Da tempo gli eruditi locali hanno tentato di colmare i vuoti storici del
fascinoso periodo arabo racalmutese con ipotesi, presunte tradizioni,
fantasticherie. La silloge più completa si rinviene nel lavoro di Eugenio
Napoleone Messana. Spigolando a pag. 35 e segg. di quel suo libro - che
dileggiarlo si può, ma ignorarlo, no - apprendiamo che vi fu una tradizione
riportata da un non precisato cultore di storie sacre che avvalorava
l’esistenza di una moschea a Casalvecchio che sarebbe stata riconsacrata
all’Arcangelo. Secondo presunte memorie popolari racalmutesi, l’ultimo arabo
che lasciò il Castelluccio (Al ’Minsar), non portò con sé il tesoro ma ve lo
lasciò seppellito. Al Raffo - toponimo ritenuto arabo - vagherebbero di notte
«li signureddi cu l’aranci d’oro»: «nelle notti di luna, se dopo un temporale
succede la schiarita, escono gli incantesimi ed offrono arance d’oro a chi va
ad attingere acqua alla sorgente omonima, ma chi tocca le arance però
impazzisce.» E naturalmente trattasi di fantasmi “arabi”.
I Normanni
a Racalmuto
Conquistata Agrigento nel 1087, i
lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio
limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla
schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento.
Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi due secoli e mezzo, si ha la normanna
restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a
Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.
Ma chi erano questi normanni?
Il giudizio storico moderno resta
ancora contraddittorio e, spesso, prevenuto. A seconda delle ascendenze
razziali e delle convinzioni religiose, questi uomini del Nord - provenienti
dalla Scandinavia e dalla Danimarca ed attestatisi per quasi un secolo nelle
terre di Normandia in Francia - vengono ora dileggiati per il loro essere degli
avventurieri e dei saccheggiatori, ora esaltati per il loro maschio
rinvigorimento delle popolazioni latine cadute in mani bizantine o peggio
saracene. Va da sé che i normanni avventuratisi in Sicilia per liberarla dal
giogo infedele hanno avuto il possente encomio della letteratura confessionale.
A dire il vero, in tempi molto postumi. In vita, il conte Ruggero ebbe con i
papi atteggiamenti di distacco con punte di indifferenza, patteggiando e
pretendendo benefici e concessioni come, ad esempio, i poteri di 'legato
apostolico'. Sorge la famosa "legazia" che qualche spregiudicato
religioso sembra, a dire il vero, avere inventato in tempi smaccatamente
postumi. In proposito Benedetto Croce non mancò di avere espressioni pungenti.
«La Legazia apostolica - scrisse - dava alla persona del re di Sicilia diritti
ecclesiastici paragonabili solo a quelli dello Czar in Russia sulla Chiesa
ortodossa.»
L'Amari, si è visto, parteggia per
gli arabi ed avversa i normanni, almeno quelli della prima ora. Poi, sarà per
la poderosa personalità di Ruggero II.
Il Pontieri, nella elegante premessa alla revisione del testo del
Malaterra di cui in precedenza, esprime giudizi equanimi. Denis Mack Smith
nella sua Storia della Sicilia Medievale
e Moderna non è molto tenero con i Normanni: li chiama «avventurieri
provenienti dalla Normandia francese che si guadagnavano da vivere con profitto
come soldati di mestiere nell'Italia del sud. Alcuni di questi erano semplici
mercenari; altri preferivano la vita di capo brigante e depredavano i mercanti,
rubavano il bestiame e infliggevano terribili devastazioni come combattenti
salariati, cambiando parte a volontà, o persino combattendo per entrambe le
parti contemporaneamente. Bisanzio ne assunse alcuni per la spedizione di
Maniace in Sicilia; talvolta, con l'incoraggiamento del papa, attaccavano i
cristiani greci dell'Italia meridionale;
e talvolta, trovavano più vantaggioso fare incursioni negli Stati Pontifici».
Di Ruggero, lo Smith dice cose elogiative ma con qualche tono di scherno
inglese. Geniale «sia nei combattimenti, sia nell'amministrazione», viene
giudicato il conte normanno. Ma la velenosa aggiunta tende a descrivercelo come
colui che «con spietati saccheggi [accumulò] quelle ricchezze su cui sarebbe
stata edificata una famosa dinastia».
