Possiamo essere sicuri che da
settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i
galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie
sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con
i contributi dell’AIMA.
Ma era la scena politica che si
andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre
maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.
Approdiamo a momenti storici
racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo
sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la
cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue
bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante.
Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi,
forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha
bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto
bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con
rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere
anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano.
Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO fu
Ignazio,’ il 18 gennaio del 1875 un racalmutese,
che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra
Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese
espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella
appunto osannata da SCIASCIA. Negli
ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del
gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno
sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a
Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo
Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti
interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria.
Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse
molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente
ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi
lo aveva apertamente sottoscritto e
rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro
Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in
grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere
comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere
Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio
dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra
Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello
storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore
Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla',
Paolo Baeri . etc. Ma il libello, che
viene recapitato il 25 maggio del 1896 a
Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò
la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri
TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'. In una
reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile
per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue
tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario
del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a
partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai
Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo
continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco
Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi
padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a
mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati
col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di
carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro
del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di
animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di
animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo
Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo
elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente
famiglia dei BUSUITO e francamente
mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto
presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei
paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a
due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare,
inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta
dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è
dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal
Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott.
Romano ispiratore di 'una spesa barocca'
per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro
gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo
milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un
piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle
somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei
carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»
Riconosco di avere sempre sospettato
che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore
che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -, abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi
riesce incomprensibile il passo della sua
introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno,
... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da
capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada,
edificandovi una casetta: ora è un secolo. »
Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente
saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.
Certo, povero lui!, molto ancora
dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in
materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una
vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il
documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo
1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in
quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto
1621 (indizione anticipata, in uso negli
atti ecclesiastici dell'agrigentino). Se
«il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina
fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni
astrologici che avevano presieduto alla nascita ... del
mostro» V. pag. 182 della
Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che
la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».
Fra Diego La Matina, poi, non potè
essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p.
180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche
episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.)
al 20 giugno 1621 (IV IND.) Sciascia non
riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la
Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello
Sferrazza, il racalmutese che tenne a
battesimo il futuro frate agostiniano.
Noi gli imputiamo anche l'avere
ignorato che la madre di Diego la Matina era una RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi
con Vincenzo la Matina il 7 ottobre
1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza
Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651
andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione
sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre
di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova,
si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in
S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i
conforti religiosi da P. Bonaventura da
'Cannigatti'.
Nell'anno 1620 - precedente a quello
di nascita di Fra Diego - era invece nato Don
Federico La Matina figlio di
Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente
racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un
nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se
talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e
molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a
pag. 197 op. cit. - va riabilitata.
Sciascia ebbe ad equivocare
maldestramente tra l'atto di battesimo di Marc'Antonio Alaimo e quello di
Marc'Antonio Missina. Anzi, confuse la registrazione di quest'ultimo con l’atto
di battesimo del futuro medico, con una annotazione ancora oggi rinvenibile tra
i registri della Matrice di Racalmuto.
Giuseppe TROISI, all'epoca solerte fotografo al seguito di Sciascia intento a comporre una versione corredata da fotografie della MORTE
DELL'INQUISITORE che purtroppo non fu mai pubblicata da LATERZA, ne trasse persino una interessante fotografia.
E qui mi duole aggiungere che la stima che SCIASCIA riversò, in un
articolo pubblicato da MALGRADOTUTTO, su
MARC'ANTONIO ALAYMO era mal riposta.
Quando e se avrò modo di pubblicare la traduzione del suo DIADEKTIKN,
verrà fuori un medico fattucchiere, superstizioso e bigotto. Il capitolo 'DE
MUMIA' dovette essere orripilante anche nel Seicento.
Se Sciascia lo avesse appena scorso,
lo avrebbe senza dubbio fustigato.
A questo punto, il mio acre censore
Nicolò Petrotto avrà tanta ragione per insolentirmi. Bazzecole?
Pedanterie? Grette minchionerie?
Senza dubbio. Ma è appunto per
questo che mi sono diverto a parlar male del nostro locale Garibaldi, proprio
in casa di MALGRADOTUTTO, a dire il vero ho tentato mail nostro faziosissimo
giornaletto locale mi ha impudentemente censurato.
