PARTE PRIMA
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri periodizzanti
L’oggetto
della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale,
organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra
agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una
profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda
l’istituto podestarile.
Per
convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non
è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la
vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in
coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa
sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia,
ormai sterminata, sul fascismo.
Sono
criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali
e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce
è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista
definendola «funesto regime che è stato
una triste parentesi nella .. storia» d’Italia ([1]),
non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve
svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la
“rivoluzione fascista”.
Per
l’Ercole ([2]),
ad esempio, è da parlare di due “tempi della rivoluzione fascista”: A) dalla
“marcia su Roma” al discorso del 3
gennaio 1925; B) da predetto “discorso” alla legge 5 febbraio 1934 sulle
“corporazioni”. Vi era stata prima “la vigilia della Rivoluzione Fascista -
dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23
marzo-28 ottobre 1922.
Ma
nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un
succedersi di due “ondate” prima della marcia su Roma e dopo la “sosta d’autunno” imposta a seguito
del delitto Matteotti. Il ricorso ad “una seconda ondata” era stato a dire il
vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il
momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
“insurrezionale”, ‘violenta’, che non è
da escludere poteva scoppiare se il re avesse “dimesso” Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per
l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la
reiterata minaccia della cosiddetta seconda
ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei
gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione
Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe
stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed
effimeri» ([3]).
Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione
periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura
antifascista del dopo guerra. ([4])
In
campo cattolico, Gabriele De Rosa ([5]) adotta la data del 3 gennaio 1925 per una
svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre
1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto
allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni
sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per
il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il
dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si
sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ([6])
In
campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo
cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina
ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi
del “fascio della borghesia” giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag.
2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito “regime
reazionario di massa”. Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né
conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella
persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 -
cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è
persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo
sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una
ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri
decisivi del potere economico, finanziario e politico». ([7])
Quanto
alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del
Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il
diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della
società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito
del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile
distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36,
1936-39, 1939-43.» ([8])
Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo
nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento
intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936
viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo
fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il
latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte
intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il
Lupo, ([9]) un
affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del
fascismo siciliano come “utopia totalitaria”. Teorizza un’iniziale «(breve)
trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele
Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel
primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di
Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra
nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si
definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in
periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e
verticale dove le autonomie e i
conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del
passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi
incoffessabili» (v. pag. 429). Un “totalitarismo”, dunque che a partire dal
1927-1929 viene messo “alla prova” fino al 1939, quando esplode «l’ultima
impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento
di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
* * *
Il
segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di
microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti.
Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto
significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica
storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», “sosta
estiva-autunnale”, discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione
istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto
qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926
il motto “incipit novus ordo” che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini
sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno
della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione
dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del
regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata,
istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati
dei datori di lavoro e dei lavoratori ad
organi indiretti della pubblica
amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del
tempo “seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno
sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo” ([10])
L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n.
1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni
del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro
per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che
consentiva ad un proprio capo-popolo uno
scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra
conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile
territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna
dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per
lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta
Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per
le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di “referendum” (solo sì oppure
no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929
e nel 1934.
* * *
Il
1931 viene assunto come dies ad quem
scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della
legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al
1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e
dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo
dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per
impieghi pubblici di qualsiasi genere o
per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per
le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma
subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia
dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il
contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag.
2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario
del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in
effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica
dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve
permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con
l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia
vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto.
Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’
- come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva
tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano
locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha
dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio
arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire
‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ([11]).
Le
cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate
rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.
Il
24 gennaio 1924 ([12]),
con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei
sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido
succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore
Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria,
quanto all’ammonistrazione comunale),
che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un
decennio.
Per
un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il
18 maggio 1936 ([13]).
Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura,
praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese
sono in effetti cinque:
1°)
la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°)
il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo
podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°)
il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°)
la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata
in guerra nel 1940;
5°)
il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.([14])
[1]) Benedetto Croce, STORIA D’ITALIA dal
1871 al 1915, Bari 1977, pag. VIII. Una
“parentesi”, comunque che bisognerebbe far partire appunto dal 1928; prima il
Croce era stato tutt’altro che pregiudizialmente “antifascista”. Al tempo dell’ «Aventino» il filosofo
napoletano affermava che «non si poteva
aspettare e neppure desiderare» un’improvvisa caduta del fascismo, sul
quale formulava il seguente giudizio: «esso non è stato un infatuamento o un
giochetto. Ha risposto a seri bisogni ed ha fatto molto di buono, come ogni
animo equo riconosce. Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione.
Sicché, per una parte, c’è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non
lasciare disperdere i benefici del fascismo, e din non tornare alla fiacchezza
e all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra parte, c’è il
sentimento che gl’interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e
non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi
sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi del processo di
trasformazione.» [cit. Da Antonio
Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990, pagg.
264-265]. Risale al maggio 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti,
attribuibile al Croce, in risposta al
gentiliano Manifesto degli intellettuali
fascisti. [Vds. Storia d’Italia - Torino 1976 - volume quarto - dall’Unità
ad oggi - pag. 2174].
[2]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista
- Ciuni Editore Palermo 1936. Per la “vigilia” della “rivoluzione fascista” cfr. pagg. 77-154; per il “primo tempo” pagg.
155-274; per il “secondo tempo” pagg. 278- 447.
