sabato 11 maggio 2013

A proposito di Assicurazioni

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Economia

Irvap e Covip ed Angelo De Mattia

mariomonti1Lo confesso: a leggere la nota su MF del mio amico Angelo De Mattia su IRVAP e COVIP mi è venuto il capogiro. Pubblicata il 3 agosto, la recupero solo stamattina e un ribollire di cattivi pensieri si addensa nell’ultra mia canuta testa. Sono vecchio, lo so e sono desueto per lo meno da trent’anni, dopo certi miei Vaffa’ a Ciampi e Sarcinelli, a Somma e per converso a Pomicino ed anche a Cesare Geronzi se ci metto in mezzo la poco gloriosa Banca Mediterranea di irpinia memoria. Dovrei aggiungerci l’ingloriosa AIMA (sic!) di Via Palestro, 60.
Da trent’anni e più mi curo solo di microstoria racalmutese, magari per fare le bucce al defunto Leonardo Sciascia. Sono diventato un modestissimo, incolto, ignoto cittadinuzzo di questa gloriosa Repubblica a nome Italia. Se scrivo certe erratiche “lettere al direttore” né Belpietro né Ferrara mi degnano di un sia pure distrattissimo sguardo: eppure quando rifilavo veline e fotocopie – di per sé incomprensibili – nel settembre-novembre 1979 a Lotta Continua, cribbio se avevano successo persino in parlamento. Con quella foto del corrucciato La Malfa junior. E quando poi Feltrinelli incautamente mise in libreria Soldi Truccati – a firma Lombard, certo; ma al 70% tutto mio -, cribbio se ebbe successo quel volumaccio: in tre giorni esaurito. Dopo se ne persero le tracce e sarebbe piacevole sapere perché dopo quel primo gennaio 1980 la signora Feltrinelli censurò la pubblicazione, e dire che di soldi per finanziare Lotta Continua ne aveva dovuti sborsare tanti pur di editare lo sconcio pamphlet.
Sì, tutto questo è vero. E se mi mancano intelligenza e conoscenza per afferrare del tutto il senso recondito della stroncatura demattiana di questo malaccorto governo, la colpa è tutta mia. Ma come modestissimo cittadino di questa ancora repubblica democratica, ho diritto di capire persino cosa davvero significano Covip e Ivarp e perché mai governo camera e senato giochino a farsi i dispetti e quanto pare persino tra gli stessi membri del governo. A prima battuta, a me sembra che gira e rigira si tratti sempre del solito Tremonti che nella sua megamania dissolvente della Banca d’Italia del cattolicissimo governatore Antonio Fazio, volle far proliferare vacue superfetazioni istituzionali per sgraffignare tutto sotto l’egida del “suo” TESORO. Se ora Angelo De Mattia tira fuori i suoi esiziali aculei (istituzionali) e mette in imbarazzo Monti e Saccomanni tanto da spingerli ad incazzate quanto ingenue smentite, beh! gatta ci cova.
Lo dico da giorni: state attenti a quello lì. E’ giunta l’ora della sua (giustissima) vendetta. Ma a Berlusconi interessa tanto difendere l’operato del suo bleso delfino (pro tempore)? A riparazione perché non impone una grande commissione di ex grand commis alla Antonio Fazio, all’Angelo De Mattia, a Mario Sarcinelli, a Cesare Geronzi (sì, proprio lui, perché dite quel che volete, fu abile falso speculatore agli ordine della banca d’italia nel ingrato compito di fare vera ed efficace controspeculazione), a qualche silurato vice direttore generale, fatto anzitempo trasmigrare ai LINCEI, per citare solo quelli che conosco io, commissione atta a suggergire al parlamento una legge risanatrice di tutte le devastazioni, amputazioni, umiliazioni che Tremonti & C. hanno inferto alla più grande, prestigiosa, legalitaria tecnostruttura pubblica di cui può vantarsi l’Italia?
Tutta questa paccoltiglia di enti, entucoli, pubblici e semi pubblici, e ci metto anche consob e agenzie varie di controllo finanziario e creditizio, a che serve se non ad avere acconsentito a qualche bleso guru del passato regime di annidarvi propri famigli, che senza tecnostrutture consolidate in esperienze ormai più che secolari stanno solo lì per certe parate televisive, ove sbadigli e sonnecchianti pose si sprecano, a disdoro di tutti, e dovendo controllare ciò che ignorano, nulla controllano. E i danni nei fondi assicurativi, nelle ruberie previdenziali ed assicurative, negli arcani giochi di borsa (giochi speculativi sovranazionali che restano ovviamente incontrastati), nelle ciarlate a tutela della privacy, nei maneggi dei giochi di stato in uno con lotto, lotterie, cartoline ruba soldi e via discorrendo, e i danni – dicevamo – sono agli occhi di tutti.
E così potrei sperare che ritorni vivida e cogente la vecchia legge bancaria a tutela del risparmio, a sostegno dell’esercizio del credito, a moderazione di costosissimi sportelli bancari – pullulanti dappertutto, per procurarsi il favore di questo o quello piccolo satrapo -, che martelli il connotato di “pubblico interesse” in ogni aspetto dell’operare bancario italiano che deve esplicarsi in una insuperabile distinzione tra la vicenda creditizia a breve e quella a lungo, che deve sottostare ad un controllo “atipico” – né qualitativo né quantitativo, a disdoro della pasticcera di Milano – il cui apice tecnico è il Governatore ma il referente è un organo interministeriale di cui peraltro fa parte lo stesso governatore, cui intatta deve restare la sua funzione valutativoa anche dei fatti aventi rilevanza penale (ex. Art. 10). E qui non smetterei, ma il resto ad altra occasione. Bando comunque a tanta ciarlataneria che sorge in quell’ottobre del 1974 quando il terrore corse sul filo ed investì soprattutto il direttorio di via nazionale 91, a seguito della furente contesa Carli-Occhiuto per la sconvolgente vicenda Sindona (di cui credo di saperne qualcosa di più degli altri, come si evince dal mio romanzetto LA DONNA DEL MOSSAD, apologo sul caso Sindona, che giustamente ha rarissimi lettori).
7 agosto 2012
 
 

Racalmuto nel 1862


RACALMUTO LA RIVOLTA DEL 1862 – VIVA IL ROMANZO DI NINO VASSALLO

L’esimio Nino Vassallo sta deliziando i lettori di MALGRADOTUTTO con un suo sicuramente pregevolissimo romanzo storico (rectius MICROSTORICO) sulle vicende racalmutesi  del 1862 . Un romanzo storico si può permettere tutto e il contrario di tutto. Io – lo confesso – non l’ho ancora letto; quelle diavolerie informatiche mi annebbiano la vista. Un ottantenne come me, va capito. Aspetto quindi di comprarlo in libreria per centellinarlo ghiottamente e riverentemente. Prima di siffatta improba fatica, mi sia permesso di rievocare qui miei vecchi appunti. Ovviamente mi serviranno per chiosare con magari qualche strale ironico, caratteristica che tutti mi riconoscono o mi addebitano. Consentirà magari allo stimato Nino Vassallo da dove potranno arrivare certi colpi proibiti e schivarli. Spero – se Dio al quale non credo  mi concederà salute e vita sufficiente – di potermi un domani incontrarmi e scornarmi col diletto Nino in un pubblico dibattito magari al Chiaramontano se gli attuali delegati e sovraintendenti dovessero concedercelo.

 

 

 

 

 

Si è visto don Giuseppe Farrauto affiancare nel 1848 i Messana nei fomiti antiborbonici; e dire che dopo i suoi eredi passeranno come borbonici per eccellenza. Ma era avvenuto un incidente gravissimo con tanto di ignomia per una infamante carcerazione. “Signori Farrauto, - apostroferà l’impudente barone Luigi Tulumello nella campagna elettorale del 1873 - che diremo di voi? La storia è a tutti palese, sembra da voi soli non rammentata!!!..”: un parlare per “ ’nnimmi ”; un bell’esempio di “jttari ‘nnimmi”, come direbbe Sciascia, « ... un parlare minaccioso - cioè - e ricattatorio che, ad eccezione della persona cui è diretto, può sembrare strano, strambo.»  Crediamo che il salace barone Tulumello si riferisse alle scudisciate che le famiglie Farrauto e Matrona - ora alleate - si erano inferte nel 1862, al tempo dei fatti del 6 settembre 1862.

Leonardo Sciascia quei fatti li dà in flash in Occhio di Capra (pag. 17) sintetizzando e rivisitando un capitolo di storia paesana che si trova in un’opera di un prefetto dell’epoca; Enrico Falconcini. «Da un prefetto ingiustamente “dispensato” - chiosa il grande scrittore racalmutese - (non destituito, tenne a precisare il ministro) sappiamo come è che anche a Racalmuto si tentò di non cambiare nulla nonostante il tutto che era cambiato (vedi Giuseppe Tomasi, principe di lampedusa e duca di Palma). Il prefetto si chiamava Enrico Falconcini, e della sua amara esperienza, sull’ingiustizia che lo aveva colpito, fece un libro che pubblicò in Firenze nel 1863. Un capitolo è dedicato ai fatti del 6 settembre 1862 a Racalmuto. Racconta che nel paese c’erano due partiti: quello dei Farrauto, che vestiva “in calzon corto ed in coda”, e quello dei Matrona, che “amava indossare la camicia rossa”. Quel giorno, il partito dei Farrauto pensò di “profittare dell’abbattimento che dal fatto di Aspromonte eniva alla parte sua rivale, per correre alle case dei Matrona ed appiccare con questi una volta di più accanita zuffa”. Si fanno rientrare in paese i renitenti alla leva, si bruciano gli archivi, si devasta la caserma dei carabinieri, si devasta il casino di conversazione, si svaligia il corriere postale e si dà fuoco alla corrispondenza; e si pone assedio alle case dei Matrona, che però validamente si difendono. Due giorni dopo arrivano a Racalmuto truppa, procuratore del re e giudice istruttore: e si arrestano i Matrona. Il prefetto Falconcini interviene energicamente a farli scarcerare: ed è molto probabile che anche questo intervento gli sia stato messo in conto nel provvedimento che lo dispensava dal servizio.»

 

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La verità storica sulla ribellione racalmutese del 1862

 

L’indulgenza che Sciascia propina al forestiero prefetto Falconcini è sospetta per vari versi: ma forse Sciascia ebbe sotto mano solo qualche sporadica fotocopia dell’opera del Falconcini e non poté farsene un’idea precisa. Certe sortite di quell’ex deputato, impovvisato prefetto, stentiamo a credere possano essere passate inosservate la loico scrittore racalmuetse e - peggio - venire addirittura condivise. Si pensi che Falconcini ad un certo punto credeva fosse in sua mercé arrestare la gente sospetta per farla ‘cantare’ sotto processo: peggio di taluni eccessi della moderna antimafia - giustamente stilettata dal grande racalmutese.

Falconcini stette pochi mesi a capo della provincia di Girgenti. I suoi metodi dittatoriali, vessatori, improvvidi suscitarono campagne di stampa avverse e attacchi in parlamento, tanto da spingere Silvio Spaventa a destituirlo repentinamente, senza neppure chiedere una qualche giustificazione. La misura era al colmo. Il Falaride di Girgenti veniva detto sulla stampa. Ed a ragione, se diamo appena uno sguardo critico alle vicende racalmutesi in cui fu odioso protagonista.

Falconcini, umiliato ed offeso da provvedimento ministeriale, scrisse un libro a sua difesa - e sicuramente a sue spese - che si premurò di mandare in Parlamento nella speranza - disillusa - che potesse sortire un qualche effetto a suo favore. Stizzosamente, Ubaldino Peruzzi tagliava corto con tal cav. Boggio deputato al parlamento di Torino - in atteggiamento difensivo verso il defenestrato prefetto di Girgenti. Scrivendogli testualmente «egli [falconcini] è stato dispensato, non destituito, dalla carica di prefetto di Girgenti. Prendendo questa determinazione il ministero non ha inteso infliggere al signor Falconcini veruna punizione o biasimo, percché non ne abbia motivo.» Non era vero, ma la sortita burocratica era di quelle da tappare la bocca a chiunque. Non c’era però riprovevole dietrismo come lascia intendere Sciascia. Il prefetto era venuto in Sicilia ed in quella sperduta landa del sud convinto di avere a che fare con dei coloni africani cui raddrizzare le gambe.

Abbiamo il maligno sospetto che si sia lasciato guidare anche dalla malevola animosità contro taluni nuovi ceppi borghesi dell’oriundo avvocato Picone. Costui si era premurato di ospitare questa espressione del nuovo stato sabaudo a casa sua. Poi, pare palesamente pentito per i guai che ciò ebbe a procurargli. Stralciamo dalle sue Memorie.   « 13 agosto 1862- leggesi a pag. 658 -  Giunge il novello prefetto signor Falconcini. Il dopo pranzo giunge un generale con due pezzi di artiglieria di campagna ed altra truppa di linea, che la sera circonda la città. !4 agosto - La sera parte tutta la truppa, lasciando sparutissima guarnigione. Disertano taluni soldati, onde riunirsi a Garibaldi - 21.- Si pubblicano le copie dell’ordinanza di Cuggia, prefetto di Palermo, per le quali si proclama lo stato d’assedio in tutta Sicilia, le quali vengono lacerate. Il dopo pranzo si vedono parecchie pattuglie di soldati, le quali si ritirano ai reclami di taluni uffiziali della guardia nazionale, che trae a sé il peso della custodia dell’ordine. 22.- Giungono lettere che annunziano l’entrata di Garibaldi in Catania. 27.- Giunge un proclama di Garibaldi, per lo quale protesta a favore del re, e contra il ministero. 30.- Giunge al prefetto di Reggio Calabria un telegramma, che annunzia Garibaldi disfatto e ferito in Aspromonte. Lutto, sgomento, pianto nelle famiglie dei garibaldini. 31.- Si vuol fare una strepitosa dimostrazione contro il governo, ma non si giunge a farla. Il malumore aumenta. SETTEMBRE. 1 a 6.- Lo spirito pubblico eccitato. Risse e malumore per la novella moneta decimale. [ ...] 8.- Arrivano per la via di mare circa cinquecento bersaglieri, che si dicono essere di coloro che attaccarono Garibaldi. 9.- Si pubblica un’ordinanza di Cialdini, per la quale si dispone: “Che le bande armate che saranno trovate in campagna, saranno trattate come briganti, e che gli avanzi delle bande garibaldine, nel termine di cinque giorni, dovranno presentarsi, e saranno trattati quali prigionieri di guerra. Scorso quel termine lo saranno come briganti.” Gran malumore! 13.- Giunge il 32° di linea. [...] OTTOBRE. 1.- Per ordinanza del colonnello Eberhard è comandato il disarmo, proibita l’asportazione e la detenzione delle armi, sotto pena di fucilazione. 11.- Un vapore trasporta centosessanta detenuti di s. Vito. 12 al 25.- Giunge il 4° di linea. Innumerevoli arresti di ladri, di galeotti e di galantuomini alla rinfusa. [...] DICEMBRE. 14.- Si vede sulle mura delle case, lungo il corso principale scritto: Abbasso Falconcini. 17.- Mi si invia, per la posta, un biglietto che dice: “ Si prepara una combinazione, che sembra infernale, la quale se verrà ad effetto,la vostra casa andrà in fumo. Ciò si fa non per colpir voi, ma il prefetto.” Questi abita il quarto piano superiore al mio. [...] 1863 - GENNAIO. 13.- Proclama di Falconcini, che promuove una soscrizione contro il brigantaggio di Napoli. 6.- Egli con altro proclama, annunzia la sua destituzione. [...] FEBBRAIO. 12.- Arrivo del novello prefetto Bosi.»

Ma veniamo alla rivolta racalmutese. Tra la variegata documentazione Falconcini scegliamo per primo questo rapporto al Ministro dell’Interno che ci pare il più obiettivo. «Al Ministro dell’Interno. Il paese di Racalmuto è uno di quei luoghi ove malauguratamente ha regnato ben poco l’impero della legge e dell’autorità, per le dissensioni esistenti fra gl’individui delle due famiglie Matrona e Ferrauto, che atteggiandosi a partito politico si facevano lecito ogni azione che fosse creduta invisa al partito avverso.

«Così rima dell’arrivo di Falconcini, n.d.r.] dovè sciogliersi il consiglio comunale [...] Fu inviato un commissario nella persona del consigliere Di Catania [col compito anche ] di ricostruire la guardia nazionale.