Ma questo Nicolò Petrotto chi è? Se
è uno dei due Petrotto Nicolò (figlio di
Calogero uno, di Carmelo l'altro) che mi ritrovo in un liso foglio a
matita alle prese con le 'giubbe' , i 'cinturoni' ed il 'moschetto' nelle contestate colonie dei 'balilla'
racalmutesi, potrebbe pure informarmi su quelle vicende che pur
contraddistinguono un locale costume dell'Era Fascista.
Non sono di antico lignaggio
racalmutese i PETROTTO e quindi non amano forse questo suonare la 'corda pazza'
della Terra del Sale. Questa
famiglia appare nei registri della
Matrice solo sul finire del 1600: in un censimento databile 1664 abbiamo solo
un ceppo affine che si fa chiamare GULPI
PITROTTO . Di un Nicolao Gulpi Pitrotto abbiamo
traccia negli atti di morte del l'11/10/1648 ed il primo di maggio del 1656
viene sepolta a S. Giuliano Filippa Gulpi Pitrotto figlia di Francesco e
Giovanna Gulpi Pitrotto. Un Gulpi
Pitrotto lo troviamo addirittura quale teste nel matrimonio tra Chiazza
Giovanni e Zimbili Diega, celebratosi il 9/5/1618.
Incomprensibilmente, a partire dal
novembre del 1664 (cfr. atto di morte di Santo Pitrotto di Francesco e di
Giovanna di anni 20 del 16/11/1664) quello ed altri ceppi semplificano il
cognome nel solo PITROTTO e da
allora quella famiglia ebbe a svilupparsi considerevolmente e - sia chiaro -
onorevolmente nella Terra di Racalmuto.
Solo che chi scrive, alla stregua
degli Sciascia (che i preti a suo tempo registravano XAXA), può vantare
presenze racalmutesi fin dai primi registri della matrice di Racalmuto che
risalgono, a seconda delle letture, al 1554 o al 1564. Per converso, se Nicolò Petrotto fosse per
linea materna anche un PALERMO, ebbene allora ci surclasserebbe quanto a sangue
locale parlando le cronache di tal SADIA di PALERMO «lu quali habitava in lu
casali di Raxalmuto» nel 1474. E siamo dunque a cinque secoli fa.
Questa "querelle" tra me
ed il PETROTTO è allora tipicamente racalmutese. Chi non è di questa terra non
può apprezzare la saggia follia di questi sarcastici scontri. Ma ritorniamo
agli scontro della fine dell’Ottocento.
«Si informa - scriveva da Racalmuto il 22 giugno 1873
l'Ufficiale di P.S. in missione Luigi MACALUSO - che in un giorno degli ultimi
di maggio p.p. i fratelli Gerlando e Calogero Damiani e Stanislao
D'Amico da Girgenti, nelle ore del
mattino vennero in questa, ove si
riunirono a certo Gueli Bongiorno Raimondo da Grotte, qui residente qual
socio appaltatore dei Dazi Consumo e poscia nelle ore pomeridiane dell'istesso
giorno, insieme al detto Gueli, si recarono a Grotte, ove si riunirono ai
nominati Ferrara Giuseppe di Ludovico da Sciacca, di anni 29, domiciliato in Grotte, civile, ed INGRAO Francesco di Giuseppe di anni 30 Civile da
Grotte, i quali tutti insieme andarono a desinare nell'osteria di Sciascia Pietro, ove bevereno e parlarono fra di loro
, ignorando i discorsi tenuti, perché a soli. I cennati INGRAO, GUELI, FERRARA
sono ritenuti dalla voce pubblica appartenenti al Partito Repubblicano e gli
stessi furono imputati e sottoposti a mandati di cattura per la rivolta politica avvenuta in Grotte,
nel febbraio 1868, e poscia liberati per manco di prove, ma al presente tengono
una condotta tanto riservata da non farsi colpire dai rigori della legge e da qualunque
possibile vigilanza.»
E a Racalmuto? «In Racalmuto questo
partito [repubblicano] non ha alcuno aderente anzi dalla classe pensante è
beffeggiato».
