sabato 23 novembre 2013

A chi mi chiede solidarietà per la Gabanelli

Gliela darò quando mi consulterà per il vero caso Sindona,  per la vera faccenda dello Sbarco in Sicilia di Geronzi, per il caso Antonveneta in relazione alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, in relazione alla vicenda MPS-ANTONVENETA, all'odierna faccenda dell'ISVAP o all'antica banchetta in via Veeto di Valerio Borghese Jr, o all'immensa evasione fiscale delle mega indennità di anzianità per "anzianità convenzionali" a seguito del trucco Berlusconi-Castelli. Sino a quando  non passa alle cose non a comando, non mi interessa.

No, perfofa Albione!!!


 qui cominciamo a sbarellare. il lugubre sperare londinese non avrà mai avvento. L'Italia è la settima potenza del mondo. L'Italia sa turlupinare il mondo intero, almeno da che ha scoperto la superiorità del regime democratico che è quello che è, che si basa sul consenso estorto (Bobbio) ma è sempre il minor male del mondo. Noi non siamo stati criminali imperialisti, quindi gli illeciti arricc...himenti a dimensione cosmica, non li abbiamo. Non siamo, i questo senso, né l'Inghilterra, né la Germania, né l'Olanda, né i pesi Bassi e neppure la Francia. Ma a noi prestano pressoché a tasso zero tutti capitali che vogliamo: sono i capitali "sporchi" rivenienti da quella strozzatura americana di non dare petrolio sufficiente alla Cia e quindi determinare un mercato nero di oceaniche dimensioni, capitali che appetiscono l'Italia e cioè il nostro Debito Pubblico, posta patrimoniale in bilancio, non reddituale, sopra la linea, non sotto la linea. E noi dovremmo limitarci perché così fa comodo alla Merkel? Già Letta- che ora debbo plaudire, anche qui - parla molto saggiamente di Ayatollah del "rigore" e a me questo fa pensare ai "prestiti compensativi" e al "risconto sotto fascia" de mio ammiratissimo governatore Carli. Sono troppo vecchio per non sapere e sono stato là dove tutto è segreto (segreto bancario) per non capire. Farlo capire? Beh! questo è più difficile. Mica si tratta di Ligabue o di De André; questa è tutt'altro che canzonetta: econometria a milioni di incognite.

lo zafferano giallo




Zafferano: Giallo e Costoso Come l’Oro!

by @LTLukT on nov 21, 201218:08 Nessun commento

 


Tutti conosciamo lo zafferano e lo abbiamo usato almeno una volta nella nostra vita per preparare un risotto. Solitamente si vende in polvere, i pistilli sono un po’ più difficili da trovare. Sappiamo che colora di giallo, che ha un profumo che riporta immediatamente a terre lontane, ma forse non sappiamo molto altro.



A differenza della curcuma, anch’essa gialla ma dal gusto decisamente intenso, lo zafferano è molto più delicato. In più la curcuma deriva da una radice originaria dei territori dell’India. Lo zafferano invece ha origini differenti: studi hanno evidenziato che questa spezia era comunemente utilizzata anche dai Babilonesi per insaporire i cibi ma anche con proprietà medicamentose, per questo motivo si colloca la sua origine proprio nell’Asia Minore

L’arrivo dello zafferano in Italia è piuttosto particolare. Questa spezia fu portata in Italia nel periodo dell’Inquisizione, quindi attorno al XVII secolo, da un padre domenicano.

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Lo trafugò dalla Spagna, che in quel periodo ne aveva il completo monopolio, e lo portò nella piana di Navelli, in Abruzzo. Il valore della spezia anche a quei tempi era piuttosto alto, anzi nulla in confronto ad ora. Per darvi un’idea pare che mezzo chilo di zafferano potesse valere come un buon cavallo di razza, forse uno dei patrimoni più costosi dell’epoca, come un’auto di lusso dei nostri giorni.

Ancora non è ben chiaro che cosa sia lo zafferano. Sappiamo che si tratta di una polverina delicata in grado di insaporire i cibi di un piacevole colore giallo oro, ma la sua origine è a noi ancora sconosciuta. In più, visto che non sappiamo da dove derivi, è difficile credere che questa polverina costi davvero dai 25 ai 32 euro al grammo.

Chiariamoci le idee. Lo zafferano deriva da una piccola pianta bulbosa strettamente imparentata con i comuni crochi da giardino con fioritura primaverile. Lo zafferano, a differenza del suo parente stretto croco, fiorisce in autunno (meglio se in ottobre) ed è ovviamente commestibile.

La coltivazione di questa pianta bulbosa è piuttosto semplice.

Predilige terreni sciolti e drenanti, non ha problemi né con le basse né con le alte temperature, in più non ha bisogno di irrigazioni. Premesso ciò a questo punto il prezzo risulterebbe oltremodo ingiustificato data l’enorme semplicità di coltivazione.

Il problema sta infatti nella lavorazione da operare con scadenze periodiche sui bulbi.

In Italia ogni anno tutti i bulbi di zafferano vengono estratti dal terreno, ripuliti completamente, scelti i migliori, e ripiantati immediatamente: si tratta di un processo piuttosto dispendioso ma in grado di mantenere la qualità della produzione sempre alta.

In altri paesi, compresa Spagna, Turchia, Egitto e India, l’estrazione avviene ogni cinque anni,serve quindi una manodopera minore che ovviamente non può che riflettersi sul prezzo di vendita nettamente più basso. Oltre a ciò anche la qualità del prodotto risulta nettamente minore.

Naturalmente i costi dello zafferano sono così alti anche a causa del processo di raccolta. Questa preziosa spezia deriva direttamente daglistimmi, cioè le parti femminili del fiore. E’ possibile praticare la raccolta a partire dalla seconda metà di ottobre, questa durerà solo un mese.

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La raccolta avviene manualmente, si tratta di un’operazione delicata che solitamente necessita di mani femminili. I fiori vengono raccolti ogni mattina prima del sorgere del sole: proprio nel momento in cui la rugiada è già asciutta  ma il sole non ha ancora contribuito a scaldarli con i suoi raggi.

Le operazioni successive sono ancora più delicate, serve parecchia pazienza e precisione: quando il fiore sarà asciutto si devono aprire molto delicatamente i tepali, per poi tagliare con delle forbici il pistillo giusto sotto gli stimmi; questi andranno poi collocati in un setaccio per essere essiccati (o al sole o in forno).

Come potrete immaginare la resa è davvero bassa: un ettaro di coltivazione non fornisce più di 15 kg di stimmi freschi. Se pensate che per realizzare circa 1 kg di prodotto secco servono almeno 150 mila fiori forse il costo non è più così eccessivo.

ricordo antico


venerdì 22 novembre 2013

Per rinfrescare la memoria



...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo.

sabato 5 gennaio 2013

La buona tecnica di Sciascia e l'ipotassi di Pasolini

 

La “buona tecnica” e l’ipotattico scrivere; favole antiche e questioni d’oggidì.

 

Recupero finalmente il pacco con i libri rari speditomi a fine novembre da Agato Bruno. Risultava introvabile il volume di Pier Maria Rosso di San Secondo “Tutto il Teatro – la dimensione europea”. Il secondo volume ero riuscito a procurarmelo a Roma presso la specializzata IBS di via Nazionale.

 

L’altro volumetto ormai ancora più introvabile è “La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura” del nostro grande Leonardo Sciascia, l’Adelphi l’ha ceduto alla Bompiani ed ha tolto di circolazione il dignitoso libretto che ospitava al n° 400 della Piccola Biblioteca. Perché ciò non si sa o io non so o se non so questo non vuol dire che non sospetti, e di grosso. Debbo notiziare che la casa Editrice dopo pensamenti mi diffida dal chiosare con splendide pitture di Agato Bruno quelle favolette scritte da Sciascia prima del 1950. Senza mezzi termini mi invia un post ove si ardisce interdire opere d’ingegno altrui e non si accordano non richieste autorizzazioni. Ho avuto voglia di pensare che la simonia non è solo nelle cose della chiesa cattolica, ma alberga anche tra i mercanti delle opere di ingegno e tra i locupletanti ereditieri dei sommi e Sciascia sommo lo fu.

Resta singolare che le pagg. 67-71 accolgano un saggio del 1951 di Pier Paolo Pasolini, il terzo volume della Bompiani, no. Cosa sia successo non mi è dato di sapere. Anche qui sospetti .. buoni per eventuali dispetti.

Come qualcuno sa, mi sono adoperato per far desumere opere pittoriche dal testo delle favole edite nel 1950 dalla Baldi, pronubo quel Mario dell’Arco che venne a Racalmuto per piazzare per poche lire alcune sue favole al Circolo Unione. In cambio, Sciascia pubblicò il suo primo lavoretto presso la tipografia del Parlamento, Baldi. Di quella edizione posseggo le fotocopie degli omaggi a pagamento che Sciascia fece del suo primo successo editoriale a Giuseppe Gregorio Delfino (in Racalmuto il 28/11/1950) ed al suo fido e valido parente Jachino Farrauto. Il gusto scabro ed elegante della stampa Sciascia ce l’ha già tutto, e se l’Adelphi con la sua Piccola Biblioteca non scantona troppo, non altrettanto può dirsi della inelegante pingue edizione della Bompiani. Pervenuto il libretto Adephi, leggo il Pasolini. Qui il sommo Pier Paolo bleffa alquanto. Elegia ma fuori campo. Il testo sciasciano esordisce con il latino sempliciotto di Fedro (superior stabat lupus), cosa da quarta ginnasiale. Ma Sciascia non credo che sia stato un ginnasiale. Fino a quindici anni scribacchiava da cane le cartoline “fascistissime” a don Piddu Tulumello. Esaltava e si esaltava per le adunate che aveva potuto ammirare a Trieste, meta di uno dei suoi giovanili viaggi a spese di zii federali e di zie maestre elementari. Povere cose – diceva – quelle di Racalmuto, a confronto. Ma qui almeno la maestra Taibi faceva sfilare fanciulle in fiore di quella che sarà Regalpetra e tra queste v’era una tale innominata dal petto straripante che eccitava entrambi i due corrispondenti. La grammatica a quel tempo era per Nardu un optional. E tale restò anche nell'immediato dopoguerra per quello che gli rimbrottava un autorevole firma vaticanesca, come rammento di aver letto.

 

Dice Pasolini: “queste favole hanno la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea di questo linguaggio”. “Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua così ferma e tersa”. Comunque “questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola”.

 

L’alato scrivere è fuori discussione, ma il concetto non dovette essere “tenace” duraturo, se Sciascia a quasi un decennio dopo sente il bisogno di puntualizzare, gradire eppure contrapporsi, specificare in un commento al suo riuscitissimo pamphlet “ La Parrocchie di Regalpetra” e scrivere note come queste: “debbo confessare che proprio sugli scrittori ‘rondisti’ - Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere”; “tengo a dichiarare che avendo cominciato a pubblicare dopo i trent’anni, cioè dopo avere scontato in privato tutti i possibili latinucci che si imponevano a quelli della mia generazione, da allora non ho avuto problemi di espressione, di forma se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica”. Lode a Pasolini dunque ma per sola buona educazione (e i malevoli direbbero per convenienza) ma Sciascia non poteva accettare stilemi non congeniali; non accettabile, dunque, che “la sua ricerca documentaria e addirittura la sua denuncia”, potessero concretarsi “ in forme ipotattiche, - a dire di Pier Paolo – sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente (e fino a questo punto la richiesta marxista del nazional-popolare è osservata) ma anche squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo”. In questo tirar di fioretto tra due antitetici “intelletti” quel che di sicuro emerge è che Sciascia non era ”marxista”, v’è persino stizza in lui ed i sofismi tra il conoscibile (che è poi fantasia) e il conosciuto (la galassia della memoria) sfumano nel “saper raccontare con buona tecnica”. Con sapiente sintesi, con brevità, canoni cui mi pare Leonardo Sciascia si adeguò con crescente e mirabile puntiglio.

 



Mi pare quindi disallineata la pagina che il professore Antonio Di Grado ci regala nell’introdurre “gli amici della Noce”. Paratassi oltre i limiti, apparire eruditi citando (un richiamo colto ogni due righe), avventurarsi solo nel conoscibile, elusivi nella memoria e nella contemplazione. Il magistero cade su “confrerès”; gli affetti e le intelligenze sono un grumo intorno ai ricchi silenzi; le citazioni, allusive; il carisma, sobrio. Si citano le “conversazioni in Sicilia”, ma non Elio Vittorini: il magistero intellettuale del grande scrittore non avrebbe gradito: e chiarisce ora il perché, spandendo fuoco nel mare in dispregio dei desiderata del caro estinto, Paolo Squillacioti (pagg. 186-187).

 



Desistiamo. Annusiamo effluvi censori (o di autocensura; peggio). Una triviale domanda: con un “direttore artistico” di tal fatta quanta speranza residua nei conati di conseguire gli scopi statutari della Fondazione Sciascia?

La falsa riforma che Sciascia accredita ai Sant'Elia

 
 
Nel 1999 davamo alle stampe un nostro mal stampato, ma integralmente a nostre spese, "la signoria Racalmutese dei Del Carretto". Ci siam dovuti sorbire anche le punzecchianti ironie di un tal Nocino, stampatore degli 'Amici della Noce' per avergli in quel di Finale Ligure mandato in fumo la sua saga sul coniugio - molto remunerato qui a noi -  Racalmuto-Finale. Divenni uno pedantuccio professorucolo - io che mai ho insegnato - che aveva avuto la pretesa persino di smantellare una consolidata credenza sciasciana.
A pag. 148 di quel mio testo riportavo - allora riverente - un dire sciasciano sui Sant'Elia, ssulla loro "grande riforma". In quel tempo nutrivo qualche dubbio. Oggi ho totale certezza: Sciascia s'inganna ed inganna. La faccenda di Gibillini e dei Sant'Elia  è tutt'altra. Una difesa di 120 anni fa dell'allora notorio avvocato P..E. Xerri smantella la benevolenza del grande Sciascia. Ne riportiamo qui le prime due facciate molto esplicite, non mancando di rammentare il Sciascia che rammentavamo.

muuo soccors


Alla Festa di la B.M. di lu MUNTI pronunciammo il 5 luglio del 1993 - l'anno prossimo fa vent'anni e reiteriamo ora la richiesta per una rievocazione, sperando che il volpino ufficio comunale sta volta non si opponga - questa "dotta" prolusione a lu Chianu Castieddu in gloria del Mutuo Soccorso. Pierino Carbone, solerte come

 

sempre, aveva fatto venire un glorioso cantastorie di cui noi manco il cognome ricordiamo (a maggior disdoro nostro).

Omaggiavamo Carminu Gueli, presidente, e torniamo a farlo ancora qui. Grande e loquace Carminu!. Riddiliu per Alfonso Scimé lui e riddiliu ora io, per volere del baffuto Sardo.

Avevamo dato carte pregevoli: smentivano un burbanzosetto demente di culo che la faceva da despota. Lo invitavamo a espungere i muri d'ingresso del Mutuo da funeree, fallaci, lapidee incisioni. Vinse Lui e noi - il dottor Calogero Taverna e il defenestrato Carmelo Gueli - fummo esiliati. Quelle lapidee sconcezze stanno ancora là, riprotamente immarciscibili.


 


 


 


 

 



 

lettera al compagno Zambito di Agrigento


Caro compagno Zambito,

dopo lo scatto d’ira di ieri, torno a te alquanto compunto: sai? ad 80 anni l’arteriosclerosi è galoppante, irrefrenabile. Mi sei sembrato vittima di alcuni furbschi aggiramenti dei democristianizzatori del vecchio PCI di Racalmuto e qundi la mia virulenta aggressione. Spero che voglia perdonarmi. iI fatto sta che hai affermato cose inesatte: ignori, ovvio, che vi è stata una calata degli unni in quel che rimane della grande tradizione comunista racalmutese. I comunisti a Racalmuto, sai, non sono quelli derisi dallo Sciascia Leonardo che fu giovane fascista e dopo sincero anticomunista viscerale. Abbiamo poi avuto la sceneggiata messaniana, ed altre disavventure. Io spero in te, che prenda in mano questo glorioso partito racalmutese, lo liberi dalla triade  ormai consunta, blocchi la deriva democristiana e fai rivivere la nostra grande lotta per la redenzione sociale di Racalmuto.

