martedì 30 agosto 2016

A scanso di venire accusati di plagio

Scrivevamo il 13 gennaio del 2013, una domenica di quasi quattro anni fa, note storiche controcorrente su Racalmuto. Sapevamo del Falconcini quando ne sapeva solo qualcosa di straforo Sciascia. Per noi la veridica storia della Venuta della Madonna del Monte configgeva già allora con quella di vago  sapore meneghino, invero, improbabile, che ci recitano ogni seconda domenica di Luglio, persino con il placet del Comitato rispettabilissimo che magari poi diventa proloco giallorosso. E soprattutto per noi il Castelluccio è proprietà del Demanio checché ne abbiano imbrattato nel Catasto nella sonnolenza del Comune e  nell'ignavia delle Autorità giudiziarie. Qui sotto riportiamo talune nostre vecchie chiose  sperando di non doverci difendere da accuse di PLAGIO da parte di notori e ingegnericisti plagiatori  dediti anche alle cervellotiche congetture.



domenica 13 gennaio 2013

Il 1862 a Racalmuto secondo una nostra ricognizione di una diecina di anni fa

Una quindicina di anni fa andammo in cerca del libro del Falconcini; risultava irreperibile. La copia al senato, smarrita. Finalmente in una biblioteca specializzata di Roma quel libro lo trovammo; a mano ne trascrivemmo delle pagine. Credevamo di avere l'esclusiva: dopo a Racalmuto la introvabile copia venne fuori, pare per disponibilità del Sindaco Petrotto che pare l'abbia avuta dallo Sciascia. Ne fu fatta pubblicazione. Crediamo che il Vassallo nel suo romanzo storico ne faccia magistrale uso. Noi rimaniamo legati alle nostre ricetrche

Il Falconcini, dopo, in piena irritazione per l’umiliante defenestramento, sui misfatti di Racalmuto torna ed ora con accenti più caustici e più offensivi. Scrive (cfr. il capitolo di pag. 55 intitolato: “Vandalici fatti consumati in Racalmuto”): «Da Canicattì  si appiccò l’incendio ad un tempo a sette paesi della provincia; nei quali  sotto colore di provare scontento contro il governo vincitore ad Aspromonte, si dette sfogo a quelle covate ire di famiglie alle quali sogliono le passioni politiche servire di comodo manto in Sicilia: a Racalmuto fu il disordine molto più grave che altrove. Due casate da lungo tempo in Racalmuto rivaleggiavano per il dominio nella propria terra e per il possesso delle cariche municipali, le quali in provincia, eccettuato le primarie città, si ritengono mirabile mezzo per quello a proprio piacere esercitare nel comune. I Matrona ed i Farrauto rinnovellando in fondo alla Sicilia le lotte cittadine che nel medio evo mandarono fino a noi la memoria dei Donati e dei Bondelmonti, fanno odiernamente rivivere nello sventurato loro paese la inciviltà dei secoli di mezzo, senza trarne neppure il vanto di storica celebrità. Le campagne di quel comune erano piene di renitenti alla leva, frutto questi della retrograda amministrazione tenuta dagli adepti dei Farrauto: la quale gestione delle cose municipali non era valso a togliere ad essi lo scioglimento del consiglio comunale, di recente avvenuto per decreto del re a savia proposta del mio predecessore; l’autorità municipale essendosi ricostituita quale si trovava prima di essere stata disfatta da quel regio decreto, perché il fatto stava nella [pag. 57] formazione delle liste elettorali e queste non possono per legge da un regio commissario venire rivedute. Già da qualche giorno si mormorava che il partito dei Farrauto, il qual sembra che vesta in calzon corto ed in coda per differire da quel dei Matrona che ama indossare la camicia rossa, pensasse a profittare dell’abbattimento che dal fatto d’Aspromonte veniva alla parte sua rivale, per correre alle case dei Matrona ed appiccare con questi una volta di più accanita zuffa, e si diceva che a tal rei fine tenesse quel partito continui e segreti accordi con la banda dei renitenti: si mandavano consigli e minacce dalla prefettura per ritardare, se possibile, tali avvenimenti tanto che la truppa giungesse da Palermo; non avendo senza questa modo di far altra cosa, fuor di consigliare e minacciare. Ma vedendosi a Racalmuto che il disordine di Canicattì non si puniva e deducendosene, secondo la logica dei Siciliani, che il governo non avesse forza per punire, si ridussero ad atto i meditati piani e il di 6 settembre 1862 si facevano entrare in paese i renitenti, si bruciavano gli archivi comunali, mandamentali, [pag. 58]  e si saccheggiava la caserma dei carabinieri, si devastava il casino di conversazione, si svaligiava il corriere e si ardevano le corrispondenze, si poneva l’assedio alle case dei Matrona che validamente si difendevano. Le notizie di queste vandaliche azioni giungevano a me da più parti ...la mattina del 7 settembre fra le undici e le dodici. [...]

«[pag. 60] Mezz’ora dopo mezzogiorno del di 7 settembre l’ordine era dato da me alla poca truppa di marciare tutta con veloce passo verso Racalmuto ... [pag. 64] La truppa partì all’imbrunire, e sul fare del giorno era a Racalmuto. [ ...] Quasi insieme alla truppa partirono per Racalmuto il procuratore del re ed il giudice istruttore, ed io affidai pienamente ad essi l’investigazione dei fatti avvenuti e le misure da prendersi [...], limitandomi a sospendere la guardia nazionale racalmutese che evidentemente aveva mancato al proprio mandato. Ma avendo poi saputo per un espresso, speditomi dall’autorità locale, che per ordine del comandante la colonna militare, i Matrona erano stati posti in carcere, e parendomi che non potessero essere rei poiché erano stati assaliti fino nelle loro case dai ricoltosi, spedii un delegato di Sicurezza da Girgenti ad informarsi della verità di quel rapporto ed a sollecitare in mio nome presso il giudice istruttore l’esame dei Matrona: io non poteva né doveva far di più, e questo bastò allo scopo; perché esaminati subito [pag. 65] i Matrona, furono dal giudice stimati degni di libertà e scarcerati. Essi, infatti, a mia insaputa, lealmente dichiararono tutto questo in un giornale, quando altri fogli si dilettavano di svisare ciò che io disposi in questa circostanza; ma così non fu impedito ad altri onesti diarii ed all’onestissimo Diritto di asserire, quando piacque al partito al quale tali periodici appartengono da Falaride, che io avevo lasciato premeditatamente avvenire i disordini vandalici di Racalmuto, per dare a me stesso il sollazzo d’esercitare severità contro i liberali, precisamente ordinando l’arresto inopportuno dei Matrona.

«[...] [pag. 64] L’ordine fu immediatamente ristabilito a Racalmuto, in grazia della presenza della truppa, la quale arrivata in quei giorni andò a ripristinarlo ovunque era stato manomess; gli arresti fatti nel primo momento dai comandi militari e dai delegati locali furono corretti dall’autorità giudiciaria, e regolare processo fu iniziato onde scoprire e punire i rei di tali odiosi misfatti.»

Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»

Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.

Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]

“per le cattive di viabilità e la mancanza di strade, scarsi erano i rapporti culturali e commerciali tra i vari comuni.” Ma allo studioso bisogna credere quando analizza la crisi del ’62: «una crisi anche morale - chiosa a pag. 120 - determinata da diffidenza reciproca, dei “continentali”  verso la Sicilia e della popolazione siciliana verso la politica fino allora seguita dal governo luogotenenziale, emanazione di quello di Torino, non senza uno strascico di recriminazioni che non potevano non acuire maggiormente il contrasto tra il Nord e il Sud. Questo provano anche le misure di sicurezza adottate (nomina di un commissario straordinario con poteri civili e militari, stato d’assedio, disarmo generale, fucilazioni eseguite ad Alcamo, a Racalmuto, a Siculiana, a Grotte, a Casteltermini, a Bagheria  ...) misure che non mirarono soltanto a colpire i “ribelli” che si ostinavano a non volere deporre le armi, ma anche e soprattutto ad arrestare, come si era fatto dopo il plebiscito, il movimento rivoluzionario popolare, che per la presenza di Garibaldi, s’era rinnovato con lo stesso ardore che nel ’60. “In presenza di Garibaldi - scriveva a L’Indipendente di Napoli il corrispondente di Sicilia subito dopo i fatti di Aspromonte - egli è che i malumori che covavano da tempo si sono scatenati alla prima occasione; ma lo stendardo di tutti è uno, la guerra civile, la guerra del povero contro il ricco”. Ciò non sfuggiva ai moderati e a tutta la classe dell’alta borghesia terriera, la quale si schierò ancora una volta, come nel ’60, da parte del governo di Torino e tollerò anche di buon grado, pur di vedere rimesso in “ordine” il paese, lo stato eccezionale in cui venne posta la Sicilia, essendole stato applicato anche il blocco di cui fu data comunicazione a tutti i governi delle Potenze estere. Allorché anzi si cominciò a parlare di togliere lo stato d’assedio, da parte dei benestanti si levarono reclami perché fosse ancora conservato, come rimedio fondamentale per “purgare” l’isola di tutti i “tristi” che la infestavano.»