«Maestà, siamo alle Grotte» -
citiamo da Rerversibilità di Sciascia
- «Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriamo avanti - disse all'ufficiale di
scorta». A Grotte invece ci sono stati valenti uomini che hanno sofferto il
carcere per le loro idee. E a Racalmuto? Certo, vi prosperano la letteratura e
le sardoniche rime in vernacolo.
Nelle sale del circolo tutte quelle
“mene” ottocentesche - si può essere certi - venivano scandite al tocco delle
solatie ore pomeridiane o al rintocco di quelle melanconiche dell’occaso e
della tarda sera. Una rissa mia,
paesana, acidula con il mio amico prof. Petrotto l’ho voluta qui intrufolare
per dare il ritmo, se non il racconto, delle analoghe beghe dell’Ottocento dei
galantuomini nostrani.
* * *
Dopo l’Unità d’Italia, Racalmuto ha
sconvolgimenti profondissimi che lì per lì i loquaci galantuomini sicuramente
non colsero; ma basta vede come si chiude il quadro statistico di fine secolo
per capire quale rivoluzione sociale si era determinata. Certo la componente
borghese fu egemone. Chi aveva terre da sfruttare con scavi alla ricerca dello
zolfo lo fece con perseveranza, con protervia persino, con avventure
impensabili in gente atavicamente adusa a lavorare solo il mese della
“riconta”. Ed i buoni borghesi di Racalmuto non si accorsero neppure che
continuando in quel modo avrebbero dovuto poi rammaricarsi del fatto che “un
galantomu un po’ cchiu dari nna masciddata a lu so viddanu”. Quando noi oggi -
nipoti di zolfatai analfabeti che a dire dei notai dell’epoca non sapevano
“scrivere ne(sic) sottoscrivere per non averlo mai appreso” - si divertiamo
nelle serate al circolo a sbeffeggiare qualche malconcio erede di quei
supponenti signori, un gusto sadico, un empito di ancestrale livore, lo
proviamo ancora, con una qualche ingordigia.
Racalmuto si affacia al secolo XX
con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario
generale del Regno” del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648,
Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio
di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a
Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di
Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso
borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un
affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere:
Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima
Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret.
Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo
(Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti
Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni -
Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio;
Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro
Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe -
Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami:
(fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone
Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale
- Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi -
Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli -
Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco
- Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi
Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta
Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere
di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego
- Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro -
Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore -
Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca
Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero
- Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia
Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare -
Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana
Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma
Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore -
Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro -
Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv.
Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi
- Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni
Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero.
Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe
- Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale -
Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe
- Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio
d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore -
Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri:
Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.)
Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela -
Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) -
Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo
Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori:
Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi
Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro
Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello
Salvatore. Medici-chirurghi:
Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe -
Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore -
Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando -
Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro economico che se ne trae è
molto variegato ed esplicativo. Oltre 63
esercenti di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma) attestano
l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in
cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane
vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore;
7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di
olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione
industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di
legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti,
di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta:
negozi di formaggio e quattro macelleria
lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed
agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui
solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci
vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro strettisimi parenti ed è
da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una
effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, “agrario” ed il profilo
degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del
fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle
famiglie che figurano come esercenti di particolari arti e mestieri. Destinati
ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i
Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i
vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine
di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof.
Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una
rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio
finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno
abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’
racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi Pirandello ne I vecchi e i
giovani accenna alle condizioni -
avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli
zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda
la vita delle loro donne.
«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di
Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto,
solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli
occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette
di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con
cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per
assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con
aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al
cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e
scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli
occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di
baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col
fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi
degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a
lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal
pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava
occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e
appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano
ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio
corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per
comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»
Forse un tantinello oleografica, ma
pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si
attaglia alla Racalmuto di quella seconda metà dell’Ottocento. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i
pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il
grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe
zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di
essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno,
nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per
i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono
come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non
tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di
danaro ben guadagnato. E fra i
proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una
netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel
linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di
gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi
disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti
al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima
di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si
seguono a brevissima distanza.
«Dalla
profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni
di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno
logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di
dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi
sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di
una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per
l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una
dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la
vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche
colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre
qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo
che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia
densa e giallastra. [...]