*
* *
Che cosa ne è stato della Sicilia
musulmana? di Racalmuto saracena? Gli storici indulgono troppo sulla grandezza
della Sicilia normanna e non si curano abbastanza delle sofferenze e della
prostrazione dei popoli indigeni, dei nostri antenati in definitiva. La
tragedia di quella conquista normanna ai danni dei saraceni (quali erano gli
abitanti della Racalmuto di allora) non ha avuto rogatori e fonti storiche.
Supplisce il poeta. Ibn Hamdis ha pianto anche per noi racalmutesi, almeno
quelli che vantiamo sangue arabo nelle vene. Sciascia in testa. «Sciascia è un
cognome propriamente arabo .. Dunque il mio è un cognome diffusissimo nel mondo
arabo, in Sicilia e persino in Puglia dove Federico II deportò tanti
arabo-siculi.»
*
* *
Dopo i primi cedimenti il Granconte
Ruggero si avviò verso un potere unitario ed una sovranità personale. La
tendenza a dilatare il demanio pubblico prevalse. Ma Racalmuto, come altre
terre profondamente intrise di islamismo, sembrò sottrarsi sia al
fenomeno normanno del feudalesimo sia a
quello accentratore e demaniale
dell'Altavilla. Se feudo divenne, ciò maturò qualche tempo dopo.
Crediamo che nei primi decenni del XII secolo, ai tempi del geografo arabo
EDRISI, l’abitato di Racalmuto fosse ancora in mano degli indigeni saraceni,
addetti all'agricoltura ed abili nelle colture arboree e negli
ortaggi. Per quello che diremo dopo, il
nostro paese è forse da collegare alla località GARDUTAH di Edrisi che era
appunto «un grosso casale e luogo popolato; con orti e molti alberi e terreni
da seminare ben coltivati.»
Gli storici stanno ritornando sul
controverso tema dei rapporti tra Ruggero e il papato. Il risultato è quello di
rinverdire più che dissolvere i dubbi sui tanti diplomi a vantaggio di chiese e
conventi che puzzano di falso e di manipolazione. Anche l'attribuzione della
stessa LEGAZIA APOSTOLICA desta nuove perplessità.
Del resto in Sicilia, mancava da tempo ogni
forma di organizzazione della Chiesa. Il suo quadro religioso era diverso da
quello in cui gli Altavilla erano abituati ad operare. La religione cristiana di rito latino era
pressoché inesistente. A Racalmuto praticavano - solo o in maggioranza, ci è
ignoto - la religione islamica. Qualche residuo cristiano poteva esserci ad
Agrigento e comunque era di rito greco. Qualcosa vi era a Palermo, la cui
chiesa episcopale era relegata ad una stamberga.
Ruggero in un primo tempo si mise a
favorire i monasteri greci, talora rifondandoli, qualche volta dotandoli di
beni. Si rese, però, subito conto che
ciò non bastava. Era di fronte ad una chiesa di frontiera, lui in fondo laico.
Bisognava avviare un «processo portatore di scelte di fondo capaci di dar vita,
in termini che superassero i limiti gravi e le insufficienze accumulati in
secoli di preminenza musulmana, a funzionali e organiche strutture
ecclesiastiche. Le sole in grado di
coordinare le manifestazioni di
pratiche religiose e quindi di vita
quotidiana della gente e di riconfermare e rendere operativa
l'alleanza fra Chiesa e
politica che affidava un ruolo
di protagonista agli Altavilla e
rappresentava un dato strutturale
della società normanna.»
Ruggero
non ebbe certo tra le sue preoccupazioni l'evangelizzazione del popolo
conquistato. Subordinarlo a vescovi di sua fiducia, fu idea politica e perspicace.
Una religione di Stato, cristiana ma non unica, serviva al suo progetto
politico e forniva in definitiva un apparente rispetto degli accordi di Melfi
col papa latino. Le preoccupazioni politiche erano ad ogni modo preminenti.
Istituire diocesi ma mettervi a capo uomini di fiducia, allogeni, chiamati
dalla natia Normandia, fu - ripetiamo - il taglio adottato da
Ruggero nella instaurazione della Chiesa
di Roma nelle terre
della Sicilia musulmana. Così il Normanno fondò i vescovati di Troina,
Agrigento, Catania, Mazara e di altre città isolane.
Un casale quale Racalmuto,
periferico ed ancora tutto saraceno, nulla ebbe ad avvertire della rivoluzione
religiosa messa in atto da Ruggero.
