Una frase presa in prestito dal romanzo
di Ernest Hemingway «Per chi suona la
campana», ma che lui ormai sentiva come
sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle
sorelle e ai compagni del partito e del
sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabelloti
mafiosi lo minacciavano o gli facevano
arrivare l.invito a farsi i fatti propri.
In quei primi anni del secondo dopoguerra,
Miraglia era dirigente del Partito
comunista e segretario della Camera del
lavoro di Sciacca. Si era messo in testa di
far applicare anche nel suo paese i decreti
Gullo sulla concessione alle cooperative
contadine delle terre incolte o malcoltivate.
E il 5 novembre 1945 aveva costituito
la «Madre Terra», una cooperativa di
centinaia di braccianti e contadini poveri,
alla quale fece assegnare diversi ettari
di buona terra. Un gravissimo affronto
alla "sacra" proprietà privata, che, giorno
dopo giorno, faceva imbestialire i latifondisti
e i gabelloti mafiosi, che decisero
di fargliela pagare.
Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza
di sera, Accursio Miraglia era appena
uscito dai locali della sezione comunista
per tornare a casa. A "scortarlo" c.erano
quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino
La Monica, Tommaso Aquilino e
Silvestro Interrante. Percorsero un tratto
di strada insieme, poi Interrante e Caracappa
si staccarono dal gruppo per far
rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due,
invece, accompagnarono il dirigente contadino
fino a 30-40 metri da casa sua, lo
salutarono e ritornarono indietro. Ma
passarono solo pochi secondi e il silenzio
fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono
subito che i colpi erano diretti
contro Miraglia. La Monica «ritornò indietro
e vide un giovane, piuttosto esile,
di media statura, con cappotto e berretto,
che impugnava un.arma da fuoco lunga,
dalla quale fece partire un.altra raffica
di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla
strada, sotto una lampada accesa dell
.illuminazione pubblica, e, dopo aver
sparato, si allontanò di corsa verso l.uscita
del paese. La stessa scena fu vista da
Aquilino», scrive Umberto Ursetta, nel
volume «Nelle foibe della mafia. Accursio
Miraglia e Placido Rizzotto, sindacalisti»,
che uscirà a giorni come supplemento de
"L.Unità". Probabilmente, insieme a questi
due uomini ce n.era un altro, che si allontan
ò di corsa dopo gli spari.
Miraglia morì riverso sulla porta della
propria abitazione, tra le braccia della
giovane moglie russa, Tatiana Klimenko.
Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino.
Poco dopo, arrivarono anche quattro
carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni,
Accursio Miraglia morì "in piedi", perché
non si era voluto piegare alla mafia e agli
agrari, perché non volle tradire i suoi
contadini. E questo lo capirono bene a
Sciacca, dove il dirigente sindacale era
benvoluto ed amato dagli onesti. Non
era il primo omicidio di mafia. Prima di
lui, erano già caduti tanti altri capilega. Il
delitto Miraglia, però, fece tanto scalpore
in Sicilia e nell.intero Paese. A Sciacca
arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici
della sinistra, a cominciare dal segretario
regionale del Pci Girolamo Li
Causi e dal sottosegretario alla giustizia
Giuseppe Montalbano. Il funerale non
poté tenersi prima di sei giorni, perché
erano tanti i cittadini che volevano tributargli
l.ultimo saluto. La bara col corpo
di Miraglia rimase scoperta tre giorni all
.ospedale civico e tre giorni nel salone
della Camera del lavoro. Infine, l.11 gennaio
si svolsero i funerali, a cui partecip
ò l.intera popolazione. I preti non vollero
che Miraglia fosse portato in chiesa,
perché era un morto ammazzato e per
giunta comunista. Ma le esequie civili
furono lo stesso solenni ed imponenti. In
Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per
dieci minuti. In Italia, per cinque. In tutte
le fabbriche suonarono le sirene. Dalla
Camera del lavoro al cimitero, la bara
fu portata a spalla dai contadini. Era una
giornata d.inverno, fredda ed uggiosa,
ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre
arrivò davanti al portone d.ingresso
del cimitero, cadde qualche goccia di
pioggia, che bagnò la bara. «Un ti vosiru
benidiciri l.omini, ma ti binidiciu Diu»,
esclamò un anziano contadino.
Dietro l.assassinio la longa manus della Cia?