Ti dirò che non è vero che vi sia solo faida  e insolenza nel mio paese, l’aspirazione a chiudere con un inglorioso passato è tanta, l’opzione per uomini nuovi, per giovani nuovi, per donne - soprattutto – nuove è incomprimibile. Vi è poi bisogno di amministratori certamente onesti, possibilmente immuni dagli inquinamenti  trascorsi, vivi e vitali, ma che abbiano competenza, empito manageriale, arditezza progettuale. Vi sono sparsi per l’Italia figli di Racalmuto che queste doti hanno dimostrato di averle; perché non chiamarli a dare un supporto al loro Borgo Natio. A che titolo il nuovo plebiscitario segretario della sezione del PD ha stroncato una siffatta salvifica istanza? E tu concordi con lui?

Scrivevo all’ ex (e futuro) sindaco di Racalmuto quel che segue:

Contra Omnia Racalmuto

...per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo.

mercoledì 20 novembre 2013

Supplica a Totò Petrotto ex e futuro sindaco di Racalmuto

La guerra la vinceremo comunque caro Totò. Sto avendo degli interessamenti che promettono bene. A me - come a te - interessa la resurrezione di Racalmuto. Lavoro per i giovani adeguatamente retribuito, fervore imprenditoriale appunto per dare lavoro ai giovani, iniziative di alta cultura per far rilucere il gran bel nome di RACALMUTO, al limite paese di Sciascia, e  così fare di questo piccolo lembo di paradiso (definizione di Bufalino) una irresistibile plaga di richiamo selettivamente turistico. A me il turismo del panino e della coca cola non mi attizza molto. E a te? Aggiungerei: tante municipalizzate per servizi autogestiti a costi molto calmierati: acqua, smaltimento dei rifiuti solidi urbani, strutture parabancarie per sostegni finanziari ad impegno territoriale. E poi vorrei il recupero, la salvaguardia della nostra ignorata ricchezza archeologica della autoctona civiltà preistorica che tucididianamente (ma da rettificare) si chiama "sicana". Vorrei vincoli archeologici assennati e pertinenti. La Soprintendenza considera vincolante Pietralunga (ma questa si trova a Castrofilippo); scambia il piano con la cima collinare della grotta di Fra Diego; ignora le testimonianze bizantine del Ferraro. etc. Prima il lavoro d'accordo; poi il turismo, poi i servizi a costi non usuari, poi il recupero delle nostre ricchezze archeologiche e poi altro ancora. La guerra è ardua ma la vinceremo. Ma se ci perdiamo dietro alla raccomandazione di Ligresti alla Cancellieri (e chi non  ha chiesto raccomandazioni e chi non ha cercato di esaudirle?) le forze si disperdono e la guerra si perde.

 

 

Ma certi miei sogni salvifici per Racalmuto sono di lunga data. Ecco ad esempio, il pro-memoria che ho inviato alla segretaria del compagno Massimo D’Alema come per una sorta di o.d.g dell’incontro, positivo, che ho poi avuto a Campo dei Fiori a Roma, ove ha sede una atipica fondazione di studio e e proposta appunto dell’on. D’Alema.

 

Certo l’incontro ha riguardato soprattutto faccende non di taglio localistico, ma la vicenda racalmutese non è stata trascurata.

 
Perché ti sto dicendo questo?  Per cercare di convincerti  che a Racalmuto non c’è bisogno di avventurieri del piccolo cabotaggio di professionisti locali che più che al bene comune el paese di Sciascia  aspirano ad un ritorno alla vecchia politica piccolo assitenziale di un tempo, al furbetto collocamento clientelare, elettoralistico. Chi sa concorda, chi non sa si sbilancia in melliflui apprezzamenti che mi mandano su tutte le furie.

Pensiero del mattino


Calogero Taverna Se mi affido allo snobismo della mia intelligenza la voglia di vedere l'umanità tutta "in miseria eterna" è tanta, ma poi il mio continuo confrontare l'oggi coll’ieri con l'altro ieri, con questa umanità quale traspare nei secoli scorsi, nei millenni scorsi, nei singulti delle tombe a grotticella attorno alla grotta di Fra Diego al mio paese, Racalmuto, costringe il mio spirito a ribaltare il giudizio; vedo solo una liberazione  dalla miserie, malvagità, dallo sfruttamento, dall’indigenza, quindi un irresistibile ascendere verso un assetto sociale migliore. Sono dannato all'ottimismo.

Al novello segretario provinciale del PD di Agrigento

 
 
L'agostiniano dottor Zambito non credo abbia piacere di venire chiamato compagno. Viste le sue plaudenti esternazioni debbo pensare che poco gli importa della democristianizzazione a
Racalmuto del partito, che dovrebbe venire da lontano - come dire dal PCI, da quel partito in cui ho lottato, sofferto e pagato per quasi mezzo secolo. Mi dice con lamentevole voce che approva e loda il  il nuovo segretario rosso, approvato all'unanimità rossa di rossi iscritti veraci. Ma un mio confidente veramente rosso e da lunga data e con decennale militanza rossa la smentisce e la disapprova. Era lui il candidato rosso alla segreteria del rosso partito di Racalmuto. Ma giunse una sorta di orda, già scaltramente predisposta e impose il voto unitario a pro' di un estraneo professionista. Beh! A Racalmuto oggi il PD non ha manco un centinaio di voti. Come è possibile che all'improvviso una folta schiera di convinti ex comunisti voti  all'UNANIMITA' l'estraneo professionista? Saranno stati ispirati  ispirati da Sant'Agostino. Tutti i compagni comunisti all'unanimità scelgono chi mai mi risulta, in vita sua e nelle peregrinazioni da un partito all'altro, avere alzato alzato irosamente il pugno in segno  di saluto.  E questo sarebbe il nuovo, il buono, il giusto, il futuro? Già, ora vi è l'innamoramento "rosso" per gli AMICI Cavallaro-Savatteri, quei celeberrimi pesci di scoglio e di mare che Buttafuoco vuole come candidatii podestà  (sic) di Racalmuto. Debbo inviarle il FOGLIO di questa estate? Il Pd ora è prono al Buttafuoco dell'ex Comunista Ferrara?. Ovvio, lei non mi legge? E perché dovrebbe? Non abbiamo proposte, idee, visioni ostruttive, non vogliamo un vero futuro migliore a Racalmuto? Proprio oggi ho licenziato un alterco con l'ex (e futuro) Sindaco Petrotto? E' il vuoto? Non vi sono progetti? Sono solo miei(inesistenti) discariche di responsabilità, di astiose ripicche da baruffe chiazzotte? Mi scusi, ma il vuoto mi pare che soffi in quel lungo insenso suo dire, ignaro com'è di Racalmuto, delle nostre tragedie, del nostro vero bisogno di risorgere. No, nulla lei  dice. Approva solo una votazione-farsa, s'inchina a certi strani desideri voti al  ripristino della fascistica carica di PODESTA' a Racalmuto.  Se questo è essere compagni!

giovedì 21 novembre 2013

Osanniamo la crestomazia raxcalmutese, clerical-fascista

Un'accolta della crestomazia clerical-fascista di Racalmuto sovrasta la chiesuola di San Pasquale prima dello scempio democristiano, il partito prodigo nell' "abbellire" in peggio chiese e conventi.
Notiamo che il vescovo Ficarra, le cui carte Sciascia avrebbe dovuto lasciare nella Fondazione omonima, flirta qua con il potente gesuita Nalbone; non era papa nero ma insomma sempre molto amico era del fascistissimo presule (ma gesuita) Tacchi Ventura. Tutta la famiglia dei Nalbone ormai nobilitata dal Vaticano fa corona. Pensiamo al Serrone visto che quello che ancora si chiama Cap.  Salvatore Burruano, uno dei tanti innumerevoli figli del protofascista don Ciccu, svetta, ma non tanto da superare il longilineo e affascinante arciprete (non credo che a quel tempo fosse monsignore) Casuccio. Cerco di scrutare la lontana donna Marietta, mia impagabile maestra di dottrina cristiana, (ma nulla traspare). Solo che l'alto ufficiale dei carabinieri schiaccia fisicamente padre Chiarelli senior, che però di suo molta altezza non metteva e stava pure al centro;  ma poca ombra ormai poteva dare a chi lo si denigrava come "patri ccippiettu".

Tra il vescovo Ficarra (l'unico prete stimato da Sciascia, forse perché rimasto fascista - e quindi non molto gradito ai clericali di La Loggia o di Andreotti)  e tra - credo -  il suo bel segretario in tunica (io quando vedo preti in tunica mi rassereno: ho sempre l'impressione che non facciano maschia concorrenza: sinite pargulos ad me venire? e chi se ne frega, purché stiano lontani dalle donne) in mezzo dunque chi vi sta? ma il commendatore (per generosità vaticana) Nalbone.

Mio padre litigò forte con lo zio di mia madre,  il celebre campiere lu zzi' Nnicu La Rocca, bisnonno di mio cugino l'ex sindaco Gigi Restivo Pantalone; lo portava da questo vaticano commendatore e lo costringeva a baciargli la mano. Mio padre 'sti feddri grassi non li gradiva, ma lu zzi' Nicu lo costringeva perché vi si doveva rendere sempre più "commodo".

Garibaldi mai tato Ptresidente el Circolo del Mustuo Soccorso di Piazza castello, la storica società laica mai bisca come scrive Sciascia.

Mons. De Gregorio, da quel raffinato storico che è, avrebbe dovuto meglio acclarare prima di scrivere che divenuto il Mutuo Soccorso riedizione "della vecchia società laica"... "volle presidente G. Garibaldi". No Garibaldi, che fu strumentalizzato per consentire alla fazione Tulumello di avere la meglio su quella dei Matrona fu soltanto "Presidente onorario" meno di un labaro massonico da aggiungere alla bandiera tricolore o "una cimicia" accanto a compassi, cazzuole triangoli e tutte quelle delizie di una massoneria che si rispetti. Ne parlo con dovizia di particolari in un trattatello dattiloscritto che ovviamente il sig. Volpe un paio di anni fa si rifiutò di accreditarlo tra le ricerche storiche spoglie di cervellotiche congetture. Il p. Angelo Sferrazza Papa S.J. ma di quelli buon e ne fornisce nella sua pregevole intervista a mons. Casuccio una indubitabile testimonianza documentale, che noi fotocopiamo e pubblichiamo qui sotto.  

Vent'anni fa. Oggi la conferma con il confiteor di Geronzi. Per la miseria avevo agione. Pur non sapendo ... avevo bene intuito. Bankiitalia e Consob avranno rispettivamente il tele mio di diffida a Fazio e la raccmandata con AR i sottilissime accuse. Ricontrollino e almeno mi chiedano sca.

CONTRORELAZIONE DI STIMA DEL RAPPORTO DI CONCAMBIO TRA LE AZIONI DI BANCA MEDITERRANEA E DI BANCA DI ROMA A SUPPORTO DELLE DETERMINAZIONI DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DI BANCA MEDITERRANEA.

Dott. CALOGERO TAVERNA,
ex ispettore di vigilanza bancaria della Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di minoranza della Banca Mediterranea.
Dott. GIUSEPPE TAVERNA,
dottore in giurisprudenza.
St. Un. CINZIA LEONE,
laureanda in giurisprudenza.
 Due o tre puntualizzazioni a mo’ di premessa.

