'emissione di carta moneta, stabilendone un limite invalicabile e la copertura metallica di almeno il 40%.
Gli istituti di emissione furono soltanto tre essendosi proceduto a fondere nella Banca d' Italia la Banca Nazionale e le due banche toscane.
Mantennero la facoltà di emissione le due banche meridionali.
Con la nascita della Banca d' Italia cominciò a delinearsi in qualche modo un sistema bancario che tuttavia, in concreto, trovò definita evidenza con la legge bancaria del 1936.
Vi furono nel lungo periodo indicato anche altri provvedimenti legislativi volti a disciplinare le modalità operative di talune categorie di aziende di credito e prevedere in qualche modo un articolato controllo pubblico.
Ma sopratutto vi fu un'opera costante della Banca d'Italia a privilegiare gli obbiettivi pubblici rispetto all'interesse privato degli azionisti.
La Banca d'Italia, infatti, ebbe modo di esplicare tale “vocazione pubblica” favorendo la propria funzione di prestatore di ultima istanza; il che portò ad interventi anche sostanziosi per il superamento di situazioni di crisi. Da tale funzione non poteva che derivare una effettiva centralità dell'istituto di emissione mentre cominciava a delinearsi
l' esigenza di controllo sulle aziende di credito.
Ma, come già detto, è con la legge bancaria del 1936 che si delineò con contorni definiti il “sistema bancario” .
Fin dall'articolo 1 veniva dichiarato che il risparmio fra il pubblico e l'esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico.
Affermazione ripresa dall'articolo 47 della nostra Costituzione che espressamente recita:
“ La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”.
La legge bancaria del 1936 è datata in un periodo particolarmente sfavorevole per l'intera economia.
Vi era stata la debacle della borsa di New York nel 1929.
Vi era stata la crisi industriale; le maggiori banche italiane erano oberate dalla presenza nei propri portafogli di partecipazioni assunte.
E' da dire che la legge bancaria del 1926 aveva svolto la funzione di arginare gli squilibri avvertiti dalle aziende di credito, ma si dimostrava impari alle situazioni che successivamente si verificarono.
E' tuttavia da rappresentare positivamente che nel '26 fu affermata l'attribuzione della vigilanza sulle aziende di credito alla Banca d'Italia, che rimase unico istituto di emissione.
Va soggiunto che provvedimenti sostanziali erano stati adottati con la creazione dell'IRI, istituto rivolto propriamente alla ricostruzione del tessuto industriale mediante la gestione di partecipazioni statali; era sorto l' IMI che aveva il compito di assistere finanziariamente l'economia industriale.
Si imponeva però un sostanziale riordino dell'esercizio del credito con l'emanazione di regole cogenti che inducessero il mondo bancario ad una sana e prudente gestione.
Veniamo a questo punto a definire il significato, anche fattuale del termine “vigilanza”. Non possiamo, infatti, ritenere la vigilanza come sinonimo di controllo; è da chiarire che la Vigilanza contiene nel suo esplicarsi l'azione di verifica dell'adesione del comportamento alla norma, ma assume anche la cognizione utile alla determinazione dell'adeguamento della struttura esaminata, nel suo complesso organizzativo, regolamentare, funzionale, alle finalità sicuramente dirette alla nominata “sana e prudente gestione”.
Senza dubbio la legge bancaria favoriva un atteggiamento dirigistico (e il periodo storico lo consentiva), ma l'intento principale dell'organo di vigilanza era mantenere stabile la condizione del sistema ed in tal modo proteggere il risparmio.
E' il caso di rammentare che la Banca d'Italia rappresentava e rappresenta anche un centro di studi dell'economia e che il dialogo fra gli studiosi e gli addetti alla Vigilanza, sotto la accorta direzione del Direttorio, ha favorito la scelta opportuna degli indirizzi da suggerire (e talvolta imporre) alle banche per il più favorevole decorso della congiuntura economica.
La legge del 1936 aveva dato forma al sistema e suddiviso perentoriamente i compiti dei componenti il sistema stesso:
⁃ per la costituzione di nuove banche e l'apertura di nuovi sportelli è richiesta l'autorizzazione della Banca d'Italia;
⁃ viene differenziata la competenza fra credito ordinario e credito speciale
⁃ inoltre:
⁃ sono confermati istituti di diritto pubblico il Banco di Sicilia , il Banco di Napoli, la BNL, l'Istituto bancario S. Paolo di Torino e dichiarato tale il Monte dei Paschi di Siena.
⁃ Sono qualificate di interesse nazionale le banche di maggiore importanza aventi sedi operative in più di trenta province.
⁃ Con tale assetto si intendeva sottolineare il particolare interesse statuale alla operatività delle aziende esercenti il credito.
⁃ E' da soggiungere altresì che i criteri che hanno determinato le scelte contenute nella legge di cui ci stiamo occupando non potevano che trasfondersi nella applicazione pratica della funzione di vigilanza.
⁃ E, difatti, vi furono all'occorrenza provvedimenti volti a determinare con direttive inopponibili anche scelte che avrebbero dovuto essere imprenditoriali.
⁃ Valga solo qualche esempio particolare, ma indicativo dell'assunto che andiamo esprimendo:
⁃ negli anni settanta, di fronte alle oscillazioni ed alla svalutazione di taluni titoli, si accettò che nelle situazioni contabili delle aziende di credito non emergessero le svalutazioni degli stessi, ma bastasse evidenziare la presenza di tali valori in appostazioni contrapposte di debitori e creditori diversi;
⁃ furono stabiliti vincoli amministrativi nella composizione degli investimenti in titoli, con ciò chiaramente indirizzando di fatto i finanziamenti verso prescelti settori economici;
Dirigismo assoluto, quindi, ma rivolto alla tutela della stabilità economica interna.
