sabato 6 gennaio 2018

Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»

Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.



Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]
Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»

Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.



Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]
Possiamo essere sicuri che da settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi dell’AIMA.
Ma era la scena politica che si andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.


Approdiamo a momenti storici racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO  fu Ignazio,’ [7] il 18 gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva  apertamente sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri .  etc. Ma il libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896  a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'.  In una reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO  la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa barocca'   per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»


Riconosco di avere sempre sospettato che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -,  abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi riesce incomprensibile il passo della sua  introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno, ... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi una casetta: ora è un secolo. »  Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.


Certo, povero lui!, molto ancora dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621 (indizione anticipata, in  uso negli atti ecclesiastici dell'agrigentino).  Se «il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni astrologici che avevano presieduto alla nascita   ... del  mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».


Fra Diego La Matina, poi, non potè essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno 1621 (IV IND.)  Sciascia non riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il racalmutese che  tenne a battesimo il futuro frate agostiniano. 


Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che la madre di Diego la Matina era una  RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi con  Vincenzo la Matina il 7 ottobre 1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651 andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova, si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni  e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i conforti religiosi da P. Bonaventura da  'Cannigatti'.


Nell'anno 1620 - precedente a quello di nascita di Fra Diego - era invece nato Don  Federico La Matina figlio di  Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina  fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a pag. 197 op. cit. - va  riabilitata.


Sciascia ebbe ad equivocare maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra i registri  della Matrice di Racalmuto. Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia  intento a comporre una versione  corredata da fotografie della MORTE DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA,  ne trasse persino una interessante fotografia. E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un articolo  pubblicato da MALGRADOTUTTO, su MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.  Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN, verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.


Se Sciascia lo avesse appena scorso, lo avrebbe senza dubbio fustigato.


A questo punto, il mio acre censore Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole? Pedanterie?  Grette minchionerie?


Senza dubbio. Ma è appunto per questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.


Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di  Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto'  nelle contestate colonie dei 'balilla' racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.


Non sono di antico lignaggio racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza' della Terra del Sale.  Questa famiglia  appare nei registri della Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo un ceppo affine che si fa chiamare GULPI PITROTTO .  Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656 viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e Giovanna Gulpi Pitrotto.  Un Gulpi Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.


Incomprensibilmente, a partire dal novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il cognome nel solo PITROTTO e da allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro - onorevolmente nella Terra di Racalmuto.


 


Solo che chi scrive, alla stregua degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare presenze racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che risalgono, a seconda delle letture, al 1554 o al 1564.  Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per linea materna anche un PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue locale parlando le cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu casali di Raxalmuto» nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.


Questa "querelle" tra me ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo agli scontro della fine dell’Ottocento.


«Si informa  - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873 l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi di maggio  p.p.   i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao D'Amico da Girgenti,  nelle ore del mattino vennero in questa, ove si  riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato  in Grotte, civile, ed INGRAO  Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia  Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro , ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura  per la rivolta politica avvenuta in Grotte, nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono una condotta tanto riservata da non farsi colpire  dai rigori della legge e da qualunque possibile  vigilanza.»


 


E a Racalmuto? «In Racalmuto questo partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è beffeggiato».


 


«Maestà, siamo alle Grotte» - citiamo da Rerversibilità di Sciascia - «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e le sardoniche rime in vernacolo.


 


Nelle sale del circolo tutte quelle “mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e della tarda sera.  Una rissa mia, paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei galantuomini nostrani.


 


*   *   *


 


Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della “riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi - nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano “scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo proviamo ancora, con una qualche ingordigia.


Racalmuto si affacia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma  Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore.  Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai:  Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.


 


Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63  esercenti di miniere di zolfo (per converso solo  4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e  quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma  molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella,   etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni  Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento. 


 


Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani  [8] accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.


«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali  o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»


 


Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese [9] fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo  scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro  ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.


«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]


«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda.  [...]


«Qua e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!