Si dà per letta la congerie di documentazione messa a disposizione dei soci di minoranza della Banca Mediterranea in ordine a:
1) al progetto di fusione per incorporazione della Banca Mediterranea SpA nella Banca di Roma Spa;
2) al bilancio di esercizio 1999 della medesima Banca Mediterranea.
Nella prodromica assemblea del 9 novembre 1999, l’istanza di chi scrive a coinvolgere – anche in posizione oltremodo subalterna – i vari comitati di soci nella impostazione delle stime e delle controdeduzioni ai rilievi della Banca d’Italia della precedente primavera è stata totalmente disattesa.
 Non è stata accettata l’offerta di «…collaborare per una contrapposizione difensiva avverso la Banca d’Italia.»
Non si è dato peso al fatto che «se questa proposta dovesse essere accolta, si renderebbe necessario interrompere l’assemblea e riconvocarla per deliberare sui risultati che una siffatta commissione mista di cointeressati riterrebbe utile sottoporre all’approvazione dell’intero sodalizio bancario.»
Men che meno si è dato spazio ai soci di minoranza intenzionati a «respingere l’intero o.di g. che viene proposto e predisporre gli strumenti tecnico-giuridici per una difesa giudiziaria, il cui filo conduttore non può non essere il conflitto di interessi con il socio di maggioranza – spesso socio tiranno – e con quanti vi si sono accodati o vi si accodano.»
Ed ecco come si contava in quell’intervento requisitorio:
Il conflitto parte da lontano e a dire il vero con una intrusione della Banca d’Italia, per lo meno, irrituale. Fu infatti il locale direttore della Banca d’Italia a rappresentare nel 1994 i desiderata dell’Organo Centrale tendente ad imbarcare la banca del sud nell’alveo del mega gruppo facente capo alla Banca di Roma. L’autorevole suggerimento trovò spazio in una sede impropria quale è la lettera ufficiale di contestazione delle risultanze ispettive (nota n. 4626 del 16 settembre 1994): vi si legge, infatti. «... la Banca di Roma dovrebbe acquisire una quota del 30% del capitale di codesta Banca [Mediterranea] [..]: in tal modo, codesto ente entrerebbe a far parte del gruppo creditizio Cassa di Risparmio di Roma. Al riguardo, si è qui dell’avviso che l’accordo debba essere considerato alla luce dei risultati della verifica ispettiva. In particolare, l’apporto patrimoniale dovrà essere quantificato tenendo presente la necessità di fronteggiare il deterioramento dell’attivo e di ripristinare l’equilibrio reddituale [..]: l’intesa dovrà consentire i più ampi poteri di gestione al partner prescelto, nel cui gruppo creditizio andrà ricompresa l’azienda ...» (v. pag. 5).
E potremmo citare altre fonti che ormai sono di pubblico dominio per i vari processi anche penali in corso.
Ma l’usbergo B.I. non dissolve le responsabilità Bancoroma.
Nel 1993 figuravano tra le azioni proprie L. 18.413/m. comprate per la maggior parte a L. 15/mila. Con accordi del marzo 1994 la Banca di Roma s’impegnava ad acquistare n. 1.568.816 azioni in portafoglio della Mediterranea a L. 15.000 ed a sottoscrivere integralmente un aumento del capitale per giungere ad una quota del 30% al prezzo di emissione non inferiore a L. 15.000. Era un accordo condizionato, ma nella sostanza non poteva essere modificato se non per eventi allora imprevedibili. L’atto provvidenziale fu la drastica ispezione Scattone che abbondando in previsioni di perdite su opinabili sofferenze consentì la riduzione del prezzo da L. 15.000 per azione a L. 8.000 per azione. La Banca di Roma senza doversi sbracciare più di tanto potè rinegoziare l’iniziale acquisto delle azioni della Mediterranea nel proprio portafoglio da L. 15.000 ad azione a L. 8.000; sottoscrivere sempre a L. 8.000 per azione l’aumento del capitale sociale del novembre 1994 ed a tale prezzo potè aggiudicarsi  quello successivo del 1995.
I dati tecnici qui non interessano: resta però evidente che la Banca di Roma potè acquisire l’attuale 58% o giù di lì del capitale sociale della Mediterranea adducendo soltanto 339/miliardi circa al posto di L. 636/miliardi circa con una differenza di L. 297/miliardi circa, (miliardo in più, miliardo in meno: noi non abbiamo per ora i dati precisi). Dobbiamo aggiungere che la cosa, pur indagata, non ha sinora sortito effetto alcuno presso la magistratura. Il supporto giuridico sembra essere una perizia di un auditor bancario, di cui la Banca di Roma è socia, che a dire il vero si è limitato a  fare un poco convinto riferimento alle risultanze ispettive precedenti. Ma particolare di grosso valore, la Banca di Roma non ha ritenuto, dopo, attendibili le ricostruzioni ispettive e per anni le sofferenze sono state molto al di sotto rispetto a quelle ispettive. Del pari le valutazioni delle perdite inerenti.
Oggi, in questa chiamata al giudizio finale, il socio di maggioranza dovrebbe per lo meno allontanarsi ed il C. di A. con il collegio sindacale non avrebbe titolo a fare proposte di acquiescenza ai nuovi risultati ispettivi per la palese confliggenza d’interessi. Una delibera in ordine delle responsabilità patrimoniali dovrebbe avvenire senza l’interferenza di soci coinvolti o di amministratori consenzienti.
Non si mancava di scendere nel  dettagli in ordine ai seguenti indici di anomalia nella gestione bancaria.
a) la Banca non ci segnala che il nostro sistema informativo è risultato “obsoleto”; che inadeguato è apparso l’apparato contabile e segnaletico; che carenti si  sono rivelati i sistemi di controllo interno. Ebbene ciò nonostante che dal 1994 ad oggi il carico del conto economico per competenze a professionisti esterni abbia avuto il seguente ingente sviluppo: 1994 L. 5.432.795.176; 1995 L. 3.447.530.240; 1996 L. 4.914.115.300; 1997 L. L. 6.413.846.934; 1998 L. 7.049.931.185 e già nella prima metà di quest’anno l’esborso è asceso a L. 5.671.059.916.
b) Se siamo bene informati, alla Banca d’Italia non piace neppure il nostro Servizio Ispettorato - ma per esperienza diretta noi dobbiamo qui esternare il nostro plauso ai valenti dirigenti della Mediterranea che vi hanno operato e che ancora vi operano – e tanto rende inaccettabile l’enorme dispersione di mezzi propri nel pagare ingenti somme alla Capogruppo per prestito di “personale”. Leggendo gli scarni dati di bilancio abbiamo che nel quinquennio sono stati sborsati questi emolumenti a dirigenti estranei distaccati dalla Banca di Roma: 1995 L. 1.434.486.272; 1996 L. 3.049.758.246; 1997 L. 2.281.669.399; 1998 L. 2.531.803.065 e nella prima metà del 1999 L. 1.400.830.290. In totale dunque L. 10.699,5 milioni di nessuna utilità, di gratuito aggravio dei vari conti economici, già pesantemente incisi dall’enorme costo del personale proprio – invero di altissimo livello, se bene utilizzato – e con incidenze sulle responsabilità degli amministratori, dei sindaci, nonché con insorgenze conflittuali di interessi nell’ambito delle assemblee sociali per la presenza determinante del socio tiranno beneficiario indiretto di codesti indebiti o dispersivi gravami economici.
c) Per il nuovo ispettore della Banca d’Italia gli ingenti accantonamenti per ammortamento in conto delle varie sofferenze ed incagli che hanno devastato i precorsi esercizi sono insufficienti e necessiterebbero – a dire degli stessi amministratori – “rettifiche di valore su crediti in sofferenza e ad incagli pari a L. 175,8 mld.” e cioè L.30,8 mld. per “rettifiche di valore analitiche” e L. 143 mld. a titolo di svalutazione “forfetaria”. Non venendo ragguagliati in nulla, noi soci di minoranza contestiamo siffatta impostazione di bilancio.  Innanzitutto, occorre conoscere il trend delle sofferenze dalla precedente ispezione alla presente: occorrono i famosi allegati di supporto agli stringati rilievi. Necessita stabilire se la gestione delle precorse sofferenze è stata adeguata e proficua; se il socio di maggioranza ha favorito i suoi grandi clienti esposti anche in Mediterranea;  se via sia stato uno storno di posizioni incagliate da Roma a Potenza ed altre peculiarità operative che passano anche attraverso compravendite di azioni preferenziali della Mediterranea da parte della Banca di Roma a pregiudizievole sistemazione di taluni grandi debitori della Mediterranea. Questi e tanti altri aspetti su cui ci si riserva di intervenire nelle competenti sedi rendono particolarmente grave il contesto delle responsabilità amministrative di amministratori e sindaci ed inquinano le precedenti delibere assembleari che hanno inteso suggellare, col solo assenso dell’interessato socio tiranno, un indirizzo gestionale che ora la Banca d’Italia torna a stigmatizzare pesantemente.
d) Per la Banca d’Italia, prodottasi in uno scrutinio del merito di credito nella sua veste di terzietà, diffuse sarebbero le manchevolezze che vengono giudicate incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto. L’iniziale intento di convogliare a Potenza da Roma risorse tecnico-menageriali rivenienti da una impresa bancaria di alto standing appare del tutto frustrato. La Banca d’Italia non può pertanto lasciare la Mediterranea in mano a chi ha tradito la sua fiducia: le resta l’ufficio ex art. 76 TULB cui deve procedere con urgenza perché vanno profilandosi manovre pregiudizievolmente dilatorie come è la proposta degli amministratori, che, pur fustigati dai rilievi ispettivi, vorrebbero un “rinvio al prossimo esercizio dell’adozione degli opportuni provvedimenti di cui all’art. 2446 c.c.” e ovviamente fidandosi della benevolenza del socio tiranno – per suo verso interessato a tale conflittuale slittamento di provvedimenti che sarebbero inceppanti della veridicità e fedeltà del suo proprio bilancio -  sperano in una decisione volta a soprassedere «in questa sede, alla riduzione del capitale a copertura delle perdite al 30/06/99».
e) Sempre ad avviso dei nuovi ispettori B.I. gli incagli ufficiali hanno per lo più caratteristica di sofferenza. Si intuisce, dunque, un deterioramento dell’assistenza creditizia. Le sofferenze residuano in L. 600/miliardi a seguito di “rettifiche di valore” per L. 595,6 miliardi (la nostra banca ha crediti in sofferenza per L. 1.196 miliardi  che gli amministratori di diretta emanazione del socio tiranno lasciano marcire da anni tra le pieghe dell’attivo). Sono destinate, per intuizione ispettiva, a crescere ulteriormente. La Banca d’Italia non è tenuta ai provvedimenti di rigore, ma un inquietante interrogativo la dovrebbe attanagliare, specie se lascia l’azienda bancaria sotto la sua vigilanza, in mano di amministratori e di un socio di maggioranza a dir poco distratti. Aggiungasi che patologico va giudicato il comparto degli interessi di mora: trattasi di L. 373.293.701.894 svalutate per L. 320.953.587.573, il che la dice lunga sulla indolenza degli amministratori nel recupero almeno parziale degli interessi moratori. Ed il rilievo n. 15 è molto significativo al riguardo. S’impone quindi l’interrogativo circa l’atteggiamento della B.I. che al momento si limita a contestare cose tanto gravi senza assumere le iniziative che, se non la forma, l’essenza della vigilanza  prudenziale imporrebbe senza indugio.
f) Rade sarebbero – sempre per la Banca d’Italia - le autonome e tempestive azioni esecutive volte al recupero dei crediti. Da ciò dovrebbe scaturire un’immediata e tempestiva iniziativa nel senso scandito dall’art. 76 T.U.L.B.
g) Quanto delicato sia il rilievo sulla scarsa correttezza contrattuale e sulla rilassata prevenzione dell’utilizzo dei circuiti bancari a fini criminosi è di palmare evidenza. Un rilievo del genere rivolto ad uomini per vari versi legati ad uno dei massimi enti bancari nazionali lascia solo esterrefatti. Ma basta una semplice tirata di orecchie?
h) Per Barbagallo sarebbe solo insufficiente l’attenzione che viene prestata all’osservanza della normativa antiusura. Per quel che ci è capitato di vedere, gli episodi di tracimazione dai “tassi-soglia” sarebbero tutt’altro che episodici e di modesta misura.
i) Censurabili in termini di maggior rigore ci sembrano i casi di devianza dai canoni dell’antiriciclaggio (rilievo 16);
j) Esulando dalle contestazioni B.I., abbiamo da lamentare l’assoluta inidoneità delle note illustrative della nota contabile al 30/6/99 e dell’o.d.g che ci viene proposto. Il rendiconto che ci viene chiesto di approvare ha un taglio decisamente incomprensibile: nulla si spiega, nulla si dice a chiarimento di tavole e tavole di aridi numeri, men che meno ci vien fatto sapere perché all’improvviso si riesumano fatti e vicende di almeno un quinquennio prima e - divenuto il socio egemone padrone assoluto del consiglio di amministrazione, dopo il defenestramento o le dimissioni forzate dei pur remissivi esponenti della minoranza - si è inferto un colpo esiziale alle residue valenze patrimoniali dei soci minoritari. Abbiamo detto sopra come secondo noi la Banca di Roma sia divenuta all’improvviso padrona assoluta della Mediterranea senza conferire - o quasi - alcun apporto per consolidate plusvalenze della precedente azienda bancaria. Dopo il bilancio 1997 -  che a mio avviso va invalidato per nullità sempre eccepibile – è stato azzerato il “fondo soprapprezzo azioni” che noi soci di minoranza e noi soli abbiamo costituito, con solo nostri sudati - ed ora dispersi - capitali freschi; non furono rispettati i divieti per conflitto d’interessi e fu rimessa alla volontà dittatoriale del socio egemone la decisione dissolvitrice del patrimonio altrui, senza contemplare gli ostacoli anche giuridici che vi si contrapponevano. Tre o quattro cifre sintetizzano la devastazione bancaria che con questo rendiconto semestrale  - frutto solo dell’inventiva dei rappresentanti del socio egemone - ci si propone addirittura di “approvare”, come se non si trattasse di manovre volte solo a nostro danno, a danno cioè dei soli ed indifesi soci potentini, e cioè di quei maldestri soci vistisi ridotti a soci di minoranza quando un tempo erano i proprietari assoluti della Banca, per non parlare dei soci di Pescopagano che per destinazione del padre di famiglia vantavano imprescrittibili ed incedibili diritti di prelazione su una non trasformabile banca popolare. E tutte queste nostre ragioni sono state nel tempo vanificate per interferenze anche autorevoli.
k)  Con alcune cifre buttate lì, nel rendiconto semestrale, che sconvolgono ogni logica di economia d’azienda si vuole, con decisione del solo socio di maggioranza, vanificare i patrimoni dei soci minoritari;  ciò, mentre  - per converso – si lascia integra la partecipazione del socio dominante che potrà alienare ogni cosa senza nulla perdere.
l) Abbiamo subito conflitti d’interesse a non finire; siamo stati iugulati con decisioni lesive dei nostri interessi di soci privati di voto effettivo per il prevalere del socio tiranno, interessato a ben altro; nessuno può negare che v’erano nel passato fondati sospetti di condotte ricadenti negli articoli del 2446 codice civile, 2447 c.c. e 2448, sub 4), pronuba anche una legge bancaria priva di difese per i soci di minoranza, espoliatrice dei diritti ex art. 2409 c.c.; di una legge bancaria che per ottenere dalla Banca d’Italia un motivato giudizio – prevedibilmente negativo per i soci di minoranza – vuole il voto assembleare del ventesimo del capitale sociale. Ma se vi sono notitiae criminis la Banca d’Italia non è tenuta a fare rapporto all’autorità giudiziaria, senza indugio? E così ancora una volta dovremmo subire l’arcigno silenzio sugli eventi che avrebbero improvvisamente determinato il crollo della nostra banca, dato che il C.d.A.  – che  al socio di maggioranza, statene certi, tutto ha già detto – reputa prudente non fornire adeguati chiarimenti sia in sede di relazione generale sia in sede di doverosa esplicazione di sibilline poste contabili.
m)  Si pensi ad un fatto devastante: senza eventi imprevisti ed imprevedibili, senza ragioni inopinatamente sopraggiunte, senza deterioramenti repentini dell’ordinario operato bancario (del tipo di colossali malversazioni da parte di dipendenti infedeli), la Banca Mediterranea,  che nel 1998 il suo modesto ruolo di azienda creditizia era riuscita a svolgerlo per merito esclusivo della pur numerosa e subalterna compagine impiegatizia, precipita da un risultato passabile  ad una catastrofica perdita di periodo (che vuol dire?) 
n) La disavventura è tanto inconsueta, tanto spaventevole, tanto abissale che avrebbe dovuto spingere i responsabili - alla fine tutti portavoce del solo socio dominante - a quintali di giustificazioni e di chiarimenti e di ragguagli e di informazioni tecniche e di spiegazioni giuridiche, e di lezioni di tecnica bancaria, e di altro ed altro ed altro ancora. Ed invece nulla, o pressoché nulla - visto che quello che si dice, cripticamente, innocentemente, sa di scarica barile. Il nostro patrimonio crolla d’improvviso e si porta a quota 155/miliardi (ed i tecnici sanno per di più che la riserva per azioni non va conteggiata); in parole povere le nostre azioni che credevamo valere ancora sulle 8.000 mila lire, non valgono neppure il valore nominale di L. 5.000, ma solo, salvo ulteriori devastazioni, L. 2.050 (che in prospettiva potrebbero equivalere a 4 azioni del Banco di Roma all’identico valore nominale e francamente con questi chiari di luna potrebbe anche convenirci. Basta che ce l’assicurino sin d’ora).
o) Ci pare di riascoltare vecchie giustificazioni che si abbarbicavano ai cosiddetti  “fenomeni di deterioramento della qualità del credito” (vedasi bilancio 1997). Ma ora i “romani” debbono spiegarsi meglio: vengono dalla “sapienza” e sono sapienti. Si deteriora qualcosa che una volta era buona. Si deteriora qualcosa perché malconservata. Si deteriora qualcosa perché non si sa gestirla. Si deteriora qualcosa perché, per mille inconfessabili motivi, la si vuol deteriorare, perdere. Si deve essere più chiari. Qui è in gioco la sopravvivenza della banca, almeno la sopravvivenza delle partecipazioni minoritarie. Al socio egemone può fare comodo rimpinzare di riserve, se non occulte, di sicuro potenziali questa nostra banca; lasciare un residuo barlume di consistenza patrimoniale che giustifichi la partecipazione al valore di L. 6-7.000  nel bilancio bancario del socio dominante; vendere a terzi quell’interessenza - magari esteri e meglio ancora se esterovestiti e meglio ancora se con capitali facili - a prezzi di affezione; creare le premesse per un successivo azzeramento del capitale sociale per l’estromissione dei soci dominati e ciò in vista di una ricostituzione del capitale sociale cui non potranno accedere i soci dominati per inidoneità finanziarie; facile così la locupletazione degli ipotetici speculatori esteri (cui gratuitamente accederanno le riverse potenziali per i sovrabbondanti ammortamenti delle sofferenze). Dovete chiarire e rasserenare i soci di minoranza, informarli e soprattutto astenervi dalle improvvide politiche di occultamento di utili con massicce e ingiustificate rastremazioni dei crediti.
p)  “Fuge rumores” dicevano i maestri del capitalismo italiano. D’accordo: ma qui non è questione di rumori; qui è l’annuncio di una morte, della morte di una banca. Se non il lamento delle prefiche - e nessuno di noi lo gradirebbe - almeno una confessione liberatrice sarebbe doverosa. Da cinque anni abbiamo le tanto conclamate sinergie con il grande polo della Banca di Roma; caterve di funzionari, dirigenti in prequiescenza, profluvio di corrispondenza ammonitrice; pareri “pro veritate” - ma a dire il vero, la verità della casa madre - ultra remunerati; amministratori venuti da lontano; provvedimenti odiosi; dimissionamenti ex abrupto di dirigenti tradizionali, e tant’altro: beh! tutto questo non solo non ha impedito la catastrofe ma l’ha registrata, a dir poco, tardivamente. E per di più - e qui siamo nell’inaccettabile - la si viene qui a raccontare per sommi capi, cripticamente, senza ragguagli, misteriosamente, ultimativamente e con il non nascosto intento di ottenerne la tranchant approvazione del socio egemone, noncuranti di ogni remora per conflitto d’interesse.
q)  Un tempo ci venne detto che la débacle  si era verificata: «a seguito del totale deterioramento della situazione economico-finanziaria di alcuni clienti e grandi gruppi che ha comportato, in particolare per nuovi fatti negativi riscontratisi nella seconda metà del 1997, oltre al passaggio dei relativi rapporti da incagli a sofferenza, un aumento delle previsioni di irrecuperabilità,[per cui] sono necessitate rettifiche nette su crediti e svalutazioni per perdite definitive per circa 275 miliardi.» (v. p.  2 bilancio 1997) . O si mentì allora o si mente adesso. In ogni caso numerose sono state le inesatte segnalazioni all’Organo di Vigilanza.  L’organo tutorio fu  in quiescenza allora, non mi pare che possa continuare ad esserlo. Non può quindi lasciare la banca in mano di chi qualche problema con l’art. 134 T.U.L.B. dovrebbe averlo. Si vocifera - a dire il vero qualcuno mostra le fotocopie delle missive - che non è da ora che l’ex Amministratore Delegato pietisse udienza epistolare presso quelli di Roma per il passaggio a sofferenza di posizioni a lui sgradite; si vocifera che Roma abbiano fatto finta di non ricevere neppure quelle missive, almeno sino ad una certa data?  Si vuol rispondere in questa sede? Si vuol chiarire se almeno la consapevolezza di quel deterioramento del credito c’era già a date pregresse? Vetustamente? Se no, si vogliono fornire le precisazioni? Sono state almeno fatte le debite segnalazioni all’Organo di Vigilanza? I moduli di rito (Mod. 135 Vig. di un tempo o quelli attuali di Matrice) sono stati corretti, ad ogni cadenza? Non v’è pericolo di essere incorsi nelle censure dell’art. 134 della legge bancaria? O si pensa davvero che la normativa di Vigilanza valga solo per gli zotici amministratori del Sud ma non riguardi gli Unti del Signore? Davvero agli “amici sarà dato; ai nemici sarà tolto”, per esprimerci evangelicamente?
r)  Possiamo rigirare quante volte vogliamo la scarna paginetta di questa nota del C.d.A. (quella dei sindaci è ancor più risibile): nulla sapremo sullo stato degli impieghi (qualche cifra buttata qua e là). Ne sapevano di più quelli della FIBA-CISL  che ironicamente si andavano domandando “Ma c’è qualcuno a cui interessano 1.200 miliardi?”. Prosa e sintassi a parte, quel che in quel foglietto si dice pubblicamente - e i responsabili di questa banca lo hanno lasciato dire impunemente - credo che interessi a questo consesso. Ma soprattutto credo che i nostri amministratori dovevano in sede di bilancio contestare, puntualizzare e precisare le accuse dei cislini. Davvero l’Ufficio Recupero Crediti si è tramutato in “discarica di rifiuti a cielo aperto”?  Non siamo in vena di compassione per chi ha voglia di fare sapere all’esterno - ma lo stipendio lo riscuote all’interno - che viene spremuto “uno sparuto numero di addetti alla gestione, sempre più oberato di carichi di lavoro che hanno condotto alcuni di loro ad un vero e proprio stress psico-fisico, in un locale sempre più simile ad un cantiere edile, per non usare altro genere di paragone.” Ma siamo più interessati alla faccenda dell’amministratore delegato; anche a noi, in sintonia, “sorge spontanea un’altra domanda: se l’amministratore delegato ha avvertito l’indifferibile necessità di effettuare le così dette pulizie, riversando a sofferenza centinaia e centinaia di miliardi si da creare una vera e propria discarica delle sofferenze, che hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 1.200 mld., al netto di molti altri miliardi girati a perdite, cioè a babbo morto, ha, al pari, avvertito l’esigenza di dotarsi di uno strategico piano dei rifiuti?” Dove dobbiamo cercare risposta a questa ed altre domande consimili? Dal sindacato della CISL? Non abbiamo diritto ad averle qui quelle risposte? Anzi, non dovevano esserci già? Vorranno gli amministratori ripensarci, ritirare il bilancio e corredarlo di tali doverose risposte? Ci vorranno dire che c’entra Mastronardi con le sofferenze, visto che la CISL lo rimprovera di non avere affrontato “in maniera seria e concreta .. la questione delle sofferenze”? La CISL si permette di accusare la banca - ma questa non risponde alla CISL ed omette anche in questa sede di dare la dovuta informazione - con questi pungenti appunti: «I problemi, quasi tutti insoluti, sono letteralmente esplosi, rendendosi di più difficile soluzione; l’eccessiva burocratizzazione e legalizzazione  ha pressoché ingessato il settore rendendolo sempre più simile ad un’aula di tribunale e sempre meno un ufficio bancario dinamico, moderno, pragmatico, orientato a recuperare i propri quattrini senza diventare strumento per bieche affermazioni personali di madame e messeri di turno.» Ci punge vaghezza di sapere chi sono codeste “madame” e codesti “messeri” a turno nelle “bieche affermazioni personali”. Ma forse è già partita qualche denuncia. Almeno, si ha intenzione di segnalarcela? La FIBA-CISL asserisce che “il nostro amministratore e i suoi detti consulenti ... sono, diversamente dai sindacalisti, pagati, pardon, stra-pagati!” A noi soci di minoranza si vuol almeno dare qualche ragguaglio su tali strapagamenti? In bilancio qualche cifra spunta - ovattata, però, confusa in un mare di dati: qualche cenno l’abbiamo fornito noi sopra. Tanti soldi spesi per portare la redditività bancaria abissalmente sotto zero ed il patrimonio da 600 e rotti miliardi ad un opinabile importo di 155 miliardi. Ma le cifre dicono poco: non sappiamo quanto abbia preso l’amministratore delegato e quanto sia finito ai numerosi membri degli organi aziendali. Abbiamo già detto delle decine di miliardi erogati a “professionisti esterni”: a chi, a quale titolo, perché? Mistero. Ci piacerebbe tra l’altro sapere se corrisponde al vero che si sia ritenuto necessario consultare un legale esterno della Banca di Roma per sapere come comportarsi nell’acquisto delle proprie azioni;  se è poi vero che costui si sia limitato a sintetizzare quello che aveva già scritto in un vecchio suo lavoro pubblicato e stravenduto; che abbia dato consigli così vaghi che gli esponenti aziendali si sono sentiti riassicurati sul loro vezzo di comprare da beneaccetti, fingendo persin di credere a cervellotiche motivazioni, e di negare l’acquisto a chi gradito o perlomeno compaesano (pugliese) non era; che per somma beffa, quel vacuo parere sia costata una tombola alla banca. Sono questi solo pettegolezzi di borgata? Vorranno i nostri progettisti del bilancio, chiarire, rasserenare, fugare gli equivoci? Oppure reputano la faccenda, coperta dal .. segreto bancario? Le Autorità di Vigilanza non sono davvero interessate alla questione? La provenienza di quei consulenti può avere un peso?
s)  Per inciso, la petulante domanda della FIBA-CISL è del 23 marzo 1998, in tempo per consentire ai nostri amministratori - se davvero ne avevano voglia - di fornire in questa sede tutte le spiegazioni possibili, il ragguaglio su tutte le difese percorribili. Il silenzio è, per converso, eloquente. Sorprende davvero quello che viene lasciato cadere, quasi inavvertitamente, a pag. 2 del bilancio 1997: “Perdite definitive per 275 miliardi” vengono segnalate come se ci si ragguagliasse su una gita scolastica. Che cosa sono le perdite definitive per “rettifiche nette su crediti”? Perché definitive? Si tratta di valori numerari certi? Se sì, ci vogliono venire spiegati? A pagare siamo noi, soci di minoranza. Si consultino tutti i testi di economia aziendale e di tecnica bancaria e non si riuscirà a comprendere la portata gnoseologica di una definitività in momenti valutativi dei crediti: la ragioneria ci dirà che siamo in presenza di “perdite temute”, di eventualità, dunque. Ed allora? La informazione ha senso se si vuol dire che la banca, in vena di munificenza, si sia messa ad assecondare clientela di favore con formali rinunce delle proprie ragioni creditorie. Magari, basandosi su un incidente di percorso di qualche maldestro ex direttore generale che non si è avveduto che la garanzia doveva essere novennale anziché annuale. E basta tanto per considerare “perdita definitiva” qualche grazioso omaggio, magari di una cinquantina di miliardi, “per necessitata rettifica netta su crediti e svalutazioni”? Vogliono, lor signori, informarci, o rasserenarci? Abbiamo diritto alle indispensabili informazioni? Ove si trovano nei bilanci che avete progettato e fatto approvare dal cointeressato socio tiranno?
t) Ma ritorniamo ai 688,1 miliardi di “perdite ammortate” per temuta irrecuperabilità di partite in sofferenza. Non crediamo che si tratti di creditorie perdenti alla data del 24 marzo 1998 o a quella del 16 settembre 1999 (data di consegna del rapporto, visto che pare i signori amministratori si siano rifiutati di firmare in ante-prima i famosi allegati di vigilanza ispettiva). Sicuramente, si tratta di incagli risalenti alla notte dei tempi. A quando? Si è posta attenzione al fatto che l’importo della perdita era tale da sovrastare  il capitale sociale? Non vi erano altre perdite? Non è colpa nostra se non è facile capire cosa gli amministratori abbiano voluto dire con la ridda di cifre dei vari bilanci relative alle perdite “temute”. Le quali perdite - qualsiasi alchimia contabile si tenti, a qualsiasi scuola di pensiero si aderisca - per lo meno hanno, da anni, determinato quel paralizzante buco patrimoniale di cui all’art. 2446 codice civile. Perché allora non si è proceduto alla convocazione dell’assemblea “senza indugio” in tempi non sospetti?  Noi siamo tentati di sospettare che un conto è per il socio egemone svilire l’esposizione creditizia della concorrente banca dominata, un conto è svilire formalmente il capitale sociale della banca dominata, pena la necessità di ammortare la propria partecipazione - e Dio solo sa se la Banca di Roma può permettersi svalutazioni siffatte - e la doverosità degli apporti di capitali freschi propri nella stessa banca dominata. Ma palmare è il  conflitto d’interessi che ne scaturisce. C’è da domandarsi allora se si è operato con accortezza, se si è deliberato nel passato con le debite astensioni. Se non si vuol rispondere in questa sede, prima o poi ed in ben altre assise  si sarà costretti a farlo.
u)  Per non venire tacciati di fare un discorso “senza costrutto”, siamo costretti ad essere puntuali sino alla pignoleria. Una pregiudiziale deve essere però subito evidente. Mentre a noi soci di minoranza non è dato di sapere nulla sulla nostra banca, fuori di qui, nelle sedi sindacali - lo abbiamo visto - in quelle politiche, presso il Consiglio di Basilicata, e presso la stampa (l’orgia di questi giorni ci ha infestati tutti), carte, rapporti ispettivi, consulenze giudiziarie, interrogatori, documentazione riservata ecc. circolano come romanzetti d’appendice. Noi abbiamo avuto la fotocopia dell’interrogazione di Pietro Simonetti del 23 marzo 1998. L’iniziativa politica è stata resa di pubblica ragione con il corredo degli atti riguardanti la nostra banca. Quel che i nostri amministratori ci tengono segreto, lì è dato in pasto del pubblico. Quanto andremo dicendo si avvale di quei documenti. Ma trattandosi di nominativi, di imprenditori, di gente che ha diritto alla riservatezza, ci guarderemo bene dal divulgare - da parte nostra -  le generalità di siffatta clientela bancaria.
*   *   *
      A noi interessa avere risposta in ordine ai fatti che stravolgono la gestione della nostra azienda: i nomi a chi interessano. Ci serviremo quindi di riferimenti indiretti a tutela della riservatezza di tali soggetti.
Il Simonetti, nell’invitare il Consiglio Regionale di Potenza a costituirsi parte civile nel noto processo che coinvolge solo taluni degli ex amministratori della nostra banca, allega i rapporti di due ispezioni della Banca d’Italia. Là abbiamo una messe di notizie sullo stato degli impieghi della nostra banca. Emerge così che «l’esame del rischio creditizio in essere al 31.12.1993 poneva in evidenza:
a) posizioni in sofferenza ed incagliate per un ammontare rispettivamente pari a L. 847,1 miliardi e L. 465,3 miliardi, sulle quali si prevedevano perdite complessivamente pari a L. 508,6 miliardi;
b) incrementi rispetto alle segnalazioni all’Organo di Vigilanza per L. 619,9 miliardi sulle sofferenze, per L. 166,7 miliardi sulle posizioni incagliate e per L. 406 miliardi sulle previsioni di perdita (cfr. allegati nn. 3/a e 3/b).» (Cfr. rilievo n.° 43 pag. 29).
     La divulgazione delle notizie - come si vede  - è grave. Sono stati adottati provvedimenti da parte degli organi a presidio della nostra banca? Rispondono al vero carte, notizie e dati propalati? Se sì, non possiamo non chiedere come mai dalle pure esagerate valutazioni ispettive, in base alle quali sofferenze ed incagli assommavano a fine 1993 rispettivamente a L. 847,1 miliardi ed a L. 465,3 miliardi, passano ora, nella nota che ci si chiede di approvare senza adeguate informazioni, a cifre quasi raddoppiate. Gli ispettori sono stati ritenuti eccessivamente fiscali: gli stessi esponenti della Banca di Roma per anni non ne hanno condiviso i dissolventi apprezzamenti. Che cosa è successo? All’improvviso c’è stata la folgorazione come Saul sulla via di Damasco? E non si ritiene di ragguagliarci? Quali le responsabilità dei nuovi amministratori? Quali i fatti nuovi che hanno imposto decisioni tanto devastanti? Nulla di nulla nella relazione che abbiamo sotto mano. Le superfetazioni si limitano a quei pochi accenni che abbiamo già richiamato.  Ma un grave dubbio ci assale: non è che si è portato a sofferenza l’impiego vivo dell’ispettore del 1993 e per converso si continua a tacere sullo stato di decozione di tanti altri e veri crediti in sofferenza o in incaglio, sol perché magari amici del padrone? E qui dobbiamo essere schietti sino alla ferocia.
Tralasciamo ogni riferimento alla martoriata posizione Casillo (solo ci piacerebbe sapere se i perduti 158 miliardi di cui leggiamo sulla stampa siano conteggiati nel subtotale di L. 1.434,2 miliardi di pag. 20 del bilancio 1997 oppure no: ed al contempo vorremmo sapere dall’ispettorato interno – nessuno può sottovalutare l’acume irriducibile di Maffucci, neppure Barbagallo -  se i noti libretti per quasi 4 miliardi, prima rivendicati da un celebre personaggio e poi fini nelle mani omonime di un ultraperdente nostro vecchio affidato, a scare bene non erano riserve occulte in collaterale dei debiti Casillo). Ma ci vogliono lor signori spiegare quale decorso hanno avuto i rapporti Parmalat, Mediofin, Pafi che stando alle notizie di stampa avrebbero contratto “prestiti che sarebbero stati utilizzati per l’acquisto di azioni, per un controvalore di 50 miliardi, dello stesso istituto di credito”. Quei prestiti che fine hanno fatto? Sono finiti tra le sofferenze? Tra gli incagli? O sono stati recuperati? Come? Quando? Con intervento di chi? Se la Banca di Roma - direttamente o indirettamente - si è data da fare per acquisire interessenze al capitale sociale della nostra banca per compensare quei prestiti, sono state rispettate le norme - dure e paralizzanti - che in questi ultimissimi anni sono state emanate a difesa della borsa?
Occorre scendere ancor più in dettaglio. Abbiamo diritto di sapere che fine hanno fatto i rapporti creditizi su cui si soffermavano gli ispettori della Banca d’Italia nei seguenti rilievi:
  - quelli che nel rilievo sub 1) ultimo capoverso gli ispettori definiscono “crediti, anch’essi di rilevante ammontare e oltre tutto riguardanti nominativi legati alla banca da vincoli partecipativi”, di cui stigmatizzano la “crescita delle esposizioni in misura non proporzionata alle effettive potenzialità economico patrimoniali dei singoli affidati, con refluenze sulle stesse possibilità di recupero delle creditorie e ciò pure in presenza di reiterate iniziative di sostegno e di ristrutturazione ...”. Siffatte temute refluenze vi sono state? Quali provvedimenti ha adottato la nostra banca? E’ stata equanime? Ha avuto indulgenze per alcuni e discriminatori accanimenti verso altri? Si pensi che i nominativi qui sotto tiro dagli ispettori della Banca d’Italia godevano allora di crediti per complessive L. 377.339 milioni su cui gli ispettori prevedevano perdite per L. 73.992 milioni. Quelle perdite si sono poi verificate? Quando sono state rilevate? Quando sono finite a carico del conto economico? Quali cautele sono state adottate?
In particolare, quale è stato l’atteggiamento verso i 20 rapporti del gruppo di pag. 2 dell’allegato 3b, esposto per L. 133.978 milioni con perdite previste dagli ispettori per L. 73.992 milioni? Si sono avute indulgenze per affinità politiche? Il socio egemone è stato indifferente o ha suggerito blandizie? Quanto poi al gruppo di cui a pag. 4 del menzionato allegato (primo affidato cod. 7275...) le previsioni di perdite degli ispettori (L. 27,9 miliardi su L. 50,7 miliardi di esposizione) si sono verificate? Vi sono intese in corso? Di che tipo? Si sono ammesse interferenze in Consiglio per presenze obiettivamente conflittuali?
In ordine all’incandescente rapporto di cui a pag. 9 (Codice primo affidato: 5283...), esposizione per L. 141,3 miliardi; previsioni ispettive di perdite solo L. 1,4 miliardi, davvero le perdite si sono rivelate così esigue? Il comportamento degli esponenti aziendali è stato congruo? Vi sono state ingerenze per soluzioni patteggiate? Vi è stato un qualche interesse del socio egemone?  
Il gruppo di cui a pag. 11 (cod. 7594 primo affidato) - esposizione L. 6,3 miliardi con perdita prevista integrale - è stato congruamente gestito? Si è ritenuto di privilegiarlo con discriminanti acquisti di proprie azioni?
Quanto al gruppo di cui a pag. 12 (cod. primo affidato 5092...) - esposto per L. 38,4 miliardi; previsione di perdita zero - attesa la natura di incagli secondo gli ispettori , sono state esplicate le procedure di recupero dell’ingente creditoria con solerzia ed efficacia? Se sì, quali e con quale risultato?
Il gruppo di cui a pag. 11 (cod. primo affidato 3552...) - esposizione L. 6,7 miliardi; perdita prevista: integrale - ha poi generato quell’esito tanto catastrofico? Per quali azioni della banca? Con quali refluenze sul conto economico della nostra banca?
In definitiva, come mai nella relazione del bilancio non v’è alcun accenno a fatti sì gravi, pregiudizievoli dello stato patrimoniale, con quelle che gli ispettori chiamano refluenze economiche? Se all’improvviso, e solo quest’anno, quelle posizioni, in tutto o in parte sono finite a sofferenze, perché si è atteso tanto? In ogni caso, ogni reticenza in proposito non è suscettibile di censura sotto il profilo della chiarezza, della verità e correttezza della situazione patrimoniale e finanziaria? Sussulti nell’imputazione di ammortamenti, si è sicuri che non rappresentino indebito scompiglio del risultato economico dell’esercizio? Non si pensa che l’eccezionalità dell’impostazione di bilancio di quest’anno merita tutte quelle informazioni aggiuntive previste ed imposte dall’art. 2423? Dove sono, visto che noi non riusciamo assolutamente a coglierle in quelle asfittiche, anonime, dispersive e sedicenti note integrative?
b)  - Si domanda quale evoluzione hanno avuto gli affidamenti stigmatizzati dagli ispettori nel rilievo sub 19). Vi si dice che trattavasi di “società ... ampiamente finanziate dalla banca con crediti che in sede ispettiva sono stati classificati tra le sofferenze con previsioni di perdita”. Ricordiamo che l’esposizione (cod. primo affidato: 4029.. cfr. pag. 3 allegato 3b) ammontava a complessive L.  9,7 miliardi con perdite previste per L. 6,3 miliardi. Non ha proprio nulla da dire il consiglio ai soci in sede di approvazione del proposto bilancio?
c)  - Le note critiche del rilievo sub 12) hanno consigliato un qualche comportamento responsabile da parte degli attuali amministratori o si è lasciato il tutto com’era senza preoccuparsi di attivare una qualche azione per il recupero delle ragioni creditorie della nostra banca?
d)  - Analoga domanda è da porre per il rilievo sub 13).
e)  - L’esposizione narrata e stigmatizzata nel rilievo sub 14) avrebbe dovuto essere oggetto di particolare attenzione da parte degli amministratori; si sono costoro prodotti in qualche iniziativa?
f)  - Nel rilievo sub 15) si accenna ad “un affidamento in conto corrente di L. 6 miliardi” a favore di una società di appartenenza di un consigliere, con un illegittimo debordo notevole. Al di là dell’assoluzione chiesta  - ed ottenuta - dal PM, la banca si è premurata di estromettere un cliente cosiffatto? Quel rapporto sussiste ancora? E’ regolare?
g)  - Non hanno gli amministratori nulla da dirci sui rapporti creditizi censurati nel rilievo sub 16)?
h)  - Nel rilievo sub 19) emergono inquietanti accenni a strani rapporti d’affari con industriali del Nord, che ricchissimi per i fatti loro, alla Mediterranea hanno fatto ricorsi per “buffi” di cui vorremmo sapere l’esito. A scanso di equivoci, a noi preme sapere se i finanziamenti al gruppo di cui a pag. 10 dell’allegato 3b (primo affidato cod. 7166 ...) ammontanti allora a complessive L. 16,8 miliardi, siano poi sortiti dalla situazione di incaglio (giusta valutazione ispettiva) o siano deteriorati. In particolare come i signori industriali del Nord si sono comportati con la nostra banca? Hanno assolto i debiti interessi? In misura equa? O mantenendo scandalose condizioni di favore (leggere per credere le note dei consulenti del PM, attualmente in libera circolazione come abbiamo sopra detto)?     Ma anche alla capofila erano stati accordati 30 miliardi che pare siano sfuggiti all’attenzione degli ispettori. Nel solito libello dei consulenti - che Simonetti acclude alla sua interrogazione - si legge a pag. 89: «Complessivamente i fidi accordati erano pari a L. 30.000 mln. (10.000 mln. c/c; 10.000 mln portafoglio sbf 10.000 mln anticipi import) e non erano assistiti da alcuna garanzia. I finanziamenti in parola venivano deliberati in data 13.7.93. [...] Per quanto riguarda il tasso da applicare alla facilitazione è da rilevare che .. si faceva riferimento al “Prime rate ABI” [...] Dalla comunicazione dei tassi inviata il 10.9.93 ... si evinceva l’applicazione dell’unico tasso dare dell’11,625%; venivano quindi esclusi i maggiori oneri connessi al secondo tasso dare e alla commissione di massimo scoperto.» E subito dopo - in relazione alla collegata, peraltro di risibili rispondenze patrimoniali - si annotava (pag. 90): « ... il finanziamento accordato non era assistito da alcuna garanzia.» A pag. 103 e segg. I consulenti si allargano in considerazioni che invero non hanno trovato nessuno ascolto nel PM e non val la pena qui di farvi in alcun modo ricorso. Ma è opportuno invece che gli amministratori ci ragguaglino su tali criticabili rapporti creditizi, sulla loro eventuale sistemazione, sul raddrizzamento delle clausole contrattuali relative alla remunerazione. Non vorremmo che il potentissimo gruppo - in particolare consuetudine fiduciaria con il socio dominante - sia riuscito a mantenere una posizione di favore creditizio a tutto danno della nostra banca. Gli amministratori hanno l’obbligo di fugare almeno gli effetti alone che la divulgazione degli atti istruttori vanno nefastamente producendo, con ulteriori appesantimenti della fragile operatività della nostra banca. Il lasciar correre sarebbe insipienza imperdonabile: un consiglio di amministrazione meno subalterno a soci extraterritoriali sicuramente non permetterebbe campagne di stampa cosiffatte. Per converso l’eccessiva reticenza verso i soci sarebbe di beffa oltre che di danno.
i)  - Estrapoliamo dal rilievo n.° 20 l’accenno alla posizione perdente di cui a pag. 5 dell’allegato 3b (cod. primo affidato 2336...). Abbiamo qui un’esposizione di L. 15,1 miliardi su cui gli ispettori prevedevano una perdita pressoché totale per L. 11,4.  Occorrono le debite informazioni, del tipo di quelle che abbiamo sopra puntualizzato.
j)  - Ci riferiamo alla parte del rilievo 22 - punto b) - per sapere che fine ha fatto la posizione (cod. primo affidato 2500...) ammontante allora a L. 7 miliardi circa con previsioni ispettive di perdita per L. 6,9 miliardi.
k)   - Quanto al rilievo sub 35) non si possono ulteriormente tacere gli sviluppi dei rapporti creditizi relativi alla “posizione che, nonostante l’apparente sistemazione effettuata attraverso la cessione di effetti a carico di altro nominativo ..., classificato anch’esso in sede ispettiva tra le sofferenze con previsione di perdita, presentava ancora nel mese di maggio 1994 una residua rilevante debitoria”; e relativi anche alla “società largamente e ripetutamente sovvenuta con nuove erogazioni, nonostante l’andamento dei relativi conti presentasse da tempo marcati sintomi di anomalia (sconfinamenti sui conti correnti notevolmente eccedenti i fidi accordati e rate impagate di finanziamenti in valuta per cifre rilevanti).
l)  - Del pari vanno forniti dati, ragguagli e chiarimenti in ordine alle posizioni censurate dagli ispettori nel rilievo n.° 36 lettera a); lettera c); lettera d); così come deve essere fatto per il rilievo n.° 37, lettera a); lettera d), nonché per il rilievo n.° 38, per il rilievo n.° 39, per il rilievo n.° 40, per il rilievo n.° 41 e per il rilievo n.° 42.
m)   - In sintesi il già citato rilievo n.° 43 doveva essere di guida ad una nota integrativa ai sensi dell’art. 2423 c.c. Mancando - come manca questa - il bilancio è improponibile e se si insiste a farlo approvare utilizzando magari la forza preponderante del socio egemone resterà di tutta evidenza la volontà indomabile di imporre decisioni esiziali per la sopravvivenza della banca, come sono quelle degli ammortamenti improvvisi dissolventi ogni redditualità bancaria per perdite note da tempo e che da tempo avrebbero dovuto essere portate a conoscenza senza indugio in assemblee straordinarie dei soci ai sensi della inderogabile normativa civilistica.
Non va poi dimenticato che già nel 1990  (dal 17.9.1990 al 1.2.1991) la nostra banca era stata assoggettata ad un’altra ispezione della Banca d’Italia. Anche allora erano emerse sofferenze ed incagli non rilevati prontamente e non segnalati alla stessa Banca d’Italia. I nostri attuali amministratori hanno tratto ammaestramento da quei rilievi o hanno continuato a sovvenire taluni clienti di dubbia rispondenza patrimoniale? Nell’empito repressivo dei precedenti esercizi, hanno riesaminato tutte quelle posizioni censurate dai precedenti ispettori? ne hanno tratto le debite conseguenze? O hanno reputato che sono svincolati da regole di indiscriminata obiettività, per cui possono sciogliere o legare secondo che loro più aggrada? Si esaminino gli allegati n.° 3; 3/1; 4/1 e ci vengano fornite le informazioni del caso o meglio le giustificazioni per tardivi ammortamenti - se vi sono - o per inadempienze nelle segnalazioni di Vigilanza - se vi sono. Se tutto dovesse essere regolare - e noi ce lo auguriamo, ci si dia la liberatrice assicurazione formale. Quel che per ora sappiamo che, come detto, vi sono stati “noti - e noi li ignoriamo del tutto, diversamente, a quanto pare, da quel che conosce la stampa - fenomeni di deterioramento della qualità del credito” (vedi pag. 1 Relazione Bilancio). Ma se il bilancio chiude con 220 miliardi di perdita per quei fenomeni, questi fenomeni bisogna bene spiegarli, pena l’occultamento delle reali condizioni della società amministrata.
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Non sappiamo se si fosse trattato di una frase di cortesia o peggio: a pag. 2 del bilancio 1997, invece di ragguagliarci sul tonfo che si è voluto far fare alla nostra banca , gli amministratori avevano  voglia di volerci far credere che tutto il male avutosi ora passerà perché «L’attività operativa permane, comunque improntata a precise politiche di rilancio aziendale, di miglioramento della struttura dell’attivo in un’ottica di riqualificazione degli impieghi e di contenimento di costi realizzando al riguardo sensibili risparmi anche grazie all’attivazione di concrete e possibili sinergie con la Capogruppo Banca di Roma.» Restiamo stupefatti: di grazia ci si dica almeno ora quali sono state queste ”concrete sinergie” con la Capogruppo Banca di Roma? Forse quelle che ci vengono con il dirottamento verso i nostri lidi di funzionari in prequiescenza per remunerazioni da capogiro come le inspiegate poste di bilancio qua e là lasciano intendere? Quelle poste di bilancio che abbiamo già richiamate ci vogliono venire spiegate in relazione a tali conclamate sinergie? O la reticenze è sinonimo di confessione?
Abbiamo avuto fra le mani un “verbale di riunione” del 12 febbraio 1998 di un gruppo di soci di minoranza da cui noi dissentiamo. Là, ad un certo punto, in termini volutamente equivoci si afferma: «Lo stato d’animo ... è stato purtroppo alimentato da una serie di delusioni quali:
  La mancanza di un vero progetto di rilancio della Banca Mediterranea, che non fosse enunciazione di principio e che si traducesse in un concreto piano industriale;
  Lo scarso riscontro nei fatti delle ripetute affermazioni del socio di maggioranza di essere nell’imminenza di porre a disposizione della Banca Mediterranea il proprio know-how, in particolare con la distribuzione di nuovi e più articolati strumenti finanziari;
  Una politica del credito molto restrittiva, che alla scarsezza dei volumi ha aggiunto la lentezza dei tempi decisionali, traducendosi sia nella cattiva gestione d’alcuni clienti affidati, che con maggiore elasticità potevano essere accompagnati nella loro ripresa, sia nell’allontanamento dalla Banca mediterranea di altri che, in considerazione del loro equilibrio gestionale, possono con maggiore facilità attingere credito ad altre banche, il cui iter deliberativo è più rapido.
  il sintomatico rifiuto di poter garantire le posizioni affidate con le partecipazioni azionarie nella stessa Banca Mediterranea; ciò non tanto per motivo di merito, ben comprendendosi che una diversa scelta avrebbe esposto l’azienda al rischio di una diluizione del proprio patrimonio, legalmente inammissibile, quanto per ragione di forma: troppe volte gli stessi dirigenti della Banca Mediterranea, anche quelli espressione dell’azionista di maggioranza, hanno dato all’interlocutore l’impressione di considerare tali azioni come di poco valore.»
  