Purtroppo gli eventi talora addirittura delittuosi non consentono di evitare squilibri e dissesti, così come improprietà delle gestioni inducono a situazioni di precarietà o peggio in singole aziende.
Dobbiamo però doverosamente constatare che mai le situazioni negative delle singole aziende hanno coinvolto gli interessi dei depositanti, grazie alla costante tenuta del sistema nel suo complesso.
Vigilanza, dunque, nel duplice aspetto di controllo sulla osservanza delle norme (ed a tal fine interventi sanzionatori anche drastici), ma anche indirizzo per la migliore gestione aziendale e per la tutela dell'utenza bancaria.
E' ordinaria, infatti, sia nelle fase ispettiva con sopralluoghi presso le aziende vigilate, sia nel corso dei frequenti colloqui che gli esponenti bancari intrattengono con gli uffici della Banca d'Italia, l'analisi della struttura aziendale al fine di acquisire informativa atta a delineare l'adeguatezza dell'apparato aziendale alle finalità proprie.
Colloqui che sempre più si rendono necessari stanti le direttive emanate in sede europea per la tutela della funzione creditizia.
Vale a tal proposito far cenno alla disciplina derivante dal Comitato di Basilea.
Il Comitato di Basilea è un gruppo che riunisce le banche centrali dei 10 paesi più industrializzati per trattare di argomenti inerenti la regolamentazione bancaria che nasce nel 1974. Non legifera ma emette indicazioni che sono considerate “vincolanti” in circa 100 paesi.
Nel 1998 ha stabilito i 25 principi fondamentali della supervisione bancaria con cui si introduce il concetto di “adeguatezza patrimoniale “, cioè di patrimonio adeguato ai rischi assunti . Si stabilisce quindi una percentuale minima di copertura tra patrimonio e rischio di credito.
Nel 1999 la riforma si evolve (Basilea 2) creando un sistema più complesso per l'individuazione e la copertura dei rischi , che dovrà gradatamente trovare applicazione attraverso grandi interventi decisionali e organizzativi fino a culminare nel 2005 – 2006 nell'entrata in funzione del sistema di regole.
L'idea forte della nuova risoluzione del Comitato è colpire proprio il cuore delle imprese, facendo sì che esse debbano allineare l'adeguamento del capitale agli effettivi rischi assunti facendo attività bancaria.
Sulla base di questa idea è stato stabilito di definire incentivi al fine di migliorare le capacità di misurazione e gestione del rischio, senza dimenticare l'importanza di un sistema trasparente nei confronti del pubblico e, quindi, anche per questa strada garantire il contenimento del rischio, dal momento che una utenza più informata riduce i rischi di controversie; senza considerare il dovere morale di essere trasparenti.
Da ciò la definizione di tre pilastri:
1) Primo pilastro:
2) richiesta di un capitale minimo in funzione del tipo di rischio.
3) Secondo pilastro:
4) supervisione.
5) Terzo pilastro:
6) Trasparenza informativa.
Meno sinteticamente è da osservare che:
⁃ per gli adempimenti di cui al primo pilastro spetta all'organo di vigilanza di ciascuno stato (per noi alla Banca d'Italia) stabilire – in via generale e/o per singole aziende – stabilire un livello minimo di copertura dei rischi.
⁃ Per soddisfare le direttive del secondo pilastro la banca deve disporre di un procedimento di determinazione del capitale, adeguato ai rischi assunti, e una strategia per il controllo includendo il monitoraggio da parte del Consiglio di amministrazione e dell'Alta Direzione , la misurazione adeguata e continua nel tempo, l'informativa e la revisione dei controlli interni. Il supervisore controllerà e valuterà la capacità di conseguimento e mantenimento dei requisiti prescritti, adottando, se del caso provvedimenti adeguati.
⁃ Per il terzo pilastro occorre assicurare la trasparenza nelle informazioni emesse a favore del pubblico, disponendo di una politica della trasparenza approvata dal Consiglio di amministrazione, nella quale venga evidenziato l'obbiettivo e la strategia della banca riguardo alle informative da rendere pubbliche.
Ritengo evidente che le direttive di Basilea inducono alla presenza di adeguati controlli interni alle aziende e ne individuano principalmente nel Consiglio di amministrazione il responsabile .
Da qui l'attenzione dell'Organo di vigilanza appunto sulle diverse funzioni di controllo di cui le aziende di credito devono ormai essere dotate. Del resto è funzione primaria della vigilanza espletare la propria attività sugli organismi interni preposti alle varie tipologie ed ai diversi livelli di controllo svolti in seno alle organizzazioni aziendali.
Per pura informativa soggiungo che ulteriori direttive del Comitato (Basilea 3) aggiungono ulteriori requisiti volti a tutelare ancor più dai rischi dell'attività bancaria il patrimonio aziendale.
Sugli adempimenti conseguenti occorre ovviamente invigilare, anche intervenendo con professionale competenza per indicare modalità e mezzi per adempiere a quanto previsto dalle direttive.