«[...] niuno iscritto delle classi 40 e 44era stato obbediente alla chiamata [della leva]. [Racalmuto fu abbandonato] nella seconda metà di agosto dal distaccamento di truppe sotto gli ordini del generale Ricotti per operare nei dintorni di Catania [..]

«Il giorno 6 [settembre 1862] il paese cadde in preda ad un terribile disordine. I malviventi, i rei di omicidio e furti, tutti  latitanti alla giustizia, i coscritti renitenti e persone di mal’affare sopraggiungevano nel paese, quale orda invaditrice cui non opponeva resistenza la guardia nazionale sebbene eccitata e capitanata dal giudice di mandamento.

«Era saccheggiata la caserma dei carabinieri ... si appiccò il fuoco agli archivi del comune e della percettoria ed agli stemmi sabaudi; fu aggredito e saccheggiato il corpo di guardia della milizia nazionale; si saccheggiava il casino di compagnia, si aprivano le carceri ai detenuti, si aggrediva la vettura corriera, derubando i passeggeri  e bruciando in piazza fra l’orda popolare i dispacci postali, e così paralizzata l’azione di ogni autorità, gli abitanti si scambiavano fra loro secondo i partiti colpi di fucile che fortunatamente non produssero lacrimevoli effetti.

« [...] nella notte del 7 settembre una colonna andò sul posto per rimettere l’ordine, arrestare i colpevoli e fare eseguire in ogni parte il proclama del generale Cialdini sullo stato d’assedio.

« [...] Gli arresti furono eseguiti dalla truppa nel numero di sessanta circa.

«[....] molte delle persone compromesse nei disordini, costituiti in banda di circa 150 soggetti, tutti debitori di reati o renitenti alle leve, si accamparono in armi nei monti circostanti al paese quasi gettando una sfida alla truppa, che non poteva agire contro di loro, preoccupata come era nell’interno ad eseguire il disarmo, custodire gli arrestati e mantenere la quiete.

«Una compagnia di bersaglieri sotto gli ordini del maggior comandante il 6° battaglione, moveva da qui nella notte per dare la battuta ai briganti ricoverati nel monte detto Castellazzo [secondo Picone - per noi più correttamente - Castelluzzo  ] Difetto di preventiva intelligenza colla prefettura di Caltanisetta [sic], sebbene richiesta, fece sì che dato l’assalto dalla colonna i briganti retrocessero e non trovata altra truppa che li attaccasse a tergo poterono rifuggirsi isolatamente nella provincia suddetta, ma cessò la loro presenza d’infestare le campagne e minacciare di nuovo Racalmuto.

«Rimasta in questo luogo una compagnia di bersaglieri, che sembrò sufficiente a tenere in rispetto l’autorità del governo, ai 18 settembre fu eseguita la traduzione dei detenuti a Girgenti per disporne come di ragione; ed infatti molti sono stati già liberati dal potere ordinario, i veri colpevoli essendosi resi latitanti, ed altri in minor numero essendo rimasti in carcere come dediti a qualunque azione criminosa.

«Sebbene l’autorità giudiziaria non potesse raccogliere abbastanza prove per incriminarli, risultò da tutto l’insieme che causa dei fatti avvenuti era l’animosità fra le famiglie Matrona e Ferrauto che avevano diviso il paese. Allontanatesi quelle famiglie per timore di severe misure, la popolazione riacquistò quiete invidiabile che rimane inalterata.

«Girgenti, li 8 ottobre 1862. Il prefetto: Falconcini.»

Cattivo prefetto, pessimo profeta: i Matrona ed i Farrauto furono costretti all’esilio - a quanto sembra - ma la quiete a Racalmuto non arrivo; anzi i successivi fatti di gennaio mostrano un’arroventarsi del clima di contestazione. Il popolo di Racalmuto non era dunque quella misera cosa in mano agli ottimati corrispondenti ai Matrona ed ai Farrauto (famiglie solo di recente giunte a Racalmuto: nel settecento; i primi al seguito di un prete funzionario di conti succeduti ai Del Carretto; i secondi con armenti di pecore, come si sopra visto). Non erano costoro che potevano dominare il non irruento ma non succubo popolo di Racalmuto. Il prefetto era male informato. Abbiamo insinuato dall’avvocato Picone.

La nota è importante, poi, per la storia del circolo unione: preso di mira dal popolino, sichiamava ancora “circolo di compagnia”; la prosa prefettizia sembra avvolorare ciò oltre ogni ragionevole dubbio.

Non crediamo che, se Sciascia avesse letto davvero questo passo del libercolo del Falconcini, si sarebbe indotto ai sullodati apprezzamenti positivi.

Il circondario di Girgenti era piuttosto disarmato in quel periodo: tutto l’intero distaccamento bersaglieri, 6° battaglione, presidiava il derelitto Racalmuto e sicuramente ne insidiava le donne, con tanta rabbia dei barbuti - ed in gran parte latitanti - maschi del luogo, pregiudizievolmente renitenti alla leva dei Sabaudi. Come dargli torto?

Una vecchia lettera mai spedita che torna sempre di attualità!


Gentilissimo signor Felice Cavallaro

Ho letto il suo “costruiamo insieme le nuove stagioni”, Buttafuoco – come lei ben sa – con mossa davvero infelice la vuole PODESTA’ unico di questo mio diletto Racalmuto, né Regalpetra né paese di Sciascia né paese della mafia ne ora CITTA’ di Sciascia – per quel che ne ebbe a scrivere sul Foglio di Ferrara, MALGRADOTUTTO la premia concedendole quasi tutto intero lo spazio di fondo (sia pure del solo secondo numero dei primi tre quarti di questo per me piuttosto felice anno di vita racalmutese), la televisione criptocomunista la invita a spiegare agli italiani che cosa è mafia, altri ed altri ancora ha fatto di lei un baluardo della stampa persecutrice della criminalità organizzata, la ministra degli Interni la ritiene degno di confidenziale fiducia per le cose di Racalmuto e naturalmente interprete autorevole del titanico e imperturbabile atteggiamento di Sciascia nella lotta a Cosa Nostra ed anche agli STIDDARA. E le crede tanto da confidarle che se prende il provvedimento che ha preso – improvvidamente, sottolineiamo noi – l’ha preso “con animo turbato, pensando a Sciascia, ovviamente, alla Fondazione che porta il nome dello scrittore, al teatro che fu presieduto da Andrea Camilleri, forse anche a fermenti culturali come il gruppo di “Malgrado Tutto” ed altre voci come i siti “Regalpetra Libera” o “Castrum Racalmuto Domani” capaci se pure ad intermittenza, di accendere curiosità ed attenzioni da quest’angolo siciliano che con buona dose di autoironia provammo un tempo a proporre come ‘il paese della Ragione’ ”.

Davvero il Ministro in gonnella Cancellieri ha tempo e voglia di sciupare le sue poche ore di sonno per queste inezie racalmutesi? Se è così, complimenti e complimenti ancora signor grandissimo felice giornalista!

Povera Cancelleri, che apparve tanto turbata e sconcertata quando venne a Racalmuto per fare la visita imposta e furbescamente estorta delle cosiddette “sette chiese” per come sardonicamente chiosava un blog da me ideato denominato ed introdotto in ambienti solo a me – immodestia a parte – consentiti (blog invero estortomi con insolenti e perentori BASTA e defluito verso le ricette della ‘zza  RURU’ che chissà a chi interessano).

Povera Cancelleri che doveva andare nel altro fomite di indiscutibile cultura quale è l’occiduo circolo dei vecchi galantuomini (tra i quali si annoveravano tutti i membri della sua aulica famiglia, signor Cavallaro, che però si sono volatilizzazti, pare, per non accollarsi l’onere del gravoso ‘mensile’, meno lei per le ragioni che ben sa) ed invece si limitò ad una nicodemica “taliata” credo a motivo di una interdicibile “pipì” che allora adducevo nel sito che lei cita e che fece ridere mezza Italia.

Povera Cancelleri che dovette dare lustro ad una “affondazione” chiusa, neghittosa, “una cattedrale nel deserto” ebbe a scrivere il suo bleso collega GIORDANO. Per sommo dell’ironia ora quei “missi” della Ministra chiedono il rendiconto finanziario che nessuno si azzarderà a dare (so di un mio collega che, per fare il doveroso controllo come sindaco, chiese ed ottenne un pantagruelico rimborso spese).  

Povera Cancelleri che mentre era indotta a considerare “fermento culturale” il blog di Scimè, la sua fiduciaria al Tramonto (cacciata via secondo me) ne vitupera forme e contenuto arrivando ad usare lemmi come “VOMITEVOLE” che il suo MalgradoTutto echeggia persino nel titolo dell’esclusiva intervista senza diritto di replica.

Povera Cancelleri che crede in un Camilleri un tutt’uno con il Regina Margherita ignara di disdicevoli inconvenienti che il spinsero il giallista di Porto Empedocle ad un fugone donnabbondesco  (sempre secondo me, ovviamente).

E’ domenica, domani debbo partire e non ho tempo (ma forse voglia di continuare). In Banca d’Italia si aveva l’obbligo di chiudere in stile burocratico: nel pregare di scusare l’occorso, si ringrazia e si porgono distinti ossequi.

Calogero Taverna

 

 

Lettera  (seconda) a Patrizia 

Torno a Balla, critico serio, uomo di raffinatissima cultura pittorica. Per vivere, venne di straforo in Banca d’Italia. Lì lo conobbi, addirittura nell’agone sindacale. Ovviamente eravamo in CGIL: duri, malefici, irriducibili: ce la dovevano vedere con il figlio adottivo di Acerbo … e Persiani Acerbo era – buon’anima, si dice – un fascistone inflessibile. Mentre qualcuno si costruiva una piscina sul tetto di uno storico palazzo di Fontanella Borghese, sfondandolo, l’Acerbo fascista moralizzava per qualche notturno colloquio in Bankitalia con artisti d’Oltre Oceano. Una bazzecola che cercai di cassare da rappresentante sindacale di sinistra, in una commissione interna d’inchiesta. Vinsi allora, ma Alessandro tagliò la corda. Con il cipiglio di chi viene da una inattingibile schiatta di eccelsa pittura, tornò a riguardarsi i quadri delle sue due bisbetiche zie, come questo:


 

Se fossi pittore, da tutti mi farei ponderare meno che da Alessandro Balla, salvo a chiamarmi Guttuso, perché siciliano, o Cagli, come preferiva un mio grande sodale comunista di La Spezia. Apparentemente, da non temerlo molto; ed è poi soavemente galante specie con belle donne in fiore. Mi consta, monogamo, quasi quanto me: ma poi vatti a fidare di un bell’uomo come lui.

Di Poce dipinge, o almeno allora dipingeva, con geniale allegrezza, forse esuberantemente come avviene quando prorompono ancor giovanili ardori. Coloristicamente (con i colori di Roma?... Bah! Un mio amico di Bankitalia – anche lui pittore, ma soprattutto scultore che senza essere Bernini seppe, una volta, cogliere quello spasimo femminile del momento terminale dell’amore, ciarlava con me della inesistenza a Roma di cieli e colori vividi). Poverino, fu schiacciato dalla P2 osteggiata da Pertini. Non aveva neppure firmato l’adesione a Gelli. Ma questi – su segnalazione di un compaesano del Nostro – lo aveva allibrato; così apparve nei famosi elenchi trovati inopinatamente dal padre di Massimo d’Alema e dal giudice Colombo in una – per loro – estraneissima villa toscana. Il Ciampi, prima misericordioso, poi astioso, (d’un tratto era diventato antimassonico e persino bizzochero; e dire che noi in B.I. lo credevamo laico con cazzola e triangolo) umiliò il meschinello piduista, destituendolo nel prestigioso incarico ispettivo di vigilanza bancaria. Era il dottor Aronadio: supplichevole una volta ebbe a telefonarmi perché intercedesse con il terribile on. Giuseppe D’Alema, credendomi ancora suo collaborazionista. Purtroppo avevo avuto il mio bravo disguido con il sullodato onorevole rosso, non alieno dal credere ad una congiura ai miei danni; si tentò giornalisticamente di accreditarmi come quinta colonna di qualche pingue mio paesano d’America: uno scagnozzo molto remunerato da Sindona per millantato credito presso la cupola nuiorchese di Cosa Nostra. Favola ridicola davvero, ma ebbe facile credito presso le autorità nostrane e straniere, necessitate di trovare diversivi credibili a loro non commendevoli orchestrazioni valutarie. Povero Aronadio: non ne ho saputo più nulla. Credo che sia morto. Dopo una vecchiaia comunque triste e vizza. Ecco una tragedia che non mi risulta vivificata da pittori ed artisti. Senza futura memoria, quindi, e non dobbiamo scomodare Sciascia per qualche introverso diniego di ciò che in avvenire sarà storia “narrabile” alla Castro.


 

 

Una controperizia del tempo in cui vigeva l'art. 48 del TULB ora abrogato


CONTRORELAZIONE DI STIMA DEL RAPPORTO DI CONCAMBIO TRA LE AZIONI DI BANCA MEDITERRANEA E DI BANCA DI ROMA A SUPPORTO DELLE DETERMINAZIONI DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE DI BANCA MEDITERRANEA.

 

 

 

Dott. Calogero Taverna,

ex ispettore di vigilanza bancaria della Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di minoranza della Banca Mediterranea.

 

Dott. Giuseppe Taverna,

dottore in giurisprudenza.

 

St. Un. Cinzia Leone,

laureanda in giurisprudenza.

 

 Due o tre puntualizzazioni a mo’ di premessa.

 

 

Si dà per letta la congerie di documentazione messa a disposizione dei soci di minoranza della Banca Mediterranea in ordine a:

1)    al progetto di fusione per incorporazione della Banca Mediterranea SpA nella Banca di Roma Spa;

2)    al bilancio di esercizio 1999 della medesima Banca Mediterranea.

 

Nella prodromica assemblea del 9 novembre 1999, l’istanza di chi scrive a coinvolgere – anche in posizione oltremodo subalterna – i vari comitati di soci nella impostazione delle stime e delle controdeduzioni ai rilievi della Banca d’Italia della precedente primavera è stata totalmente disattesa.

 

 Non è stata accettata l’offerta di «…collaborare per una contrapposizione difensiva avverso la Banca d’Italia.»

Non si è dato peso al fatto che «se questa proposta dovesse essere accolta, si renderebbe necessario interrompere l’assemblea e riconvocarla per deliberare sui risultati che una siffatta commissione mista di cointeressati riterrebbe utile sottoporre all’approvazione dell’intero sodalizio bancario.»

Men che meno si è dato spazio ai soci di minoranza intenzionati a «respingere l’intero o.di g. che viene proposto e predisporre gli strumenti tecnico-giuridici per una difesa giudiziaria, il cui filo conduttore non può non essere il conflitto di interessi con il socio di maggioranza – spesso socio tiranno – e con quanti vi si sono accodati o vi si accodano.»

Ed ecco come si contava in quell’intervento requisitorio:

Il conflitto parte da lontano e a dire il vero con una intrusione della Banca d’Italia, per lo meno, irrituale. Fu infatti il locale direttore della Banca d’Italia a rappresentare nel 1994 i desiderata dell’Organo Centrale tendente ad imbarcare la banca del sud nell’alveo del mega gruppo facente capo alla Banca di Roma. L’autorevole suggerimento trovò spazio in una sede impropria quale è la lettera ufficiale di contestazione delle risultanze ispettive (nota n. 4626 del 16 settembre 1994): vi si legge, infatti. «... la Banca di Roma dovrebbe acquisire una quota del 30% del capitale di codesta Banca [Mediterranea] [..]: in tal modo, codesto ente entrerebbe a far parte del gruppo creditizio Cassa di Risparmio di Roma. Al riguardo, si è qui dell’avviso che l’accordo debba essere considerato alla luce dei risultati della verifica ispettiva. In particolare, l’apporto patrimoniale dovrà essere quantificato tenendo presente la necessità di fronteggiare il deterioramento dell’attivo e di ripristinare l’equilibrio reddituale [..]: l’intesa dovrà consentire i più ampi poteri di gestione al partner prescelto, nel cui gruppo creditizio andrà ricompresa l’azienda ...» (v. pag. 5).

E potremmo citare altre fonti che ormai sono di pubblico dominio per i vari processi anche penali in corso.

Ma l’usbergo B.I. non dissolve le responsabilità Bancoroma.

