sabato 3 novembre 2012

In memoria del professore … che non era amico di Sciascia


Dino Casuccio non era amico di Leonardo Sciascia.  A pag. 124 di Le Parrocchie di Regalpetra, Sciascia sembra smentirmi: "a me e al segretario della DC  che insieme accompagnavamo il morto al cimitero un salinaro diceva.." Io negli ultimi 15 anni molto gradito suo "conversale"  talora ebbi a sollecitare acidi giudizi sul GRANDE. Si lasciava andare. Ironico sulla "fuitina" tutto sommato consumata a casa sua. Quando perfidamente gli insinuavo che male aveva scritto il SOMMO su di lui, lui rimbeccava che non era vero e citava quanto sopra ho citato. Fingeva di ignorare la sottile ironia del SOMMO che oltretutto lo posponeva a sé e lo qualificava come DC. Già il segretario della DC chi era se non "un ragazzo furbo,[che] ha già scelto i cavalli su cui puntare .." di pag. 151. E prima a pag. 88 e 89 "Monsignore ha vasta parentela, ha mobilitato tutti i suoi parenti nella DC e lui si è ritirato in disparte ... Questa sorta di largo nepotismo alimenta avversione contro monsignore, ma la verità è che in Sicilia la politica sempre diventa affare di tribù, e il membro più autorevole o rappresentativo di solito si tira dietro tutta la tribù, fino agli affini e ai famigli : e un partito politico diventa come una gabella di latifondo". Dino Casuccio, divenuto tra gli intellettuali di Racalmuto, il gabelloto iunior di un latifondo chiamato DC, anche se non un eccelso intellettuale capiva bene la birbonata che gli aveva propinato il SOMMO e fingeva di non adontarsene. Ma mai professò amicizia. Neanche stima, certi uzzoli omofobi  del grande scrittore facevano male.
Perché dico questo? Perché certa orgiastica commemorazione del mio amico Dino Casuccio mi fa male. La menzogna non celebra; denigra.
 In primissima gioventù ebbi a lottare Dino Casuccio (ma non certo per Sciascia): il professore che tenero di cuore non era mandò Ruggeri a prendere un falso caciocavallo da Daniele Ciciruni e lo rifilò mentre facevo concione nella sede della DC accanto alla Chiesa madre. Avevo tante facce come il caciocavallo. Ma mai io avevo servito la famiglia Casuccio. La storia si chiuse in breve. Vinsi un concorso in Banca d'Italia senza raccomandazione alcuna e mi ecclissai lontano, iniziando da Modena. Torno a Racalmuto quarant'anni dopo. Al Circolo Unione - quando ancora aveva stimmate se non di nobiltà, almeno di vetustà -  ci riavvicinammo  e parlammo a lungo, affabulatore io, pungente e talora anche sardonico lui, con le rabbie per le vili calunnie dei suoi compagni di partito. Immalinconito ma ancora vivace. Certo non più il Dino Casuccio dei primissimi anni della mia gioventù. Ora solo, con urti in famiglia, con l’ingratitudine di molti suoi beneficati. Il Professore, stella al tramonto, destava in me affetto, stima. Sino a farlo divenire assessore comunale a tarda età. Ma quello non era più il suo agone vincente. I rampanti suoi ex figliolini erano ora rapaci facitori di congreghe elettorali. Facevano politica “paesana” quale il Professore non capiva più. Dignitosamente se ne allontanò per finire solitario e quasi diafano sotto una badante estranea seppure servizievole.
In ultimo Dino Casuccio mi faceva tenerezza. Mi ascoltava con interesse anche se dissenziente. Si irritava alquanto solo se calcavo la mano nel deridere la sua “Democrazia”.  Per quarant’anni, subito dopo la guerra la storia di Racalmuto aveva avute le sue stigmate. Visto il dopo e considerato il prima dobbiamo dire che Dino Casuccio fu protagonista in positivo. La meschinella Racalmuto prosperò, migliorò, divenne audace, pulì le sue strade, dotò le case di acqua per una migliore igiene, anche le fogne si ebbero, la gente finì col fare politica per la politica e non per un “puosto” alle poste che il sottosegretario Volpe (della famiglia, del clan avrebbe detto Sciascia) riusciva pure ad elargire ai “fedeli” della famiglia Casuccio. Certo. luci non scintillanti e con ombre talora miserevoli. La sommatoria finisce comunque in positivo.
La notizia della sua morte mi rattrista: ho perso un amico; non vado più al circolo unione e sotto questo aspetto la memoria del mio partner in ciarle di vago sapore politico non mi mancherebbe più. Il ricordo dell’uomo divenuto saggio, meno fazioso, comunque affabile, di un uomo che può alla fin fine definirsi buono, è trepido in queste ore che dedico con il mio computer al Professore che oltre tutto non fu amico di Sciascia.
Calogero Taverna

