C. A. Sacheli - "Linee di di folklore canicattinese"
L'origine di Canicattì nella tradizione.
Il popolo di Canicatti non ha, ch'io mi sappia, una propria e definita leggenda sull'origine della sua città. Fluttua nell'interpretazione del nome, associandovi fievoli reminiscenze storiche, che può 1'indagine rivelare più o meno esatte, s' affida a localizzazioni indubbiamente erronee, più spesso si abbandona al motteggio.
Una prima tradizione afferma recisamente che ove sorge oggi il paese sia stato lu feu di la ficu, del quale più nulla altro ricorda, mentre il paese era posto a Casalotti, a nord-est di Canicatti, località di non dubbia importanza archeologica, tutta sparsa di antiche vestigia di case, di frantumi di rossi mattoni, fertile di storie e di truvatura. Ma, continua la tradizione, Casalotti era esposto a tramontana, onde gli abitanti chiesero ai posessori del feu di la ficu, che erano gli eredi di li Vurdunara (Bordonaro), di venire ad abitare nel feudo. L' ottennero; e posero sede sulla collina oggi detta la Vutti (denominazione piuttosto recente, che ricorda, opino, una stazione di segnalazione telegrafiche a fuoco), o, secondo altri vorrebbe meglio specifica- re, dove si vedono ancora li casalina di la Ciacià. A poco a poco si estesero sulle alture (pizza), onde si dissero Pizzàri; ma in prosiego di tempo scesero nella valle, lungo un torrente (che va a formare poi il fiume Naro) dove erano molti canneti ed aria malsana, così che gli abitanti - continua narrando il popolo - se richiesti ove abitassero, rispondevano; a li canni cattivi. Ricordo che storici e geografi antichi non scrivono Canicattì, ma Cannicattì. In una seconda versione tradizionale lu feu di la ficu viene localizzato, o almeno la massaria di esso, sulla collina ove ora sorge il palazzo del Signor Gioacchino La Lomia e la chiesa di S. Barbara. Il feudo era tenuto o infestato da ladri o da saraceni che vi seminavano il terrore e nessuno quindi ardiva venire a lavorare nelle contrade vicine. Ma il feudatario - Lu principi di la ficu - fece bandire che chiunque fosse venuto a lavorare nel feudo, avrebbe avuto in compenso mezza salma di terra e sicurezza della persona. Cosi si andò formando un primo nucleo di case, attorno all'antica Madrice, che era posta, parrebbe, sotto 1'attuale chiesa di S. Barbara.
Altra tradizione si desume da una frase d'una fiaba locale intitolata Caiu Caianu. L' azione della fiaba rimonta al tempo in cui lu paisi si chiamava Cattì. Però attorno a questo nome il popolo non serba più altro ricordo, benché questa panni la tradizione più significativa, potendo avvicinare agevolmente il Cattì all'arabo Kattà, che 1' Amari, sulle indicazioni dell' Edrisi, identifica con Canicattì.
Diffusissimo è poi un motteggio popolare che attribuisce 1'origine del nome del paese all' indole degli abitanti, che chiama cani e gatti. Giovi intanto notare la non infrequente denominazione, anche da parte di storici e geografi, accanto a Canicattì e a Cannicattì, anche di Canigattì (il popolo dice sempre Caniattì).
Quando sia nato il motteggio non so; ma è verisimile sia dovuto a lotte paesane in tempi più o meno recenti, se pur non lo si debba senz' altro a quelli di Naro, come mi diceva un contadino. Nella storia lunga delle competizioni comunali, Naro e Canicattì han cumulato mal celati rancori, e buon numero di motteggi e sirfi ingiuriose; Caniattinisi - cani e. gatti; Narisi - scorcia 'mpisi, - ca di li peddi - nni fannu cammisi. Ancora: Narisi - unu ogni 'mpaisi; s' un ci nn' è - miegliu è.