«I
molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi
luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]
«Qua
e là, tra le distese grigie del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della
fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello
zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste
vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della
fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni,
mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena;
i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da
vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi
soppalchi praticabili, viene versato il minerale grezzo. Lo zolfo, acceso
all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla
spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle
azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in
una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel
centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di
notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo
infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di
minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle
campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e
i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i
campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di
pace e di tranquillità.»
Quanto al contrasto contadini-zolfatai
che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche
distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle
condizioni della classe agricola: «Il
contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato
come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavoro sui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di
che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che
attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano
alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»
L. Hamilton Caico, l’irrequita
moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese
finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese
agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento,
quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere
è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di
ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il
lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca
d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana
[...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma
appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento
sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non
appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per
lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al
rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di
umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale
disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono
istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le
tendenze più perverse.» ()
Gli zolfatai di Racalmuto furono
politicamente e sindacalmente vivaci. Saranno i primi a passare al fascismo, ma
con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso nuovo
regime. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della
paga unilateralmente decisa dagli esercenti.
Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati
socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo
Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito
lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca,
il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine
secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12
marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se
volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare
una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali
parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come
siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica
[..].» ()
Quanto alla vexata quaestio dei carusi,
il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole
che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo
Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesta sulla
Sicilia: «A domanda: E l’affare
fanciulli nelle zofare? Risponde: E’
questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico
dall’altra. A domanda: Produce danni
fisici e morali?: Risponde: Non
quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio.
Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere
l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni
sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.»
Racalmuto si consegnarà al fascismo
dopo una frenetica corsa allo zolfo. Un indice è quello demografico che è bene
qui segnare:
Abitanti di Racalmuto
Anno
|
N.ro
abit.
|
Indici
1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In
quasi un secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento
totale, di quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:
Comune
di Racalmuto
Periodi
|
Incremento totale
|
incremento naturale
|
saldo migratorio
|
1861 -1 871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 - 1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 - 1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 - 1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 - 1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 - 1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 - 1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel periodo 1861-1871 l’incremento
totale della popolazione è inferiore a quello naturale, il che comporta una
emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo tra il 1871 ed il
1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una immigrazione netta dell’1,55
per mille; dopo l’emigrazione prende il sopravvento e nel periodo 1881-1901 è
del 4,64 per mille, nel decennio successivo di ben il 22,12 per mille e tra il
1911 ed il 1921 è ancora del 18,79 per mille; dopo - nel primo decennio
fascista - abbiamo un’inversione di tendenza: il flusso diviene immigratorio
per l’1,47 per mille; quindi il flusso emigratorio riprende il sopravvento (
16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
Rispetto alla provincia di
Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto al territorio dell’intera
provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema sempre più
d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi d’oggi: un vero
dimezzamento d’importanza. Eugenio
Napoleone Messana , lo storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto
con le pinze, è alquanto malizioso quando scrive: «Osservando i dati
dell’Istituto Centrale di statistica [...] balza evidente una crescente
flessione demografica dal 1936 al 1961». Quasi si trattasse di un fenomeno iniziato
in pieno fascismo. Era invece, come abbiamo visto, un deflusso che affondava le
radici alla fine dell’Ottocento.
* * *
Si è visto come per desiderio di
Garibaldi sia salito al parlamento di Torino il deputato La Porta: un
personaggio battagliero, talora equivoco, protagonista comunque di non poche
battaglie parlamentari. I fatti del 1862 ebbero risonanza e risonanza
arroventata in parlamento. Nella torna del 7 aprile del 1962 s’incardina la
discussione sull’interpellanza del La Porta. Si tratta dell’ «andamento amministrativo
nella Sicilia». Il focoso giovane deputato siciliano è dispersivo, logorroico e
non riesce a mordere come vorrebbe.
Molti prolissi periodi gli occorrono prima di introdurre l’oggetto della sua
interpellanza: «noi deplorammo il favoritismo, la protezione governativa, la
preferenza che il Governo accordava all’elemento della scacciata dinastia in
tutti gli uffizi» finalmente inizia ad accusare per riprendere le fila del
discorso sull’onda del ricordo «noi rimproverammo gli abusi, le violenze che
alcuni agenti del potere esecutivo in Sicilia perpetravano a danno
dell’elemento liberale, a danno di quell’elemento che godeva e gode la simpatia
delle popolazioni.» Il riferimento al prefetto Falconcini è palpabile; l’eco della
persecuzione del racalmutese Matrona, evidente. Ma abbiamo visto che il Matrona
opportunisticamente ebbe invece ad accordarsi con il prefetto, scagionandolo da
ogni accusa: la convenienza fece aggio sulla verità, segno non proprio di
grande elevatezza morale dei conclamati Matrona.