«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»


 


Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola: [10] «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»


L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ([11])


Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo regime. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilateralmente decisa dagli esercenti. [12] Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ([13])


Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali?: Risponde: Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» [14]


Racalmutesi che amate Racalmuto, se sino all'anno scorso non avete ammirato amato cullato un arabo ricordo come questo, la Fontana del Vozzaro, non la vedrete mai più: un diabolico bulldozer per donare ad un villico altri sei mq di confino l'hanno irrimediabilmente rasa al suolo. Forse si poteva ancora salvare. Ho implorato, ho maledetto, ho minacciato. Niente! La fontana del Vozzaro sotto il Castelluccio scomparsa per sempre.
 
 
 
 
 
Agato Bruno Favole della dittatura
 
 











 

 







 
 
 
 

 
Innanzitutto un caloroso buon giorno. Quindi un qualche mio tentativo di contrappunto. Solo da pochi giorni - e per tua intelligente sensibilizzazione - frequento Yammer. Ne sono soddisfatto. Ho trovato un'altra sede colta prudente ed avveduta per discutere. E per discutere di cose serie, non certo per ripicche personali. Non ci speravo ma invece ecco che ho potuto ad esempio dire che Tremonti talora ha ragione  e noi torto. Che la Costituzione e il suo magistrale art, 47 vige ancora e quindi talune direttive europee anticostituzionali  in materia di credito vanno respinte. Ovvio democraticamente. Che i rapporti tra poteri devono essere saggi e un governatore non si può permettere di non rispondere ad un presidente del consiglio, chiunque esso sia. Che il gioco dei costi/benefici facendo dilatare oltre misura la patrimonializzazione di CSR, SIDIEF e la stessa e soprattutto BI incautamente ed inspiegabilmente superprivatizzata,  deve essere ripensato. Che caduta la vecchia legge bancaria ne va rifatta un'altra consona ai nuovi assetti istituzionali- e comunitari. Che di conseguenza va ripensata tutta l'attività di vigilanza ispettiva, pena sconquassi bancari imperdonabili. E simili ed altre grosse questioni si dibattono qui in Yammer e si dibattono anche in un gruppo chiuso detto Agorà che cresce di densità associativa e di spessore culturale. In tale contesto odio i personalismi. Spesso vi cado e di questo chiedo pubbliche venie. Calogero Taverna