Ma con buona pace di ognuno, il popolo di Canicattì finisce anche con l'affermare d' esser venuto da quelli di Naro e da quelli di Delia. Difatti esso narra: «Triccent' anni prima fu fattu Naru, ducientu Dielia, e nu' siemu diliani e narisi.» Come ciò ? Forse, astraendo dalle indicazioni cronologiche, dalle quali difficilmente si potrebbe cavare un senso, la tradizione conserva la memoria d'un tempo in cui Canicattì dovette essere una semplice stazione di passaggio e di fermata dei vivi rapporti tra Naro e Caltanissetta, città entrambe, nel periodo arabo, fiorenti.
Petrappàulo
Nella piazza maggiore di Canicattì, addossata in parte alla chiesa del Purgatorio, è un'antica fontana, ormai priva d'acqua, che il popolo chiamò, dalla figura maggiore di essa, Petrappàulo. Dalla fontana è stato tratto lo stemma del paese, e quella figura è tanto cara ai canicattinesi, se pur talora ne ridono e ne motteggiano.
La fontana è opera certo del 1600, dovuta a Giacomo I Bonanno, signore di Canicattì. L'autore dell'Antica Siracusa Illustrata morto nel 1636 dovette essere un'anima d'artista, e quando i frequenti viaggi per l'Europa, le sue relazioni con eminenti prelati ed uomini politici contemporanei e gli studi di storia d'arte gli concedevano un ozio qualsiasi, rivolgeva 1'animo a beneficare e migliorare Canicattì, che doveva essere allora assai rozzo e selvaggio.
Le tre maggiori fontane del paese (Acqua nuova, Brualinu, Petrappàulo) che lo dissetarono fino a un ventennio fa, sono opera di Giacomo Bonanno; e se si riflette che due di esse sono poste nella parte più bassa dell' abitato si comprende agevolmente il pensiero geniale che volle il paese s' estendesse nel piano, ragione precipua del suo progresso. La piazza difatti non sorse se non dopo la costruzione della fontana, a piedi del castello dei Bonanno, ormai diruto, ma fino a un ventennio fa integro quasi.
Una ricostruzione ideale della fontana non riuscirebbe difficile se un muro della chiesa del Purgatorio, che lo ha tanto deturpato, e lo stato miserando in cui si trova oggi il monumento, non lo vietassero.
La figura principale che versava 1'acqua dalla conchiglia marina e che passò presso i dotti come un Nettuno, tutto nudo, sdraiato mollemente, regge il capo fluente in lunga barba sulla destra. La Fama alata emerge dall'alto (il popolo la chiama 1'angilu) e ai lati stanno due cariatidi, nude fino all'ombellico, che rappresentano forse due tipi tradizionali di contadini paesani.
Il de Burigny, nella Storia generale di Sicilia, dice il tutto di bellissima scoltura, e 1'ab. Amico, nel Lessico topografico, la chiama opera pregevolissima.
A completare la ricostruzione ideale della fontana, bisogna dire che, a piè della Fama alata, due putti sostengono un'iscrizione, dettata, verisimilmente dallo stesso duca Giacomo. Eccola: «Non vaga plus resonat / tamen hinc in marmore sistens / conticuit fama est / nam lapis ipse loqnax.»
Questo era il pensiero del munificentissimo duca.
La fama di lui corsa, pel bene fatto al paese, non era più vaga oramai, incerta, ma quasi si era concretizzata nelle fontane di che egli aveva fatto dono al paese — dono pei tempi e le condizioni locali certo rilevantissimo — e di lì benché pietra narrava di lui. E di Giacomo Bonanno veramente fu duraturo il ricordo presso il popolo che di cosa assai antica e assai bella dice, non senza talvolta anche una sottile ironia: a li tiempi di lu duca Jàbbicu.
Del Nettuno e della fontana il popolo però, a dir vero, ne sa quanto il vecchio che se la ride dall' alto tra la candida barba.
Se si chiede una spiegazione del nome (Petrappàulo) affibbiato al Nettuno, due risposte si ottengono. Una prima tradizione — credo, per altro, formatasi di recente — vuole che il nome gli sia venuto da ciò che due accattoni, Pietro e Paolo, solevan passare le notti nella nicchia ospitale, dietro il Nettuno.
