di Calogero Taverna
Ombre fluttuanti che ai miei occhi appariste …. esordiva Goethe nel suo Faust. Quale giovinezza pretese Piero Baiamonte, varcato il semisecolare traguardo anagrafico, al concilio dei demoni per un ripristino della sua Vis nell’arte? non credo a Lucifero, forse a Baal, escludo Mammona … ma sicuro Eros. Allora eccoci a Michail Bulgakov, al Maestro e Margherita, dunque. E mi leggo, per mio solo intendimento: «Ivan studiò la situazione. Tre vie gli si aprivano davanti. La prima: … gettarsi contro quelle lampade e quegli oggettini bizzarri, spaccare tutto ed esprimere così la sua protesta …[ma] la prima via gli sembrò dubbia: magari in loro si sarebbe radicata l’idea che lui era un pazzo furioso. … una seconda: cominciare subito a parlare del consulente e di Ponzio Pilato però l’esperienza passata dimostrava che a quel racconto non prestavano fede, oppure lo interpretavano in modo svisato. Perciò Ivan rinunciò anche a questa via, e scelse la terza: chiudersi in un orgoglioso silenzio.» [O.C., Einaudi, 1967, pag. 83]. Ed a me davvero sembra che ad un tratto Pietro Baiamonte dette un taglio al passato.
Leggete le sue note biografiche e vi convincerete: «dopo un lungo percorso» ecco che «approda a un raffinato concetto di ¨nuovo figurativo¨» e cioè per «raggiungere un risultato inedito». Come dire che l’artista ha ora in serbo un “nuovo segreto”, quello sciasciano, quello che “ogni artista vero” profonde poi nella sua opera che “tanto più è segreta, esclusiva da scoprire come nell’intimità e continuità di un colloquio, quanto più appare aperta ed immediata.”
Se ne ha ora una testimonianza con la recente mostra nel racalmutesissimo Castello Chiaramontano. Diamone qui una panoramica per coglierne il senso.
La triade femminea, il riposo muliebre, l’evanescenza dopo il sogno e, nelle nostre foto, l’indistinto di quella che a me va di chiamare “efebeia gunaichea”. Siamo nel raptus deliquescente per acquisire ancora il gioioso rinvigorire dell’altra. Ed è come una rincorsa ed una fuga, un seguire chi velocemente si allontana, salendo sui gradini di una chiesa, la vetusta ma non antichissima chiesa di San Giuseppe, come icasticamente la cinepresa di Baiamonte ci addita nel video proposto in F.B.
Il demoniaco patto con Eros dunque, per il ritorno agli ardori giovanili? Perché no?
Di questi tempi, dilettandomi di psicanalisi, ed invischiato nelle teoriche mediche e psico-mediche di Georg Groddech e riguardandomi a ritroso, ma parlo di un trentennio addietro, vedo un irrefrenabile aggancio alla vita, una creatività che scaturisce da un’ambiguità esistenziale quando si comincia a temere la morte (mirate quella sincronia con dipinti e materie evocative di Thanatos - con Eros la diade freudiana - cui Baiamonte troppo indulge nelle sue foto di F.B.); del tempo in cui ci si ingorga nelle esplosioni gioiose, pittoriche, appunto; e dietro l’umana aggressività per un fomite liberatorio della pervadente sofferenza. Certo vi sono tanti istinti repressi che esplodono e diventano catarsi cromatica, ora persino raffigurativa, ora persino supplice, ora persino propiziatrice, ora persino sognante. E dietro ancora un’evanescente enfasi esistenziale che esplode in un rimembrato URLO che è poi l’EGO che censura l’ES; ma l’ES reagisce, si difende offendendo sprigionando mali fisici, psichici ed anche politici, sociali, culturali. Insomma l’eco di quanto sta avvenendo nella comunità racalmutese, mai così prospera come adesso, mai così culturalmente viva, mai così aliena dalle ancestrali accidie. Eppure tutti a cantare il de profundis, tanti, anche penne elette, prodighi nella denigrazione, nell’oscuramento di ogni attrattiva turistica. Ed i piccoli, gli insignificanti, i balbuzienti della più radicale incultura, i sorpassati, i beceri, gli ignoranti integrali che tutto credono di sapere insegnare, e via discorrendo; quelli insomma che salgono in cattedra, che propinano sentenze, che deridono i presunti eccessi linguistici quasi questi volessero trasformare le dialettali tribune locali in palliativi dell’accademia della Crusca. Ignari che la tranquilla coscienza (loro) è solo figlia di pessima memoria, e si atteggiano a superiori censori della piccole macule altrui, anche se loro cognati.