Non v’è chi non veda come sotto gentili espressioni si nasconda un’aspra stroncatura dell’attuale gestione. Non sappiamo - o se lo sappiamo, non siamo in grado di provarlo - che fine abbia fatto e che intenti abbia perseguito siffatta querelle. Noi qui la proponiamo ufficialmente per avere le giustificazioni da parte degli attuali proponenti del bilancio, visto che vi sono appunti che ne mettono in dubbio l’oculatezza delle scelte di bilancio. Ma ciò che più ci preme è quest’altro passo: «.. la difficoltà per il socio di maggioranza di tradurre in concreto un piano di sviluppo di una partecipata nelle more di delicate scelte d’assetto e di proprio piano industriale.» E tanto si accende di luce sinistra se si ha ricordo di ciò che viene insinuato in esordio di discorso e cioè allorché - intenda chi ha orecchie per intendere - ci si proclama increduli su alcune voci, arrivando ad affermare - per negare - che  «è parere degli intervenuti, per esempio, che non siano vere le insistenti voci di una gestione poco trasparente del portafoglio titoli della Banca Mediterranea, secondo le quali esso sarebbe gestito avendo a mente più l’interesse dell’azionista di maggioranza che quello della compagine sociale nel suo complesso.» Quei soci maliziosetti - dopo avere buttato il sasso nello stagno - vorrebbero farci credere che a loro avviso «tali voci non appaiono degne d’attendibilità alla luce d’elementi sia morali sia logici.»  Gli elementi morali e logici in faccende di portafoglio sono obiettivamente inafferrabili. Siamo andati a vedere tutto quello che in bilancio vien detto in proposito. Nulla. Speriamo che dietro questa nostra sollecitazione venga sbaragliato il campo dalle cortine fumogene di quegli avveduti soci di minoranza. Ci si dica in particolare che mai e poi mai sono stati venduti titoli per decine di miliardi alla casa madre ad alto rendimento, per poi far ricorso a titoli a basso rendimento. Ci si dica in particolare che mai operazioni della specie siano state decise unilateralmente - o se in compagnia, in compagnia di chi - da qualche autorevole membro del consiglio di amministrazione, ignaro o con disprezzo dell’evidente conflitto d’interesse cui si andava ad incocciare. Ci si dica se davvero perdite non siano venute alla nostra banca da operazioni con la banca padrona, specie con arzigogolate operazioni di swap o giù di lì, finite con l’accentuazione anziché con l’affievolimento del coefficiente di rischio. Poste di bilancio che facciano sospettare operazioni del genere ce ne sono tante: uno straccio di spiegazione non si trova manco a pagarlo a peso d’oro. Qui però non è in gioco l’abilità strategica nella gestione del portafoglio titoli del nostro amministratore delegato, qui è in discussione un bilancio su cui le insipienze e le digressioni conflittuali, magari per giustificare con la casa madre gli elevati emolumenti, si scaricano sulla Mediterranea con violenza sovvertitrice della redditualità.. Il terremoto che è avvento nel comparto titoli emerge da queste aride poste. I soci ben poco possono capirci.
Voce 50: obbligazioni e altri titoli di debito: anno 1997 L. 360,8 miliardi; anno 1996: L. 246,9; miliardi;  variazione + 113,8 miliardi; in percentuale + 46,1%,
voce 1993 1994 1995 1996 1997 1998 30/06/99
voce 20 titoli tesoro 572,3 802,5 1297,473 1622,309 1334,512 1322,739 978,069
E che è successo? Proprio negli anni (1996-1997) in cui i titoli di stato sono stati dimezzati nel loro rendimento, la nostra banca invece di operare alternativamente si butta o butta tutto sui titoli? Si spiega allora il tracollo della redditività. E ciò per colpa di chi? Dell’amministratore delegato? Si vuol venire qui a spiegare, a giustificare? In bilancio non troviamo neppure una nota in proposito.
Voce 130: altre attività: al 30/6/1999 L. 106, 486 mld (a fine anno, non prevedibile); anno 1998 L. 263,590;  anno 1997 L. 208,9 miliardi; anno 1996 L. 184,1 miliardi. Trattandosi di voce per sua natura residuale andava delucidata con pagine e pagine di note illustrative, ma niente di tutto questo. Dobbiamo accontentarci di una tabella Beh! Lì apprendiamo che quelle attività sono composte da partite viaggianti (ma il bilancio non dovrebbe avere partite viaggianti: le provvisorie appostazioni contabili devono essere tutte recepite nei conti di pertinenza, altrimenti si forniscono informazioni inesatte e scorrette. Che ci sta in quel viaggiare di partite? Perdite? Regalie? Emolumenti occulti? Leggere per capire i rilievi degli ispettori della Banca d’Italia in circolo per Potenza come un romanzetto d’avventure.
Sappiamo poi che  vi sono 22,1 partite ancora in corso di lavorazione: una piccola banca che resta ascosa; un mistero per tutti anche per chi redige il progetto di bilancio. E completa il guazzabuglio la singolare: partite definitive ma non imputabili ad altre voci. Noi chiediamo che cosa sono. Abbiamo diritto a sapere.
E potremmo continuare. La resipiscenza degli amministratori potrebbe impedirci l’ingrato ma inevitabile fardello di dibattere queste questioni in altre sedi.
*  *   *
Un punto dolente - dolentissimo - è la voce 120: Azioni o quote proprie (valore nominale Lit. 4.193.325) : al 30/6/1999 L. 5.921.061.000. Ci saremmo aspettati un profluvio di parole (giustificatrici); invece niente. Un incremento di acquisti azionari propri nel bel mentre si verificava un crollo verticale della redditività e delle valenze patrimoniali è davvero una rimarchevole contraddizione. Ci dispiace per quei soci adunatisi il 12 febbraio del 1998: qui la banca sembra agire in senso diametralmente opposto ai loro flebili lamenti. (Ricordate quel passaggio sull’ «impressione di considerare tali azioni come di poco valore”?)  Non credo che lor signori reputino esaustive degli obblighi di legge quello che dicono nella nota. Là - scolasticamente - si ripete la lezioncina dei testi elementari di diritto commerciale: «Le azioni proprie sono iscritte in bilancio al costo. Alle stesse si applica la disciplina prevista dall’art. 2357 e seguenti C.C.»  E vorrei vedere che si dicesse il contrario? Il ragguaglio è del tutto tautologico. Si dirà che basta ed avanza la tabella di pag. 46. E no, cari signori. Leggetevi la pag. 60 della consulenza Sandulli-Scorza che Simonetti ha divulgato. Ad ogni buon conto la leggiamo noi per voi. «Alla luce delle considerazioni che precedono, vanno lette, dunque, tutte le indicazioni che gli amministratori hanno ritenuto di dover fornire nel bilancio relativo ... e vanno anche apprezzate le omissioni delle relazioni sulla questione in ordine ai motivi degli acquisti di azioni proprie da ... , informazioni dovute  in base alle nuove norme in materia di bilanci bancari. Ed infatti, l’art. 3 del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 prevede che nella relazione sulla gestione siano indicate “il numero delle azioni o quote proprie sia delle azioni o quote dell’impresa controllante detenute in portafoglio, di quelle acquistate e di quelle alienate nel corso dell’esercizio, le corrispondenti quote di capitale sottoscritto, i motivi degli acquisti e delle alienazioni ed i corrispettivi.»
Non fraintendiamo, dove sono tutti siffatti elementi? Nella tavola di pag. 46 riusciamo a sapere che nello scorcio di esercizio vi sono stati acquisti per n.° 15.500 azioni proprie, ma rispetto al precedente giugno del 1998 risulta un incremento per L. 2411653/m).  Quello che è grave che ancora una volta gli amministratori non pare che abbiano voglia di essere trasparenti in sede di bilancio in ordine a) alle corrispondenti quote di capitale sottoscritto; b) e soprattutto in tema di “motivi degli acquisti e delle vendite”. Almeno in questa sede ci si vuol dire quali motivi sussistono in ordine ai seguenti acquisti:
      data operazione                 data delibera                    n.° azioni
2/1/97 9/12/96 4.000
3/1/97 9/12/96 72.000
21/2/97 9/12/96 3.000
5/3/97 25/2/97 14.290
27/3/97 20/3/97 8.000
8/4/97 20/3/97 1.404
29/4/97 28/4/97 43.142
20/5/97 21/4/97 9.000
21/5/97 21/4/97 8.760
7/7/97 30/6/97 1.000
15/7/97 30/6/97 6.000
17/7/97 30/6/97 4.000
28/7/97 30/6/97 10.000
28/7/97 21/4/97 1.000
1/8/97 30/6/97 5.000
5/9/97 30/6/97 19.500
9/9/97 30/6/97 2.000
17/10/97 21/4/97 3.750
Totale  215.846