Per l’on. La Porta, era stato
vessato proprio quell’elemento che «rappresentò in Sicilia la iniziativa della
rivoluzione del 1860, la capitanò, guidò il popolo al plebiscito del 21 ottobre
e, qualunque volta la causa dell’unità nazionale o dall’opera dei retrivi o dagli errori del Governo sia compromessa
nell’isola, malgrado i torti ricevuti, non mancò mai al suo dovere.»
Il Laporta infierisce. «noi abbiamo
accusato la lentezza, la trascuratezza governativa in materia di opere
pubbliche; le strade, i ponti, i porti, o non iniziati, o lentamente o
deplorevolmente avviati; il denaro pubblico con poca utilità speso; le leggi
votate dal Parlamento per quelle provincie, sterile e derisoria parola.» Un
ritornello, una posta del rosario che spesse volte, fino alla noia, verrà dopo
ripetuta, in tutte le epoche, sotto i vari governi, persino fino ai nostri
giorni. Dopo un anno e mezzo, francamente era solo retorica esigere chissà
quali miracoli governativi. Ma dopo, col tempo, quel rosario amaro verrà
recitato con ben più solida fondatezza.
Certo ha ragione La Porta ad
ironizzare sui «rapporti dei prefetti che descrivevano l’isola beata e
tranquilla e quasi inneggiante un cantico di benedizione ai ministri
costituzionali.» In effetti c’era da fare una «requisitoria dello stato
d’assedio, per dimostrare alla Camera quale fu specialmente il terreno, ove
quel Ministero [il dimissionario Governo Rattazzi, n.d.r.] esercitò le sue
violenze, le doportazioni in massa, le fucilazioni senza giudizio, ogni atto,
non dirò di Governo assoluto, ma dirò un’altra parola, dirò di despotismo ...»
Qualche esagerazione, senza dubbio; ma un quadro nella sostanza terribilmente
rispondente al vero. Altro che Falconcini, vittima di chissà quali ingiustizie!
Il La Porta scende a dettagli: «Il
tenente dei carabinieri in Naro, provincia di Girgenti, annunziò pubblicamente
che aveva bisogno di un esempio durante lo stato d’ssaedio in quella città;
manifestò volere la fucilazione di un infelice Puleri Manto, e quella
fucilazione fu eseguita. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Marsala è
quello stesso che arrestava il signor Andrea Danna, il primo cittadino di quel
paese. [...] Il maresciallo dei carabinieri in Misilmeri [procedeva a ] 37
arresti che fece per pure ire personali. ... Gli arrestati dopo pochi giorni,
riconosciuti innocenti, furono messi in libertà.»
Ma il quadro dell’ordine pubblico
era in ogni caso desolante. «La sicurezza pubblica in Sicilia è ridotta ad
un’amara delusione. Migliaia di renitenti alla leva, migliaia di evasi dalle
prigioni battono la campagna; e già alcune bande si sono organizzate e
specialmnete nelle provincie di Palermo, di Siracusa, di Girgenti, alcune bande
che spargono il terrore in tutti i proprietari, che rubano, assassinano ad ogni
momento.» E quanto ad Agrigento, «i proprietari stanno rinchiusi in casa;
nemmeno si attentano di uscire in città. E’ raro che uno dei grossi proprietari
di quel circondario non abbia già ricevuto un biglietto di scrocco, e non tema
di uscire dalla casa per non incorrere nella vendetta di coloro che hanno
richiesto una somma di danaro e che essi non si trovano in grado di pagare. Il
barone Genoardi è stato tassato per cento mila lire. Il signor Vincenzo
Mendolia è stato tassato per duecento mila lire, e così molti altri. [...] Il
numero dei renitenti alla leva in quel circondario ascende a 600 per la leva
del 1842, oltre poi quelli del 1840,1841 ed oltre 900 altri. In tutto tra
renitenti alla leva ed evasi dalle prigioni sono 1650 nel solo circondario di
Girgenti. [...] A pochi passi dalla città di Girgenti vi è un ladroneggio organizzato colla sua burocrazia: coloro che
trasportano zolfo appena usciti dalla città trovano cinque o sei ladri che ne
notano il nome e impongono loro una taglia; al ritorno la taglia è esatta e il
nome cancellato.»