Già, l’ES racalmutese che vuole atterrire cautelarmene il superiore EGO racalmutese, quello cosciente di questo sublime movimento artistico all’Agnello, al Rizzo, all’Amato, e per noi soprattutto alla Baiamonte e ad altri, a tanti altri, anche in altri campi, dalla musica alla letteratura, dal giornalismo e persino, seppure osteggiata, alla imprenditorialità. L’URLO di MUNCH è quello di questi signori dell’autofragellazione o è il mio? Credetemi, cari racalmutesi e cari amici di Racalmuto sparsi per il mondo, la mia ottuagenaria saggezza non può sbagliare: per il futuro di Racalmuto la dea ragione mi sorride. Pensate che Racalmuto non è più la Regalpetra sciasciana degli anni’50. Ora tutto è salubre; rispetto al resto d’Italia, il benessere non scema. Vi sono certo problemi, come in ogni parte del mondo, ma sono i problemi della crescita capitalistica (purtroppo per il mio credo politico, ma non sono masochista). La mafia, la corruzione, la disoccupazione giovanile, chi non le vede? ma quanta enfatizzazione in un caso, quanta parva materia nell’altro campo, quanto lavoro nero ove si stempera e si camuffa la disoccupazione. Problemi più di evasione fiscale, che altro. E la droga? Quello è un gran male. Ne facevo un’agghiacciante denunzia in una mia inchiesta televisiva di otto anni fa. Mi inquietavano certi murales (oh! l’estro pittorico racalmutese), ove si invocava protezione, protezione dallo “sballo”. Quegli stessi murales li ho ritrovati questa estate negli abbandonati, ma con porte ultra serrate, casamenti ex Mulè del Castello Chiaramontano. Come hanno fatto i giovani ad infilarsi in quei tetri alloggiamenti? Non ha vigilato nessuno? E qui davvero mi aspetto l’azione purificatrice della triade di Diomede!
Ma torniamo alla pittura, alla ammaliante pittura della nouvelle vague di Piero: Niente più echi di Fontana, Burri, Manzone. Forse secondo qualche erudito un richiamo a Matisse (e poi diremo perché).
Siamo nel figurativo pieno, quale si addice alla solarità di questa nostra iridescente terra, ove vi sono troppi accattivanti colori, troppa luce scintillante, ove talora anche i Nebrodi innevati ci traslano in decantate località ultramontane. Perché astrarsi. E poi noi racalmutesi, con il DNA dei Sicani, con le stimmate mirabilmente raffigurative dei Greci (dei Gheloi, per intenderci), con le malie museali dei bizantini (sempre grecofoni) amiamo le immagini, il figurativo, e ci sentiamo estranei alle arditezze simboliste, metafisiche, persino futuriste, e non siamo dadaisti. Ci piace sognare il vero, amiamo il riflesso del volto muliebre, se maschi, se donne – che pare a Racalmuto amano ora sposarsi spiritualmente, cattolicamente fra loro – non so, mi manca l’acre impetuosità dell’efebeia gunaichea per capirle. Ma questo sguardo tortuoso eppure limpido, questa corvinità della folta chioma, quel socchiudere le labbra tinte di carminio, quel naso camuso, quel non essere efebica, e quel poggiare il capo in un fondale viola, ha tanti tantissimi empiti della facies locale, racalmutese, genuinamente racalmutese. Il viola? Quest’autunno peregrinando per li Fiumeti, ai bordi della strada asfaltata, d’improvviso scorgo una “troffa” di splendidi fiori viola. Una colonia di Giaggioli cui i riverberi del sole autunnale racalmutese conferiva la magia cromatica della inimitabilità. E qui Baiamonte, non so quanto consapevolmente, quel colore tutto indigeno, tutto nostro, ancestralmente nostro, coglie e sa cogliere, per ridarcelo integro ed ammaliante in questo ammirevole ritratto femmineo.
Miei cari concittadini, vi pare giusto che un patrimonio archivistico, di cui vi ho fornito un fotogramma tratto da quei 20 cd sopra citati, resti negletto ed abbandonato nelle mie mani, per finire ai miei eredi non tutti racalmutesi, e questo perché il sovrintendente alla cultura locale, per antico astio nei miei confronti, ha convinto l’autorità apicale a dichiarare ECCLESIA inidonea a percepire un qualche contributo volto alla realizzazione di un archivio storico racalmutese, come si sa vulnerato dai moti rivoluzionari racalmutesi del 1862? Quando il Commissario mi propinò il rigetto della mia domanda, certamente non sussiegosamente pitocca, lo invitai ad assidersi tra i numero tre. Certo non basta un localetto ove depositare i CD, occorrono laboratori, programmi informatici, esperti in paleografia (quello che vedete è già arduo di per sé, figuratevi le altre carte del ‘500 e del ‘600 per non parlare della carte vaticane sempre in mio possesso che risalgono al semionciale del ‘300?. Ma ciò non dà pane, dicono gli imbecilli. Ciò non è priorità del difficile momento che stiamo attraversando, aggiungono con sussiego argomentativo. Sì trattasse di un salice piangente alla Barona (che mi pare indebitamente tagliato da chi ora piange per ripiantarlo) allora sì che sarebbe una priorità (forse perché lo fornirebbe lui, a caro prezzo). E sapete la rabbia mia, perché, per la mia precorsa attività, so bene quanti fondi europei e regionali si potrebbero convogliare a Racalmuto e quanto lavoro per cooperative (serie) di giovani e di universitari ne scaturirebbe. Ma la Triade di Diomede uno sguardo a queste faccenduole assistenziali ce l’ha dato?