Nel 1993 figuravano tra le azioni proprie L. 18.413/m. comprate per la maggior parte a L. 15/mila. Con accordi del marzo 1994 la Banca di Roma s’impegnava ad acquistare n. 1.568.816 azioni in portafoglio della Mediterranea a L. 15.000 ed a sottoscrivere integralmente un aumento del capitale per giungere ad una quota del 30% al prezzo di emissione non inferiore a L. 15.000. Era un accordo condizionato, ma nella sostanza non poteva essere modificato se non per eventi allora imprevedibili. L’atto provvidenziale fu la drastica ispezione Scattone che abbondando in previsioni di perdite su opinabili sofferenze consentì la riduzione del prezzo da L. 15.000 per azione a L. 8.000 per azione. La Banca di Roma senza doversi sbracciare più di tanto potè rinegoziare l’iniziale acquisto delle azioni della Mediterranea nel proprio portafoglio da L. 15.000 ad azione a L. 8.000; sottoscrivere sempre a L. 8.000 per azione l’aumento del capitale sociale del novembre 1994 ed a tale prezzo potè aggiudicarsi  quello successivo del 1995.

I dati tecnici qui non interessano: resta però evidente che la Banca di Roma potè acquisire l’attuale 58% o giù di lì del capitale sociale della Mediterranea adducendo soltanto 339/miliardi circa al posto di L. 636/miliardi circa con una differenza di L. 297/miliardi circa, (miliardo in più, miliardo in meno: noi non abbiamo per ora i dati precisi). Dobbiamo aggiungere che la cosa, pur indagata, non ha sinora sortito effetto alcuno presso la magistratura. Il supporto giuridico sembra essere una perizia di un auditor bancario, di cui la Banca di Roma è socia, che a dire il vero si è limitato a  fare un poco convinto riferimento alle risultanze ispettive precedenti. Ma particolare di grosso valore, la Banca di Roma non ha ritenuto, dopo, attendibili le ricostruzioni ispettive e per anni le sofferenze sono state molto al di sotto rispetto a quelle ispettive. Del pari le valutazioni delle perdite inerenti.

Oggi, in questa chiamata al giudizio finale, il socio di maggioranza dovrebbe per lo meno allontanarsi ed il C. di A. con il collegio sindacale non avrebbe titolo a fare proposte di acquiescenza ai nuovi risultati ispettivi per la palese confliggenza d’interessi. Una delibera in ordine delle responsabilità patrimoniali dovrebbe avvenire senza l’interferenza di soci coinvolti o di amministratori consenzienti.

Non si mancava di scendere nel  dettagli in ordine ai seguenti indici di anomalia nella gestione bancaria.

a)    la Banca non ci segnala che il nostro sistema informativo è risultato “obsoleto”; che inadeguato è apparso l’apparato contabile e segnaletico; che carenti si  sono rivelati i sistemi di controllo interno. Ebbene ciò nonostante che dal 1994 ad oggi il carico del conto economico per competenze a professionisti esterni abbia avuto il seguente ingente sviluppo: 1994 L. 5.432.795.176; 1995 L. 3.447.530.240; 1996 L. 4.914.115.300; 1997 L. L. 6.413.846.934; 1998 L. 7.049.931.185 e già nella prima metà di quest’anno l’esborso è asceso a L. 5.671.059.916.

b)    Se siamo bene informati, alla Banca d’Italia non piace neppure il nostro Servizio Ispettorato - ma per esperienza diretta noi dobbiamo qui esternare il nostro plauso ai valenti dirigenti della Mediterranea che vi hanno operato e che ancora vi operano – e tanto rende inaccettabile l’enorme dispersione di mezzi propri nel pagare ingenti somme alla Capogruppo per prestito di “personale”. Leggendo gli scarni dati di bilancio abbiamo che nel quinquennio sono stati sborsati questi emolumenti a dirigenti estranei distaccati dalla Banca di Roma: 1995 L. 1.434.486.272; 1996 L. 3.049.758.246; 1997 L. 2.281.669.399; 1998 L. 2.531.803.065 e nella prima metà del 1999 L. 1.400.830.290. In totale dunque L. 10.699,5 milioni di nessuna utilità, di gratuito aggravio dei vari conti economici, già pesantemente incisi dall’enorme costo del personale proprio – invero di altissimo livello, se bene utilizzato – e con incidenze sulle responsabilità degli amministratori, dei sindaci, nonché con insorgenze conflittuali di interessi nell’ambito delle assemblee sociali per la presenza determinante del socio tiranno beneficiario indiretto di codesti indebiti o dispersivi gravami economici.

c)     Per il nuovo ispettore della Banca d’Italia gli ingenti accantonamenti per ammortamento in conto delle varie sofferenze ed incagli che hanno devastato i precorsi esercizi sono insufficienti e necessiterebbero – a dire degli stessi amministratori – “rettifiche di valore su crediti in sofferenza e ad incagli pari a L. 175,8 mld.” e cioè L.30,8 mld. per “rettifiche di valore analitiche” e L. 143 mld. a titolo di svalutazione “forfetaria”. Non venendo ragguagliati in nulla, noi soci di minoranza contestiamo siffatta impostazione di bilancio.  Innanzitutto, occorre conoscere il trend delle sofferenze dalla precedente ispezione alla presente: occorrono i famosi allegati di supporto agli stringati rilievi. Necessita stabilire se la gestione delle precorse sofferenze è stata adeguata e proficua; se il socio di maggioranza ha favorito i suoi grandi clienti esposti anche in Mediterranea;  se via sia stato uno storno di posizioni incagliate da Roma a Potenza ed altre peculiarità operative che passano anche attraverso compravendite di azioni preferenziali della Mediterranea da parte della Banca di Roma a pregiudizievole sistemazione di taluni grandi debitori della Mediterranea. Questi e tanti altri aspetti su cui ci si riserva di intervenire nelle competenti sedi rendono particolarmente grave il contesto delle responsabilità amministrative di amministratori e sindaci ed inquinano le precedenti delibere assembleari che hanno inteso suggellare, col solo assenso dell’interessato socio tiranno, un indirizzo gestionale che ora la Banca d’Italia torna a stigmatizzare pesantemente.

d)    Per la Banca d’Italia, prodottasi in uno scrutinio del merito di credito nella sua veste di terzietà, diffuse sarebbero le manchevolezze che vengono giudicate incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto. L’iniziale intento di convogliare a Potenza da Roma risorse tecnico-menageriali rivenienti da una impresa bancaria di alto standing appare del tutto frustrato. La Banca d’Italia non può pertanto lasciare la Mediterranea in mano a chi ha tradito la sua fiducia: le resta l’ufficio ex art. 76 TULB cui deve procedere con urgenza perché vanno profilandosi manovre pregiudizievolmente dilatorie come è la proposta degli amministratori, che, pur fustigati dai rilievi ispettivi, vorrebbero un “rinvio al prossimo esercizio dell’adozione degli opportuni provvedimenti di cui all’art. 2446 c.c.” e ovviamente fidandosi della benevolenza del socio tiranno – per suo verso interessato a tale conflittuale slittamento di provvedimenti che sarebbero inceppanti della veridicità e fedeltà del suo proprio bilancio -  sperano in una decisione volta a soprassedere «in questa sede, alla riduzione del capitale a copertura delle perdite al 30/06/99».

e)     Sempre ad avviso dei nuovi ispettori B.I. gli incagli ufficiali hanno per lo più caratteristica di sofferenza. Si intuisce, dunque, un deterioramento dell’assistenza creditizia. Le sofferenze residuano in L. 600/miliardi a seguito di “rettifiche di valore” per L. 595,6 miliardi (la nostra banca ha crediti in sofferenza per L. 1.196 miliardi  che gli amministratori di diretta emanazione del socio tiranno lasciano marcire da anni tra le pieghe dell’attivo). Sono destinate, per intuizione ispettiva, a crescere ulteriormente. La Banca d’Italia non è tenuta ai provvedimenti di rigore, ma un inquietante interrogativo la dovrebbe attanagliare, specie se lascia l’azienda bancaria sotto la sua vigilanza, in mano di amministratori e di un socio di maggioranza a dir poco distratti. Aggiungasi che patologico va giudicato il comparto degli interessi di mora: trattasi di L. 373.293.701.894 svalutate per L. 320.953.587.573, il che la dice lunga sulla indolenza degli amministratori nel recupero almeno parziale degli interessi moratori. Ed il rilievo n. 15 è molto significativo al riguardo. S’impone quindi l’interrogativo circa l’atteggiamento della B.I. che al momento si limita a contestare cose tanto gravi senza assumere le iniziative che, se non la forma, l’essenza della vigilanza  prudenziale imporrebbe senza indugio.

f)      Rade sarebbero – sempre per la Banca d’Italia - le autonome e tempestive azioni esecutive volte al recupero dei crediti. Da ciò dovrebbe scaturire un’immediata e tempestiva iniziativa nel senso scandito dall’art. 76 T.U.L.B.

g)    Quanto delicato sia il rilievo sulla scarsa correttezza contrattuale e sulla rilassata prevenzione dell’utilizzo dei circuiti bancari a fini criminosi è di palmare evidenza. Un rilievo del genere rivolto ad uomini per vari versi legati ad uno dei massimi enti bancari nazionali lascia solo esterrefatti. Ma basta una semplice tirata di orecchie?

h)    Per Barbagallo sarebbe solo insufficiente l’attenzione che viene prestata all’osservanza della normativa antiusura. Per quel che ci è capitato di vedere, gli episodi di tracimazione dai “tassi-soglia” sarebbero tutt’altro che episodici e di modesta misura.

i)      Censurabili in termini di maggior rigore ci sembrano i casi di devianza dai canoni dell’antiriciclaggio (rilievo 16);

j)      Esulando dalle contestazioni B.I., abbiamo da lamentare l’assoluta inidoneità delle note illustrative della nota contabile al 30/6/99 e dell’o.d.g che ci viene proposto. Il rendiconto che ci viene chiesto di approvare ha un taglio decisamente incomprensibile: nulla si spiega, nulla si dice a chiarimento di tavole e tavole di aridi numeri, men che meno ci vien fatto sapere perché all’improvviso si riesumano fatti e vicende di almeno un quinquennio prima e - divenuto il socio egemone padrone assoluto del consiglio di amministrazione, dopo il defenestramento o le dimissioni forzate dei pur remissivi esponenti della minoranza - si è inferto un colpo esiziale alle residue valenze patrimoniali dei soci minoritari. Abbiamo detto sopra come secondo noi la Banca di Roma sia divenuta all’improvviso padrona assoluta della Mediterranea senza conferire - o quasi - alcun apporto per consolidate plusvalenze della precedente azienda bancaria. Dopo il bilancio 1997 -  che a mio avviso va invalidato per nullità sempre eccepibile – è stato azzerato il “fondo soprapprezzo azioni” che noi soci di minoranza e noi soli abbiamo costituito, con solo nostri sudati - ed ora dispersi - capitali freschi; non furono rispettati i divieti per conflitto d’interessi e fu rimessa alla volontà dittatoriale del socio egemone la decisione dissolvitrice del patrimonio altrui, senza contemplare gli ostacoli anche giuridici che vi si contrapponevano. Tre o quattro cifre sintetizzano la devastazione bancaria che con questo rendiconto semestrale  - frutto solo dell’inventiva dei rappresentanti del socio egemone - ci si propone addirittura di “approvare”, come se non si trattasse di manovre volte solo a nostro danno, a danno cioè dei soli ed indifesi soci potentini, e cioè di quei maldestri soci vistisi ridotti a soci di minoranza quando un tempo erano i proprietari assoluti della Banca, per non parlare dei soci di Pescopagano che per destinazione del padre di famiglia vantavano imprescrittibili ed incedibili diritti di prelazione su una non trasformabile banca popolare. E tutte queste nostre ragioni sono state nel tempo vanificate per interferenze anche autorevoli.

k)      Con alcune cifre buttate lì, nel rendiconto semestrale, che sconvolgono ogni logica di economia d’azienda si vuole, con decisione del solo socio di maggioranza, vanificare i patrimoni dei soci minoritari;  ciò, mentre  - per converso – si lascia integra la partecipazione del socio dominante che potrà alienare ogni cosa senza nulla perdere.

l)      Abbiamo subito conflitti d’interesse a non finire; siamo stati iugulati con decisioni lesive dei nostri interessi di soci privati di voto effettivo per il prevalere del socio tiranno, interessato a ben altro; nessuno può negare che v’erano nel passato fondati sospetti di condotte ricadenti negli articoli del 2446 codice civile, 2447 c.c. e 2448, sub 4), pronuba anche una legge bancaria priva di difese per i soci di minoranza, espoliatrice dei diritti ex art. 2409 c.c.; di una legge bancaria che per ottenere dalla Banca d’Italia un motivato giudizio – prevedibilmente negativo per i soci di minoranza – vuole il voto assembleare del ventesimo del capitale sociale. Ma se vi sono notitiae criminis la Banca d’Italia non è tenuta a fare rapporto all’autorità giudiziaria, senza indugio? E così ancora una volta dovremmo subire l’arcigno silenzio sugli eventi che avrebbero improvvisamente determinato il crollo della nostra banca, dato che il C.d.A.  – che  al socio di maggioranza, statene certi, tutto ha già detto – reputa prudente non fornire adeguati chiarimenti sia in sede di relazione generale sia in sede di doverosa esplicazione di sibilline poste contabili.

m)    Si pensi ad un fatto devastante: senza eventi imprevisti ed imprevedibili, senza ragioni inopinatamente sopraggiunte, senza deterioramenti repentini dell’ordinario operato bancario (del tipo di colossali malversazioni da parte di dipendenti infedeli), la Banca Mediterranea,  che nel 1998 il suo modesto ruolo di azienda creditizia era riuscita a svolgerlo per merito esclusivo della pur numerosa e subalterna compagine impiegatizia, precipita da un risultato passabile  ad una catastrofica perdita di periodo (che vuol dire?) 

n)    La disavventura è tanto inconsueta, tanto spaventevole, tanto abissale che avrebbe dovuto spingere i responsabili - alla fine tutti portavoce del solo socio dominante - a quintali di giustificazioni e di chiarimenti e di ragguagli e di informazioni tecniche e di spiegazioni giuridiche, e di lezioni di tecnica bancaria, e di altro ed altro ed altro ancora. Ed invece nulla, o pressoché nulla - visto che quello che si dice, cripticamente, innocentemente, sa di scarica barile. Il nostro patrimonio crolla d’improvviso e si porta a quota 155/miliardi (ed i tecnici sanno per di più che la riserva per azioni non va conteggiata); in parole povere le nostre azioni che credevamo valere ancora sulle 8.000 mila lire, non valgono neppure il valore nominale di L. 5.000, ma solo, salvo ulteriori devastazioni, L. 2.050 (che in prospettiva potrebbero equivalere a 4 azioni del Banco di Roma all’identico valore nominale e francamente con questi chiari di luna potrebbe anche convenirci. Basta che ce l’assicurino sin d’ora).

o)    Ci pare di riascoltare vecchie giustificazioni che si abbarbicavano ai cosiddetti  “fenomeni di deterioramento della qualità del credito” (vedasi bilancio 1997). Ma ora i “romani” debbono spiegarsi meglio: vengono dalla “sapienza” e sono sapienti. Si deteriora qualcosa che una volta era buona. Si deteriora qualcosa perché malconservata. Si deteriora qualcosa perché non si sa gestirla. Si deteriora qualcosa perché, per mille inconfessabili motivi, la si vuol deteriorare, perdere. Si deve essere più chiari. Qui è in gioco la sopravvivenza della banca, almeno la sopravvivenza delle partecipazioni minoritarie. Al socio egemone può fare comodo rimpinzare di riserve, se non occulte, di sicuro potenziali questa nostra banca; lasciare un residuo barlume di consistenza patrimoniale che giustifichi la partecipazione al valore di L. 6-7.000  nel bilancio bancario del socio dominante; vendere a terzi quell’interessenza - magari esteri e meglio ancora se esterovestiti e meglio ancora se con capitali facili - a prezzi di affezione; creare le premesse per un successivo azzeramento del capitale sociale per l’estromissione dei soci dominati e ciò in vista di una ricostituzione del capitale sociale cui non potranno accedere i soci dominati per inidoneità finanziarie; facile così la locupletazione degli ipotetici speculatori esteri (cui gratuitamente accederanno le riverse potenziali per i sovrabbondanti ammortamenti delle sofferenze). Dovete chiarire e rasserenare i soci di minoranza, informarli e soprattutto astenervi dalle improvvide politiche di occultamento di utili con massicce e ingiustificate rastremazioni dei crediti.