L'altra più caratteristica ed importante spiega: la pietra dapprima parlava (petra-parla). E a me questa seconda spiegazione garba molto e piace.
Già è la lectio difficilior, glottologicamente verisimile, psicologicamente probabilissima. L' ultimo versetto dell' iscrizione: lapis ipse loquax spiegato al popolo non 1'avrà accontentato, ed esso tagliando corto avrà volto 1'antico petra-parla, cui veniva mancando il significato, in petrappàulo, d' onde, posteriormente, la prima lezione. E intanto giusta le esigenze del mito, si compieva la personificazione.
FIABA. TOPONOMASTICA Pizzu - cannila
Un pastore pasceva le sue pecore nel feudo di Grottarossa, ai piedi del monte che si chiamò poi «Pizzu-cannila». Egli era mite, buono e viveva felice pascendo le greggi e suonando il suo friscalittieddu. Una mattina, entrando nella mandria, trovò fra gli agnellotti una bimba bellissima ed avutane compassione la fece allevare dalla moglie e si faceva chiamare papà. Quando essa crebbe, la mandò a pascolare il gregge; ma la povera bimba aveva una gran paura del lupo e quando lo sentiva urlare tremava tutta di spavento. Però una sera, per salvare un agnellino che amava come un fratello, essa affrontò coraggiosamente il lupo e 1'uccise. A mezzanotte salì sul monte sola sola e acceso un enorme falò, bruciò il lupo per disperderne i resti. Il monte pareva una gran candela e certo la bimba era fatata, se i lupi passando di notte per la contrada vedono ancora ardere sulla montagna il gran falò e, sentendo ancora 1' odore della carne arsa del loro simile, fuggono lontano, lasciando in pace lo greggi.
LEGGENDE
1. La torre dell' orologio
La torre dell' orologio sorge sulla collina ove si vedono oggi i ruderi del Castello Bonanno e a pochi passi a mezzogiorno di questo.
Il popolo narra che ivi fu imprigionato e fatto morire di fame un figlio di re; ma non ne sa dire affatto la storia. Qualcuno mi ha suggerito un nome; Majone; altri — e forse con più fondamento — quello di Luca Formoso. Questo signore di Canicattì fu infatti tra i ribellanti all'autorità di Martino V.
«A 2 Agosto 1393 — narra il Picone nella sesta delle sue pregevolissime Memorie storiche agrigentine — poiché il popolo agrigentino si era lanciato sui beni del vescovo Decurtibus e su quelli della Chiesa, Martino V confiscava i beni dei ribelli [e tra questi, come ho detto, era Luca Formoso] e comandava che quel prelato ne fosse fatto indenne. Il conte di Agosta scendeva da Palermo a combattere gli insorti. Si recò e vinse in Castrogiovanni, indi si volse a Naro, etc.»
II Picone aggiunge in nota: «A Luca Formoso fu confiscato il castello di Canicattì. » Ma quale che sia il fondamento storico della leggenda, già tanto vaga, ora esso è del tutto obbliato uella coscienza del popolo.
2. S. Benedetto e Antonio di Blasi Testalonga
II famoso bandito tentava di entrare nella chiesa dei SS. Filippo e Giacomo per penetrare nell' attigua ricca badia delle monache benedettine. Atterrata una porta laterale, che si vede ancora, ma murata, vide pararglisi innanzi un vecchio venerando dalla lunga barba bianca, il quale col pastorale gli vietava l'ingresso: era San Benedetto, e la badia fu salva.
3. La fontana di S. Diego
Dalla Spagna portavano a Caltanissetta una statua di San Diego d'Alcalà su un carro tirato da buoi. Giungendo a lu strittu di Naru, gli uomini si fermarono un poco, vinti dalla stanchezza e dal caldo, sudati come pulcini. Cercavano ansiosamente, ma indarno, un po' d' acqua per dissetarsi e alla fine S. Diego fece zampillare ai suoi piedi un galofaru d'acqua limpida e fresca; e la fontana c' è ancora a lu strittu.
