Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con
quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto -
come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”;
il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire
la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti
imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene
importava nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai
Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto
intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani,
nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina
che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i
quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di
omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri,
lanceri, scudati si rechino, con armi
e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di
là del fiume Salso.»
«[......] Item et infra fuit
scriptum eodem modo videlicet.
« [...] Burgio,
Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera,
Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo
[Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene
chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva:
dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva
parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al
baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti.
Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata
calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i
racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata
ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno
altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla
guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente -
contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti
racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380
(calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile
consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta,
bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e
quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri:
una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una
maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione
stimata di circa 456. (Nell’allegato n.°
5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre
1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il
tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in
corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa
giocondità”. Fidelitati vestre feliciter
nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli
adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici
giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re.
Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine”
regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché
annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di
scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di
Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo
mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella
nostra reale indignazione.
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia
accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone.
Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello
sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure
quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa
sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari
che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla
non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse
e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava.» E questo sarà un bel dire,
ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese
che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante,
tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come?
Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era
ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi
calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e
“prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono
adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500.
Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si
era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il
farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano
di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella
lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7
agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto:
1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni
feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come
non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a
Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in
alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una
assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale
falso, ostando irrefutabili ragioni
cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che
costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la
vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno
agli anni trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di
Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di
Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto
ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo,
un Federico Musca , comes Mohac, si
rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc.
IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico
Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che
furono gli Aragonesi nel governo di
questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato
[Modica] Federigo MOSCA, quello
stesso che fu Governatore della Valle di
Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e
fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta
Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per
fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos
- egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad
monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte
bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum
reciperet.» Ma se sia stato costui
discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo
comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però,
ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo
dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi
successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè
Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non
meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di
Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato
ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli
seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque,
libero, ma subito soggetto, agli
appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del
10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi
per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco
i giudici. Chi furono i due sindici eletti per andare il giuramento e l’omaggio
al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici
non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche
racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de
Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta
dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone.
Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria
- quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal
Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del
Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul
riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva
dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il
suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di
Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in
singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel
torno di tempo. Il 17 settembre, il
Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua
giurisdizione ad un celere invio del “fodro”
(vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed
i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite
giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua
fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non
volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese,
dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p.
66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire
contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i
marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da
Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione
straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a
Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai
sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero
Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre
1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in
qualche modo a Racalmuto (v. ibidem
pag. 203).
Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a
pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro,
Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere
dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel
termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e
al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due
grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo
20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro
«incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento
dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV).
Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:
•
Licata: unc. 238;
•
Delia unc. 3;
•
Naro unc. 166;
•
Calatarapetta (sic)
Mons maior unc. 6;
•
Tusa unc. 2;
•
Misiliusiphus unc. 4;
•
Sciacca unc. 250;
•
Calatabellottum unc. 122;
•
Agrigentum unc. 380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose:
Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una
cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella
sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva
la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi
nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un
indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una
nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di
essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e
scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una
vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si
ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne
fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese
da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne
siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del
1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per
ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia,
nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per
una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di
cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della
ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona;
non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola;
subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi
quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona
cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende
dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio
del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o
III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti
fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi
delle scomuniche papali, in loco non sene
intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla
(non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti
e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per
fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai
posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche
vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a
conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi
immigrati e con con fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a
due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà
rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri
per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le
registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato
sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro
«Rationes Collectoriae Regni Neapolitani
- 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono
pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la
chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del
1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de
Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti,
solvit pro utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso
corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di
Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al
Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare
l’approssimatività dello scriba pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due
sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e
non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della
chiesa di S. Maria, ed è chiamato a
corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il
“prete” Angelo di Montecaveoso, ed è
tassato per nove tarì in relazione
all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non
sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la
chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati
alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”
Angelo de Montecaveoso ha tutta
l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra
indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp
alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo,
l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di
Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte
rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo
per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata
di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico
agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta
documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche
di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo
agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto
richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra. Da qui, quel convento benedettino cui accenna
Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei
BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber
Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».
II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che
trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna
concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo
Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag.
50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il
Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a
Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane
traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I
sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo
nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico
Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per
adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri,
(Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto
il foglio 211 che recita «MONASTERIUM
SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter
inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in:
Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il
padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco
tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in
termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato
l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre
Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo
di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti
dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro
tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di
abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non
poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da
Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci
dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là
dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo
noi, in piazza Castello, in quarterio
Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani
spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che
gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo
in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a
Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da
studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale . A Casalvecchio, già alla fine del XIII
secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in
pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di
Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300,
indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla
distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori
eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei
sepolcreti e ruderi di edifici. »
I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette
pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo
demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le
altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta,
Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo
Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa
rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte
papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur
sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva
dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si
sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino
per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di
Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a
quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella
sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
Denominazione
|
Unciae
|
Tarini
|
Granae
|
Summa
|
|||
Somme percette nell’intera
provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
|
261
|
4
|
8
|
261,4,8
|
|||
Somme percette nell’intera
provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
|
87
|
22
|
10
|
87,22,10
|
|||
Differenze
|
173
|
11
|
18
|
173,11,18
|
|||
Differenza
in percentuale
|
|
|
|
197,58%
|
|||
Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il
doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per
un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310;
indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico
agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese,
il francescano Marco d’Assisi, ebbe dal
collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non
sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato
dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci
direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo.