venerdì 5 gennaio 2018

C. A. Sacheli - "Linee di di folklore canicattinese"
L'origine di Canicattì nella tradizione.
Il popolo di Canicatti non ha, ch'io mi sappia, una propria e definita leggenda sull'origine della sua città. Fluttua nell'interpretazione del nome, associandovi fievoli reminiscenze storiche, che può 1'indagine rivelare più o meno esatte, s' affida a localizzazioni indubbiamente erronee, più spesso si abbandona al motteggio.
Una prima tradizione afferma recisamente che ove sorge oggi il paese sia stato lu feu di la ficu, del quale più nulla altro ricorda, mentre il paese era posto a Casalotti, a nord-est di Canicatti, località di non dubbia importanza archeologica, tutta sparsa di antiche vestigia di case, di frantumi di rossi mattoni, fertile di storie e di truvatura. Ma, continua la tradizione, Casalotti era esposto a tramontana, onde gli abitanti chiesero ai posessori del feu di la ficu, che erano gli eredi di li Vurdunara (Bordonaro), di venire ad abitare nel feudo. L' ottennero; e posero sede sulla collina oggi detta la Vutti (denominazione piuttosto recente, che ricorda, opino, una stazione di segnalazione telegrafiche a fuoco), o, secondo altri vorrebbe meglio specifica- re, dove si vedono ancora li casalina di la Ciacià. A poco a poco si estesero sulle alture (pizza), onde si dissero Pizzàri; ma in prosiego di tempo scesero nella valle, lungo un torrente (che va a formare poi il fiume Naro) dove erano molti canneti ed aria malsana, così che gli abitanti - continua narrando il popolo - se richiesti ove abitassero, rispondevano; a li canni cattivi. Ricordo che storici e geografi antichi non scrivono Canicattì, ma Cannicattì. In una seconda versione tradizionale lu feu di la ficu viene localizzato, o almeno la massaria di esso, sulla collina ove ora sorge il palazzo del Signor Gioacchino La Lomia e la chiesa di S. Barbara. Il feudo era tenuto o infestato da ladri o da saraceni che vi seminavano il terrore e nessuno quindi ardiva venire a lavorare nelle contrade vicine. Ma il feudatario - Lu principi di la ficu - fece bandire che chiunque fosse venuto a lavorare nel feudo, avrebbe avuto in compenso mezza salma di terra e sicurezza della persona. Cosi si andò formando un primo nucleo di case, attorno all'antica Madrice, che era posta, parrebbe, sotto 1'attuale chiesa di S. Barbara.
Altra tradizione si desume da una frase d'una fiaba locale intitolata Caiu Caianu. L' azione della fiaba rimonta al tempo in cui lu paisi si chiamava Cattì. Però attorno a questo nome il popolo non serba più altro ricordo, benché questa panni la tradizione più significativa, potendo avvicinare agevolmente il Cattì all'arabo Kattà, che 1' Amari, sulle indicazioni dell' Edrisi, identifica con Canicattì.
Diffusissimo è poi un motteggio popolare che attribuisce 1'origine del nome del paese all' indole degli abitanti, che chiama cani e gatti. Giovi intanto notare la non infrequente denominazione, anche da parte di storici e geografi, accanto a Canicattì e a Cannicattì, anche di Canigattì (il popolo dice sempre Caniattì).
Quando sia nato il motteggio non so; ma è verisimile sia dovuto a lotte paesane in tempi più o meno recenti, se pur non lo si debba senz' altro a quelli di Naro, come mi diceva un contadino. Nella storia lunga delle competizioni comunali, Naro e Canicattì han cumulato mal celati rancori, e buon numero di motteggi e sirfi ingiuriose; Caniattinisi - cani e. gatti; Narisi - scorcia 'mpisi, - ca di li peddi - nni fannu cammisi. Ancora: Narisi - unu ogni 'mpaisi; s' un ci nn' è - miegliu è.
Ma con buona pace di ognuno, il popolo di Canicattì finisce anche con l'affermare d' esser venuto da quelli di Naro e da quelli di Delia. Difatti esso narra: «Triccent' anni prima fu fattu Naru, ducientu Dielia, e nu' siemu diliani e narisi.» Come ciò ? Forse, astraendo dalle indicazioni cronologiche, dalle quali difficilmente si potrebbe cavare un senso, la tradizione conserva la memoria d'un tempo in cui Canicattì dovette essere una semplice stazione di passaggio e di fermata dei vivi rapporti tra Naro e Caltanissetta, città entrambe, nel periodo arabo, fiorenti.
Petrappàulo