Poi fu ripreso il cammino verso Caltanissetta; ma giunti che furono a Canicattì, dinanzi la chiesa di S. Sebastiano, il quale è il patrono del paese, i buoi non vollero più procedere, innanzi e non ci fu forza umana che valesse a smuoverli. Il santo voleva essere eletto protettore di Canicattì, e così fu fatto. (1) Egli è poi fratello di S. Rocco di Butera e di S. Calogero di Naro, secondo lu mmurtu:
San Caloiaru di Naru,
Santu Roccu di Butera,
Santu Decu di Caniattì
Sunnu frati tutti tri.
4. La statua dell' Immacolata
Questa statua è di legno, ma nnurata d' oru zicchinu. E' veramente bellissima e narra il popolo che il frate che la modellò, quando ne ebbe compito il corpo non riuscì più a effigiarne il volto. Passarono mesi e mesi, il priore s'adirava, il popolo mormorava contro il frate. Una mattina egli, fatta la comunione, pregava fervorosamente e nella preghiera cadde in estasi Sì levò e, in estasi sempre, modellò il volto bellissimo, che si disse fatto anche dagli angeli. Ma — continua la leggenda — era stata la Madonna che era apparsa all' umile frate artista, e si era fatta ritrarre e ne aveva guidate nel lavoro le mani.
5. La Madonna di li Urfi
«Un contadino arava coi buoi in contrada Gulfl, presso la fontana del Paradiso. Ad un tratto i buoi, inginocchiatisi, rifiutarono di andare avanti, indicando la roccia. Il contadino, avvertito così della presenza di qualche cosa di sacro, scavando nella roccia con 1'aiuto di alcuni suoi compagni, trovò una grotta con un'immagine della Madonna delle Grazie dipinta sul sasso. La grotta fu trasformata in chiesetta ed ogni anno vi si celebra una festa campestre, in settembre.» Così ho narrato nel Dizionario dei Comuni Siciliani del Nicotra e mi permetto di ricordare fra altro — per la visione integrale di queste leggende di Gulfi — la bella monografia dell' avv. Espartero - Bellabarba, intitolata: Le statue bizantine di Chiaramente Gulfi.
6. Le armi del conte Ruggiero
Ogni anno, per la festa dell' Immacolata (domenica in albis) lo Sqaatrone della Real Maestranza recava nella processione della mattina le armi del conte Ruggiero. Il chiar. prof, De Martino dice che queste armi furono tolte dal conte agli arabi.
Per essere più esatti, la leggenda narra che nei pressi di Ravanusa, all'assedio di Monte Saraceno, il Conte Ruggiero, per riuscire vittorioso della giornata che volgeva al tramonto, pregò con intenso fervore 1'Immacolata, che è nella chiesa di S. Francesco a Canicattì, perché fermasse il sole. Ottenuto il miracolo, il conte ruiscì vincitore, e, trofeo di gloria, le armi dei vinti furon portate su un carro di buoi a Canicattì, sacre alla Madonna ed esposte nel Castello.
Nel 1827 Leonardo Safonte Lumia, sindaco del paese, per non pagare la piccola somma della manutenzione, regalava a S. M. Borbonica l'armeria del Castello, descritta dall'Amico nel Lessico topografico. Dal museo di Capodimonte le armi passarono poi all'Armeria Nazionale di Torino.
7. Lu trisoru di Troia
Questo tesoro non si sa dove sia. Per riscattarlo — dice il popolo — bisogna trovare sette lanni di assoliu (petrolio) ittatti munnu munnu. La prima è pedi Carlinu, località a sud-est di Canicattì, sullo stradale che porta a Campobello. Sopra ogni cassa di latta è stampata una troia ed una lettera: tutte e sette formano un nome che indica il luogo dove il tesoro è nascosto.