Da quanto anche per ultimo detto emerge chiaro che il sistema bancario da osservare è , allo stato, sebbene manchi un più completo amalgama amministrativo e giuridico, non più quello attinente solo al nostro paese, ma quello che investe l'Europa che va formandosi, e anche oltre, se si tiene presente che gli indirizzi di Basilea interessano ben 100 paesi.
Solo pochi mesi fa la Cancelliera tedesca trionfalmente dichiarava come prossima l'unificazione della Vigilanza europea , attribuendone la funzione alla BCE. E' però da osservare che recenti ripensamenti rinviano, per ora, tale provvedimento.
A questo punto la conversazione dovrebbe aver termine. Consentitemi, tuttavia, di rubare pochi secondi al vostro tempo per dimostrare con un esempio il comportamento della vigilanza nell'esporre le proprie considerazioni alle aziende oggetto di osservazione.
Ho qui con me un rapporto ispettivo riguardante una banca giudicata favorevolmente.
Ma il positivo giudizio non la esenta da (sia pur non aspre) critiche volte a possibili miglioramenti nella gestione aziendale. Miglioramenti che garantiscano la solidità patrimoniale e, quindi, il presidio degli interessi dei depositanti.
Si ha in questo caso particolare riguardo alla funzione di controllo interno (settore sul quale sempre l'attenzione di verifica si appunta), che, seppur ritenuto sostanzialmente adeguato, viene sottoposto a critiche per taluni aspetti particolari.
Non mancano altresì raccomandazioni per una sempre attenta cura di altri settori che in maniera più diretta interessano la clientela (trasparenza, usura) o la reputazione aziendale per cause attinenti a non corretto comportamento di clienti (antiriciclaggio).
In breve, l'esperienza acquisita dagli addetti alla vigilanza è costantemente posta a disposizione dei vigilati, in un rapporto di collaborazione che è parte doverosa ed essenziale dell'espletamento della supervisione bancaria.
Pubblicato da Calogero Taverna a 15:23
Storia medievale ragionata di Racalmuto
Le decime del 1375
Nel contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un
personaggio acquisisce contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito
nostro, cioè della microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel.
Originario della diocesi di Mende, in Francia, fu uno dei valenti agenti
dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede sotto i pontificati di Urbano
V e di Gregorio XI. Si distinse come collettore in Germania (1366-1367) e
quindi nella Penisola Iberica (1368-1371). A questo punto il suo destino si
lega a quello della Sicilia ed investe a Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29
marzo del 1375. La sua carriera in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373
al 1375. Svolge diligentemente i suoi compiti e fra l’altro redige come
collettore apostolico carte e registri contabili che, conservati negli Archivi
del Vaticano, sono giunti sino a noi. Vi troviamo Racalmuto.
Bertrand du Mazel era “archidiaconus Tarantone in ecclesia
Ilerdensi, cappellanus pontificis” (Reg. Vat. 268, f. 67) cioè a dire un
diacono maggiore che aveva l’amministrazione dei beni di taluni settori della
chiesa (canonica, etc.). Oggi il titolo è meramente onorifico e viene
attribuito ad un componente capitolare delle cattedrali. Du Mazel , come tutti
i collettori, dovette tenere un registro delle sue operazioni per sottometterle
al controllo dei chierici della Camera apostolica. Pare che si stato un uomo
preciso e motodico: conservo una copia della sua corrispondenza. Una parte di
tale corrispondenza riguardava, pernostra fortuna, la Sicilia e risulta
custodita in Vaticano. Ciò si deve al fatto che per il diritto di spoglio tutte
le carte di Bertrand du Mazel dovettero essere versate in blocco alla Camera
apostolica alla morte del proprietario.
Du Mazel curò un carteggio con le autorità siciliane
dell’epoca nella sua qualità di collettore del sussidio riscosso dal popolo
siciliano. Inoltre conservò i documenti contabili tra cui quietanze, conti dei
sotto-collettori, minute e bella copia dei conti. Nel Reg. Av. 192, fol.
414-419v, abbiamo la minuta autografa, cancellata e corretta, del conto del
sussidio raccolto dal popolo siciliano.
La visita in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca
nel quadro degli eventi sopra abbozzato.
In particolare occorre tener presente che all’inizio del 1373, dopo
laboriosi negoziati, il re Federico IV di Sicilia e la Regina Giovanna di
Napoli concludevano la pace sotto l’egida del papato. Riconosciuto come sovrano
legittimo della Trinacria, Federico IV accettava la signoria di Giovanna I, e
quella di Gregorio XI. Egli si impegnava a pagare un censo di 3.000 once alla
regina che doveva trasmette alla Santa Sede questo canone. I siciliani dovevano
giurare la pace e prestare giuramento di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava
tutti i diritti e privilegi che godeva prima del Vespro del 1282. Il papa
prometteva di levare l’interdetto che gravava nell’isola da lunghi anni.
L’accordo si rendeva necessario per le ristrettezze
finanzierie pontificie a seguito della lotta contro i Visconti di cui abbiamo
detto. Si è anche visto come i “sussidi caritativi” chiesti al clero di molti
paesi fossero risultati fallimentari.. In Sicilia la percezione di tale
sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel dicembre del 1372; la
promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di pressione fiscale. Vengono
chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono madalità di esazione
contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per i riottosi. Le bolle
del dicembre del 1372, chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della
Chiesa in Italia, imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione
dell’interdetto”. Evidente l’intento dissuasivo.In virtù di una clausola
apparentemente anodina, i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva
liberare dall’interdetto, non solamente il giuramento di rispettare la pace e
d’essere fedele al re, secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto
pecuniario alla Chiesa. Il sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in
imposta pura e semplice. Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa
riscossa “ratione amotionis interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero
si parla ancora più esplicitamente di
“subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati
proprio perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del
nostro paese.
