martedì 2 gennaio 2018


Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima martellatta fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.

Sotto la stessa data, codesto re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro periferico casele un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:

«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI.  Re Pietro dopo aver eenumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uoimini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lanceri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.

«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»

«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.

« [...]  Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»

 

Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base impobibile che era stata calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20 fuochi erano in condizioni economiche da fornire mezzi aggiuntive alla guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380 (calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta, bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri: una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione stimata di circa 456.  (Nell’allegato n.° 5, forniamo ampi ragguagli su tali nostre ipotesi d’indole statistica.)

Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettatato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta  della debita fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” si inviino davanti al cospetto della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri,  arcieri, uomini armati di tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e s vengano presso di noi Re Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disobbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.

Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282 dinnanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»  E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.

Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma perico per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?

C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suo della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.

 

 

La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.

 

 

Ne siamo quasi certi: Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio, dopo il Vespro. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in una vacua promessa, non potuta in alcun modo realizzarsi. Si è pure detto come la notizia secentesca di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, sia frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni  cronologiche.

Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.

Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I. (cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687). Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:

«....[PAG. 4] entrati che furono  gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appa re in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che  fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .

«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovata, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono   alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.»

Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli  appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi del’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici  eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.

Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.

Intercolutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo.   Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luogi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare Maestri Giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata» (cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII). Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. (ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI).

Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.» (ibidem, doc. n.° CCXXIX). Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto (v. ibidem pag. 203).

Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Peitro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Saldo, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.» (Ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII). Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.» (Ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV). Racalmuto risulta tassato per 15 once (ibidem pag. 295), preceduto da:

          Licata: unc. 238;

          Delia unc. 3;

          Naro unc. 166;

          Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;

         Tusa unc. 2;

          Misiliusiphus unc. 4;

         Sciacca unc. 250;

         Calatabellottum unc. 122;

          Agrigentum unc. 380.

Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.

Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi una diuturna rievocazione. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresenatnte dell’ «avara povertà di Catalogna». Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su un alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.

Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i du potenti fratelli (Federico E Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non sene  intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con con fertili nozze.

Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di quei due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:

«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»

In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):

«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix

Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.

Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato  a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete”  Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì  in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter”  Angelo de Montecaveoso  ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispettp alle ricche prebende di chi è titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.). 

La chiesa di Santa Maria rendeva dunque per tre volte rispetto alle primizie spettanti all’arciprete Angelo di Montescaglioso: troppo per essere soltano un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui potè nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma potè trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi anche per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra.  Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211».  II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre fondatamente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione del monastero di S. Benedetto in termini del tutto critici nei confronti degli storici locali che hanno trattato l’argomento. Non sappiamo quanto di vero ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.

I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposti dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale .  A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:

«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. »

I dati che possiamo ricavare dalle ravole delle collette pontificie dle 1308-1310 non consentono fondate ipotesi sullo sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desimere ( Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì nonerano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.

Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.

 

Ci sia di un qualche lume questo confronto:

Denominazione
Unciae
Tarini
Granae
Summa
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1308 - 1310 (due annualità)
 
261
 
4
 
8
 
261,4,8
Somme percette nell’intera provincia agrigentina per le decime degli anni 1275-1280 (cinque annualità)
 
87
 
22
 
10
 
87,22,10
Differenze
173
11
18
173,11,18
Differenza in percentuale
 
 
 
197,58%

 