8. Lu trisoru di la serra di Puleri
E questa una collina a nord-est di Canicattì, rocciosa, cuneiforme, solitaria: dentro v' è nascosto un gran tesoro. Per disincantarlo bisogna salire, con la bocca piena d' acqua di li cannuledda (fontana su quel limite del paese) senza disperderne una sola goccia. Sulla vetta della serra v' ha un fosso ed ivi si getta il boccone d'acqua. La roccia viva si spacca e il tesoro resta scoperto.
9. Lu trisoru di li Pizza di Giummeddu
A cavaliere d'una lunga serie di colline, a mezzogiorno del paese, sorgono due enormi rocce dentate, dette Pizza di Giummeddu. Giummeddu vuoi dire piccolo fiocco (giummo), o può forse derivare dal francese jumelles - gemelle, essendo le due rocce quasi eguali. Oggi però, Giummeddu ha spesso senso di nome proprio, benché nulla si dica di questo personaggio.
Un gigante, Manu di ferru, vinse sotto la montagna una grande battaglia, non saprei dire contro chi. Con un pugno ruppe in due la roccia e sutta li pizza chiuse le armature nemiche e il suo tesoro.
Per disincantar questo bisogna mettere insieme cientu cantàra di spogli di cipuddi. Quando s' è preso un innocente e lo si è scannato, a mezzanotte 'ntra la pizza, Manu di ferru esce. Presa una bilancia enorme comincia a pesare ddi spogli di cipudda, e comanda a tutti i venti che infuriino terribili. Se neanche una spoglia vola, la bilancia cade, li pizza si truzzanu forti tra loro frantumandosi, e il tesoro è disincantato.
10. Vitu Sullanu
Questa leggenda fa per la prima volta accuratamente raccolta e pubblicata dal prof. Mattìa de Martino, premessavi una breve e dotta nota storica su Motyum e 1' identificazione di questo col feudo di Vitusullanu.(1) Mi permetto di ripubblicarla in grazia di nuove aggiunte che, credo, la completano e migliorano.
E' questa la leggenda canicattinese più organica e più bella che io conosca.
(1) VITUSULLANU nella storia e nelle credenze popolari Canicattinesi, Archivio, vol. IX, pp. 208-216, Palermo, 1890.
Nel feudo che si chiamò poi di Vitu-Sullanu regnava una volta con leggi crudeli un re saraceno, Vito Soldano, il quale condannava i suoi sudditi a morire entro un vitello di bronzo. Il ricordo di Falaride mi pare evidente. Questa sorte toccò ad una fanciulla ed il vecchio padre per avere giustizia ricorse in Francia a re Carlo Magno. In quella corte il vecchio fu battezzato e preso il nome di Fortunato, guidò Orlando paladino contro Vitu-Sullanu. Viaggiarono e viaggiarono giorni e giorni e infine ristettero assetati in una pianura; ma, per un miracolo, videro spuntare fra i loro piedi un ceppo di fico ed Orlando lo tagliò con la spada e ne venne fuori una polla freschissima d'acqua. Orlando chiamò la pianura Rivinuta, onde poi Rivinusa, (Ravanusa). (1)
Guidati da Fortunato, Orlando e 1' armata si avviano verso il feudo di Vitu-Sullanu. Stanchi, non volendo superare una montagna che ancora ne li divideva, Orlando trasse la spada e vi aprì un varco. Quella terra si chiamò la purtedda d'Orlannu.
Faccio osservare che questa località è a nord-ovest del feudo di Vitusullanu, mentre Ravanusa resta diametralmente a sud-est di esso; e mi permetto di ricordare col chiar.mo prof. Di Martino la nota del D'Ancona comunicata alla R. Accademia dei Lincei su le tradizioni carolingie in Italia, (2) per ciò che si riferisce alle localizzazioni della leggenda d' Orlando.