Illuminato Peri
chiarisce gli aspetti storici di siffatta atipica tassazione pontificia.
«La esazione fu affidata a collettori pontifici, e fu convenuto che 1/3 sarebbe
andato alle finanze regie. Nella forma Federico IV si presentò mediatore fra
popolazione e autorità ecclesiale. Tanto che l’atto del maggio del 1374, con il
quale egli fissò la misura della sovvenzione, fu dichiarato “moderatio regia”.
Con tale atto si cercò di sedare le reazioni piuttosto violente suscitate dalla
prima richiesta (“rumori, rivolte, novità, assembramenti e molte indicibili e
turpi parole contro la chiesa romana e noi”, sintetizzava il collettore
Bertrand du Mazel). Il sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alla condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le
“mediocri”, 3 per le agiate (“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in
facoltà”). Si computarono in ciascuna località metà delle famiglie nella
categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra le benestanti: se le condizioni
economiche fossero omogenee, sarebbe stata distribuzione equa. Furono esentati
i preti, i giudei e i tatari “che sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone”
che non era prefigurato fossero.» [1]
Intensa è la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive
a destra e a manca per spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove
istanze impositive della Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed
università a recarsi presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo
convincano a fare pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli
inviti sono mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Sempre da Avignone, il 1° ottobre del 1372, si officia
Guglielmo affinché interponga “partes suas consolidationi Agrigentinae
civitatis efficaciter et, cum consummata fuerit, Francisco de Aragonia impendat
obedientiam et reverentiam, sicut decet.” (Reg. Vat. 268, f. 298 v.° 299 v.°). Si
ripristini ad Agrigento la fedeltà a Francesco d’Aragona, che risultava
infranta.
Vediamo questo diploma: «Al nostro diletto figlio, nobiluomo
Guglielmo di Peralta, conte di Caltabellotta della diocesi di Agrigento,
salute. Ed al magnifico diletto figlio,
nobiluomo Giovanni Chiaramonte, signorotto (domicellus) della diocesi di
Agrigento, nonché ad Emmanuele Doria, signorotto (domicellus) della diocesi di
Mazara, a Manfredi Chiaramonte, (domicellus) della diocesi di Siracusa, a
Benvenutode Graffeo, signore di Partanna della diocesi di Mazara.» Il pontefice
mostra di conoscere molto bene la mappa del potere feudale in quel frangente
storico, come dimostra il dosaggio dei titoli nobiliari nella missiva di cui
abbiamo citato l’indirizzario.
Ma particolare attenzione viene rivolta a Giovanni
Chiaramonte che ancora nel 1372 è vivente e domina sull’intera provincia
agrigentina, Racalmuto compreso (il papa ignora i Del Carretto, argomento ex
silentio, quanto si vuole, ma pur sempre circostanza rivelatrice). Sottolineamo
questa lettera del 20 gennaio 1372: «a Giovanni Chiaramonte per i suoi buoni
offici tra la Regina di Sicilia e Federico d'Aragona - secondo il tenore delle
lettere per Nicolò de Messana, Pietro
d'Agrigento custodi delle custodie di Messina e di Agrigento dell' O.F.M.» (Reg.
Vat. 268, f. 247). In ben sei lettere papali a Giovanni Chiaramonte, questi
viene chiamato “domicellus panormitanus”. Nello stesso periodo sono sette le
missive papali a Manfredi Chiaramonte. I due sono dunque personaggi di rilievo
sino alle soglie del 1374. Il 6 febbraio 1372, per il papa avignonese Giovanni
Chiaramonte è cresciuto d’importanza: viene chiamato “domicello dell’isola di
Sicilia”. In appendice citami altri
diplomi vaticani ad ulteriore esemplificazione dell’importanza rivestita dai
due Chiaramonte, succedutisi nella signoria di Racalmuto in quel torno di tempo
tra il 1371 ed il 1375.
Il 9 febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella
sua qualità anche di ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di
percepire nelle sue terre il denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di
consegnare il frutto della loro raccolta al collettore apostolico che subito
toglierà l’interdetto. Il precedente 18 novembre 1374, Menfredi è a Mussomeli
nel suo castello che ora si denomena dal suo nome “Manfreda”: là si redige un
processo verbale che attesta che egli, ammiraglio del regno di Trinacria,
presentandosi davanti al re Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto
omaggio. Il ribellismo del conte, di illegittimi natali, si era dunque
quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio apostolico, che accompagnava il re,
Manfredi ha solennemente promesso sul Vangelo di osservare il trattato di pace,
come è stato steso nelle lettere reali sigillate con una bolla d’oro e finché
il re l’osserva lui stesso. Egli ha promesso di fare versare il sussidio dovuto
alla Chiesa dagli abitanti delle su terre di Spaccaforno, Scicli, Modica,
Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara,
Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli,
Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo
Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa
e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra,
Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione
di Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [2] Il processo verbale è
stato redatto su domanda del re e del nunzio apostolico nella casa dove risiede
il re da Francesco da Treviso, notaio apostolico e imperiale «presentibus
reverendo padre Rostagno abbate monasterii Sancti Severini Majoris de Neapoli
et nobilibus et circumspectis viris Jacobo Pictingna de Messana milite, Georgio
Graffeo de Mazaria, Bonaccursio Maynerii de Florencia, Manfredo de la Habita de
Panormo, Raynerio de Senis, Reynerio Pictngna de Messana et aliis.» [Copia di
Bertrand du Mazel: Reg. Av. 192. Fol. 4.]