Dopo il 1934, avremmo lo stato fascista corporativo. L’Ercole adotta la terminologia dei “due
tempi della rivoluzione” nel ligio rispetto del frasario mussoliniano.
Mussolini, infatti, in Gerarchia del
1925, p. 120-121 aveva intitolato un suo intervento “Il primo tempo della Rivoluzione” e nella stessa rivista (pag. 44)
distingue tra primo e Secondo tempo.
Francesco Ercole, professore di storia moderna all’Università di Palermo, fu un
ex nazionalista passato nel fascismo sin dalla prima ora di quella nota
confluenza. Siciliano di adozione, fu deputato anche nelle speciali elezioni
del 1929 e del 1934. Ministro della Educazione nazionale per un breve periodo,
tra il 1932 ed il 1934, è una figura d’intellettuale apprezzata anche dalla
storiografia di “sinistra” meridionalista. Dice, ad esempio, Francesco Renda
(Storia della Sicilia dal 1860 al 1970 - vol. II - Palermo 1990, pag. 362) che
il fascismo, con con l’adesione dei
“nazionalisti siciliani” tra i quali l’Ercole,
«si arricchì delle prime
personalità politiche e culturali di rilievo, che gli diedero dignità e
prestigio di forza di governo pure nella dimensione regionale.»
[5])
Gabriele De Rosa - i partiti politici in Italia - Bergamo 1972. Stralciamo da
pag. 280: «Con il discorso del 3 gennaio
1925 Mussolini riprese in mano la situazione politica, neutralizzò ogni
possibile e lontana intesa della Corona con l’opposizione aventiniana, dette un
giro di vite nella politica interna aggravando i controlli polizieschi sulle
opposizioni e sugli stessi fascisti intransigenti, ma impedì ancora una volta,
come ormai aveva fatto dalla «marcia su Roma» in poi, che nascesse una seconda
ondata sovversiva del fascismo. Con il discorso del 3 gennaio 1925, in altri
termini, Mussolini non liberò le mani ai fascisti intransigenti, non li gettò
contro gli istituti dello Stato liberale, ma li contenne nell’ambito della
collaudata prassi della politica controrivoluzionaria da lui perseguita sin
dall’epoca dei «blocchi nazionali», cioè sin dalla partecipazione alle elezioni
politiche del 1921 nelle liste liberali. I fascisti intransigenti si accorsero, impotenti, del guoco di
Mussolini, che arrecava un grave colpo anche al ‘fascismo rivoluzionario,
legandogli le mani con dei provvedimenti soltanto in apparenza rivolti contro
gli aventiniani, e in sostanza rivolti contro le minoranze fasciste decise a
tutto’.»
[7])
Precedono il passo questi illuminanti passaggi: «La scelta della dittatura aperta era rispondente ad un disegno
precostituito, accarezzato da Mussolini fin dal suo avveno al potere, o non fu
piuttosto, come talune testimonianze asserirono
e alcuni storici ribadirono in seguito, un evento incidentale, imposto
dalle circostanze seguite al delitto Matteotti? Si è scritto che il delitto
Matteotti fu gettato tra i piedi di Mussolini [opinione avanzata
C. Silvestri, Matteotti,
Mussolini e il dramma italiano, Roma 1947, ripresa da R. De Felice, Mussolini il fascista vol. I cit.
e confutata da L. Valiani, la storia del fascismo nella problematica della storia contemporanea e
nella biografia di Mussolini, in ‘Rivista storica italiana’, LXXIX, 1967,
pp. 474-79], che esso costituì un
intralcio sulla via della normalizzazione e della costituzionalizzazione del
fascismo, giungendo a suggerire che la responsabilità prima del 3 gennaio
sarebbe attribuibile all’atteggiamento intransigente degli aventiniani che non
lasciarono a Mussolini alcuna via d’uscita se quella del colpo di forza.
Affermazioni simili sono, in verità, risibili: tutta l’evoluzione delle
vicende successive all’ottobre 1922 ha mostrato sia la sterilità e la
strumentalità dei propositi di normalizzazione del fascismo, sia l’introduzione
da parte del fascismo nel tessuto istituzionale e sul piano della prassi di
governo di elementi che segnavano già una sensibile trasformazione dell’ordinamento
costituzionale in senso autoritario. Se non può parlarsi di un disegno coerente
ed organico, ché il fascismo mostrò spesso di muoversi a tentoni e con ampi
margini di manovra, pu nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo che Mussolini espresse
sinteticamente nel motto ‘durare’, si può dire che lo sbocco dittatoriale era
nella logica delle cose ...»
[9]) Salvatore Lupo - L’utopia totalitaria del fascismo
(1918-1942) in Storia
d’Italia - Le regioni - dall’Unità a oggi -
La Sicilia - Einaudi 1987
- pagg. 380- 482.
[10]) Franco Catalano - L’Italia dalla dittatura alla democrazia
1919-1949, Feltrinelli 1970 - vol. I pag. 117.
[11]) In nostre ricerche
all’Archivio Centrale di Stato abbiamo, sì, trovato fascicoli su tale
atteggiamento del fascismo riguardo ad alcune località dell’agrigentino, ma non
investivano in alcun modo Racalmuto.
[12]) R.D. 24 gennaio 1924
pubblicato nella G.U. del Regno d’Italia n. 73 del 26 marzo 1924.
[13]) Archivio Centrale dello
Stato - Ministero Interni - Affari generali - Podestà e rettorati provinciali -
busta 51.
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