Dubitiamo persino che ebbe notizia
di essere incluso nelle
pertinenze della neo diocesi di Agrigento, affidata al vescovo
francese Gerlando. Nell'anno 1092,
dopo cinque anni dalla conquista del territorio di Racalmuto da parte
normanna, giunge, dunque, ad Agrigento il novello vescovo Gerlando. I confini della diocesi sono stati
definiti da Ruggero
in persona. Il documento, in latino, può così tradursi:
«Io, Ruggiero, ho istituito nella
conquistata Sicilia le sedi vescovili, di cui una è quella di Agrigento al cui
soglio episcopale viene chiamato GERLANDO.
Assegno alla sua giurisdizione quanto rientra nei seguenti confini: da dove
sorge il fiume di Corleone fin su Pietra
di Zineth [Pietralonga]; indi
sino ai confini di Iatina [Iato]
e Cefala [Cefaladiana] e quindi ai limiti di Vicari; indi fino al
fiume Salso, che costituisce il discrimine tra Palermo e Termine,
e dalla foce di questo fiume là dove cade in mare si estende questa
diocesi lungo il mare sino al fiume Torto; e da qui,
da dove sorge, si
estende verso Pira, sotto Petralia;
quindi sino al monte
alto [Pizzo di Corvo] che trovasi sopra Pira; poi verso il fiume Salso,
nel punto in cui si congiunge con il fiume di Petralia e da questo punto i confini della diocesi
seguono il corso del fiume Salso sino a Limpiade
(Licata). Questa località divide Agrigento
da Butera. Lungo la costa i confini
della diocesi corrono dal Licata
sino al fiume Belice, che costituisce i confini
con Mazara, e da qui raggiungono Corleone, da dove inizia la delimitazione, che ad ogni modo esclude
Vicari, Corleone e Termini.»
Se
il lettore è stato paziente nel seguire lo zig zag dei confini avrà subito colto che Racalmuto,
quale centro al di qua
del Salso, venne in quella bolla
assegnato a GERLANDO, un vescovo santo
ma sempre un padrone, un feudatario.
Per esser, comunque, normanno,
venne descritto dalla pur tardiva
storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di
nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale versione risale al secentesco Pirro ed il
Picone la riecheggia con questi tratti
descrittivi: «Gerlando, quel sant'uomo, nato
in Besansone, città della
Borgogna, di copiosa
dottrina fornito, eruditissimo
nelle chiesastiche discipline ed
eloquentissimo, trasse alla fede
gran numero di Ebrei e di Musulmani.[p. 454]»
I padri bollandisti ci appaiono più circospetti. In base alle loro attente
letture dei vari 'privilegi' escludono
che Gerlando fosse il gran cappellano del conte
Ruggero, carica che fu di
GEROLDO, e quanto al resto si rifanno
alle postume storie del FAZELLO e
del PIRRO.
I privilegi, che, in parte, abbiamo
anche citato e che riguardano il
vescovo Gerlando, sono postumi
e secondo l'ultima
critica paleografica del COLLURA risalgono per lo meno alla seconda metà del
sec. XII. Quattro tra i primi sei più antichi documenti della Cattedrale di Agrigento accennano a
tale vescovo di nome Gregorio e sulla
sua esistenza storica non sembra lecito
nutrire dubbi.
Il
personaggio non è dunque
inventato e questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità, come
può arguirsi dal Libellus
custodito nello stesso Archivio Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando che, discioltasi
dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore «beati Gerlandi anima,
carne soluta, quievit in Domino».
Quello che, invece, lascia increduli
noi laici è quella sua facondia trascinatrice di Ebrei e Musulmani.
Nell'agrigentino - ed a Racalmuto per quel che ci riguarda - si parlava da secoli arabo
e solo arabo. Forse residuava un uso del greco nei
ceppi più tenaci. Questo vescovo
borgognone che chissà quale lingua parlava (pensiamo a quella natìa di
Normandia e magari masticava di latino) dovette disperarsi nel cercare di
capire i suoi sudditi che, come ancor oggi si dice, parlavan turco, di certo,
per lui, incomprensibilmente. E le sue
prediche inventate dal Pirro, se davvero vi
furono, dovettero lasciare di stucco i 'fedeli' musulmani.
Eppure nella favola della facondia
salvifica del vescovo normanno in mezzo
ai saraceni dell'agrigentino un nucleo di
verità deve pur esservi: forse
GERLANDO ebbe qualche successo nello stabilire un certo
colloquio con i potentati locali di lingua araba.