p)     “Fuge rumores” dicevano i maestri del capitalismo italiano. D’accordo: ma qui non è questione di rumori; qui è l’annuncio di una morte, della morte di una banca. Se non il lamento delle prefiche - e nessuno di noi lo gradirebbe - almeno una confessione liberatrice sarebbe doverosa. Da cinque anni abbiamo le tanto conclamate sinergie con il grande polo della Banca di Roma; caterve di funzionari, dirigenti in prequiescenza, profluvio di corrispondenza ammonitrice; pareri “pro veritate” - ma a dire il vero, la verità della casa madre - ultra remunerati; amministratori venuti da lontano; provvedimenti odiosi; dimissionamenti ex abrupto di dirigenti tradizionali, e tant’altro: beh! tutto questo non solo non ha impedito la catastrofe ma l’ha registrata, a dir poco, tardivamente. E per di più - e qui siamo nell’inaccettabile - la si viene qui a raccontare per sommi capi, cripticamente, senza ragguagli, misteriosamente, ultimativamente e con il non nascosto intento di ottenerne la tranchant approvazione del socio egemone, noncuranti di ogni remora per conflitto d’interesse.

q)     Un tempo ci venne detto che la débacle  si era verificata: «a seguito del totale deterioramento della situazione economico-finanziaria di alcuni clienti e grandi gruppi che ha comportato, in particolare per nuovi fatti negativi riscontratisi nella seconda metà del 1997, oltre al passaggio dei relativi rapporti da incagli a sofferenza, un aumento delle previsioni di irrecuperabilità,[per cui] sono necessitate rettifiche nette su crediti e svalutazioni per perdite definitive per circa 275 miliardi.» (v. p.  2 bilancio 1997) . O si mentì allora o si mente adesso. In ogni caso numerose sono state le inesatte segnalazioni all’Organo di Vigilanza.  L’organo tutorio fu  in quiescenza allora, non mi pare che possa continuare ad esserlo. Non può quindi lasciare la banca in mano di chi qualche problema con l’art. 134 T.U.L.B. dovrebbe averlo. Si vocifera - a dire il vero qualcuno mostra le fotocopie delle missive - che non è da ora che l’ex Amministratore Delegato pietisse udienza epistolare presso quelli di Roma per il passaggio a sofferenza di posizioni a lui sgradite; si vocifera che Roma abbiano fatto finta di non ricevere neppure quelle missive, almeno sino ad una certa data?  Si vuol rispondere in questa sede? Si vuol chiarire se almeno la consapevolezza di quel deterioramento del credito c’era già a date pregresse? Vetustamente? Se no, si vogliono fornire le precisazioni? Sono state almeno fatte le debite segnalazioni all’Organo di Vigilanza? I moduli di rito (Mod. 135 Vig. di un tempo o quelli attuali di Matrice) sono stati corretti, ad ogni cadenza? Non v’è pericolo di essere incorsi nelle censure dell’art. 134 della legge bancaria? O si pensa davvero che la normativa di Vigilanza valga solo per gli zotici amministratori del Sud ma non riguardi gli Unti del Signore? Davvero agli “amici sarà dato; ai nemici sarà tolto”, per esprimerci evangelicamente?

r)      Possiamo rigirare quante volte vogliamo la scarna paginetta di questa nota del C.d.A. (quella dei sindaci è ancor più risibile): nulla sapremo sullo stato degli impieghi (qualche cifra buttata qua e là). Ne sapevano di più quelli della FIBA-CISL  che ironicamente si andavano domandando “Ma c’è qualcuno a cui interessano 1.200 miliardi?”. Prosa e sintassi a parte, quel che in quel foglietto si dice pubblicamente - e i responsabili di questa banca lo hanno lasciato dire impunemente - credo che interessi a questo consesso. Ma soprattutto credo che i nostri amministratori dovevano in sede di bilancio contestare, puntualizzare e precisare le accuse dei cislini. Davvero l’Ufficio Recupero Crediti si è tramutato in “discarica di rifiuti a cielo aperto”?  Non siamo in vena di compassione per chi ha voglia di fare sapere all’esterno - ma lo stipendio lo riscuote all’interno - che viene spremuto “uno sparuto numero di addetti alla gestione, sempre più oberato di carichi di lavoro che hanno condotto alcuni di loro ad un vero e proprio stress psico-fisico, in un locale sempre più simile ad un cantiere edile, per non usare altro genere di paragone.” Ma siamo più interessati alla faccenda dell’amministratore delegato; anche a noi, in sintonia, “sorge spontanea un’altra domanda: se l’amministratore delegato ha avvertito l’indifferibile necessità di effettuare le così dette pulizie, riversando a sofferenza centinaia e centinaia di miliardi si da creare una vera e propria discarica delle sofferenze, che hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 1.200 mld., al netto di molti altri miliardi girati a perdite, cioè a babbo morto, ha, al pari, avvertito l’esigenza di dotarsi di uno strategico piano dei rifiuti?” Dove dobbiamo cercare risposta a questa ed altre domande consimili? Dal sindacato della CISL? Non abbiamo diritto ad averle qui quelle risposte? Anzi, non dovevano esserci già? Vorranno gli amministratori ripensarci, ritirare il bilancio e corredarlo di tali doverose risposte? Ci vorranno dire che c’entra Mastronardi con le sofferenze, visto che la CISL lo rimprovera di non avere affrontato “in maniera seria e concreta .. la questione delle sofferenze”? La CISL si permette di accusare la banca - ma questa non risponde alla CISL ed omette anche in questa sede di dare la dovuta informazione - con questi pungenti appunti: «I problemi, quasi tutti insoluti, sono letteralmente esplosi, rendendosi di più difficile soluzione; l’eccessiva burocratizzazione e legalizzazione  ha pressoché ingessato il settore rendendolo sempre più simile ad un’aula di tribunale e sempre meno un ufficio bancario dinamico, moderno, pragmatico, orientato a recuperare i propri quattrini senza diventare strumento per bieche affermazioni personali di madame e messeri di turno.» Ci punge vaghezza di sapere chi sono codeste “madame” e codesti “messeri” a turno nelle “bieche affermazioni personali”. Ma forse è già partita qualche denuncia. Almeno, si ha intenzione di segnalarcela? La FIBA-CISL asserisce che “il nostro amministratore e i suoi detti consulenti ... sono, diversamente dai sindacalisti, pagati, pardon, stra-pagati!” A noi soci di minoranza si vuol almeno dare qualche ragguaglio su tali strapagamenti? In bilancio qualche cifra spunta - ovattata, però, confusa in un mare di dati: qualche cenno l’abbiamo fornito noi sopra. Tanti soldi spesi per portare la redditività bancaria abissalmente sotto zero ed il patrimonio da 600 e rotti miliardi ad un opinabile importo di 155 miliardi. Ma le cifre dicono poco: non sappiamo quanto abbia preso l’amministratore delegato e quanto sia finito ai numerosi membri degli organi aziendali. Abbiamo già detto delle decine di miliardi erogati a “professionisti esterni”: a chi, a quale titolo, perché? Mistero. Ci piacerebbe tra l’altro sapere se corrisponde al vero che si sia ritenuto necessario consultare un legale esterno della Banca di Roma per sapere come comportarsi nell’acquisto delle proprie azioni;  se è poi vero che costui si sia limitato a sintetizzare quello che aveva già scritto in un vecchio suo lavoro pubblicato e stravenduto; che abbia dato consigli così vaghi che gli esponenti aziendali si sono sentiti riassicurati sul loro vezzo di comprare da beneaccetti, fingendo persin di credere a cervellotiche motivazioni, e di negare l’acquisto a chi gradito o perlomeno compaesano (pugliese) non era; che per somma beffa, quel vacuo parere sia costata una tombola alla banca. Sono questi solo pettegolezzi di borgata? Vorranno i nostri progettisti del bilancio, chiarire, rasserenare, fugare gli equivoci? Oppure reputano la faccenda, coperta dal .. segreto bancario? Le Autorità di Vigilanza non sono davvero interessate alla questione? La provenienza di quei consulenti può avere un peso?

s)      Per inciso, la petulante domanda della FIBA-CISL è del 23 marzo 1998, in tempo per consentire ai nostri amministratori - se davvero ne avevano voglia - di fornire in questa sede tutte le spiegazioni possibili, il ragguaglio su tutte le difese percorribili. Il silenzio è, per converso, eloquente. Sorprende davvero quello che viene lasciato cadere, quasi inavvertitamente, a pag. 2 del bilancio 1997: “Perdite definitive per 275 miliardi” vengono segnalate come se ci si ragguagliasse su una gita scolastica. Che cosa sono le perdite definitive per “rettifiche nette su crediti”? Perché definitive? Si tratta di valori numerari certi? Se sì, ci vogliono venire spiegati? A pagare siamo noi, soci di minoranza. Si consultino tutti i testi di economia aziendale e di tecnica bancaria e non si riuscirà a comprendere la portata gnoseologica di una definitività in momenti valutativi dei crediti: la ragioneria ci dirà che siamo in presenza di “perdite temute”, di eventualità, dunque. Ed allora? La informazione ha senso se si vuol dire che la banca, in vena di munificenza, si sia messa ad assecondare clientela di favore con formali rinunce delle proprie ragioni creditorie. Magari, basandosi su un incidente di percorso di qualche maldestro ex direttore generale che non si è avveduto che la garanzia doveva essere novennale anziché annuale. E basta tanto per considerare “perdita definitiva” qualche grazioso omaggio, magari di una cinquantina di miliardi, “per necessitata rettifica netta su crediti e svalutazioni”? Vogliono, lor signori, informarci, o rasserenarci? Abbiamo diritto alle indispensabili informazioni? Ove si trovano nei bilanci che avete progettato e fatto approvare dal cointeressato socio tiranno?

t)      Ma ritorniamo ai 688,1 miliardi di “perdite ammortate” per temuta irrecuperabilità di partite in sofferenza. Non crediamo che si tratti di creditorie perdenti alla data del 24 marzo 1998 o a quella del 16 settembre 1999 (data di consegna del rapporto, visto che pare i signori amministratori si siano rifiutati di firmare in ante-prima i famosi allegati di vigilanza ispettiva). Sicuramente, si tratta di incagli risalenti alla notte dei tempi. A quando? Si è posta attenzione al fatto che l’importo della perdita era tale da sovrastare  il capitale sociale? Non vi erano altre perdite? Non è colpa nostra se non è facile capire cosa gli amministratori abbiano voluto dire con la ridda di cifre dei vari bilanci relative alle perdite “temute”. Le quali perdite - qualsiasi alchimia contabile si tenti, a qualsiasi scuola di pensiero si aderisca - per lo meno hanno, da anni, determinato quel paralizzante buco patrimoniale di cui all’art. 2446 codice civile. Perché allora non si è proceduto alla convocazione dell’assemblea “senza indugio” in tempi non sospetti?  Noi siamo tentati di sospettare che un conto è per il socio egemone svilire l’esposizione creditizia della concorrente banca dominata, un conto è svilire formalmente il capitale sociale della banca dominata, pena la necessità di ammortare la propria partecipazione - e Dio solo sa se la Banca di Roma può permettersi svalutazioni siffatte - e la doverosità degli apporti di capitali freschi propri nella stessa banca dominata. Ma palmare è il  conflitto d’interessi che ne scaturisce. C’è da domandarsi allora se si è operato con accortezza, se si è deliberato nel passato con le debite astensioni. Se non si vuol rispondere in questa sede, prima o poi ed in ben altre assise  si sarà costretti a farlo.

u)     Per non venire tacciati di fare un discorso “senza costrutto”, siamo costretti ad essere puntuali sino alla pignoleria. Una pregiudiziale deve essere però subito evidente. Mentre a noi soci di minoranza non è dato di sapere nulla sulla nostra banca, fuori di qui, nelle sedi sindacali - lo abbiamo visto - in quelle politiche, presso il Consiglio di Basilicata, e presso la stampa (l’orgia di questi giorni ci ha infestati tutti), carte, rapporti ispettivi, consulenze giudiziarie, interrogatori, documentazione riservata ecc. circolano come romanzetti d’appendice. Noi abbiamo avuto la fotocopia dell’interrogazione di Pietro Simonetti del 23 marzo 1998. L’iniziativa politica è stata resa di pubblica ragione con il corredo degli atti riguardanti la nostra banca. Quel che i nostri amministratori ci tengono segreto, lì è dato in pasto del pubblico. Quanto andremo dicendo si avvale di quei documenti. Ma trattandosi di nominativi, di imprenditori, di gente che ha diritto alla riservatezza, ci guarderemo bene dal divulgare - da parte nostra -  le generalità di siffatta clientela bancaria.

 

*   *   *

      A noi interessa avere risposta in ordine ai fatti che stravolgono la gestione della nostra azienda: i nomi a chi interessano. Ci serviremo quindi di riferimenti indiretti a tutela della riservatezza di tali soggetti.

Il Simonetti, nell’invitare il Consiglio Regionale di Potenza a costituirsi parte civile nel noto processo che coinvolge solo taluni degli ex amministratori della nostra banca, allega i rapporti di due ispezioni della Banca d’Italia. Là abbiamo una messe di notizie sullo stato degli impieghi della nostra banca. Emerge così che «l’esame del rischio creditizio in essere al 31.12.1993 poneva in evidenza:

a) posizioni in sofferenza ed incagliate per un ammontare rispettivamente pari a L. 847,1 miliardi e L. 465,3 miliardi, sulle quali si prevedevano perdite complessivamente pari a L. 508,6 miliardi;

b) incrementi rispetto alle segnalazioni all’Organo di Vigilanza per L. 619,9 miliardi sulle sofferenze, per L. 166,7 miliardi sulle posizioni incagliate e per L. 406 miliardi sulle previsioni di perdita (cfr. allegati nn. 3/a e 3/b).» (Cfr. rilievo n.° 43 pag. 29).

 

     La divulgazione delle notizie - come si vede  - è grave. Sono stati adottati provvedimenti da parte degli organi a presidio della nostra banca? Rispondono al vero carte, notizie e dati propalati? Se sì, non possiamo non chiedere come mai dalle pure esagerate valutazioni ispettive, in base alle quali sofferenze ed incagli assommavano a fine 1993 rispettivamente a L. 847,1 miliardi ed a L. 465,3 miliardi, passano ora, nella nota che ci si chiede di approvare senza adeguate informazioni, a cifre quasi raddoppiate. Gli ispettori sono stati ritenuti eccessivamente fiscali: gli stessi esponenti della Banca di Roma per anni non ne hanno condiviso i dissolventi apprezzamenti. Che cosa è successo? All’improvviso c’è stata la folgorazione come Saul sulla via di Damasco? E non si ritiene di ragguagliarci? Quali le responsabilità dei nuovi amministratori? Quali i fatti nuovi che hanno imposto decisioni tanto devastanti? Nulla di nulla nella relazione che abbiamo sotto mano. Le superfetazioni si limitano a quei pochi accenni che abbiamo già richiamato.  Ma un grave dubbio ci assale: non è che si è portato a sofferenza l’impiego vivo dell’ispettore del 1993 e per converso si continua a tacere sullo stato di decozione di tanti altri e veri crediti in sofferenza o in incaglio, sol perché magari amici del padrone? E qui dobbiamo essere schietti sino alla ferocia.

Tralasciamo ogni riferimento alla martoriata posizione Casillo (solo ci piacerebbe sapere se i perduti 158 miliardi di cui leggiamo sulla stampa siano conteggiati nel subtotale di L. 1.434,2 miliardi di pag. 20 del bilancio 1997 oppure no: ed al contempo vorremmo sapere dall’ispettorato interno – nessuno può sottovalutare l’acume irriducibile di Maffucci, neppure Barbagallo -  se i noti libretti per quasi 4 miliardi, prima rivendicati da un celebre personaggio e poi fini nelle mani omonime di un ultraperdente nostro vecchio affidato, a scare bene non erano riserve occulte in collaterale dei debiti Casillo). Ma ci vogliono lor signori spiegare quale decorso hanno avuto i rapporti Parmalat, Mediofin, Pafi che stando alle notizie di stampa avrebbero contratto “prestiti che sarebbero stati utilizzati per l’acquisto di azioni, per un controvalore di 50 miliardi, dello stesso istituto di credito”. Quei prestiti che fine hanno fatto? Sono finiti tra le sofferenze? Tra gli incagli? O sono stati recuperati? Come? Quando? Con intervento di chi? Se la Banca di Roma - direttamente o indirettamente - si è data da fare per acquisire interessenze al capitale sociale della nostra banca per compensare quei prestiti, sono state rispettate le norme - dure e paralizzanti - che in questi ultimissimi anni sono state emanate a difesa della borsa?