Dalla lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da
Caccamo il 9 febbraio 1375 riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica
storia di Racalmuto: esclusa ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il
casale è evidentemente assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di
Chiaramonte, signore e ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas ha un
suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei giudici, a
degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituiisce un soggetto
giuridico (universi homines). Rientra tra le terrae nostrae, cioè di Manfredi.
Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali), Racalmuto sarebbe
dovuta essere terra di Antonio II del Carretto: il diploma in esame smentisce
in pieno.
«Cum zo sia cosa ki - soggiunge il conte di Chiaramonte con
un siciliano cancelleresco che ha il suo fascino - a nuy sia debitu procurari
vostru beneficiu et universali saluti, cossì di l’anima comu di lu corpu,
idcirco vi significamu ki pir tali ki vuy putissivu aviri lu divinu officiu et
la celebracioni di li missi, sì comu ànnu la plu parti di li altri terri di
quistu Regnu, et maxime per consideracioni di la malvasa epithimia ki vay
discurrendu per diversi terri et loki, in presencia di lu R[e]... prestamu et
fichimu juramentu di observari la pachi facta per lu signur Re comu [illu] ...
observirà et hannu juratu li altri baruni, et lu simili avimu factu fari a la
universitati di Palermu et di Girgenti; per la quali concordia esti commisu a
lu venerabili misser Bertrandu, capellanu et nunciu apostolicu et collecturi
deputatu per nostru signuri lu papa di lu subsidiu impostu per la relaxioni di
lu interdictu, ki pagandu vuy chauna universitati oy locu la taxa imposita et
consueta, comu ànnu pagatu li altri terri di lu predictu Regnu, ipsu per la
auctoritati a ssì commissa relassi lu dictu interdictu et restituiscavi lu
divinu officio et la celebracioni di li missi, ut predicitur; et impirò vulimu
et comandamu ki vuy, officiali predicti, ordinati tri boni homini un chascuna
terra et locu predicti ki aianu a recogliri la dicta munita, et ki incontinenti
si pagi a lu dictu collecturi perkì puzati consiquiri tanta gratia et beneficiu
supradictu. Et pirkì siati plu certi di la supradicta nostra voluntati, fachimu
fari quista nostra patenti lictera, sigillata di lu nostru sigillu consuetu,
cum li nomi di li terri et loki infrascripti. Datum in castro nostro Cacabi, VIIII° Februarii XII
indictionis [rectius: XIII indictionis = 1375].
«Nomina terrarum et locorum sunt hec, videlicet:
Spackafurnu -
Naru - lu Mucharu - Sanctu Stephanu - la Petra d’Amicu
Sicli -
la Delia - li
Glubellini - Perizi - Calatrasi
Modica -
la Favara - Sutera - lu Palazu Adrianu - lu Misilendinu
Ragusa -
Monticlaru - Manfreda - Cacabu - Camarana
Claromonti -
la Licata - Camastra
- Chifalà - Petra Russu
Odorillu -
Rachalmutu - Castrunovu -
Misilmeri -
____Ç____
Terranova -
Guastanella - Bibona - la turri di Capublancu - Et cetera
Copia di B. du Mazel: Reg. Av. Fol. 431-431v.»
Ancora una volta le singole università dievono dunque
nominare tre probiviri (tri boni homini) i quali devono assolvere il poco
gradito compito di spillare denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure
che prima abbiamo detto). Non sappiamo chi siano stati i prescelti di
Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e svolsero a puntino la ficcante
tassazione.
L’elenco delle università ha una sua logica: Racalmuto si
trova in mezzo ad un itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su
Naro, da qui a Delia e da lì si torna a Favara (ammesso che si tratti
dell’attuale Favara e non di un centro nel nisseno); da Favara a Palma di
Montechiaro, quindi a Licata per convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a
Guastanella (una rocca sul monte omonimo a poco più di 2 km. A Nord di
Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro. Da qui per una località vicina:
Gibillini (Glubellini) che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire
anche storici di alto livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro
Castelluccio, al tempo chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese di
arricchisce di unaltro importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e
quindi a Mussomeli. Si passa a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e
quindi a Bivona, Santo Stefano, Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di
Caccamo e di altri centri, ma a questo punto il nostro interesse per la dislocazione
trecentesca dei paesi diviene nullo.
Fin qui si è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo
delle tasse vere. L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a
partire dai primi di marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6
marzo); il 18 dello stesso mese può
togliere l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico;
il 21 a S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso giorno è la volta di Racalmuto. Dal nostro paese si passa a Castronovo (8
aprile 1375). La raccolta del sussidio s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno
con la rimozione dell’interdetto che incombeva su Castellammare del Golfo:
altra regione, lontana da Agrigento. Per noi ha particolare rilievo ovviamento
Racalmuto.