A noi quelle fucilazioni di racalmutesi danno raccapriccio; ed è fuor di dubbio che ci fosse lo zampino di Falconcini. Non riusciamo quindi a capacitarci come Sciascia, preso dalla “amara esperienza” di quel prefetto, lo accrediti di una patita “ingiustizia”. Il prefetto fu, come si disse, un continentale, un burocrate come tanti altri funzionari mandati in Sicilia ad occuparvi gli uffici di maggiore responsabilità; uno come gli altri: «duri e pieni di boria - secondo il profilo tracciato dal Ganci, op. cit. pag. 118 - coscienti di rappresentare una civiltà più progredita», burocrati che «arrivando in Sicilia non sapevano neppure rinunziare a tutte quelle formalità e cerimonie che si solevano praticare, specie dall’alta burocrazia piemontese, nei riguardi di un’alta autorità, nel momento di entrare in carica.» Per noi, vada un’infamia perenne a siffatto Falconcini. Evviva S. Spaventa che l’11 gennaio 1863 gli  inviava una lettera che gli giunse la sera del 16 gennaio ove a “nome del ministro dell’interno gli annunziava avere il re fino dal dì 11 dello stesso mese firmato il decreto che lo dispensava dall’ufficio di prefetto di Girgenti”.

L’argomento Falconcini tenne banco nelle dispute serotine del circolo di compagnia. Ma bisognava stare attenti: non si potevano urtare le suscettibilità delle due contrapposte fazioni, quella dei Matrona e quella dei Farrauto, entrambe massicciamente presente tra le file dei soci. In un punto si era unanimemente concordi: gratitudine al polso di ferro del prefetto, capace di sgominare con arresti e qualche scarica di fucili la masnada sanculotta che aveva osato profanare il rispettabilissimo circolo dei galantuomini racalmutesi.

Il Falconcini è proprio un fanatico del Nord, venuto a Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese: attorno all’autunno del 1862 sua altezza prefettizia non  può tollerare che nel piccolo paese dell’Est agrigentino due famiglie continuino a fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi. Contatta il sindaco di Agrigento, Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e dei Farrauto; gli fa sapere che se costoro non mettono la testa a posto, lui all’isola li manda; ne i poteri; ne ha la voglia - forse più verso i Farrauto che verso gli ora prediletti Matrona. Il Nostro grafomane lo dovette essere: prende carta e penna e così indirizza una missiva al  disorientato sinfaco agrigentino: « Al signor avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ... Il paese di Racalmuto ...   è diviso in due partiti ... l’uno capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di liberali; l’altro è qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e fa sembianza di rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far cessare il più presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto. [...] Ella signor sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due famiglie Matrona e Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate passioni politiche, [è bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a vivere lontani dal paese.

«In pari tempo provo il bisogno di notiziare V.S. Ill.ma che l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso terrà dietro, fu cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità, e non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi Matrona [...] Girgenti 3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»

La nota ci svela il connubio tra i Farrauto ed i Mantione: i Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed impropriamente osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano potenti e (se crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco carcerare un sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista, all’improvviso convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio non petita, ci pare quella giustificazione della carcerazione del sac. Mantione solo “per speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”; noi siamo certi che alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio verso chi ritenevano reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia del perseguitato Falconcini, qui fanatico estimatore dei Matrona così come il suo postumo - oltre un secolo dopo - Sciascia.

Il sac. Mantione, così anonimamente infangato dal nordico prefetto, resta d’incerta individuazione - salvi gli apporti di ulteriori ricerche d’archivio - essendo due i sacerdori con quel cognome operanti in quel tempo a Racalmuto: Annibale e Giuseppe. Nei nostri archivi informatici ritroviamo:

 
 
DIACONI E CHIERICI
 
1
1851
ANNIBALE
MANTIONE
 
 
 
 
 
 
13
1851
GIUSEPPE
MANTIONE
A.26 PALERMO CAPP. OSPEDALE
 
 
 
 
 
ANNO 1873
 
 
 
17
1873
GIUSEPPE
MANTIONE
A.49
19
1873
ANNIBALE
MANTIONE
A.45
ANNO 1878
 
 
 
 
 
 
 
 
3
1878
GIUSEPPE
MANTIONE
 

 

 Nel “liber in quo adnotantur ... nomina sacerdotum “ della Matrice sono così contrassegnati:

n.° 420: D. Annibale Mantione, Mansionario, obiit 27 Maji 1882;

n.° 429: D. Giuseppe Mantione, obiit 4 Aug. 1888.

Si è certi che entrambi i preti Mantione si godevano ora i frutti della parsimonia del loro zio canonico. Contro costui noi non siamo nuovi nello scriverne contro corrente. Citiamo questo passo.

Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini  op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità  superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era  da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un  pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa)  verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una  poco esaltante ombra.

A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti,  al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine).

Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadatta, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al  3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.

Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozzini  nella visita pastorale del  1732. Vi si riferisce il § IX ove è inclusa nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.

*   *   *

Ma ritorniamo a quell’insolito quadrilatero: il prefetto Falconcini, il sindaco di Girgenti Mirabile, i Matrona ed i Farrauto. Data: ottobre 1862.

Il sindaco Mirabile entra in fibrillazione: convoca i nostri Matrona e Farrauto: non si poteva scherzare; quello - il pefetto - aveva davvero brutte intenzioni. Prosternazioni, costernazioni, intenti ultrapacifici, promesse, retorica. Il 5 ottobre il sindaco scrive al «signor Prefetto, ... la pacificazione dei signori Matrona e Ferrauto è riuscita nel modo il più soddisfacente ..... concorse moltissimo l’ottimo giudice di Racalmuto sig. Vaccaro .... » Firmato: il sindaco Giuseppe Mirabile.

E non basta, viene redatto addirittura un “processo verbale della pace fatta fra i Matrona e Ferrauto”. Confidiamolo: i galantuomini di Racalmuto hanno fama - almeno tra il popolino al quale apparteniamo - di essere “falsi e burgiardi”, sommamente ipocriti. A leggere quel verbale se ne ha una prova lampante. «L’anno 1862 il giorno 5 ottobre nel Municipio di Girgenti. Innanzi noi Giuseppe Mirabile sindaco della città di Girgenti,

«Vista la riverita officiale del sig. prefetto di questa provincia del tre andante ... dietro invito ... si sono a me presentati i sigg. D. D. Giuseppe e D. Gasperino Matrona, non che il sig.  D. Alfonso Ferrauto, e D. Baldassare Grillo.

«I suddetti .... scancellarono ogni malinteso, suscitato da tristi e malvolenti ... e profondamente inteneriti scambievolmente abbracciandosi protestarono di non aver mai nutrito odio o rancore ... Vennero a santificarle con solenne giuramento pronunziato sul proprio onore.

« Firmato: Giuseppe Matrona; Alfonso Farrauto; Gaspare Matrona; Baldassare Grillo - Giuseppe Mirabile, sindaco.»

Giuseppe Matrona era figlio di Pietro Matrona ed era nato il 15 settembre 1828; gli era fratello Gaspare, nato l’11 settembre 1835; Alfonso Farrauto fu Francesci era nato il 9 agosto 1829.

Il Falconcini ci regala anche alcune note di cronaca che vogliamo qui risportare. «Mandamento di Grotte - v. pag. 94 - Fu sequestrato il giovane Isidoro Selvaggio da Grotte e condotto in una grotta nel territorio di Racalmuto e vi rimase per oltre una settimana in mani di 4 malviventi [per la datazione: prima del 20 agosto 1862, n.d.r.] »

«Tutto il territorio fu seriamente minacciato nel 6 settembre dopo i fatti seguiti in Racalmuto, e quegli abitanti stettero due giorni e due notti in sull’avviso temendo da un momento all’altro un assalto dalla banda che si era costituita in numero di circa 200 e a suon di corno sfidava la truppa convenuta in Racalmuto.

« Mandamento di Racalmuto - v. pag. 104 - Appena partito da questo luogo un distaccamento di truppa verso metà di agosto sorsero voci di ribellione ed attacco contro i carabinieri di quella stazione. Nel 18 agosto prestandosi dalla guardia nazionale ricostituita il giuramento fu fatta una dimostrazione colle grida abbasso V.E., abbasso la leva. Dopo rimase gravemente ferito il sacerdote Felice Carmeci, che aveva fatto un discorso alla guardia nazionale riunita in senso liberale. Nel territorio avvenivano ai primi di settembre molti delitti di sangue e di rapina.»