Nella piazza maggiore di Canicattì, addossata in parte alla chiesa del Purgatorio, è un'antica fontana, ormai priva d'acqua, che il popolo chiamò, dalla figura maggiore di essa, Petrappàulo. Dalla fontana è stato tratto lo stemma del paese, e quella figura è tanto cara ai canicattinesi, se pur talora ne ridono e ne motteggiano.
La fontana è opera certo del 1600, dovuta a Giacomo I Bonanno, signore di Canicattì. L'autore dell'Antica Siracusa Illustrata morto nel 1636 dovette essere un'anima d'artista, e quando i frequenti viaggi per l'Europa, le sue relazioni con eminenti prelati ed uomini politici contemporanei e gli studi di storia d'arte gli concedevano un ozio qualsiasi, rivolgeva 1'animo a beneficare e migliorare Canicattì, che doveva essere allora assai rozzo e selvaggio.
Le tre maggiori fontane del paese (Acqua nuova, Brualinu, Petrappàulo) che lo dissetarono fino a un ventennio fa, sono opera di Giacomo Bonanno; e se si riflette che due di esse sono poste nella parte più bassa dell' abitato si comprende agevolmente il pensiero geniale che volle il paese s' estendesse nel piano, ragione precipua del suo progresso. La piazza difatti non sorse se non dopo la costruzione della fontana, a piedi del castello dei Bonanno, ormai diruto, ma fino a un ventennio fa integro quasi.
Una ricostruzione ideale della fontana non riuscirebbe difficile se un muro della chiesa del Purgatorio, che lo ha tanto deturpato, e lo stato miserando in cui si trova oggi il monumento, non lo vietassero.
La figura principale che versava 1'acqua dalla conchiglia marina e che passò presso i dotti come un Nettuno, tutto nudo, sdraiato mollemente, regge il capo fluente in lunga barba sulla destra. La Fama alata emerge dall'alto (il popolo la chiama 1'angilu) e ai lati stanno due cariatidi, nude fino all'ombellico, che rappresentano forse due tipi tradizionali di contadini paesani.
Il de Burigny, nella Storia generale di Sicilia, dice il tutto di bellissima scoltura, e 1'ab. Amico, nel Lessico topografico, la chiama opera pregevolissima.
A completare la ricostruzione ideale della fontana, bisogna dire che, a piè della Fama alata, due putti sostengono un'iscrizione, dettata, verisimilmente dallo stesso duca Giacomo. Eccola: «Non vaga plus resonat / tamen hinc in marmore sistens / conticuit fama est / nam lapis ipse loqnax.»
Questo era il pensiero del munificentissimo duca.
La fama di lui corsa, pel bene fatto al paese, non era più vaga oramai, incerta, ma quasi si era concretizzata nelle fontane di che egli aveva fatto dono al paese — dono pei tempi e le condizioni locali certo rilevantissimo — e di lì benché pietra narrava di lui. E di Giacomo Bonanno veramente fu duraturo il ricordo presso il popolo che di cosa assai antica e assai bella dice, non senza talvolta anche una sottile ironia: a li tiempi di lu duca Jàbbicu.
Del Nettuno e della fontana il popolo però, a dir vero, ne sa quanto il vecchio che se la ride dall' alto tra la candida barba.
Se si chiede una spiegazione del nome (Petrappàulo) affibbiato al Nettuno, due risposte si ottengono. Una prima tradizione — credo, per altro, formatasi di recente — vuole che il nome gli sia venuto da ciò che due accattoni, Pietro e Paolo, solevan passare le notti nella nicchia ospitale, dietro il Nettuno.
L'altra più caratteristica ed importante spiega: la pietra dapprima parlava (petra-parla). E a me questa seconda spiegazione garba molto e piace.
Già è la lectio difficilior, glottologicamente verisimile, psicologicamente probabilissima. L' ultimo versetto dell' iscrizione: lapis ipse loquax spiegato al popolo non 1'avrà accontentato, ed esso tagliando corto avrà volto 1'antico petra-parla, cui veniva mancando il significato, in petrappàulo, d' onde, posteriormente, la prima lezione. E intanto giusta le esigenze del mito, si compieva la personificazione.
FIABA. TOPONOMASTICA Pizzu - cannila