Prende quindi la parola il deputato
Ricciardi per ragguagliare su talune amenità: « Ho avvicinato ed interrogato
ogni ceto di persone, cominciando dal principe e terminando all’artigiano, non
ho udito mai voce che lodasse l’opera del Governo. [..] Quest’isola godeva
sotto i Borboni di alcuni privilegi, i quali naturalmente doveva perdere
all’apparire della libertà e dell’unità nazionale. Certamente un paese dove non
esisteva la leva e che ha dovuto sobbarcarsi alla medesima, deve essere assai
malcontento; quindi i cinque o sei mila refrattari di cui è forza deplorar
l’esistenza. In Sicilia non v’era carta da bollo, ora non vi è solo questo,
sìbene il registro ed il bollo, che han rovinato tutte le classi le quali viveano
del foro. [...] Debbo dirvi ora una parola intorno alle carceri di Palermo ...
Signori, in quelle carceri ho scorto cose degne del medio evo, cioè 1400
detenuti, di cui pochissimi condannati, i più tenuti a disposizione della
questura, e non interrogati da tre, da sei, da diciotto mesi! Alcuni tenuti in
celle nelle quali passeggiano come fiere in gabbia, e senza lavoro! Altri,
tenuti in vastissimi cameroni in numero di 100 o 150, senza un misero
pagliariccio; dormono avvolti in mantelli, e lascio immaginare a loro, signori,
che cosa debba avvenire la notte in quei cameroni.»
La risposta del ministro Peruzzi è
scontata: burocratica, evasiva, legittimista. Ma quelche spunto è degno di
menzione: «... debbo osservare come disgraziatamente siasi verificato che
taluni proprietari adoperano pei lavori di campagna preferibilmente dei
renitenti alla leva ed altri che trovansi in questo stato extralegale, perché
fanno pagar loro questa irregolarità di condizioni col prestar loro una mercede
minore di quella che accordano agli altri lavoranti.»
Noi non abbiamo dubbi: a Racalmuto i
galantuomini, grandi proprietari di terra, fecero fortuna a sfruttare quei
poveri renitenti. Chissà i commenti al circolo di compagnia.
Il Peruzzi è tagliente nello
stigmatizzare la manomorta ecclesiastica agrigentina. « La provincia di
Girgenti è quella dove la maggior parte dei beni sono nelle mani delle
corporazioni religiose e del clero. Io stesso, visitando la provincia di
Girgenti, ho dovuto maravigliarmi, come dopo aver veduto una quantità di
solfare vicine l’una all’altra, dovessi poi attraversare lungo tratto di paese
senza vederne una. Ebbene, quel lungo tratto di paese era proprietà della mensa
arcivescovile, o vescovile non so, di Girgenti. Quella mensa non voleva dare ad
altri la facoltà di ricercare depositi di zolfo, né coltivarli né tampoco li
ricercava e coltivava essa stessa.
L’industria stessa degli zolfi, o signori, non contribuisce per avventura alla
maggior moralità di quelle popolazioni, e di questo possono convoncersi tutti
quelli che hanno esaminato le condizioni nelle quali quell’industria viene
esercitata.
«Inoltre la provincia di Girgenti ha
avuta la disgrazia d’avere un’evasione di detenuti, dei quali una piccolissima
porzione si è potuta riprendere, mentre degli altri che è egli avvenuto? Si
sono forse costituite delle bande armate in quella provincia? Niente affatto.
Tutte le ricerche fatte dalla forza militare sono riuscite inutili, ed ho
quindi motivo di credere che anche
questi siano stati, per così dire, riassorbiti dal apese, che si siano sparsi
per le barie borgate, per le varie masserie, per le varie solfare, e che di là
facilmente si muovano a commettere i delitti. [...] Io ho cambiato il prefetto
di quella provincia perché ho creduto che questa misura fosse indispensabile.