Vi furono oltre 50 arresti. Quel sacerdote ferito non era racalmutese; era di Cammarata e così viene segnato nel “Liber”: n.° 432 D. Felice Carmeci da Cammarata: obiit 21 Martii 1873. Nel libro del Falconci fa capolino anche il noto sacerdote garibaldino don Calogero Chiarenza. Incontriamo a pag. 76 la “nota dei volontari di Garibaldi, dai quali fu domandata notizia al prefetto di reggio con telegramma appena ricevuta la nuova del fatto d’Aspromonte”; al n.° 3 è segnato «Sacerdote Calogero Chiarenza». Mons. Domenico De Gregorio, il pacato storico contemporaneo, dedica al sacerdote racalmutese queste note: «benché svolgesse la sua attività in Palermo, il sacerdote Calogero Chiarenza da Racalmuto, dove era nato nel 1823, fu in “relazione con tutti i liberali specialmente dell’aristocrazia  ed era un intermediario preziosissimo tra la capitale della Sicilia e i cospiratori agrigentini Domenico Bartoli, Pietro Gullo, Vincenzo e Rocco Ricci-Gramitto, anime buone ed entusiaste - Rocco in particolar modo che arrischiando la vita, recavasi spesso in Palermo per conferire coi capi del movimento, principalmente con Salvatore Cappello ... Il Chiarenza, cappellano dell’ospedale civico, grazie alla sua veste poteva molti segreti conoscere, cospirare, scrivere, senza attirarsi, come altri i sospetti del governo” [Pipitone-Federico G. - Francesco Crispi e la spedizione dei Mille, Palermo 1910, pag. 67]» [3]

 

*   *   *

Il Falconcini fu irrequieto fino alla fine dei suoi giorni di permanenza a capo della prefettura agrigentina. Aveva un conto in sospeso con Racalmuto; pensò di saldarlo nel gennaio del 1863. Limitiamoci al suo racconto. «I tre arresti veramente politici - ammette a pag. 90 - furono fatti nell’ultima settimana della mia autorità di prefetto; furono tre cospicui cittadini di Racalmuto, accusati di volere per amore de’ Borboni disturbare la tranquillità di tutta la provincia, facendo rinnovare in quel paese i vandalici fatti del di 6 settembre.   Io pensai lungamente prima di procedere a tale severa misura, ma ripetendosi e moltiplicandosi gli avvisi di prossimi moti borbonici in Racalmuto, e la voce pubblica chiedendo come indispensabile una misura preventiva, per salvarmi da enorme responsabilità mi dovei risolvere ad ordinare l’arresto di coloro che erano evidentemente supposti fautori di tali possibili disordini: arrestandoli però provvidi al loro convenevole custodimento, e la volontà di passarli al potere giudiciario annunziai subito al procuratore del re, il quale trovò subito la misura del loro arresto saviamente presa..»

Il Falconcini si premura anche di ragguagliare il ministro dell’interno: «Sin dal giorno 9 corrente [9 gennaio 1863] - vedasi documento riportato a pag. 128 della seconda parte del libro del Falconcini - circolavano strane voci di combinate trame in Racalmuto che dicevansi di colore borbonico. [...] [si aveva] la conoscenza di mantenersi quel paese ... sotto il dominio di un partito retrivo ed ostile ad ogni disposizione governativa. Una prova certissima poteva ritrarsi dal non essersi presentati di Racalmuto nessuno alla leva, perché quei giovani erano indotti a scegliere piuttosto l’emigrazione per Malta che presentarsi alle richieste del governo del re. Frattanto nel sabato 10 corrente accrescevasi molta consistenza a quelle voci di possibili disordini in Racalmuto. [In particolare] l’essere il giorno 12 anniversario della rivoluzione della rivoluzione in Sicilia. Riferivasi di nascoste bandiere borboniche e si designavano siccome principali autori del tutto alcuni cittadini i nomi dei quali erano già condannati dalla pubblica opinione, vorrei dire dell’intera provincia. Egli è per questo che lo scrivente credé doversi d’accordo col comando militare perché fosse tosto accresciuta d’altra compagnia la truppa colà stanziata e diede appositi ordini all’autorità locali per eseguire alcune perquisizioni tenute indispensabili ad assicurarsi del fatto e procedere a qualche arresto delle persone credute maggiormente influenti e dannose, colla sola idea di mostrare a Racalmuto che il governo non solo sorveglia e previene ma ha la forza di agire, ciò che vale assai più pei molti che stimavansi liberi di ogni vincolo e quasi padroni di operare a posta loro dopo cessato lo stato d’assedio.

 «Un singolare esempio della reale esistenza delle trame di quel partito si ha in questo, che per quanto fosse ordinato l’arresto all’impensata ed eseguito di notte, tre altri individui, dei quali appunto andavasi in traccia, fuggirono non appena ebbero il sospetto della loro ricerca, segno manifesto del non trovarsi essi scevri di cole. D’altra parte il processo ... porterà lume alla cosa.

«Frattanto può assicurarsi d’essersi disposto in modo che i tre arrestati avessero stanza il più possibilmente propria e fossero trattati con ispecial riguardo, non dovendo confondersi, con rei di delitti comuni chi può essere spinto anche a degli eccessi per fanatismo politico.

«Girgenti, 15 gennaio 1863. Il prefetto: Falconcini.»

Curiosa coda di perbenismo borghese: vadano pure in carcere i galantuomini, ma con i dovuti riguardi. Per il resto, altro che politica del sospetto! E Sciascia poteva davvero avere simpatia con un simile campione del sopruso di stato? Un sopraffattore vittima dell’ingiustizia di Silvio Spaventa [4] - ci dispiace dirlo - è una bubbola sciasciana. E i commenti al circolo? Ora blandi, ora astiosi a seconda di chi si trattava. Anche allora - come ancora nei nostri giorni - il “casino” vezzi massonici ed anticlericali ha costantemente avuto. Blandi si doveva essere verso influenti soci, anche borbonici; spietati, dissacranti, velenosissimi contro preti vecchi e nuovi, più o meno coinvolti nelle bufere politiche del momento.

In siffatti frangenti - e non nell’improbbile 1860 - dovette essere consumata quella agghiacciante fucilazione narrata da Sciascia: «Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilare quell’uomo e via, l’ufficiale era biondo come un tedesco.» [5]

Falconcini non svela ora i nome di quei tre - tutto sommato - perseguitati politici. Sfogliando carte d’archivio successive, emergono echi di schedati eccellenti racalmutesi. Significativa la schedatura della pubblica sicurezza di Girgenti di don Vincenzo Grillo e don Giuseppe Matrona:

Grillo d. Vincenzo,

figlio del fu Girolamo, nato il .... 1823 nel Comune di Racalmuto, proprietario.-

Statura 1.60; corporatura giusta; capelli castani; fronte media; ciglia castani; occhi cilestri; naso regolare; bocca giusta; mento ovale; barba castana; faccia ovale; carnagione naturale.-

Luogo di abitazione: Racalmuto.-

Partito politico: Borbonico - clericale.-

Candanne: - ==

Cenni biografici: Capo partito borbonico-clericale. Nel 1863 in Girgenti ebbe sequestrata una corrispondenza in sensi borbonici proveniente da Malta.

Nelle evenienze è capace ed ha influenza bastante per sommuovere masse, ma non lo si crede atto a capitanarle

Matrona Giuseppe

del fu Pietro nato ... 1827 [rectius 1828] in Racalmuto, proprietario; m. 1,65, snello, nero ovale, abitante a Racalmuto.

Partito Borbonico - Non condannato.

Figura liberale e lo affetta onde farsi maggior credito, ma in fondo è stato sempre di principi borbonici, Uomo ambizioso e vendicativo: influente coi tristi e capacissimo nelle evenienze di sommuovere le masse e commettere disordini. Vuolsi che nel 1862, egli abbia spinte le turbe dei renitenti alla leva latitanti i quali, armata mano, turbavano l’ordine pubblico, bruciando l’Archivio Comunale e quello della Pretura.

[In altra scheda: Abbenché in apparenza conserva regolare condotta e mena vita ritirata, pur tuttavia dirige /Racalmuto 17 settembre 1869/ tutti gli intrighi che si ordiscono in Paese.]

 

Mons. De Gregorio rintraccia nell’Arcivio di Stato di Agrigento [ASA - Gabinetto Prefettura; non cita la busta che dovrebbe essere prossima al n.° 26] il sacerdote Calogero Lo Giudice di Giacomo, schedato tra i “preti borbonici”. [6]  Nel “liber” il sacerdote risulta al «n.° 426: D. Calogero Giudice, mansionario fidecommisso della chiesa Monte, organista; obiit 19 Junii 1886.» Nato attorno al 1824, non sembra di nobili natali. Nel censimento del 1822, il padre del sacerdore è ancora ‘schetto’ e fa parte del nucleo paterno come dalla seguente scheda:

1894
LO GIUDICE
NICOLO'
 
 
1895
LO GIUDICE
GIUSEPPA
MOGLIE
 
1896
LO GIUDICE
GIACOMO
F.O
anni: 24
1897
LO GIUDICE
GIUSEPPE
F.O
17
1898
LO GIUDICE
CALOGERO
F.O
9
1899
LO GIUDICE
CARMELO
F.O
7
1900
LO GIUDICE
GIOVANNA
F.A
5

 

 

*   *   *

 

Quanto ai Farauto, pare che nel gennaio del 1863 qualcuno di loro sia finito in gattabuia. Richiamiamo quello che abbiamo sopra riportato:

[...] il Comandante della truppa, che venne spedito in Racalmuto, per quella circostanza, fece eseguire l'arresto dei fratelli Matrona, come ritenuti complici nei fatti del Settembre 1862.- Ma chiarita presto la loro innocenza, vennero quasi subito lasciati liberi. In proseguo poi vennero arrestati taluni della famiglia Farrauto, e qualche aderente di quella, per lo stesso titolo pel quale furono arrestati i Matrona [...].