Occorre scendere ancor più in dettaglio. Abbiamo diritto di sapere che fine hanno fatto i rapporti creditizi su cui si soffermavano gli ispettori della Banca d’Italia nei seguenti rilievi:

          - quelli che nel rilievo sub 1) ultimo capoverso gli ispettori definiscono “crediti, anch’essi di rilevante ammontare e oltre tutto riguardanti nominativi legati alla banca da vincoli partecipativi”, di cui stigmatizzano la “crescita delle esposizioni in misura non proporzionata alle effettive potenzialità economico patrimoniali dei singoli affidati, con refluenze sulle stesse possibilità di recupero delle creditorie e ciò pure in presenza di reiterate iniziative di sostegno e di ristrutturazione ...”. Siffatte temute refluenze vi sono state? Quali provvedimenti ha adottato la nostra banca? E’ stata equanime? Ha avuto indulgenze per alcuni e discriminatori accanimenti verso altri? Si pensi che i nominativi qui sotto tiro dagli ispettori della Banca d’Italia godevano allora di crediti per complessive L. 377.339 milioni su cui gli ispettori prevedevano perdite per L. 73.992 milioni. Quelle perdite si sono poi verificate? Quando sono state rilevate? Quando sono finite a carico del conto economico? Quali cautele sono state adottate?

In particolare, quale è stato l’atteggiamento verso i 20 rapporti del gruppo di pag. 2 dell’allegato 3b, esposto per L. 133.978 milioni con perdite previste dagli ispettori per L. 73.992 milioni? Si sono avute indulgenze per affinità politiche? Il socio egemone è stato indifferente o ha suggerito blandizie? Quanto poi al gruppo di cui a pag. 4 del menzionato allegato (primo affidato cod. 7275...) le previsioni di perdite degli ispettori (L. 27,9 miliardi su L. 50,7 miliardi di esposizione) si sono verificate? Vi sono intese in corso? Di che tipo? Si sono ammesse interferenze in Consiglio per presenze obiettivamente conflittuali?

In ordine all’incandescente rapporto di cui a pag. 9 (Codice primo affidato: 5283...), esposizione per L. 141,3 miliardi; previsioni ispettive di perdite solo L. 1,4 miliardi, davvero le perdite si sono rivelate così esigue? Il comportamento degli esponenti aziendali è stato congruo? Vi sono state ingerenze per soluzioni patteggiate? Vi è stato un qualche interesse del socio egemone?  

Il gruppo di cui a pag. 11 (cod. 7594 primo affidato) - esposizione L. 6,3 miliardi con perdita prevista integrale - è stato congruamente gestito? Si è ritenuto di privilegiarlo con discriminanti acquisti di proprie azioni?

Quanto al gruppo di cui a pag. 12 (cod. primo affidato 5092...) - esposto per L. 38,4 miliardi; previsione di perdita zero - attesa la natura di incagli secondo gli ispettori , sono state esplicate le procedure di recupero dell’ingente creditoria con solerzia ed efficacia? Se sì, quali e con quale risultato?

Il gruppo di cui a pag. 11 (cod. primo affidato 3552...) - esposizione L. 6,7 miliardi; perdita prevista: integrale - ha poi generato quell’esito tanto catastrofico? Per quali azioni della banca? Con quali refluenze sul conto economico della nostra banca?

In definitiva, come mai nella relazione del bilancio non v’è alcun accenno a fatti sì gravi, pregiudizievoli dello stato patrimoniale, con quelle che gli ispettori chiamano refluenze economiche? Se all’improvviso, e solo quest’anno, quelle posizioni, in tutto o in parte sono finite a sofferenze, perché si è atteso tanto? In ogni caso, ogni reticenza in proposito non è suscettibile di censura sotto il profilo della chiarezza, della verità e correttezza della situazione patrimoniale e finanziaria? Sussulti nell’imputazione di ammortamenti, si è sicuri che non rappresentino indebito scompiglio del risultato economico dell’esercizio? Non si pensa che l’eccezionalità dell’impostazione di bilancio di quest’anno merita tutte quelle informazioni aggiuntive previste ed imposte dall’art. 2423? Dove sono, visto che noi non riusciamo assolutamente a coglierle in quelle asfittiche, anonime, dispersive e sedicenti note integrative?

b)  - Si domanda quale evoluzione hanno avuto gli affidamenti stigmatizzati dagli ispettori nel rilievo sub 19). Vi si dice che trattavasi di “società ... ampiamente finanziate dalla banca con crediti che in sede ispettiva sono stati classificati tra le sofferenze con previsioni di perdita”. Ricordiamo che l’esposizione (cod. primo affidato: 4029.. cfr. pag. 3 allegato 3b) ammontava a complessive L.  9,7 miliardi con perdite previste per L. 6,3 miliardi. Non ha proprio nulla da dire il consiglio ai soci in sede di approvazione del proposto bilancio?

c)  - Le note critiche del rilievo sub 12) hanno consigliato un qualche comportamento responsabile da parte degli attuali amministratori o si è lasciato il tutto com’era senza preoccuparsi di attivare una qualche azione per il recupero delle ragioni creditorie della nostra banca?

d)  - Analoga domanda è da porre per il rilievo sub 13).

e)  - L’esposizione narrata e stigmatizzata nel rilievo sub 14) avrebbe dovuto essere oggetto di particolare attenzione da parte degli amministratori; si sono costoro prodotti in qualche iniziativa?

f)   - Nel rilievo sub 15) si accenna ad “un affidamento in conto corrente di L. 6 miliardi” a favore di una società di appartenenza di un consigliere, con un illegittimo debordo notevole. Al di là dell’assoluzione chiesta  - ed ottenuta - dal PM, la banca si è premurata di estromettere un cliente cosiffatto? Quel rapporto sussiste ancora? E’ regolare?

g)  - Non hanno gli amministratori nulla da dirci sui rapporti creditizi censurati nel rilievo sub 16)?

h)  - Nel rilievo sub 19) emergono inquietanti accenni a strani rapporti d’affari con industriali del Nord, che ricchissimi per i fatti loro, alla Mediterranea hanno fatto ricorsi per “buffi” di cui vorremmo sapere l’esito. A scanso di equivoci, a noi preme sapere se i finanziamenti al gruppo di cui a pag. 10 dell’allegato 3b (primo affidato cod. 7166 ...) ammontanti allora a complessive L. 16,8 miliardi, siano poi sortiti dalla situazione di incaglio (giusta valutazione ispettiva) o siano deteriorati. In particolare come i signori industriali del Nord si sono comportati con la nostra banca? Hanno assolto i debiti interessi? In misura equa? O mantenendo scandalose condizioni di favore (leggere per credere le note dei consulenti del PM, attualmente in libera circolazione come abbiamo sopra detto)?     Ma anche alla capofila erano stati accordati 30 miliardi che pare siano sfuggiti all’attenzione degli ispettori. Nel solito libello dei consulenti - che Simonetti acclude alla sua interrogazione - si legge a pag. 89: «Complessivamente i fidi accordati erano pari a L. 30.000 mln. (10.000 mln. c/c; 10.000 mln portafoglio sbf 10.000 mln anticipi import) e non erano assistiti da alcuna garanzia. I finanziamenti in parola venivano deliberati in data 13.7.93. [...] Per quanto riguarda il tasso da applicare alla facilitazione è da rilevare che .. si faceva riferimento al “Prime rate ABI” [...] Dalla comunicazione dei tassi inviata il 10.9.93 ... si evinceva l’applicazione dell’unico tasso dare dell’11,625%; venivano quindi esclusi i maggiori oneri connessi al secondo tasso dare e alla commissione di massimo scoperto.» E subito dopo - in relazione alla collegata, peraltro di risibili rispondenze patrimoniali - si annotava (pag. 90): « ... il finanziamento accordato non era assistito da alcuna garanzia.» A pag. 103 e segg. I consulenti si allargano in considerazioni che invero non hanno trovato nessuno ascolto nel PM e non val la pena qui di farvi in alcun modo ricorso. Ma è opportuno invece che gli amministratori ci ragguaglino su tali criticabili rapporti creditizi, sulla loro eventuale sistemazione, sul raddrizzamento delle clausole contrattuali relative alla remunerazione. Non vorremmo che il potentissimo gruppo - in particolare consuetudine fiduciaria con il socio dominante - sia riuscito a mantenere una posizione di favore creditizio a tutto danno della nostra banca. Gli amministratori hanno l’obbligo di fugare almeno gli effetti alone che la divulgazione degli atti istruttori vanno nefastamente producendo, con ulteriori appesantimenti della fragile operatività della nostra banca. Il lasciar correre sarebbe insipienza imperdonabile: un consiglio di amministrazione meno subalterno a soci extraterritoriali sicuramente non permetterebbe campagne di stampa cosiffatte. Per converso l’eccessiva reticenza verso i soci sarebbe di beffa oltre che di danno.

i)   - Estrapoliamo dal rilievo n.° 20 l’accenno alla posizione perdente di cui a pag. 5 dell’allegato 3b (cod. primo affidato 2336...). Abbiamo qui un’esposizione di L. 15,1 miliardi su cui gli ispettori prevedevano una perdita pressoché totale per L. 11,4.  Occorrono le debite informazioni, del tipo di quelle che abbiamo sopra puntualizzato.

j)   - Ci riferiamo alla parte del rilievo 22 - punto b) - per sapere che fine ha fatto la posizione (cod. primo affidato 2500...) ammontante allora a L. 7 miliardi circa con previsioni ispettive di perdita per L. 6,9 miliardi.

k)   - Quanto al rilievo sub 35) non si possono ulteriormente tacere gli sviluppi dei rapporti creditizi relativi alla “posizione che, nonostante l’apparente sistemazione effettuata attraverso la cessione di effetti a carico di altro nominativo ..., classificato anch’esso in sede ispettiva tra le sofferenze con previsione di perdita, presentava ancora nel mese di maggio 1994 una residua rilevante debitoria”; e relativi anche alla “società largamente e ripetutamente sovvenuta con nuove erogazioni, nonostante l’andamento dei relativi conti presentasse da tempo marcati sintomi di anomalia (sconfinamenti sui conti correnti notevolmente eccedenti i fidi accordati e rate impagate di finanziamenti in valuta per cifre rilevanti).

l)   - Del pari vanno forniti dati, ragguagli e chiarimenti in ordine alle posizioni censurate dagli ispettori nel rilievo n.° 36 lettera a); lettera c); lettera d); così come deve essere fatto per il rilievo n.° 37, lettera a); lettera d), nonché per il rilievo n.° 38, per il rilievo n.° 39, per il rilievo n.° 40, per il rilievo n.° 41 e per il rilievo n.° 42.

m)  - In sintesi il già citato rilievo n.° 43 doveva essere di guida ad una nota integrativa ai sensi dell’art. 2423 c.c. Mancando - come manca questa - il bilancio è improponibile e se si insiste a farlo approvare utilizzando magari la forza preponderante del socio egemone resterà di tutta evidenza la volontà indomabile di imporre decisioni esiziali per la sopravvivenza della banca, come sono quelle degli ammortamenti improvvisi dissolventi ogni redditualità bancaria per perdite note da tempo e che da tempo avrebbero dovuto essere portate a conoscenza senza indugio in assemblee straordinarie dei soci ai sensi della inderogabile normativa civilistica.

Non va poi dimenticato che già nel 1990  (dal 17.9.1990 al 1.2.1991) la nostra banca era stata assoggettata ad un’altra ispezione della Banca d’Italia. Anche allora erano emerse sofferenze ed incagli non rilevati prontamente e non segnalati alla stessa Banca d’Italia. I nostri attuali amministratori hanno tratto ammaestramento da quei rilievi o hanno continuato a sovvenire taluni clienti di dubbia rispondenza patrimoniale? Nell’empito repressivo dei precedenti esercizi, hanno riesaminato tutte quelle posizioni censurate dai precedenti ispettori? ne hanno tratto le debite conseguenze? O hanno reputato che sono svincolati da regole di indiscriminata obiettività, per cui possono sciogliere o legare secondo che loro più aggrada? Si esaminino gli allegati n.° 3; 3/1; 4/1 e ci vengano fornite le informazioni del caso o meglio le giustificazioni per tardivi ammortamenti - se vi sono - o per inadempienze nelle segnalazioni di Vigilanza - se vi sono. Se tutto dovesse essere regolare - e noi ce lo auguriamo, ci si dia la liberatrice assicurazione formale. Quel che per ora sappiamo che, come detto, vi sono stati “noti - e noi li ignoriamo del tutto, diversamente, a quanto pare, da quel che conosce la stampa - fenomeni di deterioramento della qualità del credito” (vedi pag. 1 Relazione Bilancio). Ma se il bilancio chiude con 220 miliardi di perdita per quei fenomeni, questi fenomeni bisogna bene spiegarli, pena l’occultamento delle reali condizioni della società amministrata.

 

*    *   *

Non sappiamo se si fosse trattato di una frase di cortesia o peggio: a pag. 2 del bilancio 1997, invece di ragguagliarci sul tonfo che si è voluto far fare alla nostra banca , gli amministratori avevano  voglia di volerci far credere che tutto il male avutosi ora passerà perché «L’attività operativa permane, comunque improntata a precise politiche di rilancio aziendale, di miglioramento della struttura dell’attivo in un’ottica di riqualificazione degli impieghi e di contenimento di costi realizzando al riguardo sensibili risparmi anche grazie all’attivazione di concrete e possibili sinergie con la Capogruppo Banca di Roma.» Restiamo stupefatti: di grazia ci si dica almeno ora quali sono state queste ”concrete sinergie” con la Capogruppo Banca di Roma? Forse quelle che ci vengono con il dirottamento verso i nostri lidi di funzionari in prequiescenza per remunerazioni da capogiro come le inspiegate poste di bilancio qua e là lasciano intendere? Quelle poste di bilancio che abbiamo già richiamate ci vogliono venire spiegate in relazione a tali conclamate sinergie? O la reticenze è sinonimo di confessione?

Abbiamo avuto fra le mani un “verbale di riunione” del 12 febbraio 1998 di un gruppo di soci di minoranza da cui noi dissentiamo. Là, ad un certo punto, in termini volutamente equivoci si afferma: «Lo stato d’animo ... è stato purtroppo alimentato da una serie di delusioni quali:

          La mancanza di un vero progetto di rilancio della Banca Mediterranea, che non fosse enunciazione di principio e che si traducesse in un concreto piano industriale;

          Lo scarso riscontro nei fatti delle ripetute affermazioni del socio di maggioranza di essere nell’imminenza di porre a disposizione della Banca Mediterranea il proprio know-how, in particolare con la distribuzione di nuovi e più articolati strumenti finanziari;

          Una politica del credito molto restrittiva, che alla scarsezza dei volumi ha aggiunto la lentezza dei tempi decisionali, traducendosi sia nella cattiva gestione d’alcuni clienti affidati, che con maggiore elasticità potevano essere accompagnati nella loro ripresa, sia nell’allontanamento dalla Banca mediterranea di altri che, in considerazione del loro equilibrio gestionale, possono con maggiore facilità attingere credito ad altre banche, il cui iter deliberativo è più rapido.

          il sintomatico rifiuto di poter garantire le posizioni affidate con le partecipazioni azionarie nella stessa Banca Mediterranea; ciò non tanto per motivo di merito, ben comprendendosi che una diversa scelta avrebbe esposto l’azienda al rischio di una diluizione del proprio patrimonio, legalmente inammissibile, quanto per ragione di forma: troppe volte gli stessi dirigenti della Banca Mediterranea, anche quelli espressione dell’azionista di maggioranza, hanno dato all’interlocutore l’impressione di considerare tali azioni come di poco valore

  

Non v’è chi non veda come sotto gentili espressioni si nasconda un’aspra stroncatura dell’attuale gestione. Non sappiamo - o se lo sappiamo, non siamo in grado di provarlo - che fine abbia fatto e che intenti abbia perseguito siffatta querelle. Noi qui la proponiamo ufficialmente per avere le giustificazioni da parte degli attuali proponenti del bilancio, visto che vi sono appunti che ne mettono in dubbio l’oculatezza delle scelte di bilancio. Ma ciò che più ci preme è quest’altro passo: «.. la difficoltà per il socio di maggioranza di tradurre in concreto un piano di sviluppo di una partecipata nelle more di delicate scelte d’assetto e di proprio piano industriale.» E tanto si accende di luce sinistra se si ha ricordo di ciò che viene insinuato in esordio di discorso e cioè allorché - intenda chi ha orecchie per intendere - ci si proclama increduli su alcune voci, arrivando ad affermare - per negare - che  «è parere degli intervenuti, per esempio, che non siano vere le insistenti voci di una gestione poco trasparente del portafoglio titoli della Banca Mediterranea, secondo le quali esso sarebbe gestito avendo a mente più l’interesse dell’azionista di maggioranza che quello della compagine sociale nel suo complesso.» Quei soci maliziosetti - dopo avere buttato il sasso nello stagno - vorrebbero farci credere che a loro avviso «tali voci non appaiono degne d’attendibilità alla luce d’elementi sia morali sia logici.»  Gli elementi morali e logici in faccende di portafoglio sono obiettivamente inafferrabili. Siamo andati a vedere tutto quello che in bilancio vien detto in proposito. Nulla. Speriamo che dietro questa nostra sollecitazione venga sbaragliato il campo dalle cortine fumogene di quegli avveduti soci di minoranza. Ci si dica in particolare che mai e poi mai sono stati venduti titoli per decine di miliardi alla casa madre ad alto rendimento, per poi far ricorso a titoli a basso rendimento. Ci si dica in particolare che mai operazioni della specie siano state decise unilateralmente - o se in compagnia, in compagnia di chi - da qualche autorevole membro del consiglio di amministrazione, ignaro o con disprezzo dell’evidente conflitto d’interesse cui si andava ad incocciare. Ci si dica se davvero perdite non siano venute alla nostra banca da operazioni con la banca padrona, specie con arzigogolate operazioni di swap o giù di lì, finite con l’accentuazione anziché con l’affievolimento del coefficiente di rischio. Poste di bilancio che facciano sospettare operazioni del genere ce ne sono tante: uno straccio di spiegazione non si trova manco a pagarlo a peso d’oro. Qui però non è in gioco l’abilità strategica nella gestione del portafoglio titoli del nostro amministratore delegato, qui è in discussione un bilancio su cui le insipienze e le digressioni conflittuali, magari per giustificare con la casa madre gli elevati emolumenti, si scaricano sulla Mediterranea con violenza sovvertitrice della redditualità.. Il terremoto che è avvento nel comparto titoli emerge da queste aride poste. I soci ben poco possono capirci.