Per due sole annualità si è dunque dovuto pagare quasi il doppio di quanto corrisposto subito dopo il 1280, in pieno regime angioino, per un quinquennio. Racalmuto figura tassato esplicitamente nel 1310; indirettamente nel 1280. Allora, collettori per Agrigento furono ilcanonico agrigentino Pasquale ed il notaio messinese Pellegrino. Il vescovo cassanese, il francescano Marco d’Assisi,  ebbe dal collettore Pasquale solo 20 onze d’oro. Che fine abbia fatto il resto non sappiamo. Nella pagina del 1280 abbiamo note che attengono allo stato dell’intera diocesi di agrigento: nulla che possa in qualche modo illuminarci direttamente sulla chiesa racalmutese. Questa doveva però avere un certo ruolo. In ogni caso era saldamente incardinata nella diocesi agrigentina, sotto l’egida del vescovo Ursone, almeno per il biennio 1275-76; dopo, pare sia subentrata la sede vacante, affidata al sostituto Gualterio. La vicenda dei vescovi agrigentini ha riverberi sulla storia di Racalmuto. Nel 1271 (28 gennaio) muore il vescovo Goffredo Roncioni. Subentra Guglielmo de Morina: fu una meteora. Sotto di lui abbiamo lo stravolgimento feudale racalmutese: il Musca viene privato del nostro casale che passa, per ordine dell’Angioino, al partenopeo Pietro Negrello di Belmonte. Nel 1273, (2 giugno), sale sulla cattedra di Gerlando, il cennato Guidone che vi rimane sino al 24 giugno 1276. Dal 1278 al 1280 abbiamo il citato sostitu Gualtiero. Dal 12 maggio 1280 al 23 agosto 1286 subentra tal Goberto, tarsferito alla sede di Capaccio il 23 agosto 1286. E’ quindi il tempo del lungo episcopato di Bertoldo di Labro (10 dicembre 1304-11 luglio 1326). In questo tratto, Racalmuto ha sconvolgimenti rimarchevoli: cessa l’autonomia comunale; i Chiaramonte spaccano il territorio in due parti: quella collinare attorno al Castelluccio viene trattenuto da Manfredi Chiaramonte; quella di nord-est - già sede dell’insediamento attivato dal Musca - viene requisita dal fratello cadetto Federico II (ma di ciò, più a lungo, dopo). L’organizzazione ecclesiastica - i cui riflessi sul vivere civile e sociale sono di tutta evidenza - si irrobustisce: cessa l’evanescenza dei primordi; ora abbiamo una potenza agraria attorno alla chiesa di S. Maria, oltremodo tassata dal papa (come si è visto); figuriamoci dal persule agrigentino; ed una pieve consistente, piuttosto facoltosa: il suo parroco (presbiter Angelus de Monte Caveoso) subisce l’angheria pontificia di un balzello di nove tarì; sborsa al suo vescovo l’aliquota (la quarta?) sulle sue decime o primizie. I racalmutesi vengono a subire l’incidenza di tanti oboli obbligatori d’indole ecclesiastica. Quelli d’indole feudale non li conosciamo. L’imposizione diretta pretesa dai nuovi regnanti è greve e di essa abbiamo solo gli echi di quella che fu la politica fiscale del re Pietro, il primo assaggio dell’avara povertà di Catalogna.

 

 

Verso il dominio dei Chiaramonte

 

Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona - veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che -  officiato di tale incarico dal fratello Giacomo, succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.

Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico inglese - interessi egoistici  prevalsero in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica, inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico, lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano, necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati affioranti da questo travaglio della storia locale.

Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”: gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.

Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive, apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto: le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.

Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il villaggio di Canicattini.»

Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del Castello retrocederebbe e di molto.

  Da dove abbia tratto la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso (capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di irrefrenabile visionarietà.

Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto erigere il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio: c’è confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani.  Per il San Martino, dunque,  «IL FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI, ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.

Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli, quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del Monte. 

«Decaduta la famiglia Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia

Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del ‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero. Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.

Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di Racalmuto?

Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel 1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a giungere in loco. La famiglia agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè benissimo muninerlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero: un mistero che si aggrava se i nostri privati ritrovamenti di ossame e di ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero segnificare presenze abitative o necropoli medievolati antecedenti il XIV secolo. Le ossa non sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.

La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da Illuminato Peri  e noi ci accodiamo in tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi, mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima, per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»

Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi. Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a  174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli ad umiliazioni.»

Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges  che testualmente così la raffigura:

« Da questo nobile matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto; Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à 11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre 10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo, ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre revertatur.

2. Venne Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto, Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3. Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la 7. & ultima si fù Genebra.