Disponiamo di un paio di annotazioni che riguardano il
nostro paese e che naturalmente svelano tratti storici diversamente ignoti. Il
Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione
al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in casali Rahalmuti
dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI que ascendunt et
quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari lo stesso giorno
(29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di Racalmuto della predetta
diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte di paglia; queste hanno
reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e 27 tarì.» Ad essere
precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27 (anziché 27) dato
che così andava ripartita:
|
|
quota individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
numero fuochi
|
136
|
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
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ceto medio (1/4)
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34
|
2 tarì
|
68
|
|
|
benestanti (1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
|
|
poveri (1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
|
|
Con i suoi 136 fuochi
Racalmuto aveva dunque una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4
componenti per ogni nucleo familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i
miserabili), i preti (tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli
che dipersi per le campagne non era possibile includerli nel censimento; un
venti per cento, come abbiamo calcolato per l’analoga tassazione del Vespro.
Nel 1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è visto le case erano di paglia: segno di grande
indigenza. Eppure i racalmutesi o per solerzia degli scherani pontifici o per
vero timore di Dio (e della peste) furono solerti e puntuali nel dare il
sussidio caritativo al papa. Non così in altre zone della Sicilia, come ebbe a
lamentarsi quello straniero di Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte del du Mazel non vanno minimamente confuse con
rilievi censuari. Abbiamo solo muneri simboli da cui possiamo dedurre solo
qualche ipotesi di lavoro di carattere demografico. Non è dato asserire che nel
1375 a Racalmuto vi erano davvero 136 case con tetto a paglia; che 34 di queste
(1/4) erano abitate da benestanti in grado di corrispondere la tassa pontificia
in misura massima (3 tarì a fuoco); che altre 34 appartenevano a ceti medi
(tassati per 2 tarì a famiglia); la metà (n.° 68) ospitava famiglie di
dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di corrispondere il minimo (1
tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della tassazione induttiva, per
stima aprioristica. Certamente in misura più limitata dovette essere la densità
delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella del ceto medio; ancor più
vasta quella della classe che oggi chiameremmo operaia. E poi i tanti religiosi
(tassati a parte, come rivelano le stesse carte del du Mazel), i “miserabili”
(nullatenenti e non imponibili per le legge o per dato di fatto), gli
irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone inaccessabili o nei
contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli armenti vivevano in
stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni reperibilità impositiva.
Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano davvero a Racalmuto nel
1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi avvallamenti sotto le grotte
dell’ordierno Calvario Vecchio) raccoglieva non meno di 600 abitanti, che tutto
considerato non si può andare oltre il numero di mille abitanti (ricchi e
poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari, preti e “miserabili”). Una
popolazione già falcidiata dalle tante ondate della ricorrente peste
trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con l’avvento dalla
Catalogna del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
Racalmuto alla fine del Trecento
L’ultimo quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un
groviglio di eventi più narrati che spiegati. Sono mutamenti genetici
dell’intero tessuto sociale e politico siciliano: sono sconvolgimenti del
periferico fluire della vita paesana racalmutese. Storia del paese e storia di
Sicilia hano ora un tale contiguità da rasentare la coincidenza. Non è questa
la sede per affrontare l’intero ordito storico siciliano di quel torno di
tempo, ma un qualche aggancio si rende indispensabile.
Il 27 luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello
della diplomatistica avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto.
Per gli storici, quella morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
«Come i supoi predecessori - Scrive il D’Alessandro [3]
- e certo molto più che Pietro II e Ludovico, aveva avuto coscienza della
realtà che affliggeva il regno, degli ostacoli alla Corona; più di quei sovrani
aveva desiderato riportare l’isola ad una normalità di vita ormai tanto lontana
dalla passata storia. Il suo proponimento, dopo tanti anni di regno, restava
solo una aspirazione. Nel suo testamento, dopo la parte dedicata alla
successione, egli disponenva anche una revoca di tutte le concessioni sul
patrimonio demaniale sin’allora erogate e confermate: un “impeto di giusto
dispetto” come poi fu detto, ma che poco prima di morire annullava con un
codicillo.»
Il regno passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo
inesperta per essere regina sul serio - ma solo pro forma visto che è Artale I
Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario. Ciò è per
volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro e chiede
subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri maggiori baroni
Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo Peralta.
La vita riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di
fittizia regolarità. In effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra
costoro e cioè fra i cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano
era in mano loro. Per Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era
assoggettato a Manfredi Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del
Carretto, oltreché storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni
logica: tutto lascia intendere che costoro se ne stesserro ancora a genova a
curare i nuovi loro affarri in seno a compagnie marittime.
Racalmuto scade però in una vera e propria terra feudale
«ove tutto era il signore: la legge e la giustizia, l’economia e la vita
sociale.» [4] Solo che il signore
era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il
conte di Augusta Guglielmo III Moncada: riesce costui a strappare dalla
sorveglianza degli alagonesi, dal castello Ursino di Catania, la regina Maria.
Il conte ha l’appoggio di Manfredi III Chiaramonte. La regina viene
mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le trattative sono con Pietro IV
d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non lasciandogli altra via che
quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla alla monarchia iberica.
Rientrava in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389),
attraverso gli arcivescovi di Messina e Monreale e il vescovo di Catania,
sobillava i nobili siciliani in contrapposizione agli intenti della corte
aragonese.