Allo stato delle nostre ricerche non sappiamo aggiungere altro: ma i ricchi archivi agrigentini - e forse quelli appena riesumati di Racalmuto - chissà quali sorprese si riserveranno. Siamo certi che quello che va dicendo - pag. 248-256 - Eugenio Napoleone Messana su questa congiuntura storica avrà una drastica rettifica: per onestà bisogna però ammettere che qui lo storico locale scrive pagine di notevole pregio documentario.

*   *   *

Il Falconcini ci ragguaglia fra l’altro sulla consistenza delle opere pie racalmutesi:

1.   Monte frumentario di Pantalone: opere di pietà - rendita lire 264 e 82 cent.;

2.   Eredità Spinola - spese generali di culto e maritaggio - rendita L. 562,32;

3.   Fidecomm. Busuito - L. 391,57;

4.   Cong. S. Anna - L. 1329,21;

5.   Comp. Agonizzanti - L. 650,76;

6.   Congreg. Purgatorio - L. 223,46;

7.   Congreg. S. Maria di Gesù - L. 669,78;

8.   Congreg. Monte - L. 599,52;

9.   Legato del canonico Franco - L. 727,64;

10.  Legato degli Orfani del Crocifisso - L. 127,50;

11. Eredità Signorino - L. 1.396,87;

12. Legato del Rev. Carini - messe - L. 127,50. 

*   *   *

L’agricoltura andava in quegli anni a fasi alterne: l’anno 1856, l’anno 1858, l’anno 1862 erano stati catastrofici stando alle statistiche desumibili dalla contabilità del Convento dei Minori Osservanti sotto titolo di Maria di Gesù di Racalmuto

Vino prodotto dalle vigne del Convento di Santa Maria
Misure in "botti" e "langelle"
anno
produz.
1824
5,00
1825
3,05
1826
4,07
1827
3,00
1828
3,01
1829
3,02
1830
3,03
1831
5,54
1832
3,28
1833
3,40
1834
4,00
1835
3,00
1836
4,00
1837
4,18
1838
3,08
1839
3,07
1840
5,00
1841
3,24
1842
4,14
1843
2,30
1844
2,08
1845
3,56
1846
5,30
1847
4,32
1848
6,00
1849
5,00
1850
3,56
1851
5,10
1852
4,32
1853
1,32
1854
3,24
1855
0,00
1856
2,32
1857
3,00
1858
3,00
1859
1,08
1860
3,00
1861
3
1862
1,08
1863
3
1864
2,40
1865
4,24
1866
2,00

 


 

Possiamo essere sicuri che da settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi dell’AIMA.

Ma era la scena politica che si andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.

Approdiamo a momenti storici racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO  fu Ignazio,’ [7] il 18 gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva  apertamente sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri .  etc. Ma il libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896  a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'.  In una reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO  la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa barocca'   per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»

Riconosco di avere sempre sospettato che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -,  abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi riesce incomprensibile il passo della sua  introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno, ... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi una casetta: ora è un secolo. »  Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.

Certo, povero lui!, molto ancora dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621 (indizione anticipata, in  uso negli atti ecclesiastici dell'agrigentino).  Se «il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni astrologici che avevano presieduto alla nascita   ... del  mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».

Fra Diego La Matina, poi, non potè essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno 1621 (IV IND.)  Sciascia non riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il racalmutese che  tenne a battesimo il futuro frate agostiniano. 

Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che la madre di Diego la Matina era una  RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi con  Vincenzo la Matina il 7 ottobre 1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651 andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova, si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni  e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i conforti religiosi da P. Bonaventura da  'Cannigatti'.

Nell'anno 1620 - precedente a quello di nascita di Fra Diego - era invece nato Don  Federico La Matina figlio di  Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina  fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a pag. 197 op. cit. - va  riabilitata.

Sciascia ebbe ad equivocare maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra i registri  della Matrice di Racalmuto. Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia  intento a comporre una versione  corredata da fotografie della MORTE DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA,  ne trasse persino una interessante fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un articolo  pubblicato da MALGRADOTUTTO, su MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.  Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN, verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.

Se Sciascia lo avesse appena scorso, lo avrebbe senza dubbio fustigato.

A questo punto, il mio acre censore Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole? Pedanterie?  Grette minchionerie?

Senza dubbio. Ma è appunto per questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.

Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di  Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto'  nelle contestate colonie dei 'balilla' racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.

Non sono di antico lignaggio racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza' della Terra del Sale.  Questa famiglia  appare nei registri della Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo un ceppo affine che si fa chiamare GULPI PITROTTO .  Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656 viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e Giovanna Gulpi Pitrotto.  Un Gulpi Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.

Incomprensibilmente, a partire dal novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il cognome nel solo PITROTTO e da allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro - onorevolmente nella Terra di Racalmuto.

 

Solo che chi scrive, alla stregua degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a seconda delle letture, al 1554 o al 1564.  Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto» nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.

Questa "querelle" tra me ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo agli scontro della fine dell’Ottocento.

«Si informa  - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873 l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi di maggio  p.p.   i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao D'Amico da Girgenti,  nelle ore del mattino vennero in questa, ove si  riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato  in Grotte, civile, ed INGRAO  Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia  Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro , ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura  per la rivolta politica avvenuta in Grotte, nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono una condotta tanto riservata da non farsi colpire  dai rigori della legge e da qualunque possibile  vigilanza.»

 

E a Racalmuto? «In Racalmuto questo partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è beffeggiato».

 

«Maestà, siamo alle Grotte» - citiamo da Rerversibilità di Sciascia - «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e le sardoniche rime in vernacolo.

 

Nelle sale del circolo tutte quelle “mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e della tarda sera.  Una rissa mia, paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei galantuomini nostrani.

 

*   *   *

 

Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della “riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi - nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano “scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo proviamo ancora, con una qualche ingordigia.

Racalmuto si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma  Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore.  Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai:  Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.

 

Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63  esercenti di miniere di zolfo (per converso solo  4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e  quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma  molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella,   etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni  Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento. 

 

Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani  [8] accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.

«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali  o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»

 

Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese [9] fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo  scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro  ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.

«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]

«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda.  [...]

«Qua e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!

«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»

 

Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola: [10] «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»

L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([11])

Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo regime. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilateralmente decisa dagli esercenti. [12] Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([13])

Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali?: Risponde: Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» [14]

 

Racalmuto si consegnarà al fascismo dopo una frenetica corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene qui segnare:

Abitanti di Racalmuto

Anno
N.ro abit.
Indici 1825 =100
1825
7.170
100
1831
7.806
108,87
1852
9.030
125,94
1869
12.252
170,88
1894
13.384
186,67
1901
16.029
223,56
1911
14.398
200,81
1921
13.045
181,94
1931
14.044
195,87
1936
13.061
182,16
1951
12.623
176,05
1961
11.293
157,50
1980
10.000
139,47


In  quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:

Comune di Racalmuto

Periodi
 
Incremento totale
incremento naturale
saldo migratorio
1861 -1 871
3,6
8,86
-5,26
1871 - 1881
20
18,43
1,55
1881 - 1901
09,65
13,26
-4,64
1901 - 1911
-10,8
11,32
-22,12
1911 - 1921
-14,6
4,19
-18,79
1921 - 1931
11,4
9,93
1,47
1931 - 1951
-06,72
9,97
-16,69



 

Nel periodo 1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951). [15]

Rispetto alla provincia di Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:

Anno
abit. Racalmuto (A)
N.ro ind.
 (B).
abitanti prov. Ag. (C)
N.ro ind.
 (D)
Rapporto %
A/C
Rapporto % B/D
1901
16.029
100
371.638
100
4,313
100
1911
14.398
89,825
393.804
105,96
3,656
84,77
1921
13.045
90,603
369.856
93,92
3,527
96,47
1931
14.044
107,658
398.886
107,85
3,521
99,82
1936
13.061
93,001
407.759
102,22
3,203
90,98
1951
12.623
96,647
461.660
113,22
2,734
85,36
1961
11.293
89,464
447.458
96,92
2,524
92,30
1980
10.000
88,550
449.699
100,50
2,224
88,11

 

Rispetto al territorio dell’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza.  Eugenio Napoleone Messana [16], lo storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno iniziato in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine dell’Ottocento.

