IL PITTORE ANTONIO ANGELO CAPIZZI
Nel rivelo che Pietro d’Asaro fu costretto a fare, per fini fiscali, nel 1637, viene dichiarato un tale Giuseppe di Beneditto d'anni diecidotto discepolo. Nostre personali ricerche ci portato a credere che si tratti di quel Gioseppi Di Benedetto che il 29 ottobre 1648 sposò Costanza Troisi, figlia del defunto m° Luigi e della defunta sig.a Paola. Nei libri della matrice viene annotato: «contrassero matrimonio in casa publice senza essere fatte le solite denunciatione a lettere del reverendissimo Sig. V.G. date nella citta di NARO a 22 del presente et presentate in questa terra a 28 dello predetto mese. Questo fu celebrato con la presentia di don Francesco Sferrazza ECONOMO presenti per testimoni don Francesco Macaluso, Giovan Battista Lo Brutto, Petro Pistone et cl. Leonardo di Carlo et fatte le denunciatione doppo a 28 di novembre foro in questa ma matrice benedetti per don Federico La Matina cappellano.»
Il Di Benedetto fu certo pittore, ma ancora non si sa molto della sua produzione artistica. Il p. Morreale – che pure è molto circospetto – si sbilancia, a nostro avviso, un po’ troppo quando scrive «Tra i lavori fatti dal padre Farrauto c’è la sostituzione dell’altare dei santi Crispino e Crispiniano; la tela dei due santi, opera di Giuseppe Di Benedetto, discepolo di Pietro Asaro, fu sostituita da un bassorilievo. …» Non citandoci la fonte, restiamo ancora nel buio. Comunque, l’attribuzione non è poi tanto cervellotica.
Resta però singolare che durante i grandi lavori della Matrice, il Di Benedetto non sia stato mai chiamato a collaborare, a meno che non ostasse quel matrimonio che sembra un po’ fuori dal rigore canonico
Il 17 novembre 1660 – e le nostre ricerche d’archivio danno ancora vivo Giuseppe Di Benedetto – viene chiamato da Agrigento Antonio Capizzi per “stucchiare e pingere” la navata centrale della Matrice: il contratto prevede 29 onze di ricompensa. A riprova ecco quello che si legge nel primo Rollo della “fabrica”:
17.11.1660 A Antonio CAPIZZI della Città di Girgenti onze otto quali ci si pagano in conto di onze vintinovi; si li donano per havere à stucchiare e PINGERE la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede alli atti di notaro Michelangelo Morreale per atto fatto al detto di Capizzi di G. come per mandato et apoca in notar Morreale adi 30 gennaro xjjjj a ind. 1661 appare d. -/ 8;
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6.6.1661 Ad Antonio Capizzi d. s.a città di Girgenti onze otto quali ci si pagano a complimento di -/ 16. in conto di onze 29. et sonno d. -/ 29. per causa che d. di Capizzi ha da stocchiare seu pingere la nave della matrice chiesa di questa terra come il tutto si vede all'atti di notar Michelangelo Morreale come per mandato et apoca in d. notaro adi 7. di d. appare d. --- -/ 8;
5.9.1661 A Antonio CAPIZZI onze sei, quali ci si pagano in conto di onze vintinovi; si li devono per havere à stucchiare e PINGERE la nave di d.a matrice e sonno di -/ 6. a complimento di -/ 22. stante dell'altri -/ 16. appare in mandati dui: uno di -/ 8. fatto sotto il di 17. 9bre xjjjj a 1660 et l'altro di altre -/ 8. sotto il di 6. di Giugno xjjjj a sud.a 1661 come per mandato et apoca in notar Pietro Bell'homo a 15. d.;
19.1.1662 Ad Antonio Capizzi onze tre quali si ci pagano a complimento di onze vinticinque et in conto d'onze vintinovi si li devono per conto della fabrica della matrice come per mandato et apoca in notar Panfilo Sferrazza a 20. d. appare;
10.2.1662 Ad Antonio Capizzi onze quattro quali si ci pagano a complimento di onze vintinovi stante l'altri esserci stati pagati in diversi mandati come a libro vede e sonno -/ quattro per havere à stucchiare è pingere la navi della matrice chiesa come il tutto si vede per atti in notar Michelangelo Morreale come per mandato et apoca in d. notaro di Sferrazza a di 10. d. appare.
Ventinove onze sono molte di più di quelle 12 che, secondo il Tinebra (p. 144) avrebbe lasciato il rev, Santo Agrò nel 1622 per dipingere il quadro di Maria Maddalena. Sciascia ci delizia con queste annotazioni di costume: «A vedere un’onza nella vetrina di un numismatico ed ad immaginarne dodici una sull’altra, anche se non sappiamo precisamente a quante lire corrispondano nella galoppante inflazione dei nostri giorni [a circa Lit. 7.200.000 all’inizio del 2000, vorremmo pedantemente soggiungere noi, n.d.r.] una pala d’altare di un pittore che non era Guido (Reni per i posteri, ma per i contemporanei soltanto Guido) non possiamo dirla mal pagata.» etc. Chissà cosa avrebbe aggiunto se avesse degnato di uno sguardo questo vecchio libro di contabilità secentesca della Matrice.