Ribolliva l’intrico di corte spagnola con il dissidio fra re
Pietro ed il primogenito Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per
amore di Violante di Bar. Il re pietro finiva allora col pensare all’Infante
Martino per dar copo alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo
figlio dell’Infante Martino con la regina Maria avrebbe consentito una
sostanziale riappropriazione della Sicilia, anche se formalmente sarebbero
rimaste distinzioni ed autonomie. In tale quadro, toccava al vecchio Martino
curare gli affari di Sicilia della corte aragonese. Fervono quindi i
preparativi per una spedizione militare. Tanti sono i maneggi tra i nobili e
Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao di Rocaberti riesce senza ostacoli
a liberare dall’assedio Maria e portarla
in Sardegna, pronta per le nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389 moriva Artale I Alagona, considerato il capo della
“parzialità” catalana. Per l’Infante Martino quella morte suonava di buon
auspicio. Fin qui i rapporti tra l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte
possono dirsi del tutto amichevoli e consociativi.
Morto anche Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con
il quale si iniziava un periodo di scabrosi movimenti in seno al regno: tra
l’altro veniva riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di
conseguenza scoccava la scomunica e l’opposizione della Chiesa di Rma e del
papa legittimo Urbano VI. L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del
fratello asceso al trono.
Nel 1389, allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio
Martino, nuovo duca di Montblanc, si adoperò subito per iltrasferimento della
regina Maria in Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi
Chiaramonte. Il duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona,
non trascurava di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria
all’insediamento del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona
aragonese non sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni
modo, si potevano celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e
Maria, evento nodale della storia di Sicilia.
Si giunge così al 1391 quando nel marzo viene a morire
Manfredi III di Chiaramonte, personaggio di grossa statura politica e gran
signore di Racalmuto. Sul suo successore e su altri nobili di Sicilia - punta
il nuovo pontefice romano Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento
isolano tendente a contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della
Chiesa romana si riflettono dunque anche nella periferica terra di Racalmuto.
In quell’anno si dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per
frenare le bramosie dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo
e Monreale un fronte d’opposizione ai Martini.» [5]
Nel frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi
e vitalizi in Sicilia a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza
aderiscono con generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia
avrà poi fortuna a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente
collegamento a quel lontano approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli
ultimi eredi diverranno personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu
Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto “Catalano”. Ai tempi in
cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato medico racalmutese (fine
del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano proprio all’incrocio tra
l’attuale corso Garibaldi e la strada
intestata al celebre medico racalmutese.
Nel 1392 gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia,
guidati dal loro generale Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono
subito dalla parte dei conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il
vizietto tutto italico di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto
Flaiano - era piuttosto diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi
Chiaramonte - continuò a credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai
catalani. Asserragliatosi a Palermo, resistette per un mese agli attacchi
spagnoli. Racalmuto venne coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni,
fughe in massa, ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo
finì con l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste
proprietà furono arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la
famiglia Del Carretto che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a
sostegno del vittorioso Martino, si riappropria di Racalmuto e dà inizio al lungo periodo della sua baronià
vera e storicamente documentata.
Si dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a
stabilire il 10 luglio 1391 quando si era celebrato il convegno di Castronono
in cui si era giurata fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane
Martino non riconosciuto né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i
vicari, fautore il Chiramonte, erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo
spazio di un mattino ed ecco alcuni convenuti inziare intese occulte con il
duca di Montblanc, «del quale, evidentemente, si volevano forzare progetti e
profferte; e più di prima isolatamente procedevano tali patteggiamenti che
rinnegavano i giuramenti. Era del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive
profferte] ad Antonio Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato
un’ambasceria.» [6] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccrediatare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici dei catalani invasori, per
“necessità” finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
Ancora nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II
Chiaramonte ritenevano opportuno di mandare propri inviati a Barcellona. Il
duca di Montblanc poteva fondatamente ritenere che i nobili di Sicilia erano
dopo tutto non alieni dall’accogliere la spedizione militare aragonese.
Gli eventi precitano: il 22 marzo 1392 approdava la
spedizione all’isola della Favignana presso Trapani. Il duca, a nome dei
sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi entro sei giorni a Mazara per il
dovuto omaggio. I due vicari Antonio Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri
nobili quali Enrico I Rosso non
mancavano di prestare giuramento e dare l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno
stesso del loro arrivo. Tripudiava la popolazione di Trapani al passaggio dei
giovani regali. Sembrava andare tutto liscio, sennonché la notoria instabilità
sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea II Chiaramonte mutava atteggiamento.
Dopo essersi rivolto favorevolmente a Guerau Queralt, rappresentante della
corona, era indi passato ad un attendismo ed a moti di diffidente attesa verso
il Montblanc ed al figlio Martino il giovane. Il duca si irritiva a sua volta
nei confronti del Chiaramonte. Il 3 aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di
Montblanc dichiarava ribelli il Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II
Alagona. Venivano confiscati ed ascritti alla Curia tutti i loro beni che
passavano di mano venendo assegnati a Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi
rientrò Racalmuto?
Chiaramonte si asserragliava, come detto, a Palermo. Il 17 maggio
1392 si induceva a prestare omaggio ai sovrani. Il giorno successivo Andrea
Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit
(eletto dal Capitolo palermitano per volontà degli stessi Chiaramonte),
chiedeva di conferire con i sovrani per trattare dei suoi beni. Ma Martino il
vecchio non indugiava: li faceva prontamente imprigionare. La sorte di Andrea
Chiaramonte si concludeva il primo
giugno 1392, quando viene decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo
di Palermo, il celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una
delazione ed avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi
Alagona delle passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione,
Racalmuto cessava definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e la regina Maria riescono a divenire gli
incontrastati padroni della Sicilia. Ma c’erano da fronteggiare decenni di
anarchia. Restaurare la legge e le prerogative regali era impresa ardua ma non
impossibile. I registri erano stati smarriti o distrutti e le antiche
tradizioni e consuetudini obliate. Martino, con l’aiuto di talune città, può
armare un esercito regolare che lo affranca dai nobili. Per le peculiarità
siciliane, era indispensabile un registro feudale: la corte si adoperò per una
riedizione critica. Vedremo come i Del Carretto devono fornire carte e prove
per far valere la loro titolarità del feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a
pesantissimi oneri finanziari. Per di più Martino dichiarò abrogate le clausole
del tratto del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae.