*   *   *

Si è visto come per desiderio di Garibaldi sia salito al parlamento di Torino il deputato La Porta: un personaggio battagliero, talora equivoco, protagonista comunque di non poche battaglie parlamentari. I fatti del 1862 ebbero risonanza e risonanza arroventata in parlamento. Nella torna del 7 aprile del 1962 s’incardina la discussione sull’interpellanza del La Porta. [17] Si tratta dell’ «andamento amministrativo nella Sicilia». Il focoso giovane deputato siciliano è dispersivo, logorroico e non riesce a mordere  come vorrebbe. Molti prolissi periodi gli occorrono prima di introdurre l’oggetto della sua interpellanza: «noi deplorammo il favoritismo, la protezione governativa, la preferenza che il Governo accordava all’elemento della scacciata dinastia in tutti gli uffizi» finalmente inizia ad accusare per riprendere le fila del discorso sull’onda del ricordo «noi rimproverammo gli abusi, le violenze che alcuni agenti del potere esecutivo in Sicilia perpetravano a danno dell’elemento liberale, a danno di quell’elemento che godeva e gode la simpatia delle popolazioni.» Il riferimento al prefetto Falconcini è palpabile; l’eco della persecuzione del racalmutese Matrona, evidente. Ma abbiamo visto che il Matrona opportunisticamente ebbe invece ad accordarsi con il prefetto, scagionandolo da ogni accusa: la convenienza fece aggio sulla verità, segno non proprio di grande elevatezza morale dei conclamati Matrona.

Per l’on. La Porta, era stato vessato proprio quell’elemento che «rappresentò in Sicilia la iniziativa della rivoluzione del 1860, la capitanò, guidò il popolo al plebiscito del 21 ottobre e, qualunque volta la causa dell’unità nazionale o dall’opera dei retrivi  o dagli errori del Governo sia compromessa nell’isola, malgrado i torti ricevuti, non mancò mai al suo dovere.»

Il Laporta infierisce. «noi abbiamo accusato la lentezza, la trascuratezza governativa in materia di opere pubbliche; le strade, i ponti, i porti, o non iniziati, o lentamente o deplorevolmente avviati; il denaro pubblico con poca utilità speso; le leggi votate dal Parlamento per quelle provincie, sterile e derisoria parola.» Un ritornello, una posta del rosario che spesse volte, fino alla noia, verrà dopo ripetuta, in tutte le epoche, sotto i vari governi, persino fino ai nostri giorni. Dopo un anno e mezzo, francamente era solo retorica esigere chissà quali miracoli governativi. Ma dopo, col tempo, quel rosario amaro verrà recitato con ben più solida fondatezza.

Certo ha ragione La Porta ad ironizzare sui «rapporti dei prefetti che descrivevano l’isola beata e tranquilla e quasi inneggiante un cantico di benedizione ai ministri costituzionali.» In effetti c’era da fare una «requisitoria dello stato d’assedio, per dimostrare alla Camera quale fu specialmente il terreno, ove quel Ministero [il dimissionario Governo Rattazzi, n.d.r.]  esercitò le sue violenze, le doportazioni in massa, le fucilazioni senza giudizio, ogni atto, non dirò di Governo assoluto, ma dirò un’altra parola, dirò di despotismo ...» Qualche esagerazione, senza dubbio; ma un quadro nella sostanza terribilmente rispondente al vero. Altro che Falconcini, vittima di chissà quali ingiustizie!

Il La Porta scende a dettagli: «Il tenente dei carabinieri in Naro, provincia di Girgenti, annunziò pubblicamente che aveva bisogno di un esempio durante lo stato d’ssaedio in quella città; manifestò volere la fucilazione di un infelice Puleri Manto, e quella fucilazione fu eseguita. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Marsala è quello stesso che arrestava il signor Andrea Danna, il primo cittadino di quel paese. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Misilmeri [procedeva a ] 37 arresti che fece per pure ire personali. ... Gli arrestati dopo pochi giorni, riconosciuti innocenti, furono messi in libertà.»

Ma il quadro dell’ordine pubblico era in ogni caso desolante. «La sicurezza pubblica in Sicilia è ridotta ad un’amara delusione. Migliaia di renitenti alla leva, migliaia di evasi dalle prigioni battono la campagna; e già alcune bande si sono organizzate e specialmnete nelle provincie di Palermo, di Siracusa, di Girgenti, alcune bande che spargono il terrore in tutti i proprietari, che rubano, assassinano ad ogni momento.» E quanto ad Agrigento, «i proprietari stanno rinchiusi in casa; nemmeno si attentano di uscire in città. E’ raro che uno dei grossi proprietari di quel circondario non abbia già ricevuto un biglietto di scrocco, e non tema di uscire dalla casa per non incorrere nella vendetta di coloro che hanno richiesto una somma di danaro e che essi non si trovano in grado di pagare. Il barone Genoardi è stato tassato per cento mila lire. Il signor Vincenzo Mendolia è stato tassato per duecento mila lire, e così molti altri. [...] Il numero dei renitenti alla leva in quel circondario ascende a 600 per la leva del 1842, oltre poi quelli del 1840,1841 ed oltre 900 altri. In tutto tra renitenti alla leva ed evasi dalle prigioni sono 1650 nel solo circondario di Girgenti. [...] A pochi passi dalla città di Girgenti vi è un ladroneggio  organizzato colla sua burocrazia: coloro che trasportano zolfo appena usciti dalla città trovano cinque o sei ladri che ne notano il nome e impongono loro una taglia; al ritorno la taglia è esatta e il nome cancellato.»

Prende quindi la parola il deputato Ricciardi per ragguagliare su talune amenità: « Ho avvicinato ed interrogato ogni ceto di persone, cominciando dal principe e terminando all’artigiano, non ho udito mai voce che lodasse l’opera del Governo. [..] Quest’isola godeva sotto i Borboni di alcuni privilegi, i quali naturalmente doveva perdere all’apparire della libertà e dell’unità nazionale. Certamente un paese dove non esisteva la leva e che ha dovuto sobbarcarsi alla medesima, deve essere assai malcontento; quindi i cinque o sei mila refrattari di cui è forza deplorar l’esistenza. In Sicilia non v’era carta da bollo, ora non vi è solo questo, sìbene il registro ed il bollo, che han rovinato tutte le classi le quali viveano del foro. [...] Debbo dirvi ora una parola intorno alle carceri di Palermo ... Signori, in quelle carceri ho scorto cose degne del medio evo, cioè 1400 detenuti, di cui pochissimi condannati, i più tenuti a disposizione della questura, e non interrogati da tre, da sei, da diciotto mesi! Alcuni tenuti in celle nelle quali passeggiano come fiere in gabbia, e senza lavoro! Altri, tenuti in vastissimi cameroni in numero di 100 o 150, senza un misero pagliariccio; dormono avvolti in mantelli, e lascio immaginare a loro, signori, che cosa debba avvenire la notte in quei cameroni.»

La risposta del ministro Peruzzi è scontata: burocratica, evasiva, legittimista. Ma quelche spunto è degno di menzione: «... debbo osservare come disgraziatamente siasi verificato che taluni proprietari adoperano pei lavori di campagna preferibilmente dei renitenti alla leva ed altri che trovansi in questo stato extralegale, perché fanno pagar loro questa irregolarità di condizioni col prestar loro una mercede minore di quella che accordano agli altri lavoranti.»

Noi non abbiamo dubbi: a Racalmuto i galantuomini, grandi proprietari di terra, fecero fortuna a sfruttare quei poveri renitenti. Chissà i commenti al circolo di compagnia.

Il Peruzzi è tagliente nello stigmatizzare la manomorta ecclesiastica agrigentina. « La provincia di Girgenti è quella dove la maggior parte dei beni sono nelle mani delle corporazioni religiose e del clero. Io stesso, visitando la provincia di Girgenti, ho dovuto maravigliarmi, come dopo aver veduto una quantità di solfare vicine l’una all’altra, dovessi poi attraversare lungo tratto di paese senza vederne una. Ebbene, quel lungo tratto di paese era proprietà della mensa arcivescovile, o vescovile non so, di Girgenti. Quella mensa non voleva dare ad altri la facoltà di ricercare depositi di zolfo, né coltivarli né tampoco li ricercava e  coltivava essa stessa. L’industria stessa degli zolfi, o signori, non contribuisce per avventura alla maggior moralità di quelle popolazioni, e di questo possono convoncersi tutti quelli che hanno esaminato le condizioni nelle quali quell’industria viene esercitata.

«Inoltre la provincia di Girgenti ha avuta la disgrazia d’avere un’evasione di detenuti, dei quali una piccolissima porzione si è potuta riprendere, mentre degli altri che è egli avvenuto? Si sono forse costituite delle bande armate in quella provincia? Niente affatto. Tutte le ricerche fatte dalla forza militare sono riuscite inutili, ed ho quindi  motivo di credere che anche questi siano stati, per così dire, riassorbiti dal apese, che si siano sparsi per le barie borgate, per le varie masserie, per le varie solfare, e che di là facilmente si muovano a commettere i delitti. [...] Io ho cambiato il prefetto di quella provincia perché ho creduto che questa misura fosse indispensabile. Ho invitato il prefetto a propormi il cambiamento di delegati e di altri funzionari sotto i suoi ordini, scioglimenti di Consigli comunali e di guardie nazionali, ed egli mi ha risposto che effettivamente conviene adottare siffatte disposizioni. »

*   *   *

Bisogna dare atto ad Eugenio Napoleone Messa di avere bene inquadrato l’avvicendarsi dei sindaci di Racalmuto dopo l’Unità d’Italia. La successione dei sindaci nel ventennio successivo alla venuta di Garibaldi l’abbiamo vista prima. Oltre ai dati di cronaca del Messana, noi disponiamo di queste risultanze d’archivio.