Quali le ragioni per preferire codesti acquisti (e quelli successivi) a danno di altri soci esclusi? Si deve escludere la semplice discriminazione? Non si diano risposte affrettate, perché chi parla è in grado di fare le debite smentite.
Ma diamo uno sguardo alle attuali giacenze relative a precorsi esercizi. Nel 1995 abbiamo avuto n.° 847.455 azioni acquistate per essere cedute tutte quante, unitamente ad altre n.° 812.545 in portafoglio, alla Banca padrona di Roma all’identico prezzo d’acquisto - o forse al ridotto valore  bilancio - di L. 8.000, senza alcuna commissione o provvigione per l’intermediazione prestata dalla nostra banca. Anche allora non vi era conflitto d’interesse? Si reputa di non dovere dare neppure ora una qualsiasi spiegazione?
Sarebbe interessante conoscere i motivi degli acquisti del 23/6/95 (delibera del 9/5/95) per complessivo numero 249.290 per l’ammontare di L. 1.994.320.000. Perché furono taciuti i motivi? Non furono anche allora praticate discriminazioni? Del pari ci vogliono almeno ora dire loro signori che cosa li spinse a fare gli acquisti del 10/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli per n.° 102.000 azioni del 14/9/1995 (delibera del 9/5/1995) e quelli del 27/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 23/10/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/10/95 (delibera del 9/5/95).
Passando al 1996 sarebbe ora di spiegare l’ordine dei motivi che hanno spinto all’acquisto di n.° 207.330 azioni, soffermandosi in particolare su queste operazioni: data 18/7/96 (delibera 13/6/96; data 17/10/96 (delibera 12/9/96) e soprattutto sull’acquisto di n.° 120.000 (per un importo di Lire 960 milioni) del 31/12/1996 (delibera del 9/12/96) mentre ad altro socio si negava la compensazione per cifre di gran lunga inferiori. Si è forse mai detto qualcosa in proposito? L’art. 3 n.2 lettera b) del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 forse è stato abrogato ad insaputa dei consulenti del PM? Noi non l’abbiamo letto nell’elenco delle norme abrogate di cui all’art. 161 del D.LV. 1° settembre 1993, n.° 385. O forse si reputa che le leggi valevano per i vecchi signorotti potentini ma non possono avere valore tranchant per gli uomini dei grandi potentati bancari romani?