Ho invitato il prefetto a propormi il cambiamento di delegati e di altri
funzionari sotto i suoi ordini, scioglimenti di Consigli comunali e di guardie
nazionali, ed egli mi ha risposto che effettivamente conviene adottare siffatte
disposizioni. »
* * *
Bisogna dare atto ad Eugenio
Napoleone Messa di avere bene inquadrato l’avvicendarsi dei sindaci di
Racalmuto dopo l’Unità d’Italia. La successione dei sindaci nel ventennio
successivo alla venuta di Garibaldi l’abbiamo vista prima. Oltre ai dati di
cronaca del Messana, noi disponiamo di queste risultanze d’archivio.
Maggio del 1860
Al convento dei Minori sotto titolo
di S. Francesco di Assisi di Racalmuto (convento di S. Francesco), dimorano
questi frati: 1° fra Michele Antonio Garafalo, guardiano; 2° fra Salvatore
Mirisola; 3° padre Luigi Scibetta.
1864
Nel convento di S. Francesco ora
l’organico dei monaci era composto dal solito fra Scibetta, da fra Pietro
Calamera, dal p. Fracesco Mulé, da fra Giuseppe Scimè detto Cicolino, tìlaico
terziario e da fra Antonio Chiodo:
1866
Il 24 agosto 1866 abbiamo l’ultima
registrazione del convento di S. Francesco. Poi tutto passa in mano laica per
le note leggi eversive. Fra Francesco Mulè sottoscrive ricevuta “a buon conto
del mio vestiario della somma di onze 16, dico 16). Si chiude la gloriosa
storia del convento di S. Francesco di Racalmuto: l’eremo dei Minori di S.
Francesco chiude i battenti per volontà degli estranei piemontesi. Le terre -
appetibilissime - passano in mano ai furbi e fedifraghi notabili locali.
1869
27 giugno 1869 “Mene mazziniane
(lettera da Firenze): «il partito mazziniano a tentato, tenta , ed in ogni modo
studia per avere degli affigliati nelle vie ferrate e negli uffici
telegrafici».
11 agosto 1869 «Avendo con la massima
riservatezza e circospezione indagato sulla condotta di questo Ufficiale
telegrafico sig. Tulumello Salvatore di Luigi non ho osservato sinora dal suo
contegno alcun indizio da cui desumere che fosse un affigliato o cooperatore
del partito Mazziniano», Il delegato Morra (?) al Prefetto [dall’Ufficio di
Pubblica Sicurezza di Racalmuto].
1870
Racalmuto 14 giugno 1870 «...Venendo
agli uffici pubblici, incominciando dalla Pretura diretta da qualche mese dal
vice pretore, procede regolarmente, però sarebbe desiderabile che venisse al
più presto possibile il nuovo Pretore titolare sig. Ripollina, che si attende,
per dare maggiormente spinta ed attività al regolare andamento
dell’amministrazione della giustizia. Sui Reali Carabinieri non v’è cosa di
proposito da osservare in contrario; sarebbe però utile che il comandante della
stazione sig. Bertelli, bravo giovane, spiegasse maggiore energia per
disciplina sui propri dipendenti, i quali profittandosi della bontà del loro
capo sono un po’ rilassati nel servizio, non prestando con quella attività che
si richiede; attività indispensabile per potere alla meglio sorvegliare il
territorio, e l’abitato che sono vasti, mentre la forza è ristrettissima, per
cui si dovrebbe aumentare la Stazione almeno di altri due Carabinieri non
essendocene che quattro, con altrettanti soldati: forza la quale rimane quasi
esclusivamente in continuazione per la scorta delle due corriere postali che
transitano in questo stradale ogni giorno.
«Il servizio delle due guardie
campestri esistenti Deleo e Vinci, è del tutto trascurato da poiché il
Municipio invece di farli disimpegnare il proprio incarico li lascia
praticamente addetti ai propri particolari e di scorta al sig. Sindaco, sig.
Matrona, Giunta, parenti e amici. Si dice pure che i suaccennati agenti
spalleggiati dall’Autorità Comunale commettono scrocchi, ma nulla si può
accertare di positivo.