Un pastore pasceva le sue pecore nel feudo di Grottarossa, ai piedi del monte che si chiamò poi «Pizzu-cannila». Egli era mite, buono e viveva felice pascendo le greggi e suonando il suo friscalittieddu. Una mattina, entrando nella mandria, trovò fra gli agnellotti una bimba bellissima ed avutane compassione la fece allevare dalla moglie e si faceva chiamare papà. Quando essa crebbe, la mandò a pascolare il gregge; ma la povera bimba aveva una gran paura del lupo e quando lo sentiva urlare tremava tutta di spavento. Però una sera, per salvare un agnellino che amava come un fratello, essa affrontò coraggiosamente il lupo e 1'uccise. A mezzanotte salì sul monte sola sola e acceso un enorme falò, bruciò il lupo per disperderne i resti. Il monte pareva una gran candela e certo la bimba era fatata, se i lupi passando di notte per la contrada vedono ancora ardere sulla montagna il gran falò e, sentendo ancora 1' odore della carne arsa del loro simile, fuggono lontano, lasciando in pace lo greggi.
LEGGENDE
1. La torre dell' orologio
La torre dell' orologio sorge sulla collina ove si vedono oggi i ruderi del Castello Bonanno e a pochi passi a mezzogiorno di questo.
Il popolo narra che ivi fu imprigionato e fatto morire di fame un figlio di re; ma non ne sa dire affatto la storia. Qualcuno mi ha suggerito un nome; Majone; altri — e forse con più fondamento — quello di Luca Formoso. Questo signore di Canicattì fu infatti tra i ribellanti all'autorità di Martino V.
«A 2 Agosto 1393 — narra il Picone nella sesta delle sue pregevolissime Memorie storiche agrigentine — poiché il popolo agrigentino si era lanciato sui beni del vescovo Decurtibus e su quelli della Chiesa, Martino V confiscava i beni dei ribelli [e tra questi, come ho detto, era Luca Formoso] e comandava che quel prelato ne fosse fatto indenne. Il conte di Agosta scendeva da Palermo a combattere gli insorti. Si recò e vinse in Castrogiovanni, indi si volse a Naro, etc.»
II Picone aggiunge in nota: «A Luca Formoso fu confiscato il castello di Canicattì. » Ma quale che sia il fondamento storico della leggenda, già tanto vaga, ora esso è del tutto obbliato uella coscienza del popolo.
2. S. Benedetto e Antonio di Blasi Testalonga
II famoso bandito tentava di entrare nella chiesa dei SS. Filippo e Giacomo per penetrare nell' attigua ricca badia delle monache benedettine. Atterrata una porta laterale, che si vede ancora, ma murata, vide pararglisi innanzi un vecchio venerando dalla lunga barba bianca, il quale col pastorale gli vietava l'ingresso: era San Benedetto, e la badia fu salva.
3. La fontana di S. Diego
Dalla Spagna portavano a Caltanissetta una statua di San Diego d'Alcalà su un carro tirato da buoi. Giungendo a lu strittu di Naru, gli uomini si fermarono un poco, vinti dalla stanchezza e dal caldo, sudati come pulcini. Cercavano ansiosamente, ma indarno, un po' d' acqua per dissetarsi e alla fine S. Diego fece zampillare ai suoi piedi un galofaru d'acqua limpida e fresca; e la fontana c' è ancora a lu strittu.
Poi fu ripreso il cammino verso Caltanissetta; ma giunti che furono a Canicattì, dinanzi la chiesa di S. Sebastiano, il quale è il patrono del paese, i buoi non vollero più procedere, innanzi e non ci fu forza umana che valesse a smuoverli. Il santo voleva essere eletto protettore di Canicattì, e così fu fatto. (1) Egli è poi fratello di S. Rocco di Butera e di S. Calogero di Naro, secondo lu mmurtu:
San Caloiaru di Naru,
Santu Roccu di Butera,
Santu Decu di Caniattì
Sunnu frati tutti tri.
4. La statua dell' Immacolata
Questa statua è di legno, ma nnurata d' oru zicchinu. E' veramente bellissima e narra il popolo che il frate che la modellò, quando ne ebbe compito il corpo non riuscì più a effigiarne il volto. Passarono mesi e mesi, il priore s'adirava, il popolo mormorava contro il frate. Una mattina egli, fatta la comunione, pregava fervorosamente e nella preghiera cadde in estasi Sì levò e, in estasi sempre, modellò il volto bellissimo, che si disse fatto anche dagli angeli. Ma — continua la leggenda — era stata la Madonna che era apparsa all' umile frate artista, e si era fatta ritrarre e ne aveva guidate nel lavoro le mani.
5. La Madonna di li Urfi