 

Voce 50: obbligazioni e altri titoli di debito: anno 1997 L. 360,8 miliardi; anno 1996: L. 246,9; miliardi;  variazione + 113,8 miliardi; in percentuale + 46,1%,

voce
1993
1994
1995
1996
1997
1998
30/06/99
voce 20 titoli tesoro
572,3
802,5
1297,473
1622,309
1334,512
1322,739
978,069

 

E che è successo? Proprio negli anni (1996-1997) in cui i titoli di stato sono stati dimezzati nel loro rendimento, la nostra banca invece di operare alternativamente si butta o butta tutto sui titoli? Si spiega allora il tracollo della redditività. E ciò per colpa di chi? Dell’amministratore delegato? Si vuol venire qui a spiegare, a giustificare? In bilancio non troviamo neppure una nota in proposito.

Voce 130: altre attività: al 30/6/1999 L. 106, 486 mld (a fine anno, non prevedibile); anno 1998 L. 263,590;  anno 1997 L. 208,9 miliardi; anno 1996 L. 184,1 miliardi. Trattandosi di voce per sua natura residuale andava delucidata con pagine e pagine di note illustrative, ma niente di tutto questo. Dobbiamo accontentarci di una tabella Beh! Lì apprendiamo che quelle attività sono composte da partite viaggianti (ma il bilancio non dovrebbe avere partite viaggianti: le provvisorie appostazioni contabili devono essere tutte recepite nei conti di pertinenza, altrimenti si forniscono informazioni inesatte e scorrette. Che ci sta in quel viaggiare di partite? Perdite? Regalie? Emolumenti occulti? Leggere per capire i rilievi degli ispettori della Banca d’Italia in circolo per Potenza come un romanzetto d’avventure.

Sappiamo poi che  vi sono 22,1 partite ancora in corso di lavorazione: una piccola banca che resta ascosa; un mistero per tutti anche per chi redige il progetto di bilancio. E completa il guazzabuglio la singolare: partite definitive ma non imputabili ad altre voci. Noi chiediamo che cosa sono. Abbiamo diritto a sapere.

E potremmo continuare. La resipiscenza degli amministratori potrebbe impedirci l’ingrato ma inevitabile fardello di dibattere queste questioni in altre sedi.

*  *   *

Un punto dolente - dolentissimo - è la voce 120: Azioni o quote proprie (valore nominale Lit. 4.193.325) : al 30/6/1999 L. 5.921.061.000. Ci saremmo aspettati un profluvio di parole (giustificatrici); invece niente. Un incremento di acquisti azionari propri nel bel mentre si verificava un crollo verticale della redditività e delle valenze patrimoniali è davvero una rimarchevole contraddizione. Ci dispiace per quei soci adunatisi il 12 febbraio del 1998: qui la banca sembra agire in senso diametralmente opposto ai loro flebili lamenti. (Ricordate quel passaggio sull’ «impressione di considerare tali azioni come di poco valore”?)  Non credo che lor signori reputino esaustive degli obblighi di legge quello che dicono nella nota. Là - scolasticamente - si ripete la lezioncina dei testi elementari di diritto commerciale: «Le azioni proprie sono iscritte in bilancio al costo. Alle stesse si applica la disciplina prevista dall’art. 2357 e seguenti C.C.»  E vorrei vedere che si dicesse il contrario? Il ragguaglio è del tutto tautologico. Si dirà che basta ed avanza la tabella di pag. 46. E no, cari signori. Leggetevi la pag. 60 della consulenza Sandulli-Scorza che Simonetti ha divulgato. Ad ogni buon conto la leggiamo noi per voi. «Alla luce delle considerazioni che precedono, vanno lette, dunque, tutte le indicazioni che gli amministratori hanno ritenuto di dover fornire nel bilancio relativo ... e vanno anche apprezzate le omissioni delle relazioni sulla questione in ordine ai motivi degli acquisti di azioni proprie da ... , informazioni dovute  in base alle nuove norme in materia di bilanci bancari. Ed infatti, l’art. 3 del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 prevede che nella relazione sulla gestione siano indicate “il numero delle azioni o quote proprie sia delle azioni o quote dell’impresa controllante detenute in portafoglio, di quelle acquistate e di quelle alienate nel corso dell’esercizio, le corrispondenti quote di capitale sottoscritto, i motivi degli acquisti e delle alienazioni ed i corrispettivi.»

Non fraintendiamo, dove sono tutti siffatti elementi? Nella tavola di pag. 46 riusciamo a sapere che nello scorcio di esercizio vi sono stati acquisti per n.° 15.500 azioni proprie, ma rispetto al precedente giugno del 1998 risulta un incremento per L. 2411653/m).  Quello che è grave che ancora una volta gli amministratori non pare che abbiano voglia di essere trasparenti in sede di bilancio in ordine a) alle corrispondenti quote di capitale sottoscritto; b) e soprattutto in tema di “motivi degli acquisti e delle vendite”. Almeno in questa sede ci si vuol dire quali motivi sussistono in ordine ai seguenti acquisti:

      data operazione                 data delibera                    n.° azioni

2/1/97
9/12/96
4.000
3/1/97
9/12/96
72.000
21/2/97
9/12/96
3.000
5/3/97
25/2/97
14.290
27/3/97
20/3/97
8.000
8/4/97
20/3/97
1.404
29/4/97
28/4/97
43.142
20/5/97
21/4/97
9.000
21/5/97
21/4/97
8.760
7/7/97
30/6/97
1.000
15/7/97
30/6/97
6.000
17/7/97
30/6/97
4.000
28/7/97
30/6/97
10.000
28/7/97
21/4/97
1.000
1/8/97
30/6/97
5.000
5/9/97
30/6/97
19.500
9/9/97
30/6/97
2.000
17/10/97
21/4/97
3.750
Totale
 
215.846

 

 

Quali le ragioni per preferire codesti acquisti (e quelli successivi) a danno di altri soci esclusi? Si deve escludere la semplice discriminazione? Non si diano risposte affrettate, perché chi parla è in grado di fare le debite smentite.

Ma diamo uno sguardo alle attuali giacenze relative a precorsi esercizi. Nel 1995 abbiamo avuto n.° 847.455 azioni acquistate per essere cedute tutte quante, unitamente ad altre n.° 812.545 in portafoglio, alla Banca padrona di Roma all’identico prezzo d’acquisto - o forse al ridotto valore  bilancio - di L. 8.000, senza alcuna commissione o provvigione per l’intermediazione prestata dalla nostra banca. Anche allora non vi era conflitto d’interesse? Si reputa di non dovere dare neppure ora una qualsiasi spiegazione?

Sarebbe interessante conoscere i motivi degli acquisti del 23/6/95 (delibera del 9/5/95) per complessivo numero 249.290 per l’ammontare di L. 1.994.320.000. Perché furono taciuti i motivi? Non furono anche allora praticate discriminazioni? Del pari ci vogliono almeno ora dire loro signori che cosa li spinse a fare gli acquisti del 10/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/1995 (delibera del 9/5/95) e quelli del 18/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/7/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 13/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli per n.° 102.000 azioni del 14/9/1995 (delibera del 9/5/1995) e quelli del 27/9/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 23/10/95 (delibera del 9/5/95) e quelli del 24/10/95 (delibera del 9/5/95).

Passando al 1996 sarebbe ora di spiegare l’ordine dei motivi che hanno spinto all’acquisto di n.° 207.330 azioni, soffermandosi in particolare su queste operazioni: data 18/7/96 (delibera 13/6/96; data 17/10/96 (delibera 12/9/96) e soprattutto sull’acquisto di n.° 120.000 (per un importo di Lire 960 milioni) del 31/12/1996 (delibera del 9/12/96) mentre ad altro socio si negava la compensazione per cifre di gran lunga inferiori. Si è forse mai detto qualcosa in proposito? L’art. 3 n.2 lettera b) del decreto legsl. 87 del 27 gennaio 1992 forse è stato abrogato ad insaputa dei consulenti del PM? Noi non l’abbiamo letto nell’elenco delle norme abrogate di cui all’art. 161 del D.LV. 1° settembre 1993, n.° 385. O forse si reputa che le leggi valevano per i vecchi signorotti potentini ma non possono avere valore tranchant per gli uomini dei grandi potentati bancari romani?

 

 

 

 

*   *   *

Anche per stanchezza, tagliamo a questo punto, con riserva comunque per ogni altro aspetto censurabile che per caso dovesse essere sfuggito. Gli ultimi nostri rilievi critici riguardano la proposta di ripianamento delle perdite del 1997. Lor signori hanno voluto svuotare la posta del passivo: fondo sovrapprezzo azioni pari a lire 101.385.862.156.- Quale disponibilità ne avevano e quale legittimazione ne ha soprattutto il socio dominante.  Rammentiamo a noi stessi che quel fondo è stato costituito ancor prima dell’avvento della Banca di Roma. Al 31.12.1993 il fondo era di Lire 106.185.458.756. Con l’avvento dei signori di Roma, il fondo come si vede si è contratto. Nel 1996 una rastremazione per lire 3.956.269.000 è passata sotto il naso dell’assemblea dei soci. Ma se così è stato una volta fatto non significa che si possa sempre fare. Ora l’assemblea deve essere vigile. Il socio dominante non ha contribuito alla costituzione del fondo: sono risparmi sudati dei vecchi, malconci soci ad averlo costituito. E’ obbligo morale e giuridico mantenerlo sino all’estremo. Il socio dominante non può quindi disporne; non può dilapidarlo. Il meno che si deve esigere che nell’eventuale votazione al riguardo esso doverosamente si astenga e lasci integra ai soci di minoranza la responsabilità della decisione. I soci di minoranza dovrebbero essere un tantinello avveduti da capire che non è questione formale e rigettare la proposta dei signori amministratori. Il bilancio ritornerebbe indietro per le rettifiche di competenza. Se i soci di minoranza non sono avveduti, pazienza. Almeno: chi è causa del proprio male pianga se stesso. Va da sé che qualora il socio dominante faccia qui orecchio da mercante e con il peso della sua maggioranza assoluta approvi egualmente l’improponibile, vedremo in competente sede chi ha ragione. Noi almeno abbiamo posto il problema e l’uomo avvisato dovrebbe essere mezzo salvato.

Altro aspetto inquietante di quel bilancio è stato quello di avere voluto utilizzare l’avanzo di fusione. Si chiesero lor signori chiesti che cosa fosse quell’avanzo di fusione? Non sanno forse che è mero residuo contabile del compattamento delle poste di bilancio di due società fusesi? Non sono tanto addentro alle segrete cose fiscali per cui la posta contabile è neutra fino a che non se ne faccia un effettivo utilizzo? Abbiamo proprio voglia di andare a pagare un mare di imposte solo per disattenzione? Magari, si penserà che nulla si debba al fisco e si procederà come se niente fosse. Il futuro accertamento - si sa che il SECIT ha un conto aperto con tali faccende di fusione - ricadrebbe sulle spalle già martoriate dei poveri soci di minoranza.

 

 

 

PRIME CONSIDERAZIONI CRITICHE


 

        

Nell’intelaiatura, nello spirito e nella lettera, tali contrapposizioni di taluni soci di minoranza  postulavano minuziose e precise rettifiche degli organi consiliare e di controllo. Emerge che non solo non è stata data risposta alcuna, ma risulta persino neppure presa in considerazione e manco verbalizzata l’istanza del socio Taverna sulla questione dei notori allegati ispettivi sul rischio creditizio al 31.12.1998.

Nulla si precisa sul divario tra la ricostruzione Scattone e quella di Barbagallo in tema di “sofferenza” (a quanto pare: L. 508,6 miliardi per il primo; L. 1.384 per il secondo). Trattasi di un vallo di L. 876 miliardi di deterioramento creditizio che s’impatto con la gestione “Bancoroma”.

E soprattutto nulla si rivela sulla ricuperabilità dei crediti secondo gli ispettori: per Scattone erano prevedibili perdite – oltre quelle segnalate alla Vigilanza - per L. 619 miliardi; per Barbagallo (stando alle notizie trapelate) la gestione post 1994 aveva pretermesso di considerare decrementi prospettici nella realizzabilità dei crediti per L. 257.587 milioni.

E’ questa cifra strategica nella valutazione di vari bilanci (specie quello ex art. 2501 ter 2° c.): se le L. 168 miliardi di “rettifiche in chiave tuzioristica” dei crediti, si riferiscono al recepimento delle doglianze ispettive (come sembrerebbe cogliersi dalla relazione di bilancio – pagg. 12-13) e vi si rifascino integralmente (il che appare dubbio), rimarrebbero scoperte ulteriori previsioni di perdita per L. 90 miliardi.

Ne consegue che qualora si aggiungono le certezze che in senso decrementativo della compagine patrimoniale si colgono nell’erosa assistenza creditizia alle quattro partecipate della banca (incomprensibilmente considerata “normale” dall’ispettore B.I.), si perviene ad una perdita integrale del capitale già nota alla data dell’ultima assemblea straordinaria dei soci. Le inadempienze ex art. 2447 c. c. appaiono coerentemente inoppugnabili.

Su tali scottanti aspetti, non pare che il collegio sindacale abbia mai avuto a ridire. Tali scottanti aspetti – che pure in sede assembleare traspaiono – non pare che siano stati adeguatamente vagliati dall’Organo di Vigilanza che pure – viene relazionato (cfr. pag. 4 della relazione Reconta Ernst & Young – abbia accordato in data 21 marzo 2000 (addirittura tre giorni prima della stesura di detta relazione) “l’autorizzazione ai sensi dell’art. 57 del D. Lgs. 385/93 all’attuazione dell’operazione di fusione).

E – per quello che qui conta – le varie società di revisione non hanno ritenuto di porvi mente locale, pur potendo (e dovendo accedere) alla complessa documentazione ispettiva, almeno quella relativa alla cosiddetta “parte aperta” e pur dovendo recepire la vasta verbalizzazione delle doglianze dei soci di minoranza, non foss’altro per procedere alla puntualizzazione della irrilevanza giuridica, di bilancio e contabile di detti rilievi contestativi.

Non va dimenticato che ai sensi dell’art. 2501 ter, 2° c., «la situazione patrimoniale è redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio». Si sostiene in dottrina che, pertanto, tale bilancio deve rispettare «non solo la struttura .. ma anche i criteri prudenziali di valutazione per quest’ultimo stabiliti». E se è vero che viene così «espressamente risolto un problema precedentemente controverso», non potendosi più «sostenere che dalla situazione patrimoniale dovesse risultare il valore effettivo della società»  (cfr. Campobasso, Diritto delle Società, pag. 555), è ultroneo che dalla situazione de qua occorra partire per tutte le eventuali rettifiche e per gli occorrenti conguagli nel rapporto di cambio. Una base non veritiera, infedele, mutila inquina, senza ombra di dubbio, gli “elementi di valutazione ulteriori rispetto all’effettivo valore dei patrimoni delle società partecipanti alla fusione” (cfr. ibidem p. 555).  Il bilancio semestrale fatto approvare il 9 novembre 1999 – aspramente rampognato dai soci di minoranza – è del tutto prodromico a quello di fine anno, preso a base per la fusione. Sui c.d. tecnici – specie quelli nominati dai tribunali – incombeva l’onere di asseverare la fondatezza o meno dei rilievi critici dei soci, potendoli certo superare ma motivatamente. Tanto non consta.