Maggio del 1860

Al convento dei Minori sotto titolo di S. Francesco di Assisi di Racalmuto (convento di S. Francesco), dimorano questi frati: 1° fra Michele Antonio Garafalo, guardiano; 2° fra Salvatore Mirisola; 3° padre Luigi Scibetta.

1864

Nel convento di S. Francesco ora l’organico dei monaci era composto dal solito fra Scibetta, da fra Pietro Calamera, dal p. Fracesco Mulé, da fra Giuseppe Scimè detto Cicolino, tìlaico terziario e da fra Antonio Chiodo:

1866

Il 24 agosto 1866 abbiamo l’ultima registrazione del convento di S. Francesco. Poi tutto passa in mano laica per le note leggi eversive. Fra Francesco Mulè sottoscrive ricevuta “a buon conto del mio vestiario della somma di onze 16, dico 16). Si chiude la gloriosa storia del convento di S. Francesco di Racalmuto: l’eremo dei Minori di S. Francesco chiude i battenti per volontà degli estranei piemontesi. Le terre - appetibilissime - passano in mano ai furbi e fedifraghi notabili locali.

1869

27 giugno 1869 “Mene mazziniane (lettera da Firenze): «il partito mazziniano a tentato, tenta , ed in ogni modo studia per avere degli affigliati nelle vie ferrate e negli uffici telegrafici». [18]

11 agosto 1869 «Avendo con la massima riservatezza e circospezione indagato sulla condotta di questo Ufficiale telegrafico sig. Tulumello Salvatore di Luigi non ho osservato sinora dal suo contegno alcun indizio da cui desumere che fosse un affigliato o cooperatore del partito Mazziniano», Il delegato Morra (?) al Prefetto [dall’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Racalmuto]. [19]

1870

Racalmuto 14 giugno 1870 «...Venendo agli uffici pubblici, incominciando dalla Pretura diretta da qualche mese dal vice pretore, procede regolarmente, però sarebbe desiderabile che venisse al più presto possibile il nuovo Pretore titolare sig. Ripollina, che si attende, per dare maggiormente spinta ed attività al regolare andamento dell’amministrazione della giustizia. Sui Reali Carabinieri non v’è cosa di proposito da osservare in contrario; sarebbe però utile che il comandante della stazione sig. Bertelli, bravo giovane, spiegasse maggiore energia per disciplina sui propri dipendenti, i quali profittandosi della bontà del loro capo sono un po’ rilassati nel servizio, non prestando con quella attività che si richiede; attività indispensabile per potere alla meglio sorvegliare il territorio, e l’abitato che sono vasti, mentre la forza è ristrettissima, per cui si dovrebbe aumentare la Stazione almeno di altri due Carabinieri non essendocene che quattro, con altrettanti soldati: forza la quale rimane quasi esclusivamente in continuazione per la scorta delle due corriere postali che transitano in questo stradale ogni giorno.

«Il servizio delle due guardie campestri esistenti Deleo e Vinci, è del tutto trascurato da poiché il Municipio invece di farli disimpegnare il proprio incarico li lascia praticamente addetti ai propri particolari e di scorta al sig. Sindaco, sig. Matrona, Giunta, parenti e amici. Si dice pure che i suaccennati agenti spalleggiati dall’Autorità Comunale commettono scrocchi, ma nulla si può accertare di positivo.

«Gli Uffici del registro, telegrafico e poste non danno motivo a lagnanza nel pubblico, però ci vorrebbe un poco più di attività in quest’ultimo servizio, e che il capo dell’Ufficio sig. Borsellino non fosse trascurato nel prescritto orario di tenere aperta la Posta, e non abbandonasse quasi totalmente il servizio al suo commesso sig. Grillo Calogero buon giovane, ma piuttosto inesperto e distratto. L Delegato [firma illeggibile].»

Il sindaco che nel 1870 si serviva di quella guardia campestre, che poi vedremo sinistra protagonista in casa Matrona, era il notaio Michele Angelo Alaimo che precede don Gasparino che sindaco lo diventa nel 1872: frattanto quel Matrona era consigliere provinciale (dal 1868 al 1871): tanto bastava per dirottare la non proprio pacifica guardia Vinci a seguire ed avere in custodia l’intera famiglia dei già arroganti Matrona. Borsellino aveva in mano la Posta ma l’affidava ad un giovane definito «inespero e distratto»: Calogero Grillo. Uno spaccato dellA Racalmuto del 1870 non proprio esaltante.

Ma vi era maretta in Municipio. «...l’assessore sig. Matrona Paolino ha dichiarato alla Presidenza lo stsesso non volere far più parte della Giunta Municipale, manifestando essere stato fin oggi in carica, perché il dovere lo chiamava di sentire prima cerziorata la gestione, onde potere al caso rispondere contro ogni insidia e scandaloso mendacio. Il consigliere Gaspare Matrona presa indi la parola, come nel paese vaghe e insidiose calunnie spinte da spirito di parte siano circolate ad appuntarel’integrità del Sindaco e del Corpo Municipale. Per quanto calunniosi ed insensati siano gli appunti, lo provano al Consiglio i presentati conti; la reputazione delle individualità che hanno fin oggi composto la giunta municipale e quando parlo di individualità, egli dice, io non scendo a determinare quella del sig. Matrona Paolino, mentre lo stesso all’oggi dà sicura del nome, unisce solo a scuola dei maldicenti, l’aversi trovato una sola famiglia componente la giunta municipale, essere stato il solo estranei fra tre fratelli cognati sindaco ed assessore. Signori, egli dice, non è mia arte, né bisogno l’assegnare la nostra famiglia Matrona a promotore di ogni bene del paese. L’invidia, la reazione, il regressismo, sono stati questi spettri dell’avvilito stato di questo Comune, che bene spesso ci han gettato il guanto della sfida; e noi l’abbiamo sempre accettato. Al regresso abbiamo risposto, collo spingere per quanto in noi è stata la forza, il progresso; alla reazione coll’arme alla mano del 6 settembre 1862 abbiamo risposto colle armi; alle invidie e calunnie che circolansi nel paese contro l’onestà, risponderemo nella possibilità di provare, colla traduzione innanzi ai tribunali dei colpevoli. Solo mi è dolorosotanta mia opera essere difficile, perché i vili in questo sono astuti e circospetti per scoprirsi; la loro voce [non attacca]; loro non si mostrano di fronte all’onestà ed il loro rantolo d’infamia come cupo e sepolcrale rombo priva anche i più ... attenti a poterne diffinitivamente discercare il movente e segnarne il calunniatore.

«Il consigliere Cavallaro sig. Felice presa la parola ha significato al sig. Matrona che nella difficile arena municipale non si è mai risparmiato d’insidiosamente attentare l’onestà dei rappresentati: e che chi si ha avuto la rappresentanza municipale  in qualunque epoca, è stato sempre segno di calunnia.

«Conto dell’entrata e dell’uscita del comune di Racalmuto - per l’esercizio reso dal suo esattore e tesoriere il signor Leopoldo Muratori - [popolazione abitanti n.° 12.500]: dai licenzi dei dazi appaltati al sig. Agrò Alfano Baldassare L. 1.118; da Pietro Buscemi fu Vincenzo appaltatore dei dazi sopra le tegole, mattoni, gesso, calce, tavole, legname e ferro L. 1.238; da Petrotto Giuseppe fu Nicolò appaltatore del dazio sopra la paglia L. 98.»

Ironia della storia: chi avrebbe mai detto che il più circospetto e sagace figlio di Racalmuto, Leonardo Sciascia, avrebbe fatte sue quelle sgangherate parole apologetiche di don Gasparino Matrona, parole che ma celano uno stato di disagio per accuse infamanti contro il congiunto don Paolino Matrona. Nel circolo dei civili, per chi si parteggiava?

Intanto le asettiche carte degli archivi agrigentini ci sciorinano questi dati:

Prefettura di Girgenti - Racalmuto - Consuntivo del 1870

Conto 1871 = Manutenzione Cimiteri: al sig. Lupi cav. Carlo per piantagione cipressi, per cancello di ferro, tavolo mortuario e croci impiantate L. 600.

Conto 1872: al sig. cav. Lupi Carlo, appaltatore dell’illuminazione notturna; al sig. Picone Salvatore per trasporto prostitute L. 10.

 

 

1873

19 marzo: fibrillazione in Sicilia per l’onomastico di Garibaldi e di Mazzini. Il 26 marzo il delegato sig. De Benedectis può assicurare il prefetto: non risulta che qui «il partito avanzato avesse inteso promuovere qualche dimostrazione per il giorno 19 corrente.» Calogero Savatteri sarà stato un mazziniano, ma se ne sta buono a curarsi i suoi cospicui interessi. Ancora non poteva permettersi neppure una qualche strampalata concione al Mutuo Soccorso, per il momento feudo incontrastato dei Matrona, liberali sì ma antimazziniani.