«Un contadino arava coi buoi in contrada Gulfl, presso la fontana del Paradiso. Ad un tratto i buoi, inginocchiatisi, rifiutarono di andare avanti, indicando la roccia. Il contadino, avvertito così della presenza di qualche cosa di sacro, scavando nella roccia con 1'aiuto di alcuni suoi compagni, trovò una grotta con un'immagine della Madonna delle Grazie dipinta sul sasso. La grotta fu trasformata in chiesetta ed ogni anno vi si celebra una festa campestre, in settembre.» Così ho narrato nel Dizionario dei Comuni Siciliani del Nicotra e mi permetto di ricordare fra altro — per la visione integrale di queste leggende di Gulfi — la bella monografia dell' avv. Espartero - Bellabarba, intitolata: Le statue bizantine di Chiaramente Gulfi.
6. Le armi del conte Ruggiero
Ogni anno, per la festa dell' Immacolata (domenica in albis) lo Sqaatrone della Real Maestranza recava nella processione della mattina le armi del conte Ruggiero. Il chiar. prof, De Martino dice che queste armi furono tolte dal conte agli arabi.
Per essere più esatti, la leggenda narra che nei pressi di Ravanusa, all'assedio di Monte Saraceno, il Conte Ruggiero, per riuscire vittorioso della giornata che volgeva al tramonto, pregò con intenso fervore 1'Immacolata, che è nella chiesa di S. Francesco a Canicattì, perché fermasse il sole. Ottenuto il miracolo, il conte ruiscì vincitore, e, trofeo di gloria, le armi dei vinti furon portate su un carro di buoi a Canicattì, sacre alla Madonna ed esposte nel Castello.
Nel 1827 Leonardo Safonte Lumia, sindaco del paese, per non pagare la piccola somma della manutenzione, regalava a S. M. Borbonica l'armeria del Castello, descritta dall'Amico nel Lessico topografico. Dal museo di Capodimonte le armi passarono poi all'Armeria Nazionale di Torino.
7. Lu trisoru di Troia
Questo tesoro non si sa dove sia. Per riscattarlo — dice il popolo — bisogna trovare sette lanni di assoliu (petrolio) ittatti munnu munnu. La prima è pedi Carlinu, località a sud-est di Canicattì, sullo stradale che porta a Campobello. Sopra ogni cassa di latta è stampata una troia ed una lettera: tutte e sette formano un nome che indica il luogo dove il tesoro è nascosto.
8. Lu trisoru di la serra di Puleri
E questa una collina a nord-est di Canicattì, rocciosa, cuneiforme, solitaria: dentro v' è nascosto un gran tesoro. Per disincantarlo bisogna salire, con la bocca piena d' acqua di li cannuledda (fontana su quel limite del paese) senza disperderne una sola goccia. Sulla vetta della serra v' ha un fosso ed ivi si getta il boccone d'acqua. La roccia viva si spacca e il tesoro resta scoperto.
9. Lu trisoru di li Pizza di Giummeddu
A cavaliere d'una lunga serie di colline, a mezzogiorno del paese, sorgono due enormi rocce dentate, dette Pizza di Giummeddu. Giummeddu vuoi dire piccolo fiocco (giummo), o può forse derivare dal francese jumelles - gemelle, essendo le due rocce quasi eguali. Oggi però, Giummeddu ha spesso senso di nome proprio, benché nulla si dica di questo personaggio.
Un gigante, Manu di ferru, vinse sotto la montagna una grande battaglia, non saprei dire contro chi. Con un pugno ruppe in due la roccia e sutta li pizza chiuse le armature nemiche e il suo tesoro.
Per disincantar questo bisogna mettere insieme cientu cantàra di spogli di cipuddi. Quando s' è preso un innocente e lo si è scannato, a mezzanotte 'ntra la pizza, Manu di ferru esce. Presa una bilancia enorme comincia a pesare ddi spogli di cipudda, e comanda a tutti i venti che infuriino terribili. Se neanche una spoglia vola, la bilancia cade, li pizza si truzzanu forti tra loro frantumandosi, e il tesoro è disincantato.
10. Vitu Sullanu
Questa leggenda fa per la prima volta accuratamente raccolta e pubblicata dal prof. Mattìa de Martino, premessavi una breve e dotta nota storica su Motyum e 1' identificazione di questo col feudo di Vitusullanu.(1) Mi permetto di ripubblicarla in grazia di nuove aggiunte che, credo, la completano e migliorano.
E' questa la leggenda canicattinese più organica e più bella che io conosca.
(1) VITUSULLANU nella storia e nelle credenze popolari Canicattinesi, Archivio, vol. IX, pp. 208-216, Palermo, 1890.