Intanto nel campo del re saraceno un mago predicava la venuta di Orlando e la prossima strage. E il domani Orlando comincia la battaglia, terribile, atroce (stragi di li Saracini). Re Sullanu spariva nelle profondità d'una grotta per non comparire più mai, i saraceni nello scompiglio si seppellivano vivi. Non tutti però, che aggiunge il popolo, inesauribili schiere d'armati saraceni sbucavano fresche, senza mai fine, dalle grotte sotterranee, e già annottava ed era incerto 1' esito della giornata.
Orlando — come nella leggenda dianzi narrata delle armi del Conte Ruggiero - chiese allora alla Vergine che il sole restasse solo mezz' ora sull' orizzonte, e vinse. Una notte intera ed un giorno il fiume corse rosso di sangue, e la valle, per la gran carneficina, si chiama anche oggi Carnara.
Di lì, Orlando passò a Naro uccidendo tutti quei saraceni che non si volevano rendere cristiani, e tra questi quel re Fluri. Dopo tre giorni incontrarono una donna che pasceva gran quantità di pecore: Orlando la diè in isposa a Fortunato e lo nominò re di tuttu lu statu di Vitusullanu.
Ricordo che Ruggiero, con privilegio dato in Girgenti 1 Marzo 1087 dona tutti i beni posseduti dall' emiro Melciabile Mulè, signore di Canicattì e Ravanusa, al cugino Salvatore Palmeri, che lo aveva snidato ed ucciso. (3)
Indi in un altro feudo a sud-est di Canicattì, a Firlazzanu, Orlando sconfigge altri saraceni, fa battezzare i vinti e per la via infine di Trapani si riduce a Parigi.
(1) Cfr. Dott. F. LAURICELLA, Ricerche storiche su Ravanusa. (2) Roma, Tip. dei Lincei, 1889, passim. (3) Ex libris privilegiorum existentibus poenes acta U. C. Spectabillum Juratorum huius fulgentissimae civitatis Nari extracta est.
I tesori di Vitusullanu fan venire l'acquolina in bocca al popolo, ne svegliano la fantasia e la cupidigia. Un contadino andò una volta a far visita a lu gran Turcu e questi gli chiese se fosse stato disincantato lu munimientu di Vitusullanu. No!—gli risponde quello; ed il Gran Turco: - Sicilia povera!
Sul poggio di Vitusullanu ogni sette anni, dalla mezzanotte alle sei ore del mattino, si svolge una fiera meravigliosa. Animali grossi e piccini, greggi intere, galline, conigli, oche, uccelli rarissimi e stoffe d'Oriente, aratri e strumenti diversissimi, di legno, di ferro mai visti, stoviglie e quanto può occorrere in una casa, frutti e formaggi: ogni ben di Dio insomma. Ma non si sa con precisione quando avvenga. Un giorno, sull' imbrunire, a un villano che pasceva i buoi del barone Adamo, fuggì una vacca. Egli l'inseguì e corren-do di luogo in luogo si ridusse in una gran pianura, dov' era una fiera grandissima. Si vendevano arance e li jardinara a gran voce lo invitavano a comprarne; ma il povero contadino non aveva che un granuzzu sulu e con questo comperò tre arance Dopo un'ora tutto era sparito per incanto e il povero sciocco si trovò tutto solo nella pianura. Le tre arance erano tutte oro fino, ma egli che non ne aveva visti mai così, tornato in paese, raccontò tutto al padrone che se le fece dare regalandogli solo due onze. Il guaio è che s'ignora quando cada la fiera, benché, per altro, per disincantare il tesoro occorra lu sangu di setti 'nnuccenti.
Si potrebbe, per sapere la data, andare quattordici anni di seguito a mezzanotte, per la festa di San Diego (ultima domenica di Agosto), soli, senza mai voltarsi indietro, a Vitusullanu. L'ultima notte il Gran Turco fa trovare la fiera e se si dice: cu stu ranu mi accattu tutta sta fera, per incanto tutto diventa d'oro, cadono nei profondi d'inferno gli spiriti che vi stanno a guardia, e il tesoro è disincantato.