 

IL RAPPORTO DI CAMBIO SECONDO IL BILANCIO D’ESERCIZIO


 

Va qui peraltro precisato che siamo nel settore del credito, capillarmente disciplinato dalla normativa di Vigilanza e con un quadro contabile denominato della “Matrice”, ragion per cui non vi è molto spazio per i c.d. tecnici di inventarsi valori di concambio esorbitanti dal patrimonio di base o al limite dal c.d. “patrimonio di vigilanza”. Quello che debbono appurare i tecnici è solo l’osservanza dei principi di chiarezza e precisione, il rispetto del quadro fedele, ma soprattutto la rispondenza del fattuale alle segnalazioni di Matrice.

Il fatto che i vari tecnici del nostro caso neppure abbiano sfiorato siffatta tutt’altro che agevole problematica, è oltremodo rivelatore della incongruenza valutativa.

La “semestrale” della Mediterranea palesava scricchiolii informativi che potevano agevolmente rilevarsi dallo spettro critico dei soci dissenzienti. Ancor più inaffidabile si valuta qui il progetto di bilancio finale degli amministratori, traslato acriticamente nel bilancio di fusione ex. art. 2501 ter e recepito dai tecnici chiamati a stabilire la congruità del rapporto di cambio come mero e formale adempimento di una non significativa norma di legge.

Ma un’appena superficiale analisi dei bilanci di fusione della Banca Mediterranea e della Banca di Roma porta alle seguenti risultanze:

BANCA DI ROMA – bilancio a fine 1999

 

-       Patrimonio netto: L. 10.939.693.000.000;

-       Numero delle azioni: 5.350.016.750;

-       Rapporto PN/azioni: L. 2.044.

 

BANCA MEDITERRANEA – BILANCIO A DINE 1999

-       Patrimonio netto: L. 102.567.208497;

-       Numero delle azioni: 73.162.476;

-       Rapporto PN/azioni: 1.401.

 

RAPPORTO BR/BM = 1,4589

 

RAPPORTO MB/BE = 0,68542.

 

E’ codesto punto fermo da cui non si può divagare oltre misure e margini di iniqua ristrettezza. Non è un caso se in interrogazioni parlamentari (cfr. ad es. la n. 4-16400 del Sen. Giovanni Russo Spena ed altri) non si reputa prudente avventurarsi in valutazioni appena appena risarcitorie nei confronti dei soci di minoranza della Mediterranea.

Resta, poi, l’aleatorietà della valutazione del patrimonio del mega-gruppo bancario che si affastella sin troppo attorno al perno Banca di Roma. Le nuove acquisizioni del tipo Banco di Sicilia, Mediocentrale e similari sono al centro dell’attenzione delle autorità dell’antitrust e per converso impongono cautele in tema di integrità patrimoniali che la stampa specializzata prudentemente ma significativamente  fa percepire con espressioni criptiche del tipo «la qualità del credito dell’istituto romano è ulteriormente peggiorata. Alla luce di queste considerazioni si preferisce mantenere un orientamento neutrale/negativo sul titolo.»

In effetti si ha una griglia impeditiva di apprezzamenti in qualche modo rettificative delle strozzature di bilancio.

Quando i c.d. tecnici si sganciano dai valori di bilancio delle due banche e si proietanno in erratiche stime divaricanti si assumono responsabilità che in questa sede non vale la pena neppure di additare.

Non si ignora che una parte della dottrina giuridica è disposta a legittimare «un valore effettivo del patrimonio» (cfr. op. cit. p. 555) divaricati rispetto a quello emergente dal «bilancio di fuzione». Si afferma – con dubbio fondatamente, secondo noi – che «la legge si astiene … dal fissare criteri direttivi per la determinazione del rapporto di cambio; criteri che restano quindi affidati alla discrezionalità tecnica (ma non all’arbitrio) degli amministratori.» (ibidem). Eppure non si può non annotare che il rapporto di cambio è caducabile quando sono emergenti – o peggio evidenti - «dati incompleti o non veritieri» (ibidem nota sub 3) .. e nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Per contro imbarazza il fatto che gli organi di controllo (interni ed esterni) sembra non si siano accorti neppure di dissennatezze come le seguenti. Per arrivare un rapporto di 5 a 2 - alquanto ipocritamente “per non danneggiare i soci di minoranza, in effetti per legittimare la riemersione di un ammortamento in sede di “semestrale” Banca di Roma dell’enfiata partecipazione nella Mediterranea – i c.d. tecnici si sono letteralmente inventati queste divaricate parabole:


 

In altri termini, mentre per la Banca Mediterranea v’è questo trend ascensionale del patrimonio di fusione:

-       da 102 miliardi a 176 miliardi e da qui  a 258 miliardi e da qui a 270 miliardi:

 

per la Banca di Roma, nel cui ambito quel trend doveva crescere a dismisura, si ha questa inspiegabile caduta:

-       da 10.940 miliardi si porta a 14.802 miliardi; ha quindi un contenuto assestamento raggiungendo quota 15.967 miliardi per ripiegarsi nella fase finale in un inverosimile risucchio verso il basso e cioè a quota 12.945 miliardi.

 

Il fatto che i tecnici si guardano bene dal fornire esplicitamente le masse patrimoniali terminali, a base del con cambio, non è certo segno di inidoneità professionale, ma indice di evidente imbarazzo espositivo. C’è da chiedersi se davvero la Banca d’Italia nel fornire – se l’ha fornito – il benestare di legge non si sia accorta della zoppa ed inaccettabile procedura estimativa.

 

Stante l’assoluta inattendibilità del bilancio Mediterranea – sia per gli argomenti sopra cennati sia per quelli che si diranno e sia ancora per quelli che si potranno addurre nelle competenti sedi, ova occorra – ogni ricostruzione estimativa è destinata a cadere.

 

L’UNICO CONCAMBIO ACCETTABILE


 

Disincagliandosi dalle secche del netto patrimoniale  apparente, è possibile rinvenire, ma a ritroso, un aggancio giuridicamente ammissibile per la costruzione del valore delle azioni della fondenda Mediterranea.

 

Solo riportandosi ad un istante prima della gestione Banca di Roma si coglie il valore di tale azioni. In tempo ancor utile per rinvenire l’ultimo istante dell’autonomia gestionale della Banca Mediterranea, questa azienda palesava un patrimonio oltremodo robusto. Ancor oggi è possibile appurare che ogni sua azione valeva L. 14.377,90.

 

Era evidente l’integrità patrimoniale – frutto magari di agevolazioni ministeriali connessi ai benefici che si intesero accordare a ristoro dei danni provocati dal noto terremoto dell’Irpinia – e coesa risultava la totalità degli azionisti (qualche dissenso non si originava certo da contrasti gestionali ma da moventi personalistici).

 

Si era nell’ultimo scorcio dell’esercizio 1993 ed ascendeva il patrimonio a L. 545.706.222.421 che ripartito tra le n° 37.954.498 azioni comportava un valore unitario appunto di L. 14.378.

 

C’era un frazionamento tale per cui nessuno poteva vantare un ruolo egemone; men che meno poteva atteggiarsi a socio di maggioranza e soprattutto non v’era nessuna maggioranza assoluta precostituita. In altri termini era la banca a base diffusa e la struttura della base poteva qualificarsi democratica.

  Tanto finché – per pressioni della Vigilanza – non intervenne la Banca di Roma che surrettiziamente ed attraverso manovre ancora non investigate poté acquisire posizioni di risalto prima (30%) e quindi di maggioranza assoluta (53% viene oggi dichiarato) senza esborsi di sorta a compenso di una tale scomposizione dell’assetto sociale e cioè senza liquidare e ristorare chi da posizione egualitaria finiva per passare a quella subalterna ed attualmente a quella di insignificante minoranza.

 

Tale valore unitario – L. 14.378 – può senza dubbio considerarsi ancora del tutto reale ed integro. Le varie tosature – che a cadenza annuale si sono lamentate e registrate dal 1993 al 1999 – non possono ascriversi ai soci di minoranza su cui il socio di maggioranza, divenuto egemone in termini assoluti, ha fatto ricadere il peso di onerose scelte gestionali per recupero di propri investimenti o per occorrenze della capogruppo.

 

Non è questa la sede per comprovare quanto qui affermato. All’occorrenza si produrranno prove ed argomenti che sarebbe tedioso e defatigatorio farne qui anche sintetico accenno.

 

La chiave di lettura è stata comunque fornita sin dal novembre 1999, in occasione dell’assemblea straordinaria. Qualche ulteriore spunto, a briglia sciolta ed a valore antologico, lo si vuole esemplarmente fornire pure in questa sede impropria.

 

IL PRESTITO subordinato di L. 100 milioni


 

Il 9 novembre 1999, nell’assemblea straordinaria ex art. 2446 c.c., il C.di A. della Mediterranea relazionava di avere «deliberato l’emissione di un prestito subordinato sotto forma di strumento ibrido di patrimonializzazione di L. 100 mld.»

Nella relazione al bilancio di fine esercizio 1999 lo stesso C. di A. fa sapere che «la banca di Roma, per riequilibrare l’assetto patrimoniale della Mediterranea ha emesso uno strumento ibrido di patrimonializzazione di lit. 100/miliardi» e, contraddittoriamente, soggiunge che «per il superamento della crisi vissuta dall’Azienda, la Capogruppo, di comune accordo con gli Organi Amministrativi della Mediterranea, ha individuato nella fusione per incorporazione della Mediterranea  nella Banca di Roma e nel successivo scorporo del ramo di azienda bancaria di Banca Mediterranea la soluzione più idonea.»  (Cfr. p. 1).

 

Qualche annotazione su tale strumento ibribo di patrimonializzazione:  esso a nulla poteva giovare, atteso il disastroso ordito valutativo cui gli uomini del socio egemone si sono indotti a chiusura d’esercizio. Si consideri che “le passività subordinate non possono eccedere il 50 per cento del ‘patrimonio di base’ (cfr. Appendice B.I. 1998, pag. 283); si consideri anche che per un processo di ardite svalutazioni dei crediti che gli stessi uomini del Banco di Roma dichiarano avvenute in “chiave tuzioristica” – il che significa attraverso gonfiature di “riserve” – non si era potuto raggiungere quel “minimum” di patrimonio di vigilanza; si sappia che  senza quel “minimum” nessuna banca può continuare ad operare per norme giuspubblicistiche di settore. Tutto ciò considerato, siffatto “strumento ibrido” è finito per palesarsi inutile e dannoso per la BM ed  indebitamente locupletativo per il socio a maggioranza assoluta [alias BR].

Quest’ultimo imponeva ai propri uomini – che recepivano – di contrarre un debito con la casa madre di cui la BM obiettivamente non necessitava: si frapponeva infatti il sovrabbondante  cash flow  alla cui lievitazione non mancava di contribuire la notoria riluttanza degli uomini del banco a finanziare l’industria locale (vedi la stasi degli impieghi, in decremento se si depurano delle pesanti capitalizzazioni degli interessi di fine esercizio). Aggiungasi il basso rapporto impieghi/depositi che ha determinato un ulteriore aggravio dei già critici saggi di rendimento gestionale.

 Ovvio che, presumendosi l’assolta inidoneità dei soci di minoranza – e di quelli più deboli in particolare, più numerosi e quindi più facilmente obnubinabili – il C. di A. della Mediterranea ha creduto sufficiente licenziare la precisazione che abbiamo appena sopra citata, nella relazione di legge a corredo della loro proposta di bilancio.

 

Quanto di contraddittorio e di capzioso si sottende nel passo citato è di tutta evidenza. Ma non può il socio di minoranza avere capacità tecniche sufficienti a contrastare la Banca di Roma  socia al 53% ad onta di tutte le norme anti-trust

 

Alla voce 110 di fine esercizio abbiamo – si pensi - una  “passività subordinata” di L. 100 miliardi  che stando a ciò che si annota – a caratteri piccolissimi a pag. 43 - è “passività subordinata” «… riferita ad un prestito di L. 100 miliardi ricevuto dalla Capogruppo Banca di Roma. Esso è regolato al tasso Eurobar a 6 mesi diminuito dello 0,10%, prevede una durata di almeno 10 anni e il rimborso in unica soluzione alla scadenza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. Le clausole di subordinazione che disciplinano il contratto consentono, in caso di perdite di bilancio che determinino una situazione del capitale versato e delle riserve al di sotto del livello minimo di capitale previsto per l’autorizzazione all’attività finanziaria, che le somme rivenienti dal finanziamento e dagli interessi maturati possano essere utilizzate per far fronte alle perdite al fine di consentire alla Banca di continuare

 

Ammesso e non concesso che questa sia un’informativa accessibile ai soci sprovveduti, emerge ictu oculi che si è deciso aliunde di non far più “continuare” la Banca: è dunque venuto meno ogni motivo per un siffatto iugulatorio prestito. Ed era prestito che non poteva essere deciso dagli amministratori della BM, per evidente conflitto di interessi; che non poteva essere deciso dalla “maggioranza” dei soci, per lo stesso conflitto di interesse del socio tiranno; che semmai andava fatto decidere ai soli soci di minoranza, il che notoriamente non è avvenuto.

 

 

E così, con qualche disinvoltura e forse con reticenza, si adempie formalisticamente ai dettati della vigilanza sugli schemi di conto economico delle banche per affastellare incomprensibili cifre sul “conto economico riclassificato” (cfr. pag. 17). Il linguaggio algoritmico diviene ulteriore velame alla comprensibilità degli inspiegabili (e non svelati) crolli gestionali in tema di

-       “margine gestione denaro” (erraticamente contrattosi nel 1999 del 22,77%),

-       “utili netti operazioni finanziarie” (astuzia lessica per non dire “crollo reddituale”) contrattisi e ribaltatisi del 170,22%;

-       “risultato lordo di gestione” passato dagli 80,8 miliardi di resa del 1998 ad un valore pesantemente negativo di meno 93,7 miliardi;

-        “risultato ante imposte” di meno 272,887 miliardi, con un peggioramento di gestione al saggio decrementativo del 653,50%.

 

Tanto avrebbe dovuto mettere sull’avviso il perito di nomina pubblica – la RECONTA ERNST & YUNG di Roma – che si era in presenza di un bilancio dubbio e forse falso, apparentemente non veritiero; un bilancio concepito in sospetto conflitto d’interessi e quindi passibile di segnalazione alle autorità competenti, non mancandosi comunque di ragguagliare il Presidente del Tribunale di Melfi che mancava il requisito primo di una “situazione patrimoniale .. redatta con l’osservanza delle norme sul bilancio di esercizio” di cui al secondo comma dell’art. 2501 ter del codice civile; emergeva pertanto che – fino ad un nuovo progetto di bilancio vero e reale – non era praticabile alcuna seria e fondata quantificazione dei rapporti di cambio per la fusione. Ciò pare sia stato del tutto ignorato.

 

Ciò avrebbe dovuto spingere la Banca d’Italia ad essere forse alquanto più cauta nel concedere l’autorizzazione di cui all’art. 57 del TULB.

Del pari, qualche ripensamento avrebbe dovuto esserci presso la Consob: Banca di  Roma prima svaluta e poi ripristina al costo la partecipazione maggioritaria presso la Mediterranea. E ciò non tanto per supino rispetto verso i propri tecnici, ma, stando a quel che appare predisporre un’agile traslazione, senza inceppi rivalutativi del proprio specifico attivo nella divisata «società bancaria di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma.»

 

E qui davvero c’è da pensare in ordine al fatto che possa darsi per scontato un nugolo di autorizzazioni della Banca d’Italia “ante litteram”, a futura memoria, in palese disapplicazione  delle norme avverso il “socio unico” e con elusione di quanto comunitariamente stabilito in tema di concentrazioni bancarie.

 

Né Banca d’Italia né Consob pare abbiano sinora ritenuto opportuno esigere rettifiche su questo passaggio della relazione al bilancio della società incorporante:

«Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi [ma nella semestrale non era stata svalutata? n.d.r.] Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico.  Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico.»