*   *   *
Anche per stanchezza, tagliamo a questo punto, con riserva comunque per ogni altro aspetto censurabile che per caso dovesse essere sfuggito. Gli ultimi nostri rilievi critici riguardano la proposta di ripianamento delle perdite del 1997. Lor signori hanno voluto svuotare la posta del passivo: fondo sovrapprezzo azioni pari a lire 101.385.862.156.- Quale disponibilità ne avevano e quale legittimazione ne ha soprattutto il socio dominante.  Rammentiamo a noi stessi che quel fondo è stato costituito ancor prima dell’avvento della Banca di Roma. Al 31.12.1993 il fondo era di Lire 106.185.458.756. Con l’avvento dei signori di Roma, il fondo come si vede si è contratto. Nel 1996 una rastremazione per lire 3.956.269.000 è passata sotto il naso dell’assemblea dei soci. Ma se così è stato una volta fatto non significa che si possa sempre fare. Ora l’assemblea deve essere vigile. Il socio dominante non ha contribuito alla costituzione del fondo: sono risparmi sudati dei vecchi, malconci soci ad averlo costituito. E’ obbligo morale e giuridico mantenerlo sino all’estremo. Il socio dominante non può quindi disporne; non può dilapidarlo. Il meno che si deve esigere che nell’eventuale votazione al riguardo esso doverosamente si astenga e lasci integra ai soci di minoranza la responsabilità della decisione. I soci di minoranza dovrebbero essere un tantinello avveduti da capire che non è questione formale e rigettare la proposta dei signori amministratori. Il bilancio ritornerebbe indietro per le rettifiche di competenza. Se i soci di minoranza non sono avveduti, pazienza. Almeno: chi è causa del proprio male pianga se stesso. Va da sé che qualora il socio dominante faccia qui orecchio da mercante e con il peso della sua maggioranza assoluta approvi egualmente l’improponibile, vedremo in competente sede chi ha ragione. Noi almeno abbiamo posto il problema e l’uomo avvisato dovrebbe essere mezzo salvato.
 Altro aspetto inquietante di quel bilancio è stato quello di avere voluto utilizzare l’avanzo di fusione. Si chiesero lor signori chiesti che cosa fosse quell’avanzo di fusione? Non sanno forse che è mero residuo contabile del compattamento delle poste di bilancio di due società fusesi? Non sono tanto addentro alle segrete cose fiscali per cui la posta contabile è neutra fino a che non se ne faccia un effettivo utilizzo? Abbiamo proprio voglia di andare a pagare un mare di imposte solo per disattenzione? Magari, si penserà che nulla si debba al fisco e si procederà come se niente fosse. Il futuro accertamento - si sa che il SECIT ha un conto aperto con tali faccende di fusione - ricadrebbe sulle spalle già martoriate dei poveri soci di minoranza.