In particolare fu forse capace di chiamare scribi e letterati poliglotti
che poterono stabilire alcuni contatti, specie di natura diplomatica e notarile. Di certo
Agrigento era divenuta cosmopolita. Il primo documento dell'Archivio Capitolare di Agrigento (1° settembre -
24 dicembre 1092) - una falsificazione in
forma originale, secondo il Collura
- accenna a nobilati
francesi già presenti in Agrigento, a
concanonici che officiano in una chiesa dedicata a S. Maria, a
parenti francesi da beneficiare con diciassette villani, due paia
di buoi ed un cavallo.
Su tutto vigila il vescovo Gerlando, mandato
da un ROGERIUS che ci
avrebbe redento da 'demonicis ...
ritibus' da riti demoniaci (che pure era la grande religione
di Allah). Emerge il nome di un
francese: Pietro de Mortain (nell'originale,
invero, Petrus Maurituniacus). Vi
è un teste: Pagano de Giorgis ma scritto con una gamma greca nel bel mezzo della grafia latina.
Principalmente, a colpirci, è il
richiamo allo strumento giuridico
del PRIVILEGIUM che viene firmato
in presenza di testi e davanti ad un
vero e proprio notaio 'Rosperto notarius'. Al vescovo Gerlando viene
riconosciuta 'probitas', probità, ed il suo consiglio viene giudicato
'justus'. Francesi, notai, prebende ecclesiastiche, canonici, vescovi probi ed assennati, ma anche interessati
alle cose terrene, tutto il mondo della burocrazia ecclesiastica romana vi traspare, ed era passato appena un quinquennio
dalla conquista normanna sui
saraceni, che ora sono, come si è visto,
villani, schiavi ed oggetto di pii legati.
AL TEMPO DEI NORMANNI E DEGLI SVEVI
Ruggero il Normanno tiene saldamente in mano l’intera
diocesi di Agrigento sino alla sua morte, avvenuta nel 1091. Racalmuto non
esiste ancora: solo, nei pressi, due centri appaiono di una qualche
consistenza, Gardutah e Minsar. Ci pare di poter sospettare che il primo si
trovasse nel circondario di Naro; il secondo andrebbe identificato in un feudo
nel territorio di Bompensiere, a meno che non si tratti di Gargilata come
recentissimi ritrovamenti cominciano a far pensare. Nelle precedenti pagine
abbiamo illustrato quanto la coeva letteratura ci ha tramandato: resta l’amaro
in bocca di non potere fantasticare su un casale corrispondente a Racalmuto,
prospero o derelitto sotto i Normanni. Anche la incrollabile tradizione di una
chiesetta dedita a Santa Maria fatta costruire da un locale barone, il
Malconvenant, crolla al primo impatto con una critica storica appena avvertita.
Quando le campagne di scavi e le ricerche archeologiche nel
nostro territorio metteranno alla luce i resti di quegli insediamenti
medievali, potranno aversi elementi per una chiarificazione e per il
dilaceramento del fitto buio che oggi ci angustia.
Non andiamo molto lontani dalla realtà se affermiamo che con
la conquista normanna s’inverte la sopraffazione dei locali “villani”: prima
erano i berberi a dominare i bizantini; ora sono i normanni a sfruttare gli
arabi, che vengono denominati saraceni.
Esistesse o meno una terra fortificata di nome Racel (ad utilizzare le
cronache del Malaterra), per Racalmuto fu il tempo del villanaggio saraceno che
durò sino al greve riordino sociale di Federico II. Che cosa è stato il
“villanaggio”? Non è questa la sede per spiegare l’istituzione contadina che
vedeva il subalterno colono come una “res” del “dominus”, quasi alla stregua di
uno schiavo. (Vedansi, da parte di chi ne voglia sapere di più, gli studi di I.
Peri). Contadini islamici, miseri e
schiavi da una parte; padroni cristiani, lontani e socialmente insensibili,
dall’altra. L’istituzione di un beneficio a favore di canonici agrigentini, mai
racalmutesi, con le decime del feudo facente capo ad un falso diploma del 1108
(non foss’altro perché non si riferiva a Racalmuto), svela i misteri della
colonizzazione di nuove terre sotto i Normanni. Tanto avvenne per il beneficio
di Santa Margherita, che per l’avallo del Pirri, costituì poi la saga della
nostra chiesa di Santa Maria di Gesù.