 

Orbene, il c.d. “valore di carico” non può che essere questo:

-       Costo residuo della partecipazione: L. 226.000.000.000.=

-       N.ro azioni possedute: n.  38.840.319.=

-       Valore unitario: L. 5.818,696.=

 

Da qui forse il non pregevole itinerario estimativo di quei “advisor” che hanno portato prima il valore di bilancio della BM di L. 1401,91 a L. 2.435 (quasi un raddoppio) e poi a L. 3.570. Successivamente, essendo la stima ancora insufficiente, si salta ad un concambio di 5 a 2, senza precisare la  parametrazione patrimoniale, in base ad un presunto valore di mercato di banche consimili per la Mediterranea ed omettendo analogo calcolo per la Banca di Roma.

 

Sennonché quel  5 a 2 postula che le azioni della Mediterranea al massimo varrebbe L. 5.112. Quindi la Banca di Roma nel suo bilancio non appare encomiabile quanto a precisione. Si è lontani dalle proclamate L. 5818,696 così come inaccettabile è l’affermazione che vorrebbe «il valore di concambio ai fini della prevista fusione per incorporazione attribuito alla quota di pertinenza della Banca di Roma [avere] un valore che eccede il valore di carico.» 

Non può stupire se i soci di minoranza della BM tendono a considerare quell’affermazione alquanto lesiva dei loro diritti societari. La sincerità nelle rappresentazioni delle valutazioni; la veridicità delle appostazioni di bilancio; la correttezza nelle relazioni d’affari non paiono in questa occasione esemplari.

 Quando, poi, si afferma (cfr. pag. 2 della Relazione BM al progetto di fusione) che si è inteso adoperarsi per «la salvaguardia dei diritti patrimoniali degli azionisti di minoranza» si è in contraddizione con i citati assunti del socio egemone. Siamo in presenza di espressioni elusive che possono apparire accorgimenti eziologicamente rivolti ad espellere da una banca che solo nel 2000 prospererà (questo è stato detto nelle relazioni di bilancio) i soci indesiderati per conseguire un vantaggio per il socio egemone (dato che potrà traslare un attivo, in atto dubbio, in una costituenda nuova banca, tutta di sua proprietà, locupletando in proprio in correlazione al danno subito da altri). Per converso i soci minoritari finiscono per soggiacere ad una sorta di estromissione coatta, nulla potendo contro lo strapotere assembleare del socio di maggioranza assoluta.

 

LA PERDITA DEL CONTROLLO SOCIETARIO


 

Non appare questa la sede per rievocare la vicenda dell’ingresso della Banca di Roma nella compagine societaria della Banca di Roma. Qualche dato è stato già fornito. Non sembra del tutto corretto asserire che l’istituto romano sia divenuto socio quasi unico in un sol colpo, nel 1995. Le tante assemblee straordinarie del 1994 prima e del 1995, dopo, stanno lì a testimoniare il fatto che da una partecipazione minoritaria e pressoché irrilevante si è passati ad una partecipazione cospicua del 30% per finire in quella massiccia attuale che pare trascenda di fatto il 53% dichiarato.

 

E’ inoppugnabile che la Banca di Roma non ha mai pagato azioni Mediterranea sopra le L. 8.000; o meglio: il patto iniziale di acquistare a L. 15.000 si è modificato a seguito di valutazioni fatte con criteri non del tutto in linea con quelli che ora vengono proposti dagli advisor.

Fuor di dubbio che nessun premio di maggioranza è gravato sull’acquirente del tempo. Tanto ora non può che essere corrisposto ai soci del tempo – se sopravvissuti – a titolo risarcitorio. In altri termini è questione di equità, di giustizia applicata al caso concreto, recuperare in sede di estinzione della tradizionale Banca Mediterranea ciò che venne meno nei processi di aggiustamento della compagine societaria, in definitiva voluti dall’estranea Banca d’Italia.

 

Allora non si corrispose quella giusta integrazione di prezzo sia perché scriveva come scriveva il direttore della locale Filiale B.I. (vedi sopra) sia perché si diceva e si ammoniva l’assemblea dei soci che con la presenza della Banca di Roma cosiddette “sinergie” entravano nell’asfittica potenzialità di crescita della Banca Mediterranea.

 

Facile oggi richiamare i rilievi dell’ultima ispezione B.I. per sottolineare carenze addebitabili al nuovo assetto amministrativo come:

-       la circostanza che “ancorché note da almeno un quinquennio, solo da pochi mesi sono state avviate a soluzione le mancate problematiche del sistema informatico, obsoleto, scarsamente integrato ed assoggettato ad una disordinata e poco documentata opera di intervento manuale e di personalizzazione delle procedure”. E guarda caso, s’inizia il risanamento e si estingue la banca con l’istituto dell’incorporazione da parte del socio egemone;

-       rimarchevole «l’inadeguatezza dell’apparato contabile e di quello segnalatecico, nonché dei sistemi di controllo interno e direzionale.» Aspetto tanto più grave se si tien conto dello smantellamento delle connaturali strutture della Mediterranea e dei gravi costi per l’introduzione degli alieni ed abnormi sistemi consoni all’istituto romano;

-       «scrutinio e monitoraggio del credito – interessati da manchevolezze ed incoerenti con l’ipotizzata espansione del comparto.» E siffatto nevralgico comparto è quello che si contraddistingue con la pesante involuzione delle sofferenze prima additata e soprattutto con il deterioramento del grado di ricuperabilità dei dubbi realizzi;

-       «contenzioso lento ed incompleto» ad onta dei gravami del conto economico che hanno impedito all’azienda di prosperare;

-       «ritardi nell’appostazione di sofferenze»: i misteri di posizioni contrassegnati con i codice CR 4433672; 6439964 e 5114286 forse stanno avendo acconcio disvelamento, ma in sedi alquanto scabrose;

-       “numerosi rapporti … risultano di fatto abbandonati” forse sol perché ritenuti “di ammontare non elevato”, e tanti piccoli rivi fanno un fiume;

-       «le previsioni di perdita non sempre sono guidati da criteri univoci, volti ad assicurare una tendenziale oggettività e omogeneità valutativa.»

 

E si potrebbe continuare. Resta però inspiegabile perché i c.d. tecnici della fusione non sfiorino neppure siffatti scottanti aspetti. Avrebbero dovuto chiedere ad esempio la seguente documentazione e farne dei circospetti ma esaustivi ragguagli. Senza contemplare tali risvolti gestionali ogni giudizio sulla congruità del con cambio è a dir poco malcerto.

 

Non ci risulta che siano stati vagliati i risultati di esercizio tenendo presenti:

-       le decisioni degli amministratori delagati dell’ultimo triennio;

-       le pratiche di fido (centrali nella gestione di una banca);

-       la corrispondenza con la banca socia;

-       i rapporti ispettivi interni (vedi rilievo n. 8);

-       atti, lettere e corrispondenza idonei a controdedurre al rilievo sub 11);

-       la parte aperta delle due ultime due ispezioni della Banca d’Italia.

 

Sono pretermissioni che da un lato avvalorano la nostra stima sul giusto peso delle azioni Mediterranee, desumibile solo dalla pregestione Banca di Roma, pari cioè a L. 14.378 e dall’altro impongono la refusione del premio di maggioranza a suo tempo non corrisposto dal neo-socio Banca di Roma.

 

Non si nega che tale valore non è facilmente quantificabile, ma il giusto mezzo tra un minimo del 15% del valore dell’azione al tempo dell’ ingresso maggioritario della Banca di Roma ed un massimo del 20% porta ad un’integrazione pari a L. 2.500 per azione dei soci di minoranza. Siffatta integrazione esula dai vincoli dell’art. 2501 bis terzo comma, trattandosi di atto risarcitorio e può quindi essere corrisposta in contanti.

 

LA NUOVA BANCA MEDITERRANEA


 

 La Banca d’Italia si era premurata di far sapere in Parlamento che «Mediterranea e Banca di Roma, in qualità di capogruppo, [dovevano] redigere, in tempi brevi, un dettagliato piano di risanamento, nel quale fossero previsti adeguati interventi di ricapitalizzazione e fossero formulate coerenti previsioni di crescita degli aggregati patrimoniali, economici e finanziari.» Non pare che si privilegiasse l’ipotesi dello scioglimento della banca Mediterranea, sia pure sotto forma di fusione mediante incorporazione. Se qualche avvocato romano sostiene che tale ultima via fosse la sola percorribile per volere della B.I. si assume non poche responsabilità.

 

Purtroppo, dopo ondivaghi atteggiamenti, torna comodo alla B.R. tale forma di estinzione della sua partecipata. In effetti, basta l’emissione di n° 83.708.730 nuove azioni (al massimo) per un importo complessivo di L. 41.854.365.000 per tacitare tutte le ragioni dei vecchi soci della Mediterranea. Con una semplice scrittura contabile del tipo:

-       dare conto “fusione” avere capitale sociale: L. 41.854.365.000:=

per chiudere la partita.

Nasce un certo annacquamento del capitale che a nostro sommesso avviso rastremerà il valore contabile della singola azione BR forse attorno a L. 1.972 (con ulteriore lesione del concambio delle azioni della Mediterranea), ma tanto non risulta interessare alcuna autorità di controllo.

Al conto fusione accederà anche l’attuale partecipazione, riportata non al costo storico come si dice da parte degli amministratori della BR ma a quello del precedente esercizio al momento pari a L. 226.000.000.000 (salvo rettifiche per sopraggiunti acquisti o per emersione di sistemazioni varie).

Il complessivo importo di siffatta voce dell’attivo (L. 268 miliardi al massimo) ha già una sua destinazione: pare che verrà qualificato come effettivo e veridico apporto di capitali alla divisata nuova banca «al fine di preservare una serie di vantaggi competitivi connessi al mantenimento del marchio ed al radicamento territoriale» (Cfr. Relazione C.di A. Mediterranea, pag.1)

Si reputa di far sapere ai vecchi soci della Mediterranea che:

-       «vi è stata una sostanziale tenuta della Banca Mediterranea nelle posizioni sul mercato di riferimento» (cfr. ibidem p. 10»

-       «frutto di una costante ed attiva presenza sul mercato» (cfr. ibidem p. 11);

-       «grazie anche alla sviluppo di sinergie commerciali con le società del Gruppo Bancoroma» (ibidem p. 11);

-       In definitiva, «da tali linee di azione, unitamente alle scelte di riorganizzazione tecnologica ed amministrativa, alla valorizzazione delle risorse umane, alle sinergie derivanti dall’appartenenza ad un gruppo ampio, integrato ed in evoluzione, si attendono il continuo miglioramento della qualità degli impieghi ed il rafforzamento del ruolo della Banca quale interlocutore privilegiato del mondo produttivo e soggetto attivo di propulsione e di sviluppo, pronto a cogliere in via anticipata i segnali che vengono dai territori e dalle istituzioni» (ibidem, p. 12).

 

Invero non pare che l’Organo di Vigilanza sia d’accordo se in una «recente visita», sia pure «di norma», ha riconsiderato «in chiave più critica le componenti aziendali strutturali, patrimoniali ed economiche.» Ma, non pare equo che i soci di minoranza vengano radiati e non possano in alcun modo godere dei frutti dei loro ormai ultraquinquennali sacrifici.

Ai soci della Mediterranea viene infatti precluso ogni accesso nell’ente che risorgerà dalle ceneri della banca che loro hanno fondato, sviluppato, radicato nel territorio, consegnato al nuovo socio egemone con una dote cospicua patrimoniale e che altri ha affossato e dissolto in una “incorporazione” letale. Bancaroma scrive: «è stato peraltro predisposto un progetto di fusione per incorporazione nella Banca di Roma. E’ inoltre prevista, a seguire, un’operazione di scorporo di parte della Banca Mediterranea in una società di nuova costituzione, controllata totalitariamente dalla Banca di Roma. Questa soluzione offre al nostro Gruppo la possibilità di salvaguardare le importanti potenzialità competitive presenti nella rete della Banca Mediterranea, in funzione soprattutto delle sue caratteristiche di localismo e di radicamento territoriale, attraverso un nuovo organismo atto ad assicurare migliori prospettive di profittabilità.» (Relazione Bilancio BR, p. 61) Ma tali «potenzialità competitive» in parte sono di pertinenza degli estromettendi soci. Giustizia impone che vengano risarciti.

L’attribuzione ad ogni vecchia azione Mediterranea dell’opzione a sottoscrivere alla pari  le azioni della costituenda società bancaria – totalmente riveniente dalla Mediterranea – si rende quindi ineludibile: pena prevedibilissime azioni giudiziarie.

 

Del resto è la stessa Banca di Roma che implicitamente riconosce l’inadeguatezza del concambio di 5 a 2. A pag. 96 della cennata relazione si afferma: «Per quanto riguarda la Banca Mediterranea, il valore di carico è stato mantenuto a 226 miliardi. Esso si raffronta con un patrimonio netto totale di 102,6 miliardi e quindi con una quota di competenza della Banca di Roma (53 per cento circa) di 54,3 miliardi. La Banca di Roma ritiene che il controllo di Banca Mediterranea, per il radicamento territoriale e per gli investimenti effettuati che produrranno effetti già a partire dal 2000, costituisca un valore che giustifica il mantenimento del valore di carico. Del resto, le perizie effettuate da advisor indipendenti per determinare il valore di concambio ai fini della prevista  fusione per incorporazione attribuiscono alla quota di pertinenza della Banca di Roma un valore che eccede il valore di carico. E’ da aggiungere infine che la valutazione è confermata anche da offerte di acquisto pervenute da potenziali acquirenti.».

 Duole dover controbattere:

-       se positivi effetti sono previsti «a partire dal 2000», del tutto ingiustificata è la sostanziale soppressione di una banca vitale;

-       il valore di carico risulta forse pari a L. 5.094, mentre quello che percepirà il socio minoritario BM, dopo le dilatazioni del capitale della BR per estromissione dei soci di minoranza BM, difficilmente supererà le L. 4.930 (rapporti precisi non sono possibili per difetto di informazione societaria);

-       prudenza imporrebbe di non accreditare tesi azzardate in materia di azioni quotate in borsa e di evitare frasi come questa: «advisor indipendenti … attribuiscono … un valore che eccede il valore di carico»;

-       se «potenziali acquirenti» erano disposti a subentrare nella partecipazione, era quella la via non solo auspicabile ma da percorrere doverosamente per evitare i danni inflitti ai soci di minoranza. Se non si era stati in grado di amministrare, si poteva almeno essere avveduti nel vendere.

 

 

CONCLUSIONI
 
 
 
Gli advisor “indipendenti” hanno redatto perizie i cui limiti crediamo di affare dimostrato abbondantemente. Non sono pochi i soci di minoranza che non si reputano soddisfatti dal concambio che viene proposto (5 a 2).
 
Per tutta una serie di considerazioni, pare essere equo un concambio radicato nel valore storico delle azioni della Mediterranea, o meglio che tenga conto dell’effettivo netto patrimoniale, prima delle tosature per gestioni imputabili a centri estranei dagli interessi dei soci minoritari.
 
Di tal che, un’azione della Mediterranea si aggira sulle L. 14.378 che in relazione al valore corrente delle azioni Bancoroma comporta un concambio di 7 azioni BR per ogni azione BM.
 
Va inoltre rifuso il premio di maggioranza, a suo tempo non corrisposto, e commisurabile in L. 2.500, da corrispondere in contanti, data la sua natura risarcitoria.
 
I soci di minoranza della Mediterranea non possono venire esclusi dalla divisata nuova banca che altro non è che la stessa Mediterranea, neppure troppo modificata. Il rapporto societario trascende il valore economico e specie nell’ambito bancario – ove ha peso l’art. 19 del TULB – esso è insopprimibile per sola volontà del socio maggioritario. Conseguentemente, va accordata per ogni vecchia azione un’opzione azionaria alla pari nella divisata nuova società bancaria.
 
La presente relazione è del tutto finalizzata alla tutela delle ragioni patrimoniali e morali di taluni soci di minoranza della Banca Mediterranea che ne hanno fatto esplicita richiesta. Non può pertanto avere valore diverso di un’opinione che comunque viene espressa secondo scienza e coscienza e che scaturisce da esperienze quarantennali nel settore delle verifiche bancarie.
Racalmuto, 25 aprile 2000.
 
 
Dott. Calogero Taverna,
ex ispettore di vigilanza bancaria della Banca d’Italia ed ex ispettore del SECIT, Ministero delle Finanze. – Socio di minoranza della Banca Mediterranea.
 
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Dott. Giuseppe Taverna,
dottore in giurisprudenza.
 
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St. Un. Cinzia Leone,
laureanda in giurisprudenza.
 

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