Vi è una mirabile pagina di Sciascia (in Amici della Noce) in cui, in uno dei rarissimi scisti erotici del grande Scrittore, questi scrive e descrive il dirimpettaio casino dei Matrona e l’immaginario bivaccare di ignude matrone tizianesche per i prati antistanti. Son sicuro che se Sciascia avesse visto questo ritratto, questa nostrana Maja Vestida (a dire il vero non troppo) con questo inebriante rosso, vi avrebbe colto l’immagine di una di quelle ericine sognate, mirabili alla luce del sole occiduo della Noce. A me fa lo stesso effetto della LUDOVICA ALBERTONI di GIAN LORENZO BERNINI quando vado, qui a Roma, nella chiesa di San Francesco a Ripa, nel cui convento un francescano, forse racalmutese, portò un testo del nostro Marco Antonio Alajmo autografandolo.
Trascrivo da chi sa scrivere meglio di me e con competenza: Matisse nel «ritratto con la linea verde [usa] colori “irrealistici” eppure funzionali, come dimostrano l’irreale linea verde che taglia in due il viso conferendogli rilievo (perché costituisce quasi un crinale divisorio, che sporgendo in avanti, modifica l’incidenza della luce sulle due parti dell’ovale) ed il risalto luminoso del viso stesso, determinato dall’accostamento dei suoi colori chiari con quelli della veste, del fondo e, soprattutto, della massa dei capelli che lo incorniciano e degli occhi profondi … Il senso profondo di questa scelta pittorica è la volontà di tradurre la percezione emotiva della realtà, senza neppure l’elementare mediazione logica dei sensi; immediatamente, dunque, per potere così legare l’immagine allo stato percettivo-emotivo nel momento stesso del primo impatto.» [Piero Adorno-Adriana Mastrangelo, Segni d’arte 4, Messina-Firenze, 2007, pagg. 24-25]
Siamo i primi a dichiararlo: la cifra pittorica di Baiamonte è ben altra; ma nessuno può negare le affinità. Essere accostati a Matisse, poi, non credo che sia un affronto.
Ma noi che pittori non siamo, che siamo anzi daltonici e i colori ce le facciamo dire da chi ci sta vicino, abbiamo, come si è visto, intenti ben diversi da quelli della critica d’arte. Riguardiamo ad esempio il giallo dei ritratti di Baiamonte. Ci richiamano quella nostra scoperta di tanti anni fa, di un fiore giallo sbocciato in autunno sotto la grotta di fra Diego. Pensavo al crocus, ma fui corretto dal Linneo Racalmutese: mi disse il nome latino ed in un primo momento parlò di Zafferano falso. Trascrivo dal sogno taverniano che REGALPETRA LIBERA pubblicherà se potrà:
Ecco il suo vero nome:
Sternbergia lutea (falso zafferano)
L’avevo scambiato per crocus ed invece è pianta medicinale.
N.B. Noi non siamo botanici. Ci siamo quindi rivolti al Linneo racalmutese che questa specifica ci aveva dato. Pare che ora, dicembre 2011, abbia cambiato idea. Da modesti navigatori abbiamo fatto i debiti riscontri e siamo arrivati alla convinzione che anche allora era tutto esatto. Persistiamo dunque nell’errore!
Aggiungo: pensate cosa hanno fatto dello zafferano, per esempio, ad Aquila. Quello nostro, con quel giallo succhiato dalle falde solfifere racalmutesi, è unico e prezioso. Culture estensive darebbero pane e companatico. Ma l’accidia, quella sì, è tabe inguaribile in questo paese del sale e dello zolfo.
Pierino Baiamonte con la starnbergia lutea non c’azzecca proprio, direbbe qualcuno. Sarà, ma a me serve per dichiarare ed esaltare la racalmutesudine di Pietro Baiamone, pittore del luogo che viene da lontano ed andrà lontano, specie se Racalmuto smette di divorare i suoi figli migliori.
Baiamonte racalmutese, dunque? Non del tutto. Il suo cognome – ignoto, come detto, nei secoli antecedenti l’Ottocento - suona normanno, direi angioino. Rientra nella schiera di quei seguaci di Carlo d’Angiò che sciamarono in Sicilia, dichiarandosi pari al re, suoi compagni, Comites, come dire Conti. Si appropriarono di terre e castelli, ma ebbero, dopo, vita grama sotto i signori dell’avava povertà di Catalogna per dirla con Dante e con Sciascia. Asserragliatisi nelle località con il DNA Siculo, sopraffattore del nostro DNA sicano, non furono molto stanziali. I Baiamonte, comunque, solo nell’Ottocento lasciarono la Piana di Catania per giungere sino a noi, qui a Racalmuto, in tempi di esplosione economica dovuta ai nuovi sistemi di sfruttamento dello zolfo, trovato in abbondanza sotto i superficiali strati subito esauritisi. I Baiamonte, comunque, a Racalmuto trovarono fedelissime mogli e da queste ebbero figli, che per via materna risalgono alle propaggini sicano-greche locali di cui siamo e dobbiamo essere orgogliosi. (Calogero Taverna)