VERSO L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte
tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed
abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto
durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo:
quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a
valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita.
Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e
ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro -
riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in
condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici,
come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a
testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e
pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci
sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni
di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano
preferito ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i
greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi,
modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il
termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono
però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata
dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, quella violenza la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non
subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite
dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice
auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono,
accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano
cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della
famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali
popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti greci di
Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro
popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto
cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi
dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da
quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I
nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per
trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se
non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della
gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti
negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo centro abitato vi fu travolto di riflesso, per
via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito
ad Oriente. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla
Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili
se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che
lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli
che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela
attorno agli anni cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non
resta che avventurarci in malcerte congetture.
In una campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti
scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la
nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962).
Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante
'non liquet' (non risulta) di Filippo
Cluverio. Oggi, liquet (risulta)
l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di
Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò
queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza
considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie
e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e
l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano
di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere
granché diversa da quella della fine dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla
cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una
flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie
terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante
la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria
col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato,
incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo
per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio
del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere
anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la locale società contadina la nebulosa vicenda di
Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo. La sua cacciata da Akragas, per il passaggio
ad un regime democratico, non fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella
riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua
guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola
Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano
ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico,
di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste,
certo, ipotesi, ma ci suonano attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i
siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta
degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine
rurale di quella polis, ne segue
sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno
al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per
Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal
giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di
impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia
punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai
saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare -
il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente
saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette
verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio
demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli
agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le
note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas
cadeva nella mediocrità dell'epikrateia
africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante
sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per
qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica
ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere,
vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la
civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina
- ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri:
i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo
per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta
contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di
Akragas si tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli.
Sempre il Tinebra Martorana
ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una
parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi
senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di
Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu
durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un
libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese
prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne
derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla
greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In
contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia
un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo
Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il
tiranno costruì una città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole
e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile
ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le
porte di Siracusa. Akragas ed il suo
territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue
risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella
zona di influenza di Cartagine e vi restano per quasi un ventennio fino a
quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica
romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura
appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo
di provincia che secondo Cicerone: «prima
docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare».
Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare
popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e
ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi,
le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri
cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono
risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto
dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di
quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti.
Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo,
vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui
successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare. Per i cartaginesi, nel
grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici
ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi
consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei
romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una
vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per
Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella
lontanissima Roma.
IL PERIODO
ROMANO
Finite le guerre puniche, il console
Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono
all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi
della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo
di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua
vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente
grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse
all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel
territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete
romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi
del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da
parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di
grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo
c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota"
(anfora per vino) nel cui manico [«in
manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il
Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale
quell'epigrafe nei suoi ponderosi volumi
(C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo
ad un personaggio di nome FUSCO, del
tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti»
(VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un
Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius
Fuscus Salinator e via di seguito. Ma
una famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto
era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore
dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del
Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a
Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si
evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita
agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano,
trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il
sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere
racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del
secondo secolo d.C., sotto Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si
registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di
zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne
seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme
romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con
scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu
l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento.
All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il
Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti ed il Ministero, che risale al 3 novembre del
1877. Emerge un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni
del modesto avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della
corrispondenza si denoma: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate
del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati,
interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr.
Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da
lui fatta di bolli fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei
primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale
oggetto i maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28
dicembre 1877 (Repertorio al protocollo
1878 n.° 16) in termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle
miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or
sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità
taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo
museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto
d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a
sinistra, come le scritture orientali.
In uno di
essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa
questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si
rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo
stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di
Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge
il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare,
che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia
Girgentina.
L'esimio
Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V.
maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone:
pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ma si guarda bene dal
ricompensare, neppure con una semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle
‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene
il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei
reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è
un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie
regalati dalla famiglia La Mantia all'avv.
Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di
Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il
SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle
che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un
contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni
di Santa Maria, nella costruzione di un sepolcro.
Quell'insigne archeologo procedeva ad una
lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul
bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947 in località Bonomorone di
Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come
ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si trattava di un deposito di cocci di
una figlina (officina di vasaio):
dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più
letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi
romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato,
che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente
poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo
liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano
tuttavia sotto il nome di gàvite, nel
fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo
vengono riprodotte in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato
per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività
mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo
quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che partendo dall'anno
180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici
secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale
all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che
ha attinenza con le miniere. Sotto la data del 22
ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un
infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la
sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una
miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam salis repentinam, defunctus est», è la malinconica annotazione in latino. Il
Giangreco Cifirri moriva dunque nella caverna di una salina, per il repentino
crollo di massi di sale.
I
TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas
si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi
datare nel IV secolo d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano,
andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina. Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale
testimonianza, per noi non resta del tutto valido l’appunto della Guida del
T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è
detto relativamente a Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico
Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la
raffigurazione del Ratto di Proserpina.»
La coincidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le
miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e
l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui
ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi
è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad
epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva
l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello
zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in
Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e
l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al
commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si
rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di
ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La
produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi,
subentra] il silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la
proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI. Di recente
Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di revisione nei confronti del Salinas,
anche se non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo e lasciar perdere con
la datazione commodiana delle miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della
Sicilia […] sono state rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di
storia romana – in forma intera adoperate come materiali da costruzione per
sepolcro; su di esse si legge la formula ex
praedis/ M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando
annota: «Salinas in luogo di Commodiani
preferiva leggere Commodi Ant(onini)
pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma
scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e,
divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”,
non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d.
C. ”il praedium in questione”.
I dati
archeologici disponibili permettono comunque di abbozzare dati descrittivi
sull’industria solfifera racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee
evolutive di quell’antica economia mineraria. «Per quanto riguarda la
produzione - annota il De Miro - pur
essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle
di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo
da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse differenziarsi
dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci
fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse]
la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel
III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in
Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente
alla proprietà imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del
concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «il manceps,
figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita
l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo
l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.
Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto
sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi, per secoli
è rimasto. I resti di tegulae,
rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento
del centro abitativo in contrada Grotticelli,
è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione
che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che
ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte
delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un
centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la
grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
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