Approfittando di uno scisma del papato, ripudiò la signoria feudale del
papa e ribadì il proprio diritto al titolo di legato apostolico, che comportava
la potestà di nominare vescovi e di sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa
nel 1398: riprendeva la peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era
interrotta nel 1350. Le assemblee convocate da Martino testimoniavano che era
ritornata un’autorità centrale. Il parlamento presentò una petizione al re
perché nominasse meno catalani in posti nevralgini e perché applicasse leggi
siciliane e non quelle aliene di Catalogna.
Martino I rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre
anche quando quest’ultimo divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a
sorvegliare l’amministrazione della Sicilia fini nei più minuti aspetti. Questa
sudditanza attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni
persino di sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò,
rimase più un infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di
generale spagnolo che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per
domare una insurrezione in Sardegna.» [7] Martino il giovane
trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finisce in successione insieme
ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di Aragona e di
Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente riunificate.
Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare che questo
era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di minore
rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o di
origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese. Durante
l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [8]
Note e dettagli sull’avvento dei Del Carretto
Il grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci
coinvolge, che attiene proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di
Montblanc. Essa recita [9]:
Antes que la armada lle gasse a Sicilia; el Rey dio su
senteçia contra el Conde de Agosta, como contra rebelde, è in gratissimo a las
mercedes y beneficios que avia recebido del y del Rey fu padre, y se
confiscaron a la corona las islas de Malta, y del Gozo, y las vallas de Mineo y
Naro, y otros muchos lugares de los varones que se avian rebelado, y el Conde
murio luego: y con la llegada de la armada la execucion se hi zo rigorosamente
contra ellos, y di se entonces el officio de maestre justicier al Conde Nicolas
de Peralta, que vivio pocos meses despues. Murio tambien en este tiempo Ugo de
Santapau, y quedo en servicio del Rey de Sicilia Galceran de Santapau su
hermano: y por este tiempo embio el Rey a don Artal de Luna, hijo de don Fernan
Lopez de Luna a Sicilia, para que se
criasse en la casa del Rey su hijo, que era su primo, y sucedio despues
en la casa de Peralta, que era un gran estado en aquel reyno. Sirvio tambien al
rey de Sicilia en esta guerra, que duro algunos annos, Gerardo de Carreto
Marques de Sahona: y haziendose la guerra muy cruel contra los rebeldes, el
Conde de Veyntemilla, que sucedio en el Contado de Golisano al conde Francisco
su padre se reduxo a la obediencia del Rey ...
Per il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di
Savona, che si mise al servizio del re di Sicilia, Martino, in questa guerra
che durò alcuni anni. Lo spagnolo desunse questa notizia dagli archivi
aragonesi, senza dubbio, ma abbiamo il dubbio che ad ispirarlo siano state le
cronache cinquecentesche, specie quella del Fazello. Se del tutto attendibili,
queste note di cronaca ci svelano il fatto che Gerardo del Carretto attorno al
1392 si faceva passare come marchese di Savona, il che non collima proprio con
la storia di quella città ligure. Più che il fratello Matteo del Carretto, è
Gerardo che si dà da fare in un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei
Martino. E’ sempre Gerardo che si mette a guerreggiare in difesa dei catalani
nella lotta contro la parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa
concedere è questione ardua, non rirolvibile allo stato delle attuali
conoscenze.
Una documentazione probante della titolarità su Racalmuto i
Del Carretto sono, comunque, costretti a darla alla fine del secolo, quando la
cancelleria dei Martino diviene intrensigente e vuole prove certe delle pretese
feudali. Alle prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello
cadetto. Fu vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte
in quello che può considerarsi il primo processo per l’investitura della
baronia di Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli?
Fu solo formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito
Gerardo e l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in
particolare il castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto?
Interrogatvi cui non siamo in grado di dare risposte certe.
[1] ) I. Peri - La Sicilia
dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[2] ) J. Glénisson:
Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di Sicilia
(1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[3] ) Vincenzo
D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi
Editore - Palermo 1963, pag. 107.
[4]) Vincenzo D’Alessandro
- Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi Editore - Palermo
1963, pag. 108.
[5] ) Vincenzo
D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi
Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[6] ) Vincenzo
D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U. Manfredi
Editore - Palermo 1963, pag. 121. Continua il D’Alessandro: «ascoltati gli
emissari, i quali “latius narraverunt”, il duca rispondeva che “super
praedictis providebimus et providere curamus taliter quod gratias et alia quae
per dictos nuncios a nobis postulata fuerunt celerem sortientur effectum et
proinde vos, et alii nostri servitores, dante Deo, merito contentari.»
[7] ) Denis Mack Smith -
Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 115.
[8] ) Denis Mack Smith -
Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol. I pag. 116.
[9] ) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
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