Nel feudo che si chiamò poi di Vitu-Sullanu regnava una volta con leggi crudeli un re saraceno, Vito Soldano, il quale condannava i suoi sudditi a morire entro un vitello di bronzo. Il ricordo di Falaride mi pare evidente. Questa sorte toccò ad una fanciulla ed il vecchio padre per avere giustizia ricorse in Francia a re Carlo Magno. In quella corte il vecchio fu battezzato e preso il nome di Fortunato, guidò Orlando paladino contro Vitu-Sullanu. Viaggiarono e viaggiarono giorni e giorni e infine ristettero assetati in una pianura; ma, per un miracolo, videro spuntare fra i loro piedi un ceppo di fico ed Orlando lo tagliò con la spada e ne venne fuori una polla freschissima d'acqua. Orlando chiamò la pianura Rivinuta, onde poi Rivinusa, (Ravanusa). (1)
Guidati da Fortunato, Orlando e 1' armata si avviano verso il feudo di Vitu-Sullanu. Stanchi, non volendo superare una montagna che ancora ne li divideva, Orlando trasse la spada e vi aprì un varco. Quella terra si chiamò la purtedda d'Orlannu.
Faccio osservare che questa località è a nord-ovest del feudo di Vitusullanu, mentre Ravanusa resta diametralmente a sud-est di esso; e mi permetto di ricordare col chiar.mo prof. Di Martino la nota del D'Ancona comunicata alla R. Accademia dei Lincei su le tradizioni carolingie in Italia, (2) per ciò che si riferisce alle localizzazioni della leggenda d' Orlando.
Intanto nel campo del re saraceno un mago predicava la venuta di Orlando e la prossima strage. E il domani Orlando comincia la battaglia, terribile, atroce (stragi di li Saracini). Re Sullanu spariva nelle profondità d'una grotta per non comparire più mai, i saraceni nello scompiglio si seppellivano vivi. Non tutti però, che aggiunge il popolo, inesauribili schiere d'armati saraceni sbucavano fresche, senza mai fine, dalle grotte sotterranee, e già annottava ed era incerto 1' esito della giornata.
Orlando — come nella leggenda dianzi narrata delle armi del Conte Ruggiero - chiese allora alla Vergine che il sole restasse solo mezz' ora sull' orizzonte, e vinse. Una notte intera ed un giorno il fiume corse rosso di sangue, e la valle, per la gran carneficina, si chiama anche oggi Carnara.
Di lì, Orlando passò a Naro uccidendo tutti quei saraceni che non si volevano rendere cristiani, e tra questi quel re Fluri. Dopo tre giorni incontrarono una donna che pasceva gran quantità di pecore: Orlando la diè in isposa a Fortunato e lo nominò re di tuttu lu statu di Vitusullanu.
Ricordo che Ruggiero, con privilegio dato in Girgenti 1 Marzo 1087 dona tutti i beni posseduti dall' emiro Melciabile Mulè, signore di Canicattì e Ravanusa, al cugino Salvatore Palmeri, che lo aveva snidato ed ucciso. (3)
Indi in un altro feudo a sud-est di Canicattì, a Firlazzanu, Orlando sconfigge altri saraceni, fa battezzare i vinti e per la via infine di Trapani si riduce a Parigi.
(1) Cfr. Dott. F. LAURICELLA, Ricerche storiche su Ravanusa. (2) Roma, Tip. dei Lincei, 1889, passim. (3) Ex libris privilegiorum existentibus poenes acta U. C. Spectabillum Juratorum huius fulgentissimae civitatis Nari extracta est.
I tesori di Vitusullanu fan venire l'acquolina in bocca al popolo, ne svegliano la fantasia e la cupidigia. Un contadino andò una volta a far visita a lu gran Turcu e questi gli chiese se fosse stato disincantato lu munimientu di Vitusullanu. No!—gli risponde quello; ed il Gran Turco: - Sicilia povera!
Sul poggio di Vitusullanu ogni sette anni, dalla mezzanotte alle sei ore del mattino, si svolge una fiera meravigliosa. Animali grossi e piccini, greggi intere, galline, conigli, oche, uccelli rarissimi e stoffe d'Oriente, aratri e strumenti diversissimi, di legno, di ferro mai visti, stoviglie e quanto può occorrere in una casa, frutti e formaggi: ogni ben di Dio insomma. Ma non si sa con precisione quando avvenga. Un giorno, sull' imbrunire, a un villano che pasceva i buoi del barone Adamo, fuggì una vacca. Egli l'inseguì e corren-do di luogo in luogo si ridusse in una gran pianura, dov' era una fiera grandissima. Si vendevano arance e li jardinara a gran voce lo invitavano a comprarne; ma il povero contadino non aveva che un granuzzu sulu e con questo comperò tre arance Dopo un'ora tutto era sparito per incanto e il povero sciocco si trovò tutto solo nella pianura. Le tre arance erano tutte oro fino, ma egli che non ne aveva visti mai così, tornato in paese, raccontò tutto al padrone che se le fece dare regalandogli solo due onze. Il guaio è che s'ignora quando cada la fiera, benché, per altro, per disincantare il tesoro occorra lu sangu di setti 'nnuccenti.