(d.p.) Non c.é dubbio che l.assassinio di Accursio Miraglia, avvenuto quando
ancora l.Italia era governata da una coalizione di unità nazionale, che
comprendeva tutti i partiti antifascisti, fu voluto dalla mafia e dagli agrari.
Come non ci sono dubbi che questi godevano della protezione di "pezzi" della
politica e delle istituzioni statali. Il figlio Nicola, però, sulla base delle ricerche
storiche di Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, è convinto che possa
esserci stata anche la complicità della CIA americana, come per Portella delle
Ginestre: «Probabilmente . dice . un vero processo giudiziario sarà impossibile
riaprirlo, ma ad un processo storico non voglio rinunciare». E proprio a questa
ipotesi sta lavorando con la fondazione intestata al padre.
In alto due vedute di Sciacca e, al centro, Nico Miraglia, il figlio del
sindacalista ucciso il 4 gennaio del 1947. Nico, con la Fondazione
intestata al padre, spera in una revisione storica del processo
Al centro una foto di Accursio Miraglia, con su scritta la frase di
Hemingway che lui ripeteva a chi si preoccupava della sua
incolumità: «Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio»
Il sindacalista
paladino dei contadini
di Sciacca fu ucciso il
4 gennaio del 1947
A quanti temevano
per lui diceva: «Meglio
morire in piedi che
vivere in ginocchio»
(d.p.) «Mio padre era ricco, ma
lasciò la sua famiglia povera .
dice oggi Nico Miraglia, figlio
del dirigente sindacale
assassinato . per lui i soldi
avevano un valore, perché gli
consentivano di fare opere di
bene. Mia madre mi
raccontava che
all.orfanotrofio dei marinai,
gestito da padre Arena,
donava mille lire per ogni
orfano ricoverato, mentre al
convento del .Boccone del
povero. ogni giorno faceva
avere il pesce ed altri generi di
prima necessità». Ma, grazie al
.grande cuore. di Sciacca, la
vedova e i suoi 3 figli (oltre a
Nico, Maria Rosa e Nemesi)
tirarono avanti. «A mia madre,
che non capiva niente di
gestione dell.industria del
pesce e che non parlava bene
l.italiano, per un anno intero .
racconta ancora Nico . i
pescatori vendettero a prezzo
equo il migliore pesce. E i
dipendenti lavorarono con
molta abnegazione per
rilanciarne l.attività».
Come mai Accursio Miraglia
sposò una donna russa? «Mia
madre . spiega Nico . era
figlia del cugino dello Zar di
Russia, costretta ad andare in
esilio dopo la rivoluzione
d.Ottobre, all.età di 12 anni.
Per alcuni anni lavorò in una
compagnia di rivista. Negli
anni .30 capitò a al teatro
Massimo di Palermo, dove fu
contattata da mio padre per
degli spettacoli a Sciacca. Poi
scattò l.amore e mamma
Tatiana rimase per sempre con
papà Accursio». Una bella
storia tra la nobile russa e il
comunista anarchico. Si,
perché in gioventù Accursio
Miraglia era stato un
anarchico. Questa passione
politica scattò a Milano, dove
era stato mandato a dirigere il
servizio cambi del Credito
Italiano. Fece parte del gruppo
anarchico di Porta Ticinese.
Dopo qualche mese, però, la
banca lo licenziò per
«incompatibilità politica» e il
ragioniere Miraglia tornò a
Sciacca. Dopo la liberazione,
fondò con altri la sezione
comunista e la Camera del
lavoro, di cui divenne
segretario. Si mise alla testa
del movimento contadino,
costituendo la cooperativa
«Madre Terra», organizzando
nel settembre del .46 la
famosa «cavalcata», una
imponente sfilata di contadini
a cavallo chiusa da un comizio.