Altro mezzo sarebbe che tre fratelli a cavaddu a 'nna tridenti andassero all'insaputa di tutti, sulla mezzanotte, alla grotta e girassero lì senza fiatare intorno alla caverna, nel buio. I saraceni urleranno come dannati e poi con una spada tagliente daranno la morte ad uno dei fratelli, intanto che gli altri non muoveranno un lamento, si mostreranno anzi contenti. Così i superstiti potranno godere i tesori.
Ma sinora nessuno è riuscito. Ora per l'inavvedutezza di chi non ha obbedito ai comandi degli spiriti e non è andato solo, onde trovava un callaruni chinu di scorci di vavaluci; ora la paura ha fatto retrocedere at-territo l'audace; ora esso è morto nelle profondità della grotta; ora è riuscito appena a trovare la via del ritorno per narrare l'agghiacciante suono delle catene che ivi si ode, la furia diabolica del vento che spegne tutte le torce, la visione macabra degli spiriti nani, cu li birritteddi russi 'ntesta, accovacciati su botti piene d'oro.
Una volta due fratelli, attrattivi dagli spiriti, entrarono nella grotta di Vitusullanu. Entrarono fino alla terza stanza (le stanze sono sette) e videro prima due giganti con in mano mazze di ferro e sotto i piedi, gettato a profusione, ammonticchiato 1'oro, e poi un cavaliere a cavallo, tutto di bronzo, armato tutto, con la visiera abbassata. Atterriti rinculano, escono e ritornano al paese febbricitanti; dopo tre giorni morirono.
Ho vista la grotta. E' bassa, piccola, non ha nulla di caratteristico: si appartiene ora al Sig. Niccolo Lombardo, che 1'ha adibita per stalla. Il contadino che m'accompagnava, mi indicò in un angolo un gran buco murato, d' onde s' accedeva più addentro nella grotta.
C'era una volta, — mi narrò un altro contadino — una signora bella come il sole, ma vanitosissima. Essa andò un giorno dal Gran Turco a chiedere un diamante per la sua gulera. Quegli comandò ad un saraceno che andasse subito a prendere, dalla cuna ove dormiva, un bimbetto della donna, e come 1' ebbe — fu in un attimo — lo toccò con la sua verga incantata e il tenerello divenne di smeraldo, perle i dentuzzi, turchesi gli occhi, le labbra di corallo ed i capelli d'oro fino di Francia. Con una catena d'oro lo appese sul petto alla madre che era svenuta e che non potè più mai uscire dalla grotta. Ed è sempre là, col figliuoletto fatto pietra preziosa appeso al collo, fuori di sé dal dolore, e il Gran Turco la dileggia senza cessa: — piangi la tua vanità!
C. A. Sacheli, "Linee di di folklore canicattinese", Acireale, Tipografia popolare, 1914
[E', questa di Agostino, una lettera interamente dedicata alla preghiera cristiana. Mons. Ficarra la tradusse e commentò ad aprire una serie di opuscoli agostiniani che in collaborazione col suo concittadino ed amico C. A. Sacheli, aveva intenzione di pubblicare. Ma l'iniziativa non andò al di là del primo opuscolo, quasi certamente per intervento delle più vicine autorità ecclesiastiche. L'amicizia e la collaborazione con Sacheli, allora professore di filosofia al liceo di Girgenti, non poteva essere vista senza sospetto, forse addirittura con scandalo: che entrambi di Canicattì e colleghi di insegnamento tenessero un rapporto di amicizia, si poteva anche ammettere, ma che insieme lavorassero su sant'Agostino, era un po' troppo. (Sacheli lo ebbi come professore di padagogia al magistero di Messina, dal '43 in poi. Il solo che non avesse estrosità e furori da professore universitario, come allora si usava. Sereno, attento, meticoloso. Non ho mai saputo - e sì che ho i suoi libri, i suopi opuscoli, le sue lettere a monsignor Ficarra - in quali nomi si scioglessero le iniziali C. A.)"] in Dalle parti degli infedeli di Leonatdo Sciascia.
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