2 giugno 1873: « Ieri celebravasi in questa la Festa dello Statuto Nazionale. Il Municipio con tanto lodevole zelo, impegnavasi che tal festa riuscisse con solennità; infatti appena fatto giorno il suono della musica e taluni colpi di mortaretti annunciavano la fausta ricorrenza. Tutte le botteghe lungo il corso, pavesate del tricolor vessillo. Alle 11 il sottoscritto, insieme a tutte le locali Autorità, Consiglieri, e ceto civile, dietro invito di questo signor Sindaco, sono convenuti nel Palazzo di Città, ove riunitesi al Municipio, e tutta la scolareca, seguiti dalle bandiere, e musica, sono andati al Duomo, ove il Clero ha cantato l’Inno Ambrosiano, assistendovi anche il Parroco, e finita tal sacra Cerimonia, si è nuovamente recato nel Palazzo di Città, ove fatti i soliti evviva, e felicitazioni, si è sciolto il convegno. Nelle ore pomeridiane la musica ha continuato ad allettare i Cittadini, fino alle ore 10 ch’ebbe fine la festa. Intanto il suddetto giorno non deplorossi alcun reato, essendo l’ordine pubblico tranquillo. L’Ufficiale di P.S. in missione Luigi Macaluso.» Che motivo avesse l’arciprete Tirone di cantare il Te Deum in lode degli scomunicati sabaudi, quelli della breccia di Porta Pia del 1870, è di ardua ricognizione ma di pesante sospetto. Il ceto civile - quello del circolo unione - è ovviamente del tutto ossequioso: magari la sera, qualche frecciatina verso i nuovi opportunisti (assenti) non sarà stata risparmiata - allora come ora.

Il Messana (op. cit. pag. 495) pubblica un interessante manifesto politico del Tulumello del 1873. «La consorteria - vi si dice e si parla ovviamente di quella del Matrona - vi chiamerà all’urna colle solite promesse, minacce e mostrandovi alle occorrenze anco la carabina!» La congrega del barone Luigi Tulumello era composta da Ignazio Picone Alfano, da Ignazio Alfano Vinci, da Felice Cavallaro Salvo e dal farmacista Lo Presti, nonché da un maltrattato (dal delegato di S.P.) Giuseppe Romano Alessi che definivasi presidente della società operaia. A parte quest’ultimo, si trattava di galantuomini dissidenti che amavano definirsi “cittadini onesti, intelligenti e liberali a tutta prova”. Cercava di far breccia tra i Messana (per i fatti del  60), tra i Picone (per le minacce e le offese personali patite), tra i Mantia (per gli spudorati attentati alla loro proprietà ed alla loro vita); ai Borsellino (per le infamie subite), ai Grillo (per gli orribili fatti del 60 e del 62), ai Picataggi (per gli arresti arbitrari subiti); ai Lo Presti (per un asserito furto ai loro danni); agli Alfano, ai Farrauto; ai Mantione (per imputazioni, oltraggi .. ed il carcere a San Vito). I Tulumello comunque in quella tornata elettorale non vinsero. Si consolida anzi la saga del mecenate don Gasparino Matrona. Per poco, però. Il crollo del 1875 incombe.

1874

Gioacchino Savatteri viene eletto membro del consiglio provinciale per il mandamento di Racalmuto con voti 143 per l’anno 1874

1875

«Prefettura di Girgenti - Duello fra don Gaspare Matrona e Barone Tulumello. 3 settembre 1875 - Si vuol per certo un duello fra Matrona don Gaspare e B.ne Tulumello da Racalmuto, ove forse avverrà, essendo ieri partito da Girgenti per quella volta il sig. Picone d. Nicolò, per fare forse da Padrino al Matrona. Si dice ancora, che ne avverrà un altro tra Matrona Napoleone e certo Cavallaro. Ma il Matrona trovasi attualmente in Girgenti in unione al fratello Paolino, il quale ieri ricevè un telegramma che alla lettura fu visto turbarsi; dietro di che partì il sig. Picone. »

«Telegramma decifrato del 4/9/1875 - Oggi questo Segretario Comunale ritornato. Dicesi duello sospeso da riprendere in 4 giorni. Qui sinora calma. Se avvenisse duello se ne faranno altri. F.to Macaluso Delegato.»

«Segretario Comunale Lauricella è uno dei secondi. Duello per attacchi personali con opposizione municipale. Dicesi di altri duelli. F.to Macaluso.»

«Finora conoscesi solamente barone Tulumello con due secondi fatti venire da Naro sia partito per costà (Girgenti) alle sei. Ignorasi terreno. F.to Macaluso.»

Il 4/9/1875 il prefetto convoca a Girgenti il segretario comunale Lauricella.

Nella sessione del 1875 il cav. Giuseppe matrona viene eletto membro del consiglio provinciale per il mandamento di Racalmuto per l’anno 1875.

Nel n.° 6 dell’8 maggio 1875 del “Don Bucefalo” vi è una “nostra corrispondenza” da Racalmuto. «2 maggio [...] vogliamo tenere parola dello stato anormale del comune di Racalmuto. Sotto crudele ed improba passione, giace questo deplorevole comune affidato al reggime (sic) di un sindaco ambizioso ... Sin dalla di lui promozione al potere, Racalmuto non ha altro segnalato che una amministrazione elevata al più vero assolutismo, ad una colluvie di irregolarità, meri capricci, ed infrazioni alle leggi rispetto a taluni atti della comune azienda [...]» Si parla di un “favoloso mutuo”; di una strada che appena appaltata “si dirupa”; alle enormi spese per il teatro e per le scuole femminili. «Briga per la costruzione di una strada rotabile tra i comuni Racalmuto-Favara, opera grandemente vessatoria e capricciosa che per fornire a questi magnati caporioni facile accesso alle rispettive casine, si condannano e proprietà ed interessi pubblici e privati.»

Eugenio Napoleone Messana fornisce una versione tutta sua alla vicenda del duello Matrona-Tulumello. [20] Vi innesta una faccenda d’alcova che avrebbe visto coinvolto Luigi Lauricella. Costui, segretario comunale, sarebbe stato gratificato dal Matrona con l’incarico ed un lauto stipendio in cambio dei favori della moglie, secondo quel che avrebbe sussurrato in un articolo di stampa il barone Tulumello. Soggiunge il Messana: «Sta di fatto che la moglie del Segretario si è suicidata e don Gasparino si è eclissato per molto tempo.» «Il segretario Lauricella lasciò Racalmuto meditando nel cuore vendetta. Non passò molto tempo e vide ad Agrigento il Matrona. Lo seguì a distanza pazientemente. Don Gasperino entrò nel negozio Scibetta in Via Atenea. All’uscita fu raggiunto da un colpo di pistola. Il segretario mirò al cuore ma sfiorando il gomito sinistro colpì il femore e si dileguò nella folla. L’assenza da comune indusse la giunta, indignata per le ingiuste accuse contro il suo sindaco, a protestare presso l’autorità tutoria, indi a dimettersi. Nel 1876 fu nominato sindaco l’avv. Gioacchino Savatteri, amico e dello stesso partito del Matrona.» Si sa: Eugenio Napoleone Messana è un immaginifico. Inventata o meno tutta codesta bardatura, a noi non resta che attendere incontri fortunati con carte d’archivio per una ricognizione critica della (salace) vicenda.

 

28 giugno 1875 [21] «Racalmuto - Miniere Pernici e Frappaolo - Quesiti - Dalle diverse indagini che segretamente e con qualche studio da me operate risulta 1) che circa duemila operai attualmente lavorano nel gruppo di miniere Pernice e Frappaolo di proprietà del Pr.pe di Aragona. 2) La produzione approssimativa dell’anno 1874 di queste miniere potrebbe ascendere a duecentomila quintali, ogni quintale composto di cento rotoli ed in quest’anno sono suscettibili di aumento. 3) Una sorta di minerale grezzo e poi messa in fusione produce in media  .. 20 (venti) balate ed ogni due balate, che si chiama carico, portano il peso di quintali uno, e rotoli cinquanta circa. 4) Da poco tempo e nei vari discorsi sulle miniere della Pernice si è usato il titolo di Nuova California per le immense speculazioni di escavamento che ogni giorno si operano per trovare il minerale. Però questa voce non si è ancora generalizzata, per il fatto che la montagna Pernice è gravida di suoi rappresentanti del minerale sulfureo ed un buon agente delle tasse potrebbe arrecare dei vantaggi alla Finanza dello Stato. Tutto questo ho potuto raccogliere con la massima avvedutezza per non destare degli allarmi ai proprietari delle miniere che per lo più sono tutti civili e di alta levatura, amici e conoscenti dell’attuale agente delle tasse; e ciò in esecuzione degli ordini della S.V.I. contenuti nella riservata nota qui riguardata. Il delegato di S.P. - Macaluso.» Macaluso fu dunque sbirro accorto: non amò infastidire i “civili” - uomini di “alta levatura, amici e conoscenti dell’attuale agente delle tasse”. I civili parcheggiavano nei loro due circoli: gli interessi solfiferi venivano tenuti nascosti, non tanto per paura dell’agente delle tasse - diversamente da quel che avverrà nel dopo guerra con i contributi unificati su cui sarcasticamente si sofferma Sciascia - ma per timore di quello sbirro, che pur dovevano ospitare nelle loro sale sociali.