 PRIME CONSIDERAZIONI CRITICHE

         
Nell’intelaiatura, nello spirito e nella lettera, tali contrapposizioni di taluni soci di minoranza  postulavano minuziose e precise rettifiche degli organi consiliare e di controllo. Emerge che non solo non è stata data risposta alcuna, ma risulta persino neppure presa in considerazione e manco verbalizzata l’istanza del socio Taverna sulla questione dei notori allegati ispettivi sul rischio creditizio al 31.12.1998.
Nulla si precisa sul divario tra la ricostruzione Scattone e quella di Barbagallo in tema di “sofferenza” (a quanto pare: L. 508,6 miliardi per il primo; L. 1.384 per il secondo). Trattasi di un vallo di L. 876 miliardi di deterioramento creditizio che s’impatto con la gestione “Bancoroma”.
E soprattutto nulla si rivela sulla ricuperabilità dei crediti secondo gli ispettori: per Scattone erano prevedibili perdite – oltre quelle segnalate alla Vigilanza - per L. 619 miliardi; per Barbagallo (stando alle notizie trapelate) la gestione post 1994 aveva pretermesso di considerare decrementi prospettici nella realizzabilità dei crediti per L. 257.587 milioni.
E’ questa cifra strategica nella valutazione di vari bilanci (specie quello ex art. 2501 ter 2° c.): se le L. 168 miliardi di “rettifiche in chiave tuzioristica” dei crediti, si riferiscono al recepimento delle doglianze ispettive (come sembrerebbe cogliersi dalla relazione di bilancio – pagg. 12-13) e vi si rifascino integralmente (il che appare dubbio), rimarrebbero scoperte ulteriori previsioni di perdita per L. 90 miliardi.
Ne consegue che qualora si aggiungono le certezze che in senso decrementativo della compagine patrimoniale si colgono nell’erosa assistenza creditizia alle quattro partecipate della banca (incomprensibilmente considerata “normale” dall’ispettore B.I.), si perviene ad una perdita integrale del capitale già nota alla data dell’ultima assemblea straordinaria dei soci. Le inadempienze ex art. 2447 c. c. appaiono coerentemente inoppugnabili.
Su tali scottanti aspetti, non pare che il collegio sindacale abbia mai avuto a ridire. Tali scottanti aspetti – che pure in sede assembleare traspaiono – non pare che siano stati adeguatamente vagliati dall’Organo di Vigilanza che pure – viene relazionato (cfr. pag. 4 della relazione Reconta Ernst & Young – abbia accordato in data 21 marzo 2000 (addirittura tre giorni prima della stesura di detta relazione) “l’autorizzazione ai sensi dell’art. 57 del D. Lgs. 385/93 all’attuazione dell’operazione di fusione).
E – per quello che qui conta – le varie società di revisione non hanno ritenuto di porvi mente locale, pur potendo (e dovendo accedere) alla complessa documentazione ispettiva, almeno quella relativa alla cosiddetta “parte aperta” e pur dovendo recepire la vasta verbalizzazione delle doglianze dei soci di minoranza, non foss’altro per procedere alla puntualizzazione della irrilevanza giuridica, di bilancio e contabile di detti rilievi contestativi.
Non va dimenticato che ai sensi dell’art. 2501 ter, 2° c., «la situazione patrimoniale è redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio». Si sostiene in dottrina che, pertanto, tale bilancio deve rispettare «non solo la struttura .. ma anche i criteri prudenziali di valutazione per quest’ultimo stabiliti». E se è vero che viene così «espressamente risolto un problema precedentemente controverso», non potendosi più «sostenere che dalla situazione patrimoniale dovesse risultare il valore effettivo della società»  (cfr. Campobasso, Diritto delle Società, pag. 555), è ultroneo che dalla situazione de qua occorra partire per tutte le eventuali rettifiche e per gli occorrenti conguagli nel rapporto di cambio. Una base non veritiera, infedele, mutila inquina, senza ombra di dubbio, gli “elementi di valutazione ulteriori rispetto all’effettivo valore dei patrimoni delle società partecipanti alla fusione” (cfr. ibidem p. 555).  Il bilancio semestrale fatto approvare il 9 novembre 1999 – aspramente rampognato dai soci di minoranza – è del tutto prodromico a quello di fine anno, preso a base per la fusione. Sui c.d. tecnici – specie quelli nominati dai tribunali – incombeva l’onere di asseverare la fondatezza o meno dei rilievi critici dei soci, potendoli certo superare ma motivatamente. Tanto non consta.
IL RAPPORTO DI CAMBIO SECONDO IL BILANCIO D’ESERCIZIO
Va qui peraltro precisato che siamo nel settore del credito, capillarmente disciplinato dalla normativa di Vigilanza e con un quadro contabile denominato della “Matrice”, ragion per cui non vi è molto spazio per i c.d. tecnici di inventarsi valori di concambio esorbitanti dal patrimonio di base o al limite dal c.d. “patrimonio di vigilanza”. Quello che debbono appurare i tecnici è solo l’osservanza dei principi di chiarezza e precisione, il rispetto del quadro fedele, ma soprattutto la rispondenza del fattuale alle segnalazioni di Matrice.
Il fatto che i vari tecnici del nostro caso neppure abbiano sfiorato siffatta tutt’altro che agevole problematica, è oltremodo rivelatore della incongruenza valutativa.
La “semestrale” della Mediterranea palesava scricchiolii informativi che potevano agevolmente rilevarsi dallo spettro critico dei soci dissenzienti. Ancor più inaffidabile si valuta qui il progetto di bilancio finale degli amministratori, traslato acriticamente nel bilancio di fusione ex. art. 2501 ter e recepito dai tecnici chiamati a stabilire la congruità del rapporto di cambio come mero e formale adempimento di una non significativa norma di legge.
Ma un’appena superficiale analisi dei bilanci di fusione della Banca Mediterranea e della Banca di Roma porta alle seguenti risultanze:
BANCA DI ROMA – bilancio a fine 1999
- Patrimonio netto: L. 10.939.693.000.000;
- Numero delle azioni: 5.350.016.750;
- Rapporto PN/azioni: L. 2.044.
BANCA MEDITERRANEA – BILANCIO A DINE 1999
- Patrimonio netto: L. 102.567.208497;
- Numero delle azioni: 73.162.476;
- Rapporto PN/azioni: 1.401.
RAPPORTO BR/BM = 1,4589
RAPPORTO MB/BE = 0,68542.
E’ codesto punto fermo da cui non si può divagare oltre misure e margini di iniqua ristrettezza. Non è un caso se in interrogazioni parlamentari (cfr. ad es. la n. 4-16400 del Sen. Giovanni Russo Spena ed altri) non si reputa prudente avventurarsi in valutazioni appena appena risarcitorie nei confronti dei soci di minoranza della Mediterranea.
Resta, poi, l’aleatorietà della valutazione del patrimonio del mega-gruppo bancario che si affastella sin troppo attorno al perno Banca di Roma. Le nuove acquisizioni del tipo Banco di Sicilia, Mediocentrale e similari sono al centro dell’attenzione delle autorità dell’antitrust e per converso impongono cautele in tema di integrità patrimoniali che la stampa specializzata prudentemente ma significativamente  fa percepire con espressioni criptiche del tipo «la qualità del credito dell’istituto romano è ulteriormente peggiorata. Alla luce di queste considerazioni si preferisce mantenere un orientamento neutrale/negativo sul titolo.»
In effetti si ha una griglia impeditiva di apprezzamenti in qualche modo rettificative delle strozzature di bilancio.
Quando i c.d. tecnici si sganciano dai valori di bilancio delle due banche e si proietanno in erratiche stime divaricanti si assumono responsabilità che in questa sede non vale la pena neppure di additare.
Non si ignora che una parte della dottrina giuridica è disposta a legittimare «un valore effettivo del patrimonio» (cfr. op. cit. p. 555) divaricati rispetto a quello emergente dal «bilancio di fuzione». Si afferma – con dubbio fondatamente, secondo noi – che «la legge si astiene … dal fissare criteri direttivi per la determinazione del rapporto di cambio; criteri che restano quindi affidati alla discrezionalità tecnica (ma non all’arbitrio) degli amministratori.» (ibidem). Eppure non si può non annotare che il rapporto di cambio è caducabile quando sono emergenti – o peggio evidenti - «dati incompleti o non veritieri» (ibidem nota sub 3) .. e nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Per contro imbarazza il fatto che gli organi di controllo (interni ed esterni) sembra non si siano accorti neppure di dissennatezze come le seguenti. Per arrivare un rapporto di 5 a 2 - alquanto ipocritamente “per non danneggiare i soci di minoranza, in effetti per legittimare la riemersione di un ammortamento in sede di “semestrale” Banca di Roma dell’enfiata partecipazione nella Mediterranea – i c.d. tecnici si sono letteralmente inventati queste divaricate parabole:

In altri termini, mentre per la Banca Mediterranea v’è questo trend ascensionale del patrimonio di fusione:
- da 102 miliardi a 176 miliardi e da qui  a 258 miliardi e da qui a 270 miliardi:
per la Banca di Roma, nel cui ambito quel trend doveva crescere a dismisura, si ha questa inspiegabile caduta:
- da 10.940 miliardi si porta a 14.802 miliardi; ha quindi un contenuto assestamento raggiungendo quota 15.967 miliardi per ripiegarsi nella fase finale in un inverosimile risucchio verso il basso e cioè a quota 12.945 miliardi.
Il fatto che i tecnici si guardano bene dal fornire esplicitamente le masse patrimoniali terminali, a base del con cambio, non è certo segno di inidoneità professionale, ma indice di evidente imbarazzo espositivo. C’è da chiedersi se davvero la Banca d’Italia nel fornire – se l’ha fornito – il benestare di legge non si sia accorta della zoppa ed inaccettabile procedura estimativa.
Stante l’assoluta inattendibilità del bilancio Mediterranea – sia per gli argomenti sopra cennati sia per quelli che si diranno e sia ancora per quelli che si potranno addurre nelle competenti sedi, ova occorra – ogni ricostruzione estimativa è destinata a cadere.
L’UNICO CONCAMBIO ACCETTABILE
Disincagliandosi dalle secche del netto patrimoniale  apparente, è possibile rinvenire, ma a ritroso, un aggancio giuridicamente ammissibile per la costruzione del valore delle azioni della fondenda Mediterranea.
Solo riportandosi ad un istante prima della gestione Banca di Roma si coglie il valore di tale azioni. In tempo ancor utile per rinvenire l’ultimo istante dell’autonomia gestionale della Banca Mediterranea, questa azienda palesava un patrimonio oltremodo robusto. Ancor oggi è possibile appurare che ogni sua azione valeva L. 14.377,90.
Era evidente l’integrità patrimoniale – frutto magari di agevolazioni ministeriali connessi ai benefici che si intesero accordare a ristoro dei danni provocati dal noto terremoto dell’Irpinia – e coesa risultava la totalità degli azionisti (qualche dissenso non si originava certo da contrasti gestionali ma da moventi personalistici).
Si era nell’ultimo scorcio dell’esercizio 1993 ed ascendeva il patrimonio a L. 545.706.222.421 che ripartito tra le n° 37.954.498 azioni comportava un valore unitario appunto di L. 14.378.
C’era un frazionamento tale per cui nessuno poteva vantare un ruolo egemone; men che meno poteva atteggiarsi a socio di maggioranza e soprattutto non v’era nessuna maggioranza assoluta precostituita. In altri termini era la banca a base diffusa e la struttura della base poteva qualificarsi democratica.
  Tanto finché – per pressioni della Vigilanza – non intervenne la Banca di Roma che surrettiziamente ed attraverso manovre ancora non investigate poté acquisire posizioni di risalto prima (30%) e quindi di maggioranza assoluta (53% viene oggi dichiarato) senza esborsi di sorta a compenso di una tale scomposizione dell’assetto sociale e cioè senza liquidare e ristorare chi da posizione egualitaria finiva per passare a quella subalterna ed attualmente a quella di insignificante minoranza.
Tale valore unitario – L. 14.378 – può senza dubbio considerarsi ancora del tutto reale ed integro. Le varie tosature – che a cadenza annuale si sono lamentate e registrate dal 1993 al 1999 – non possono ascriversi ai soci di minoranza su cui il socio di maggioranza, divenuto egemone in termini assoluti, ha fatto ricadere il peso di onerose scelte gestionali per recupero di propri investimenti o per occorrenze della capogruppo.
Non è questa la sede per comprovare quanto qui affermato. All’occorrenza si produrranno prove ed argomenti che sarebbe tedioso e defatigatorio farne qui anche sintetico accenno.
La chiave di lettura è stata comunque fornita sin dal novembre 1999, in occasione dell’assemblea straordinaria. Qualche ulteriore spunto, a briglia sciolta ed a valore antologico, lo si vuole esemplarmente fornire pure in questa sede impropria.
IL PRESTITO subordinato di L. 100 milioni
Il 9 novembre 1999, nell’assemblea straordinaria ex art. 2446 c.c., il C.di A. della Mediterranea relazionava di avere «deliberato l’emissione di un prestito subordinato sotto forma di strumento ibrido di patrimonializzazione di L. 100 mld.»
Nella relazione al bilancio di fine esercizio 1999 lo stesso C. di A. fa sapere che «la banca di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi» e, contraddittoriamente, soggiunge che «per il superamento della crisi vissuta dall’Azienda, la Capogruppo, di comune accordo con gli Organi Amministrativi della Mediterranea, ha individuato nella fusione per incorporazione della Mediterranea  nella Banca di Roma e nel successivo scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la soluzione più idonea.»  (Cfr. p. 1).
Qualche annotazione su tale strumento ibribo di patrimonializzazione:  esso a nulla poteva giovare, atteso il disastroso ordito valutativo cui gli uomini del socio egemone si sono indotti a chiusura d’esercizio. Si consideri che “le passività subordinate non possono eccedere il 50 per cento del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998, pag. 283); si consideri anche che per un processo di ardite svalutazioni dei crediti che gli stessi uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave tuzioristica” – il che significa attraverso gonfiature di “riserve” – non si era potuto raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia che  senza quel “minimum” nessuna banca può continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore. Tutto ciò considerato, siffatto “strumento ibrido” è finito per palesarsi inutile e dannoso per la BM ed  indebitamente locupletativo per il socio a maggioranza assoluta [alias BR].
Quest’ultimo imponeva ai propri uomini – che recepivano – di contrarre un debito con la casa madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva infatti il sovrabbondante  cash flow  alla cui lievitazione non mancava di contribuire la notoria riluttanza degli uomini del banco a finanziare l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio dei già critici saggi di rendimento gestionale.
 Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi e quindi più facilmente obnubinabili – il C. di A. della Mediterranea ha creduto sufficiente licenziare la precisazione che abbiamo appena sopra citata, nella relazione di legge a corredo della loro proposta di bilancio.
Quanto di contraddittorio e di capzioso si sottende nel passo citato è di tutta evidenza. Ma non può il socio di minoranza avere capacità tecniche sufficienti a contrastare la Banca di Roma  socia al 53% ad onta di tutte le norme anti-trust
Alla voce 110 di fine esercizio abbiamo – si pensi - una  “passività subordinata” di L. 100 miliardi  che stando a ciò che si annota – a caratteri piccolissimi a pag. 43 - è “passività subordinata” «… riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo Banca di Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%, prevede una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla scadenza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. Le clausole di subordinazione che disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di bilancio che determinino una situazione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione all’attività finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al fine di consentire alla Banca di continuare.»
Ammesso e non concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti, emerge ictu oculi che si è deciso aliunde di non far più “continuare” la Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto iugulatorio prestito. Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli amministratori della BM, per evidente conflitto di interessi; che non poteva essere deciso dalla “maggioranza” dei soci, per lo stesso conflitto di interesse del socio tiranno; che semmai andava fatto decidere ai soli soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.