Si potrebbe, per sapere la data, andare quattordici anni di seguito a mezzanotte, per la festa di San Diego (ultima domenica di Agosto), soli, senza mai voltarsi indietro, a Vitusullanu. L'ultima notte il Gran Turco fa trovare la fiera e se si dice: cu stu ranu mi accattu tutta sta fera, per incanto tutto diventa d'oro, cadono nei profondi d'inferno gli spiriti che vi stanno a guardia, e il tesoro è disincantato.
Altro mezzo sarebbe che tre fratelli a cavaddu a 'nna tridenti andassero all'insaputa di tutti, sulla mezzanotte, alla grotta e girassero lì senza fiatare intorno alla caverna, nel buio. I saraceni urleranno come dannati e poi con una spada tagliente daranno la morte ad uno dei fratelli, intanto che gli altri non muoveranno un lamento, si mostreranno anzi contenti. Così i superstiti potranno godere i tesori.
Ma sinora nessuno è riuscito. Ora per l'inavvedutezza di chi non ha obbedito ai comandi degli spiriti e non è andato solo, onde trovava un callaruni chinu di scorci di vavaluci; ora la paura ha fatto retrocedere at-territo l'audace; ora esso è morto nelle profondità della grotta; ora è riuscito appena a trovare la via del ritorno per narrare l'agghiacciante suono delle catene che ivi si ode, la furia diabolica del vento che spegne tutte le torce, la visione macabra degli spiriti nani, cu li birritteddi russi 'ntesta, accovacciati su botti piene d'oro.
Una volta due fratelli, attrattivi dagli spiriti, entrarono nella grotta di Vitusullanu. Entrarono fino alla terza stanza (le stanze sono sette) e videro prima due giganti con in mano mazze di ferro e sotto i piedi, gettato a profusione, ammonticchiato 1'oro, e poi un cavaliere a cavallo, tutto di bronzo, armato tutto, con la visiera abbassata. Atterriti rinculano, escono e ritornano al paese febbricitanti; dopo tre giorni morirono.
Ho vista la grotta. E' bassa, piccola, non ha nulla di caratteristico: si appartiene ora al Sig. Niccolo Lombardo, che 1'ha adibita per stalla. Il contadino che m'accompagnava, mi indicò in un angolo un gran buco murato, d' onde s' accedeva più addentro nella grotta.
C'era una volta, — mi narrò un altro contadino — una signora bella come il sole, ma vanitosissima. Essa andò un giorno dal Gran Turco a chiedere un diamante per la sua gulera. Quegli comandò ad un saraceno che andasse subito a prendere, dalla cuna ove dormiva, un bimbetto della donna, e come 1' ebbe — fu in un attimo — lo toccò con la sua verga incantata e il tenerello divenne di smeraldo, perle i dentuzzi, turchesi gli occhi, le labbra di corallo ed i capelli d'oro fino di Francia. Con una catena d'oro lo appese sul petto alla madre che era svenuta e che non potè più mai uscire dalla grotta. Ed è sempre là, col figliuoletto fatto pietra preziosa appeso al collo, fuori di sé dal dolore, e il Gran Turco la dileggia senza cessa: — piangi la tua vanità!
C. A. Sacheli, "Linee di di folklore canicattinese", Acireale, Tipografia popolare, 1914
[E', questa di Agostino, una lettera interamente dedicata alla preghiera cristiana. Mons. Ficarra la tradusse e commentò ad aprire una serie di opuscoli agostiniani che in collaborazione col suo concittadino ed amico C. A. Sacheli, aveva intenzione di pubblicare. Ma l'iniziativa non andò al di là del primo opuscolo, quasi certamente per intervento delle più vicine autorità ecclesiastiche. L'amicizia e la collaborazione con Sacheli, allora professore di filosofia al liceo di Girgenti, non poteva essere vista senza sospetto, forse addirittura con scandalo: che entrambi di Canicattì e colleghi di insegnamento tenessero un rapporto di amicizia, si poteva anche ammettere, ma che insieme lavorassero su sant'Agostino, era un po' troppo. (Sacheli lo ebbi come professore di padagogia al magistero di Messina, dal '43 in poi. Il solo che non avesse estrosità e furori da professore universitario, come allora si usava. Sereno, attento, meticoloso. Non ho mai saputo - e sì che ho i suoi libri, i suopi opuscoli, le sue lettere a monsignor Ficarra - in quali nomi si scioglessero le iniziali C. A.)"] in Dalle parti degli infedeli di Leonatdo Sciascia.