Codesto Antonio Capizzi si trova, comunque, bene a Racalmuto; mette su famiglia e lo troviamo con una nidiata di figli ma con una serva nella numerazione delle anime del 1664 (custodita anche questa in Matrice):
708
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CAPIZZI
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ANTONINO
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C.
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4
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6
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10
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MASTRO
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GERLANDA
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M.
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C.
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GASPARU
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PASQUA
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BARTOLA
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BARTOLOMEO
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GIUSEPPE
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ROSALIA
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NARDA
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CATARINA
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VENA
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C.
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1
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1
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FAMULA DI D.O DI CAPIZZI
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Ma non ha altro titolo di distinzione che quello di semplice “mastro”: niente “don” dunque; se “pittore” fu, lo fu nel senso moderno di imbianchino. Dal figlio Giuseppe nascerà il 5 maggio 1683 il pittore Antonio Angelo Capizzi, che pittore lo fu davvero, ed anche se non può avere praticato una qualche bottega di pittura degli eredi di Pietro D’Asaro (Giuseppe di Benedetto era morto da tempo quando il Capizzi era ancora in fasce) affinità stilistiche attestano una scuola racalmutese alla Pietro d’Asaro ancora seguita un secolo dopo.
ANTONIO ANGELO CAPIZZI, PITTORE RACALMUTESE DEL SETTECENTO
Dobbiamo al libro di padre Adamo la nostra piacevole scoperta che racalmutesse fosse Antonio Capizzi che operava a Delia di sicuro dal 1726 al 1731. Francamente non ne sapevamo nulla e reputiamo che pochissimi lo sappiano. Di certo, nessun accenno nella pubblicistica locale che ormai appare decisamente sovrabbondante.
Scrive il p. Adamo, parlando della chiesa dei Carmelitani di Delia: «Aggiungasi che già dal 1712 la parrocchia si era trasferita proprio in questa chiesa, per la ricostruzione della Matrice, e vi rimase fino al 1737. Le date rinvenute vengono a confermare quanto detto. La più antica è il 1731. Si trova fra gli stucchi dell’arco maggiore, accanto al grande affresco della natività di Maria: «Antonius Capizzi Racalmutensis …Anno Salutis 1731» Nei lavori di costruzioni del tetto e restauro del 1970, gli operai per inavvertenza distrussero l’intonaco con la scritta. Le parole citate costituivano parte della scritta perduta. Di grande importanza è poi la tela di s. Pasquale Bajlon che porta data e firma dell’autore: «A.S. 1731 – Antonius Capizzi Racalmutensis pingebat – Decimoquarto Kalendas Augusti».
A pagg. 164-165 vengono riprodotti particolari degli stucchi attribuiti al Capizzi, molto simili, ci pare, a quelli della Matrice che, pertanto, potrebbero essere dell’omonimo nonno, sempreché la nostra ricostruzione genealogica sia fondata.
L’indubbia origine racalmutese del pittore di Delia è provata da un atto di battesimo che si trova in Matrice: nacque un Antonio Angelo Capizzi in Racalmuto il 5 maggio 1683 e fu battezzato lo stesso giorno. Il padre si chiamava Giuseppe e la madre Santa. Dopo, non risultano altri dati anagrafici: almeno noi non siamo ancora riusciti a trovarli. Tutto però fa pensare che si sia trasferito da Racalmuto. Forse a Delia, ove pare sentisse profonda nostalgia della terra nativa, tanto da firmarsi come Racalmutensis: a meno che ciò non rifletta l’orgoglio di essere compaesano di quel Pietro d’Asaro che nel Settecento godeva di più o meno merita fama, come comprova l’esteso elogio di p. Fedele da S. Biagio.
Non si può, poi escludere, che taluno dei tanti quadri settecenteschi delle varie chiese di Racalmuto sia dovuto al pennello del Capizzi. Ricerche presso l’Archivio di Stato di Agrigento e consultazioni dei vari rolli notarili ivi conservati potranno fare uscire dall’anonimato le varie pale di S. Giuliano o di S. Pasquale o del Carmine stesso oppure rettificare attribuzioni disinvolte a pittori operanti in quel secolo.
Non ci intendiamo d’arte per sbilanciarci in valutazioni estetiche: ad ogni buon conto epigoni della scuola racalmutese di Pietro d’Asaro persistono nel pittore di Delia con gli inceppi dell’appiattimento prospettico, la frustra tavolozza di mero decoro, il paesaggio intruso ed alieno – come dire, per vacuo pretesto – e la composizione prolissa che si sfilaccia in riquadri disarmonici. E se nel caposcuola eravamo, per dirla con Sciascia, «nell’epigonia manieristica, negli echi baroccisti e caravaggeschi», vi è solo lo stracco imitare, il pedestre eseguire, senza empiti, senza passioni come l’inespressivo sguardo che sembra doversi assegnare alla agiografica rappresentazione dei santi da venerare nei santuari. E per il Capizzi non disponiamo – diversamente che per l’Asaro – di allegorie profane ove, con Sciascia, potremmo rinvenire «un che di misterioso … da disvelare.» Forse l’eco del recente interdetto, forse la spossatezza di una religiosità soltanto canonicistica, può rinvenirsi in Capizzi; e ciò è pur sempre preziosa testimonianza, attestato del periferico rurale adeguarsi o attaccarsi alla vita, «come erba alla roccia».