Il figlio Nico
Documenti C
M
Y
N
Palermo .31
DOMENICA 24 APRILE 2005 LA SICILIA
GIROLAMO LI CAUSI
Lo scandalo del processo: tutti assolti
LA STORIA. Tra «aggiustamenti», colpi di scena e ritrattazioni alla fine nessuno risultò colpevole
Oltre ad essere un dirigente politico e sindacale
della sinistra, Accursio Miraglia era anche direttore
dell.Ospedale civico di Sciacca, proprietario
di una piccola industria del pesce, amministratore
di una fornace per la produzione di laterizi e
direttore del teatro "Rossi". Un personaggio pubblico
di rilievo, dunque, la cui tragica fine non poteva
passare sotto silenzio. A condurre le indagini
sul delitto fu la polizia, che fermò un certo Calogero
Curreri, indicato da La Monica e Caracappa
(i due militanti comunisti che la sera del 4
gennaio 1947 avevano accompagnato Miraglia)
come facente parte del commando omicida. Altri
testimoni (tra cui la moglie di Miraglia e le sorelle
Brigida ed Eloisa) indicarono nel proprietario
terriero, cavaliere Rossi, e nel suo gabelloto Carmelo
Di Stefano, alcuni dei possibili mandanti
dell.assassinio. In appena nove giorni di indagini,
gli inquirenti, quindi, si convinsero delle responsabilit
à di Rossi, Di Stefano e Curreri, che furono
formalmente accusati dell.omicidio, individuandone
la causale «nel contrasto, anzi nell.odio,
che il Rossi ed i suoi familiari nutrivano verso il
Miraglia» per essersi battuto a favore dei contadini.
Rossi e Curreri vennero arrestati e condotti
nel carcere di Sciacca, mentre non si poté arrestare
il Di Stefano perché ricoverato nell.ospedale
di Sciacca. Qualche giorno dopo, fu l.ispettore
di pubblica sicurezza Messana a far tradurre il cavalier
Rossi dal carcere saccense a quello di Palermo.
Durante il viaggio, però, il detenuto accus
ò un improvviso malore e fu fatto sostare nel famigerato
ospedale di Corleone, diretto dal capomafia
del luogo Michele Navarra. Qui, il dott.
Dell.Aria gli rilasciò un certificato, dove dichiarava
che il Rossi «era affetto da enterorraggia in
atto». Una patologia sospetta, ma "provvidenziale",
che ne consigliò il ricovero nella clinica
Orestano di Palermo, evitandogli così l.onta del
carcere. Ma i colpi di scena non finiscono qui.
Giorni dopo, la polizia trasmise alla Procura della
Repubblica di Palermo le "carte" dell.inchiesta,
che in pochi giorni ordinò la scarcerazione degli
imputati per mancanza di elementi concreti di
colpevolezza. «In effetti, gli indizi raccolti a loro
carico appaiono molto fragili e di difficile tenuta
in sede processuale», osserva Umberto Ursetta.
Aggiunge, però, che fu forte il sospetto che l.ispettore
Messana ebbe troppa fretta di chiudere
l.indagine, presentando «denuncia contro alcuni
individui sospetti, non sostenuta da alcuna prova,
allo scopo di farli subito scarcerare e lasciare
quindi il delitto impunito». La decisione della
Procura di Palermo suscitò molte proteste. L.on.
Li Causi e l.on. Montalbano presentarono un.interrogazione
parlamentare, chiedendo che le indagini
fossero rifatte in maniera approfondita. E
qui un nuovo colpo di scena. La polizia e i carabinieri
arrestarono nuovamente Calogero Curreri,
ma stavolta insieme a Pellegrino Marciante e
Bartolo Oliva. I primi due, interrogati dagli inquirenti,
confessarono il delitto ed indicarono
quali mandanti il cavalier Rossi, il cavalier Pasciuta,
il cavaliere Vella e il gabelloto Carmelo Di
Stefano. Caso risolto, dunque? Nemmeno per sogno.
Davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e
Marciante ritrattarono le loro confessioni, accusando
le forze dell.ordine di averle estorte con
violenze inenarrabili. Il giudice, quindi, prosciolse
tutti per non aver commesso il fatto, denunciando
per torture e sevizie il commissario Giuseppe
Zingone, il maresciallo dei CC Gioacchino
Gagliano e il brigadiere Salvatore Citrano, il maresciallo
di P.S. Angelo Causarano e gli agenti di
P.S. Vincenzo La Greca e Ernesto Moretto. Incredibilmente,
però, anche il procedimento penale
contro i "torturatori", avviato dalla Procura di
Agrigento, si concluse col loro pieno proscioglimento.
Ma, se non ci furono violenze, gli imputati
dell.assassinio non avrebbero dovuto essere assolti.
E, nel dubbio, s.imponeva almeno la riapertura
delle indagini. Invece niente. Solo un
colpevole silenzio, che dura fino ad oggi.
D.P.
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