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni
venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa
deserta. Tocca a tal Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto il Vespro, la terra è Universitas
così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse
ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale,
persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio
patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram.
La cattolicissima Spagna esordiva con spirito depredatorio nel regno che gli
era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la
‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva.
Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la
causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.
FEDERICO II CHIARAMONTE ALLA
CONQUISTA DI RACALMUTO - L’EREDITA’ DEI DEL CARRETTO
I Chiaramonte si sono impossessati di Racalmuto all’inizio
del secolo XIII. Federico Chiaramonte - un cadetto della famiglia - aveva fatto
costruire, secondo il Fazello, nel primo decennio del Duecento, l’attuale
fortezza, forse una, forse tutte e due le torri oggi esistenti. Il territorio
era divenuto ‘terra et castrum Racalmuti’. Vi giunsero preti e monaci
forestieri. Nel 1308 e nel 1310 costoro vennero tassati dal lontano papa: un
piccolo prelievo - si dirà - dalle pingue rendite che un prete ed un monaco
riuscivano a cavare dai poveri coloni infeudati dai Chiaramonte. Sono ad ogni
modo pagine non gloriose della storia ecclesiastica racalmutese.
Nel 1392 giunge in Sicilia il duca di Montblanc. E’ un
cinico, infido, ma astuto e determinato personaggio, protagonista in Sicilia ed
in Spagna di grandi svolte storiche. Martino, secondogenito di Pietro IV e duca
di Montblanc, viene dagli storici siciliani indicato come Martino il vecchio;
ebbe la ventura non comune - scrive Santi Corrente - di succedere al proprio
figlio sul trono di Sicilia. Resta l’artefice della sconcertante condanna a
morte del vicario ribelle Andrea Chiaramonte, e non cessò di combattere la
nobiltà siciliana, salvo a remunerarla oltremisura appena ciò gli fosse tornato
utile.
Ne approfitta Matteo del Carretto per farsi riconoscere il
titolo di barone di Racalmuto, naturalmente a pagamento. L’intrigo della genesi
della baronia di Racalmuto dei Del Carretto è tuttora scarsamente inverato
dagli storici.
All’inizio del secolo XIII un marchese di Finale e di Savona
- a quanto pare titolare di quel marchesato solo per un terzo - scende in
Sicilia e sposa la figlia di Federico Chiaramonte, Costanza. Ha appena il tempo
di averne un figlio cui si dà il suo stesso nome, Antonio, e muore. La vedeva
convola, quindi, a nozze con un altro ligure, il genovese Brancaleone Doria -
un personaggio che Dante colloca nell’Inferno - e ne ha diversi figli, tra cui
Matteo Doria che morrà senza prole: costui pare che abbia lasciato i suoi beni
(in tutto o in parte, non si sa) agli eredi del suo fratellastro Antonio del
Carretto.
Antonio frattanto si era trasferito a Genova. Aveva
procreato vari figli, tra cui Gerardo e Matteo. Matteo, in età alquanto matura,
scende in Sicilia: rivendica i beni dotali di Agrigento, Palermo, Siculiana e
soprattutto Racalmuto. Parteggia ora per i Chiaramonte ora per Martino, duca di
Montblanc ed alla fine gli torna comodo passare integralmente dalla parte
dell’Aragonese. In cambio ne ottiene il
riconoscimento della baronia. Certo dovrà vedersela con le remore del diritto
feudale. Inventa un negozio giuridico transattivo con il fratello primogenito
Gerardo, che se ne sta a Genova, ove ha cointeressenze in compagnie di
navigazione, e finge di acquistare l’intera proprietà della “terra et castrum
Racalmuti”.
Martino il vecchio si rende subito conto del senso e della
portata dell’istituto tutto siculo della cosiddetta Legazia Apostolica.
Deteneva il beneficio racalmutese di Santa Margherita l’estraneo canonico “Tommaso de Manglono, nostro ribelle al
tempo della secessione contro le nostre benignità” - come scrive Martino da
Siracusa, l’anno del Signore VII^ Ind. 1398. Quel beneficio gli viene tolto per
essere assegnato ad un altro estraneo “al
reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano
della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto”. Altra
ignominia della storia ecclesiastica racalmutese.