E così, con qualche disinvoltura e forse con reticenza, si adempie formalisticamente ai dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico delle banche per affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico riclassificato” (cfr. pag. 17). Il linguaggio algoritmico diviene ulteriore velame alla comprensibilità degli inspiegabili (e non svelati) crolli gestionali in tema di
- “margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi nel 1999 del 22,77%),
- “utili netti operazioni finanziarie” (astuzia lessica per non dire “crollo reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;
- “risultato lordo di gestione” passato dagli 80,8 miliardi di resa del 1998 ad un valore pesantemente negativo di meno 93,7 miliardi;
-  “risultato ante imposte” di meno 272,887 miliardi, con un peggioramento di gestione al saggio decrementativo del 653,50%.
Tanto avrebbe dovuto mettere sull’avviso il perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST & YUNG di Roma – che si era in presenza di un bilancio dubbio e forse falso, apparentemente non veritiero; un bilancio concepito in sospetto conflitto d’interessi e quindi passibile di segnalazione alle autorità competenti, non mancandosi comunque di ragguagliare il Presidente del Tribunale di Melfi che mancava il requisito primo di una “situazione patrimoniale .. redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio” di cui al secondo comma dell’art. 2501 ter del codice civile; emergeva pertanto che – fino ad un nuovo progetto di bilancio vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata quantificazione dei rapporti di cambio per la fusione. Ciò pare sia stato del tutto ignorato.
Ciò avrebbe dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere forse alquanto più cauta nel concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB.
Del pari, qualche ripensamento avrebbe dovuto esserci presso la Consob: Banca di  Roma prima svaluta e poi ripristina al costo la partecipazione maggioritaria presso la Mediterranea. E ciò non tanto per supino rispetto verso i propri tecnici, ma, stando a quel che appare predisporre un’agile traslazione, senza inceppi rivalutativi del proprio specifico attivo nella divisata «società bancaria di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma.»
E qui davvero c’è da pensare in ordine al fatto che possa darsi per scontato un nugolo di autorizzazioni della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in palese disapplicazione  delle norme avverso il “socio unico” e con elusione di quanto comunitariamente stabilito in tema di concentrazioni bancarie.
Né Banca d’Italia né Consob pare abbiano sinora ritenuto opportuno esigere rettifiche su questo passaggio della relazione al bilancio della società incorporante:
«Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico.  Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico.»
Orbene, il c.d. “valore di carico” non può che essere questo:
- Costo residuo della partecipazione: L. 226.000.000.000.=
- N.ro azioni possedute: n.  38.840.319.=
- Valore unitario: L. 5.818,696.=
Da qui forse il non pregevole itinerario estimativo di quei “advisor” che hanno portato prima il valore di bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435 (quasi un raddoppio) e poi a L. 3.570. Successivamente, essendo la stima ancora insufficiente, si salta ad un concambio di 5 a 2, senza precisare la  parametrazione patrimoniale, in base ad un presunto valore di mercato di banche consimili per la Mediterranea ed omettendo analogo calcolo per la Banca di Roma.
Sennonché quel  5 a 2 postula che le azioni della Mediterranea al massimo varrebbe L. 5.112. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio non appare encomiabile quanto a precisione. Si è lontani dalle proclamate L. 5818,696 così come inaccettabile è l’affermazione che vorrebbe «il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuito alla quota di pertinenza della Banca di Roma [avere] un valore che eccede il valore di carico.» 
Non può stupire se i soci di minoranza della BM tendono a considerare quell’affermazione alquanto lesiva dei loro diritti societari. La sincerità nelle rappresentazioni delle valutazioni; la veridicità delle appostazioni di bilancio; la correttezza nelle relazioni d’affari non paiono in questa occasione esemplari.
 Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della Relazione BM al progetto di fusione) che si è inteso adoperarsi per «la salvaguardia dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza» si è in contraddizione con i citati assunti del socio egemone. Siamo in presenza di espressioni elusive che possono apparire accorgimenti eziologicamente rivolti ad espellere da una banca che solo nel 2000 prospererà (questo è stato detto nelle relazioni di bilancio) i soci indesiderati per conseguire un vantaggio per il socio egemone (dato che potrà traslare un attivo, in atto dubbio, in una costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in proprio in correlazione al danno subito da altri). Per converso i soci minoritari finiscono per soggiacere ad una sorta di estromissione coatta, nulla potendo contro lo strapotere assembleare del socio di maggioranza assoluta.
LA PERDITA DEL CONTROLLO SOCIETARIO
Non appare questa la sede per rievocare la vicenda dell’ingresso della Banca di Roma nella compagine societaria della Banca di Roma. Qualche dato è stato già fornito. Non sembra del tutto corretto asserire che l’istituto romano sia divenuto socio quasi unico in un sol colpo, nel 1995. Le tante assemblee straordinarie del 1994 prima e del 1995, dopo, stanno lì a testimoniare il fatto che da una partecipazione minoritaria e pressoché irrilevante si è passati ad una partecipazione cospicua del 30% per finire in quella massiccia attuale che pare trascenda di fatto il 53% dichiarato.
E’ inoppugnabile che la Banca di Roma non ha mai pagato azioni Mediterranea sopra le L. 8.000; o meglio: il patto iniziale di acquistare a L. 15.000 si è modificato a seguito di valutazioni fatte con criteri non del tutto in linea con quelli che ora vengono proposti dagli advisor.
Fuor di dubbio che nessun premio di maggioranza è gravato sull’acquirente del tempo. Tanto ora non può che essere corrisposto ai soci del tempo – se sopravvissuti – a titolo risarcitorio. In altri termini è questione di equità, di giustizia applicata al caso concreto, recuperare in sede di estinzione della tradizionale Banca Mediterranea ciò che venne meno nei processi di aggiustamento della compagine societaria, in definitiva voluti dall’estranea Banca d’Italia.
Allora non si corrispose quella giusta integrazione di prezzo sia perché scriveva come scriveva il direttore della locale Filiale B.I. (vedi sopra) sia perché si diceva e si ammoniva l’assemblea dei soci che con la presenza della Banca di Roma cosiddette “sinergie” entravano nell’asfittica potenzialità di crescita della Banca Mediterranea.
Facile oggi richiamare i rilievi dell’ultima ispezione B.I. per sottolineare carenze addebitabili al nuovo assetto amministrativo come:
- la circostanza che “ancorché note da almeno un quinquennio, solo da pochi mesi sono state avviate a soluzione le mancate problematiche del sistema informatico, obsoleto, scarsamente integrato ed assoggettato ad una disordinata e poco documentata opera di intervento manuale e di personalizzazione delle procedure”. E guarda caso, s’inizia il risanamento e si estingue la banca con l’istituto dell’incorporazione da parte del socio egemone;
- rimarchevole «l’inadeguatezza dell’apparato contabile e di quello segnalatecico, nonché dei sistemi di controllo interno e direzionale.» Aspetto tanto più grave se si tien conto dello smantellamento delle connaturali strutture della Mediterranea e dei gravi costi per l’introduzione degli alieni ed abnormi sistemi consoni all’istituto romano;
- «scrutinio e monitoraggio del credito – interessati da manchevolezze ed incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto.» E siffatto nevralgico comparto è quello che si contraddistingue con la pesante involuzione delle sofferenze prima additata e soprattutto con il deterioramento del grado di ricuperabilità dei dubbi realizzi;
- «contenzioso lento ed incompleto» ad onta dei gravami del conto economico che hanno impedito all’azienda di prosperare;
- «ritardi nell’appostazione di sofferenze»: i misteri di posizioni contrassegnati con i codice CR 4433672; 6439964 e 5114286 forse stanno avendo acconcio disvelamento, ma in sedi alquanto scabrose;
- “numerosi rapporti … risultano di fatto abbandonati” forse sol perché ritenuti “di ammontare non elevato”, e tanti piccoli rivi fanno un fiume;
- «le previsioni di perdita non sempre sono guidati da criteri univoci, volti ad assicurare una tendenziale oggettività e omogeneità valutativa.»
E si potrebbe continuare. Resta però inspiegabile perché i c.d. tecnici della fusione non sfiorino neppure siffatti scottanti aspetti. Avrebbero dovuto chiedere ad esempio la seguente documentazione e farne dei circospetti ma esaustivi ragguagli. Senza contemplare tali risvolti gestionali ogni giudizio sulla congruità del con cambio è a dir poco malcerto.
Non ci risulta che siano stati vagliati i risultati di esercizio tenendo presenti:
- le decisioni degli amministratori delagati dell’ultimo triennio;
- le pratiche di fido (centrali nella gestione di una banca);
- la corrispondenza con la banca socia;
- i rapporti ispettivi interni (vedi rilievo n. 8);
- atti, lettere e corrispondenza idonei a controdedurre al rilievo sub 11);
- la parte aperta delle due ultime due ispezioni della Banca d’Italia.
Sono pretermissioni che da un lato avvalorano la nostra stima sul giusto peso delle azioni Mediterranee, desumibile solo dalla pregestione Banca di Roma, pari cioè a L. 14.378 e dall’altro impongono la refusione del premio di maggioranza a suo tempo non corrisposto dal neo-socio Banca di Roma.
Non si nega che tale valore non è facilmente quantificabile, ma il giusto mezzo tra un minimo del 15% del valore dell’azione al tempo dell’ ingresso maggioritario della Banca di Roma ed un massimo del 20% porta ad un’integrazione pari a L. 2.500 per azione dei soci di minoranza. Siffatta integrazione esula dai vincoli dell’art. 2501 bis terzo comma, trattandosi di atto risarcitorio e può quindi essere corrisposta in contanti.
LA NUOVA BANCA MEDITERRANEA
 La Banca d’Italia si era premurata di far sapere in Parlamento che «Mediterranea e Banca di Roma, in qualità di capogruppo, [dovevano] redigere, in tempi brevi, un dettagliato piano di risanamento, nel quale fossero previsti adeguati interventi di ricapitalizzazione e fossero formulate coerenti previsioni di crescita degli aggregati patrimoniali, economici e finanziari.» Non pare che si privilegiasse l’ipotesi dello scioglimento della banca Mediterranea, sia pure sotto forma di fusione mediante incorporazione. Se qualche avvocato romano sostiene che tale ultima via fosse la sola percorribile per volere della B.I. si assume non poche responsabilità.
Purtroppo, dopo ondivaghi atteggiamenti, torna comodo alla B.R. tale forma di estinzione della sua partecipata. In effetti, basta l’emissione di n° 83.708.730 nuove azioni (al massimo) per un importo complessivo di L. 41.854.365.000 per tacitare tutte le ragioni dei vecchi soci della Mediterranea. Con una semplice scrittura contabile del tipo:
- dare conto “fusione” avere capitale sociale: L. 41.854.365.000:=
per chiudere la partita.
Nasce un certo annacquamento del capitale che a nostro sommesso avviso rastremerà il valore contabile della singola azione BR forse attorno a L. 1.972 (con ulteriore lesione del concambio delle azioni della Mediterranea), ma tanto non risulta interessare alcuna autorità di controllo.
Al conto fusione accederà anche l’attuale partecipazione, riportata non al costo storico come si dice da parte degli amministratori della BR ma a quello del precedente esercizio al momento pari a L. 226.000.000.000 (salvo rettifiche per sopraggiunti acquisti o per emersione di sistemazioni varie).
Il complessivo importo di siffatta voce dell’attivo (L. 268 miliardi al massimo) ha già una sua destinazione: pare che verrà qualificato come effettivo e veridico apporto di capitali alla divisata nuova banca «al fine di preservare una serie di vantaggi competitivi connessi al mantenimento del marchio ed al radicamento territoriale» (Cfr. Relazione C.di A. Mediterranea, pag.1)
Si reputa di far sapere ai vecchi soci della Mediterranea che:
- «vi è stata una sostanziale tenuta della Banca Mediterranea nelle posizioni sul mercato di riferimento» (cfr. ibidem p. 10»
- «frutto di una costante ed attiva presenza sul mercato» (cfr. ibidem p. 11);
- «grazie anche alla sviluppo di sinergie commerciali con le società del Gruppo Bancoroma» (ibidem p. 11);
- In definitiva, «da tali linee di azione, unitamente alle scelte di riorganizzazione tecnologica ed amministrativa, alla valorizzazione delle risorse umane, alle sinergie derivanti dall’appartenenza ad un gruppo ampio, integrato ed in evoluzione, si attendono il continuo miglioramento della qualità degli impieghi ed il rafforzamento del ruolo della Banca quale interlocutore privilegiato del mondo produttivo e soggetto attivo di propulsione e di sviluppo, pronto a cogliere in via anticipata i segnali che vengono dai territori e dalle istituzioni» (ibidem, p. 12).
Invero non pare che l’Organo di Vigilanza sia d’accordo se in una «recente visita», sia pure «di norma», ha riconsiderato «in chiave più critica le componenti aziendali strutturali, patrimoniali ed economiche.» Ma, non pare equo che i soci di minoranza vengano radiati e non possano in alcun modo godere dei frutti dei loro ormai ultraquinquennali sacrifici.
Ai soci della Mediterranea viene infatti precluso ogni accesso nell’ente che risorgerà dalle ceneri della banca che loro hanno fondato, sviluppato, radicato nel territorio, consegnato al nuovo socio egemone con una dote cospicua patrimoniale e che altri ha affossato e dissolto in una “incorporazione” letale. Bancaroma scrive: «è stato peraltro predisposto un progetto di fusione per incorporazione nella Banca di Roma. E’ inoltre prevista, a seguire, un’operazione di scorporo di parte della Banca Mediterranea in una società di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma. Questa soluzione offre al nostro Gruppo la possibilità di salvaguardare le importanti potenzialità competitive presenti nella rete della Banca Mediterranea, in funzione soprattutto delle sue caratteristiche di localismo e di radicamento territoriale, attraverso un nuovo organismo atto ad assicurare migliori prospettive di profittabilità.» (Relazione Bilancio BR, p. 61) Ma tali «potenzialità competitive» in parte sono di pertinenza degli estromettendi soci. Giustizia impone che vengano risarciti.
L’attribuzione ad ogni vecchia azione Mediterranea dell’opzione a sottoscrivere alla pari  le azioni della costituenda società bancaria – totalmente riveniente dalla Mediterranea – si rende quindi ineludibile: pena prevedibilissime azioni giudiziarie.
Del resto è la stessa Banca di Roma che implicitamente riconosce l’inadeguatezza del concambio di 5 a 2. A pag. 96 della cennata relazione si afferma: «Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi. Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti già a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico. Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista  fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico. E’ da aggiungere infine che la valutazione è confermata anche da offerte di acquisto pervenute da potenziali acquirenti.».
 Duole dover controbattere:
- se positivi effetti sono previsti «a partire dal 2000», del tutto ingiustificata è la sostanziale soppressione di una banca vitale;
- il valore di carico risulta forse pari a L. 5.094, mentre quello che percepirà il socio minoritario BM, dopo le dilatazioni del capitale della BR per estromissione dei soci di minoranza BM, difficilmente supererà le L. 4.930 (rapporti precisi non sono possibili per difetto di informazione societaria);
- prudenza imporrebbe di non accreditare tesi azzardate in materia di azioni quotate in borsa e di evitare frasi come questa: «advisor indipendenti … attribuiscono … un valore che eccede il valore di carico»;
- se «potenziali acquirenti» erano disposti a subentrare nella partecipazione, era quella la via non solo auspicabile ma da percorrere doverosamente per evitare i danni inflitti ai soci di minoranza. Se non si era stati in grado di amministrare, si poteva almeno essere avveduti nel vendere.

CONCLUSIONI

Gli advisor “indipendenti” hanno redatto perizie i cui limiti crediamo di affare dimostrato abbondantemente. Non sono pochi i soci di minoranza che non si reputano soddisfatti dal concambio che viene proposto (5 a 2).
Per tutta una serie di considerazioni, pare essere equo un concambio radicato nel valore storico delle azioni della Mediterranea, o meglio che tenga conto dell’effettivo netto patrimoniale, prima delle tosature per gestioni imputabili a centri estranei dagli interessi dei soci minoritari.
Di tal che, un’azione della Mediterranea si aggira sulle L. 14.378 che in relazione al valore corrente delle azioni Bancoroma comporta un concambio di 7 azioni BR per ogni azione BM.
Va inoltre rifuso il premio di maggioranza, a suo tempo non corrisposto, e commisurabile in L. 2.500, da corrispondere in contanti, data la sua natura risarcitoria.
I soci di minoranza della Mediterranea non possono venire esclusi dalla divisata nuova banca che altro non è che la stessa Mediterranea, neppure troppo modificata. Il rapporto societario trascende il valore economico e specie nell’ambito bancario – ove ha peso l’art. 19 del TULB – esso è insopprimibile per sola volontà del socio maggioritario. Conseguentemente, va accordata per ogni vecchia azione un’opzione azionaria alla pari nella divisata nuova società bancaria.
La presente relazione è del tutto finalizzata alla tutela delle ragioni patrimoniali e morali di taluni soci di minoranza della Banca Mediterranea che ne hanno fatto esplicita richiesta. Non può pertanto avere valore diverso di un’opinione che comunque viene espressa secondo scienza e coscienza e che scaturisce da esperienze quarantennali nel settore delle verifiche bancarie.
Racalmuto, 25 aprile 2000.

Dott. CALOGERO TAVERNA,
ex ispettore di vigilanza bancaria della Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di minoranza della Banca Mediterranea.
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Dott. GIUSEPPE TAVERNA,
dottore in giurisprudenza.
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St. Un. CINZIA LEONE,
laureanda in giurisprudenza.
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Che cosa voglio dimostrare? Vent'anni fa contestavo il modo di fare conguagli nel concanbio bancario, Non venni preso in considerazione, Nel Confiteor oggi apprendo che avevo perfettamente ragione.  A suo tempo cercai di coinvolgere le autorità di vigilanza. Non mi risposero neppure. Fanno oggi autocritica?