1877

4 giugno: «Duca di Cesarò - Suo passaggio a Racalmuto colla Consorte. L’on. Duca e consorte si intrattennero alquanto nel Palazzo municipale ... visitarono il teatro, la famiglia dei signori Matrona e quella del dr. Scibetta Troisi Giovanni.»

Conto del 1877 presentato dal Tesoriere Matrona Carlo.

1878

Conto del 1878 presentato dal tesoriere Nalbone Luigi.

 

 

*   *   *

Il sindaco “garibaldino” don Gaetano Savatteri viene in malo modo invitato a dimettersi: l’ondata epurativa del ’62 lo coglie e lo travolge in pieno. Ma più che altro, il Savatteri resta annientato dalla morte della moglie. Una lapide a Santa Maria recitava:

Qui Dorme

nella pace del Signore

Donna Maria Grillo in Savatteri fù Francesco Paolo nata a Racalmuto e quivi morì di anni 52 l’alba del 20 Marzo 1862, col maledetto aneurisma.

Pietosa, caritatevole, devota assai prudente.

Obbediente figlia, consorte fedele, amorosa madre.

Della famiglia l’angelo, la pace l’allegria

Chè sua scomparsa eternamente cancellò:

allo sposo ai figli.

Deh! Adorabile madre accogliete questo duraturo monumento che vostro figlio Calogero vi eregge di lagrime bagnato.

In segno di sentita devozione

Beneditelo.

 

Si dice che il Savatteri, preso da sconforto esistenziale, finì in uno stato di misticismo misantropo: si ritirò nel convento di Santa Maria per stare vico alla consorte ivi sepolta, e lì visse come fratello laico, alla stregua di un monaco.

Tra i diversi figli andavano emergendo don Calogero Savatteri, il notaio, e don Gioacchino il futuro sindaco.

Don Calogero Savatteri ebbe sempre manie mazziniane: quando, nel 1873 - verso maggio - il neo Mutuo Soccorso si rivoltava contro i fondatori, i Matrona, per subire l’ascendenza dei Tulumello, il Savatteri - ormai in rotta con il fratello e con la consorteria del fratello che faceva capo agli stessi Matrona - si butta a capofitto nella vita di quel circolo e periodicamente vi legge sue dissertazioni che oggi destano semplicemente un moto d’ironico compatimento. Ai malcapitati zolfatai toccava sorbirsi tutto quell’eloquio pretenzioso ed incomprensibile. Quando il discorso scendeva a terra, era davvero un’orgia d’ovvietà: «Non siate timidi e pigri - dovevano sentirsi dire gli “egregi operai” [22] - a lavarvi spesso tutto il coprpo. L’acqua è gran preservativo e tante volte impedisce che malattie di pelle o diversamente invadino il corpo, specialmente il corpo dell’operaio che deve sostenere il lavoro, bisogna tenerlo netto e pulito più di ogni altro.» Già, perché «oggi è invece bello il vedere camminare l’Uomo e la donna ritti, colla testa alta e con sobrietà.» «A tenere il corpo robusto, sano ed anche agili e gagliarde le membra, influisce molto la nettezza e pulitezza del corpo, lavandolo di tanto in tanto.» Ma a pag. 57 aveva raggiunte vette speculative affermando: «l’istinto della propria conservazione fa sentire all’uomo il bisogno, l’obbligo ed il dovere di cambiare spesso le mutande.» Ed il Savatteri era davvero originale ribadendo l’opinione di Melchiorre Gioia sull’igiene, giacché «tenendo nette e pulite le mutande, oltre ad arrecare sollevamento all’anima dell’uomo, si concorre a dare vigore, forza e salute al corpo e s’impedisce la spontanea generazione d’insetti nocivi alla salute, togliendo il puzzo ed il fetore spiacevoli che tramandano gli abiti e le mutande quando sono sporchi.»

C’è un punto del suo che ci aveva fatto pensare ad una fede socialista del giovane virgulto della grande famiglia dei Savatteri: ed è quando si sofferma sull’eguaglianza. Ma a pag. 66, alla fine, fuga ogni malinteso: «L’eguaglianza politica e civile non dovete credere, egregi Operai, che consista nella ripartizione eguale dei terreni, delle case e del denaro, per come predicano certi utopisti dottrinarii sovvertitori dell’ordine sociale, e nemici del progresso, che si vogliono dare il tuono d’innovatori; no affatto: sono sicuro che simili fandonie e falsità non allignano nelle vostre menti.» Gratta gratta, l’uguaglianza era un problema di ... vestiario. «Oggi nessuna legge vi obbliga - si legge a pag. 58 - a conservare ancora che il civile deve vestire diverso dal mastro, il mastro differente dallo zolfataio, e questo diverso dal contadino. Continuando in tal guisa, malgrado i nostri sforzi   ed i vostri lavori di emancipazione, e di rialzamento, mantenete sempre vivo il germe della divisione delle classe e la disuguaglianza tra gli uomini. ... Persuadetevi, egregi operai, che la foggia del vestire influisce assai ad essere l’uomo avvicinato e rispettato. ... vi esorto di abbandonare il taglio degli abiti a costume  che l’odierna civiltà a [sic] sfatato e che ancora si conserva nei nostri comuni... Incominciate per Dio! Forse v’incresce o avete paura al pensare che i signoroni rideranno alle vostre spalle? Lasciateli ridere e verrà tempo che vi seguiranno. » Mutande e scazzetta erano questi i corni del dilemma savatteriano nelle affabulazioni al Mutuo Soccorso.

Quest’anno (1998) i padroni di quel sodalizio hanno ritenuto di affiggere una lapide funerea nella sala d’aspetto. Disponiamo di questi riferimenti giornalistici:

Trafiletto del Giornale di Sicilia   del gennaio 1998. Firmato Sapi cioè Salvatore Petrotto - l’attuale sindaco di Racalmuto.

 

Racalmuto, “Mutuo Soccorso” festeggia i suoi primi 25 (sic) anni.

 

RACALMUTO. (sapi) Il sei gennaio nei locali del circolo “Mutuo soccorso” di Racalmuto è stata inaugurata una lapide in ricordo dei 125 anni dalla nascita della società. Dopo il saluto del vice sindaco Pippo Di Falco  e del presidente Stefano Matteliano, è intervenuto Gigi Restivo, che ha letto alcuni passi dello statuto ed ha illustrato la storia del circolo fondato da Giuseppe Romano, Vincenzo Tinebra, Natale Viola, Federico Campanella, Calogero Savatteri e Lorenzo Viviani nel 1873.

 

Niente di più falso. Avevamo cercato di mettere sull’avviso con questo fax:

Racalmuto 5 gennaio 1998

Alla Presidenza del Mutuo soccorso di Racalmuto

Nella nostra qualità, rispettivamente, di ex presidente del sodalizio e socio esperto in microstoria del circolo, diffidiamo codesta Presidenza dall’affiggere la fantasiosa lapide commemorativa nelle sale del Mutuo Soccorso di Racalmuto, in quanto lesiva della verità storica già sunteggiata nella conferenza del dott. Calogero Taverna del 5 luglio 1993 (pag. 1 e segg.) agli atti della società, nonché dispregiativa dei nomi, fatti ed eventi di cui alla copiosa documentazione dell’Archivio di Stato di Agrigento che l’allora presidente sig. Carmelo Gueli ebbe cura di acquisire e debitamente conservare.

Ci si riferisce in particolare all’inventario n.° 18, fascicolo n.° 42 della prefettura di Girgenti del 16 giugno 1873 ed alla nota n.° 419 Gabinetto del 13 giugno 1876, ove emergono tra l’altro le figure di

)  Scibetta Salvatore;

) Rossello Giovanni;

) Marchese Giuseppe Primo;

) Lumia Gaetano;

) Grillo Giuseppe;

) Farrauto Angelo;

) Giardina Pietro;

)  Bellavia Elia;

) Licata Nicolò;

10°) Scimé Salvatore;

11°) Ferrauto Vincenzo;

12°) Giancani Luigi;

13°) Palumbo Angelo;

14°) Palumbo Antonino.

 

Con invito alla debita informazione ai soci.

 ..................................

( Carmelo Gueli, ex presidente)

...................................

(Calogero Taverna, socio del Mutuo Soccorso)

 

 

Ovviamente abbiamo ricevuto una beffarda disattenzione. In cambio, anche di un sussidio straordinario, la presidenza del Mutuo Soccorso poteva vantare un’encomiastica celebrazione su Malgrado Tutto. Ma la storia vera della fondazione del Mutuo Soccorso resta incagliata nell’astioso rapporto di S.P. (Pubblica Sicurezza), che abbiamo prima riportato e così rubricato: [23]

 

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