GIBILLINI
Feudo, Racalmuto, lo fu parzialmente. A fine del ‘600 la sua
dimensione era di 705 salme, 15 tumoli, tre mondelli e due quarte, tra area
urbana e quella villica. Ce lo dice l’ultimo conte del Carretto, Girolamo,
quello sopravvissuto al figlio Giuseppe, in un atto giudiziario che tra l’altro
recita:
«Item ponit et probare
intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto
sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme
setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme
seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni,
trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli
dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra
[134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
1.
delli
Gibillini e feghi
2.
delli
Cometi;
3.
e fegho
delli Bigini;
4.
del fegho
di Zalora;
5.
del fegho
di Scintilìa;
6.
del stato
e ducato delli Grotti;
7.
del fegho
e principato di Campofranco;
8.
e fegho
della Ciumicìa
e altri confini quale olim tennero e
possiderono la quondam Constanza Claramonte ed Antonio del Carretto e
Chiaramonte e doppo Mattheo del Carretto come veri signori e padroni ed al
presente e de presenti parte di detto fegho come sopra situato e confinato lo
tiene e tossiede l’illustre don geronimo del Carretto e Branciforte come vero
signore e padrone per la forma dell’antichi privileggij et altre scritture
stante che il remanente si ritrova licet nulliter et indebité dismembrato e
diviso da detto fegho di Racalmuto come il tutto fù ed è la verità notorio e
fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt
vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - -
-
Item ponit et probare intendit non
se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna,
Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù,
Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, menziarati e
Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed
intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e
confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus
dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra
capitulum ad intensionem producentis et -
- - ».
Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla
contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante
tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la
contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di
quella terra feudale.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile
1358 ; il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di
pubblicare:
«Il Re concede al
milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu
[feudo posto vicino SUTERA n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore,
insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente
perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei
nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il
Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come
sopra.»
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere
possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte.
Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a
cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il
fiero conte ebbe a dire recisamente a re Ludovico «prius mori eligimus, quam in
potestatem et iurisdictionem incidere
catalanorum»: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei
catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio
presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto
dei traditori. Secondo Michele da Piazza, i chiaramontani, non contenti né
soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero
agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a
Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvise in
Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della
setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani - [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia
e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.
Prosegue Giunta «queste premesse
spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100
cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò
“con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da
ottenere festose accoglienze da parte
dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare
della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre
terre e castella”». Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e
Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un
paio d’anni prima del citato documento. Ma da lì a pochi anni, Federico IV,
detto il Semplice riuscì a
riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio
tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto
nell’opera del San Martino de Spucches . Secondo l’araldista il feudo di
Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con
l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso”
alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza,
quella che ora è denominata Castelluccio.
L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello
che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata
a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo
Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario, iure
francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi,
il primo dato in Catania a 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel
libro 1392 a foglio 221) ; col secondo
diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro
1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i
beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea
Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di
Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri
beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di
Francesco Lagorrica, il Moncada fu deferito come reo di alto tradimento,
avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397
fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni.
Morì di dolore nel 1398.
Subentrò Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa
della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo
di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.
Il feudo pervenne
successivamente a Gaspare de
Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio Giosué de
Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum, per passare
quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la
morte del padre e come suo primogenito. Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di
Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa dalle figlie Giovanna e Maria il
22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando
De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita
e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo
investiture libro 1560 f. 271).
Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26
dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella
(Ufficio del Protonotaro, XII Indiz. f.479) .
Beatrice De Marino e Sances
de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la
morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta
Giovanna suddetta, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f.
15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a
favore di Carlo di Aragona de Marinis,
P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII
Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a
favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria,
III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615,
per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina, suo padre, a cui le due quote
furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da
Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu
quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo
III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22,
f. 283 retro).
Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con
investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo
padre (Cancelleria , libro del 1624-25,
f. 214); viene quindi reinvestito il 29
agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II
(Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina morì a Naro il 24 novembre 1667 come risulta da fede rilasciata
dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di
Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668 (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f.
89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9
settembre 1686 dei due terzi, per la
morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro
Invest. 1686-89, f. 17).
Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come
primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come rinunziatario dell'usufrutto da parte di
Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di
Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il
3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto
(Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).
Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di
Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio
suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest.,
f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino
de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini. Comunque nel successivo volume IX - quadro
1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI
- Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
«Giulio GIARDINA
GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a
3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego
GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di
Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI,
pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi
sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini;
e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto
Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero
compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re
a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal
feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro
Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO
s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D.
Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile
1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo
non esce nell'«Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di
Sicilia» del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.»
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