In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto
l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia
subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei
vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28
gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu
una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il
Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al
partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla
cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276.
Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23
agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto
1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre
1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti
rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio
in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da
Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato
dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a
lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile
e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei
primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria,
oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino;
ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter
Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove
tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o
primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori
d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo.
L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo
gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio
dell’avara povertà di Catalogna.
Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo,
succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico
inglese - interessi egoistici prevalsero
in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico,
lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano,
necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati
affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”:
gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un
cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra
ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale
piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive,
apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto:
le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.
Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.»
Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi
sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non
è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il
capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del
Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto
erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio:
c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. Per il San Martino, dunque, «IL
FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi
con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di
Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi
costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a
giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI,
ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui
si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere
che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire
dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli, quello
che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte.
«Decaduta la famiglia
Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu
concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome
terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello
tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che
pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente
dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto
Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del
lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel
1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche probabilità
di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a giungere in loco. La famiglia agrigentina dei
Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre alquanto periferiche:
Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè benissimo muninerlo
di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale
e dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure
nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche
in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze
fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza
della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi
archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i
nostri privati ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra
le due torri dovessero segnificare presenze abitative o necropoli medievolati
antecedenti il XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono
angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri e noi ci accodiamo in
tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi,
mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu
proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima,
per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente
nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile
matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza
unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto;
Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto
matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à
11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce
Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel
suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre
10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro
di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam
universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem
Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae
haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen,
quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno
impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem
de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.
2. Venne
Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona
dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del
Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di
Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del
Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte
d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore
della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente
detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
1.
Costanza,
restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo
prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi
esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano
Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. Si tratta dell’atto
transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo
oneroso:
«omnia
iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iIure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis
Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus
sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto
ereditario riveniente dal quondam
magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello,
così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche
per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi
ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi
magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale,
nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli,
Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con
i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un
tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui
la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo.
Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua
strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un
mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di
Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi,
Giovanni il Vecchio, Federico II -
ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone
ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio
case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il
suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi,
colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi
casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a
mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze
della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che
i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi,
propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su
Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al
nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane.
Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare
una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del
Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il
figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi. Concorre
alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni a danno
dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei Chiaramonte, conti
di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV. Possiamo solo
congetturare che Racalmuto - stante
anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta titolari della baronia
- sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei Chiaramonte. Federico
III sale ancora nella scala degli onori pubblici divenendo nel 1361 Pretore di
Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano Giustiziere di Palermo. Muore
nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di
questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e Misilmeri.
Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico
III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica,
la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo
del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di
Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i
Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni
II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze
Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e
Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358
chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente,
nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli
Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene
onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di
Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu
padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella,
Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi
III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino
Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e
Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico
IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può
conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con
Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di
Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari
feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la
minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene
investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la
figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie
dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue
sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di
ascese da capogiro. Con chi non fu
concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma
subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di
Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni
divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia
delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzo allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e
amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta
che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se
non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare
e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui
abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello
naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro
d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da
Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere
all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta
di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e
di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo
letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del
Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto
uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico
III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante
sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte
fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben
cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette
fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II
del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti
di cogmone Del Carretto annetteva anche
la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado
di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo,
faccia pure.
Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che
Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De
Gregorio ci pare in definitiva piuttosto
perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di
particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale
ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida
pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti
della nobiltà sicula trecentesca.
Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei Del
Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del
Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica
figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere,
sulla base che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva
egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II
del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di
Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli
intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna
fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone
Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose
enfiature araldiche può farvi ricorso.
Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto -
andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II
Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di
Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate
che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni
dopo il succedersi degli eventi.
Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito
per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla
circostanza di un Antonio II Del
Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di
navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del
marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza
fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua
nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di
codesto figlio di un legittimo titolare.
Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal
marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra
che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò Millesimo, ad
Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato
stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedvano, pro quota,
al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è
presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel
1263.
Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli:
«marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso
nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora
le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina
dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene
intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche
Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel
1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di defeltà.
Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da venezia del Carretto ebbe quattro
figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’
quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da
atto del 1397.
A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del
carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come
Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe
in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la
baronia di Racalmuto.
Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce
qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre
molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre Racalmuto
nel 1344 per atto del Notar Rogieri
d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie
dell’’Inveges prima riportate.
L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a
Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie
navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del
citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del
Carretto. «Infine il predetto don Gerardo
promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia tutti i privilegi, le scritture e i rogiti
relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto,
che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam
don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il
detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto
ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli,
mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente
quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione
della detta vendita.»
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