«Gli Uffici del registro,
telegrafico e poste non danno motivo a lagnanza nel pubblico, però ci vorrebbe
un poco più di attività in quest’ultimo servizio, e che il capo dell’Ufficio
sig. Borsellino non fosse trascurato nel prescritto orario di tenere aperta la
Posta, e non abbandonasse quasi totalmente il servizio al suo commesso sig.
Grillo Calogero buon giovane, ma piuttosto inesperto e distratto. L Delegato
[firma illeggibile].»
Il sindaco che nel 1870 si serviva
di quella guardia campestre, che poi vedremo sinistra protagonista in casa
Matrona, era il notaio Michele Angelo Alaimo che precede don Gasparino che
sindaco lo diventa nel 1872: frattanto quel Matrona era consigliere provinciale
(dal 1868 al 1871): tanto bastava per dirottare la non proprio pacifica guardia
Vinci a seguire ed avere in custodia l’intera famiglia dei già arroganti
Matrona. Borsellino aveva in mano la Posta ma l’affidava ad un giovane definito
«inespero e distratto»: Calogero Grillo. Uno spaccato dellA Racalmuto del 1870
non proprio esaltante.
Ma vi era maretta in Municipio.
«...l’assessore sig. Matrona Paolino ha dichiarato alla Presidenza lo stsesso
non volere far più parte della Giunta Municipale, manifestando essere stato fin
oggi in carica, perché il dovere lo chiamava di sentire prima cerziorata la
gestione, onde potere al caso rispondere contro ogni insidia e scandaloso
mendacio. Il consigliere Gaspare Matrona presa indi la parola, come nel paese
vaghe e insidiose calunnie spinte da spirito di parte siano circolate ad
appuntarel’integrità del Sindaco e del Corpo Municipale. Per quanto calunniosi
ed insensati siano gli appunti, lo provano al Consiglio i presentati conti; la
reputazione delle individualità che hanno fin oggi composto la giunta
municipale e quando parlo di individualità, egli dice, io non scendo a
determinare quella del sig. Matrona Paolino, mentre lo stesso all’oggi dà
sicura del nome, unisce solo a scuola dei maldicenti, l’aversi trovato una sola
famiglia componente la giunta municipale, essere stato il solo estranei fra tre
fratelli cognati sindaco ed assessore. Signori, egli dice, non è mia arte, né
bisogno l’assegnare la nostra famiglia Matrona a promotore di ogni bene del
paese. L’invidia, la reazione, il regressismo, sono stati questi spettri
dell’avvilito stato di questo Comune, che bene spesso ci han gettato il guanto
della sfida; e noi l’abbiamo sempre accettato. Al regresso abbiamo risposto, collo
spingere per quanto in noi è stata la forza, il progresso; alla reazione
coll’arme alla mano del 6 settembre 1862 abbiamo risposto colle armi; alle
invidie e calunnie che circolansi nel paese contro l’onestà, risponderemo nella
possibilità di provare, colla traduzione innanzi ai tribunali dei colpevoli.
Solo mi è dolorosotanta mia opera essere difficile, perché i vili in questo
sono astuti e circospetti per scoprirsi; la loro voce [non attacca]; loro non
si mostrano di fronte all’onestà ed il loro rantolo d’infamia come cupo e
sepolcrale rombo priva anche i più ... attenti a poterne diffinitivamente
discercare il movente e segnarne il calunniatore.
«Il consigliere Cavallaro sig.
Felice presa la parola ha significato al sig. Matrona che nella difficile arena
municipale non si è mai risparmiato d’insidiosamente attentare l’onestà dei
rappresentati: e che chi si ha avuto la rappresentanza municipale in qualunque epoca, è stato sempre segno di
calunnia.
«Conto dell’entrata e dell’uscita
del comune di Racalmuto - per l’esercizio reso dal suo esattore e tesoriere il
signor Leopoldo Muratori - [popolazione abitanti n.° 12.500]: dai licenzi dei
dazi appaltati al sig. Agrò Alfano Baldassare L. 1.118; da Pietro Buscemi fu
Vincenzo appaltatore dei dazi sopra le tegole, mattoni, gesso, calce, tavole,
legname e ferro L. 1.238; da Petrotto Giuseppe fu Nicolò appaltatore del dazio
sopra la paglia L. 98.»
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