1.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            Costanza, restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»

 

Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza Chiaramonte.  Si tratta dell’atto transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo oneroso:

«omnia iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas perentorias, tacita, civiles et expressas,  que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam  hereditatis magnificorum  quondam domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici  domini Jacobinj de Carretto, eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et eciam quocumque alio iIure  competente domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et Ruviceto Siguliana terminis,  cum onere iuris canonicorum  civitatis Agrigenti  ... .. ..et eciam in  quoddam hospitio magno existente in civitate Agrigenti  iuxta hospitium magnifici Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti  Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in omnibus  et singulis bonis stabilibus, castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus

Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende  e avendone il potere di vendita concede e per tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore, che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste, perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo, come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto ereditario riveniente dal quondam  magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello, così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale, nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli, Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S. Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini. Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»

E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio del Carretto  - che Costanza ebbe dal primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria, figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.

Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare - revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo. Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un mistero.

E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi, Giovanni il Vecchio,  Federico II - ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato  nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi,  a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra sua dimora che si chiamò Steri (l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo. Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.

Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi. Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria. Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo.  Il Picone  ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi, colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.

Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente: signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la figlia Costanza.

Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta: aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al nemico, partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane. Muore frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337 dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara. Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo. Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza eredi maschi.

L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai  tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone - hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.

Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo (1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).

Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.

Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi. Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV. Possiamo solo congetturare che Racalmuto  - stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.

Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona, costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere di quella schiatta trecentesca siciliana.  Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del 1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di questo turbolento personaggio.

Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani. Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo. Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.

E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica, la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado di Modica Manfredi III.

E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358 chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente, nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella, Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di ascese da  capogiro. Con chi non fu concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia delcarrettiana.

Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.

Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzo allo Steri il 1° giugno dello stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.

Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.

La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.

Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha l’attenzione del Chronicon Siculum (CVIII) e del Villani (XI, 108).  Nel novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze.  Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti di cogmone Del Carretto  annetteva anche la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo, faccia pure.

Se seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che Manfredi Doria abbia spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De Gregorio  ci pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di particolare rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale ceppo di mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida pedana per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti della nobiltà sicula trecentesca.

Dalle brume degli esordi racalmutesi della sciatta dei Del Carretto affiora qualche piccola scisti: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere, sulla base che gli agiografici alla Inveges o alla Giordano, ogni effettiva egemonia sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo Doria, il titolo pervenne ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana, questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature araldiche può farvi ricorso.

Di certo sappiamo che esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a Costanza Chiaramonte - e che la coppia ebbe un figlio Antonio II Del Carretto. Vi è però una sola fonte e sono le carte dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.

Quelle carte le abbiamo già citate e vi torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta richiamare l’attenzione sulla circostanza di un  Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì far fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio - neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia che continua nell’egemonia di quei luogi liguri senza neppure un convolgimento formale di codesto figlio di un legittimo titolare.

Non v’è ombra di dubbio che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre parti; A Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre “terzieri” succedvano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale C... contessa di Savona, morì nel 1263.

Su Antonio del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana; antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore, Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di Calizzato gli prestarono giuramento di defeltà. Ottenne l’investitura dei feudi nel 1355. Da venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali appare tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.

A seguire questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del carretto si succedono dal 1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I - quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di tal nome; poi Antonio II, il primo cui si accredita la baronia di Racalmuto.

Ma tornando al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima del 1320?). Erediterebbe dall madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’’Inveges prima riportate.

L’atto di permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto ad un certo punto vuole codesto Antonio del Carretto emigrato a Genova, come detto. Là si sarebbe arriccchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto (forse attorno al 1370). Questo il passo del citato atto ove possiamo cogliere siffatti dati biografici di Antonio II del Carretto. «Infine il predetto don Gerardo promise, sotto il vincolo del giuramento, di inviare da Genova in Sicilia  tutti i privilegi, le scritture e i rogiti relativi ai beni venduti come sopra e specialmente alla baronia di Racalmuto, che rimasero presso lo stesso don Gerardo dopo la morte del magnifico quondam don Antonio del Carretto, suo padre, che ebbe a morire in potere e presso il detto don Gerardo, per consegnarli al detto don Matteo ed ai suoi eredi sotto ipoteca ed obbligazione di tutti i suoi beni, nonché della moglie e dei figli, mobili e stabili, posseduti e possedendi ovunque esistenti e specialmente quelle tenute date ed assegnate al predetto Gerardo in parziale soddisfazione della detta vendita.»

 

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