Quanto a Vendola......


Quanto a Vendola: sai che ridere se mi vengono a redarguirmi quelli della casta (Travaglio Stella Rizzo) straarricchitisi strappandosi le vesti per i miseri arricchimenti (a loro confronto) della nostra classe politica e e dintorni. Quando ero al SECIT di Reviglio (l’unico socialista onesto che abbia incontrato) ci divertimmo a seguire la paghe di maradona: guadagnava …  - poverivo- solo 500.000 lire al mese per il fisco italiano. All’estero mare di dollari e franchi svizzeri “estero su estero”. Ed oggi come prima peggio di prima: prendiamo per esempio il romeno Mutu che subito si infortuna ma altro che Vendola fiumi di euro sui suoi conti più o meno cifrati. Solo le scommesse interessano pare i moralisti della carta stampata. Voglio vedere un giornale che parli seriamente delle caste del calcio. Giocatori pagati strapagati che subito si infortunano un po’ per droga o  per andarsi a drogare. Un deputato, il più scalcinato dei deputati, deve farsi un culo così non tanto nelle aule che lì è teatrino quanto nelle commissioni e via discorrendo. Fa le leggi. Cosa di importanza estrema. Certo, non siamo ingenui. Sempre al SECIT scoprimmo i dividend washing di tal Berlusconi. A Garavini feci fare una interrogazione parlamentare. Si mettevano male le cose: dalla sera alla mattina si sfornò una legge che tutto legittimava. Le multinazionali pagano fiori miliardi (prima in dollari e franchi svizzero ora in euro che sono più spendibili, “estero su estero” per sfornare leggi a loro uso e consumo. Vorrò vedere Grillo che fa ..o i suoi quando approderanno al parlamento (In Sicilia ne abbiamo già quindici. Ho scommesso che tra brevissimo correvano in soccorso di Crocetta. Il partito che non c’è li caccerà fuori. Sai che ridere, alla Scilipoti insomma - che oltretutto è un mio amico e che apprezzo). Son convinto (ma fino ad un certo punto) che Vendola (che guadagna più dei 15 mila euro che gli si accreditano) non sarà  il lacchè legislativo delle multinazionali estere. E anche il “frinico” voglio vedere se non pappa i fondi che questi signori elargiscono (banchieri esteri di rito scozzese, come denunciava in Camera caritatis Cossiga, quello di Gladio e forsennato estimatore di tutti i militari anche quelli in divisa gialla) per denigrare l’Italia, svilirla con faccende di casta e con moralismo indecente e quindi beccarsi le nostre banche (cosa finora riuscita) e dare possibilità ai loro depositanti stranieri di arraffare anche le nostre industrie tipo Fiat etc. Denigrate gente, denigrate e poi vi accorgerete!N.B. Io non sono ex di niente sono solo da 50 anni “vetero comunista tutt’altro che pentito” come sta scritto nel mio profilo fbeistico, quello insomma per signorine.

REMEO – DISSI UNA VOLTA …..

E stavolta sono davvero d’accordo con te. Toto corde. Anche se forse, nelle tue intenzioni, ci sono anch’io nel gruppo dei dannati. Ma, a me, della vicenda personale poco mi importa: per essere ormai fuori tempo massimo per età, per pensione, per posizione raggiunta, per ambizioncelle recondite, per ambiti flirt. Non suggo latte francese.
 Di Racalmuto, meglio dei racalmutesi, mi importa invece molto. Ho peregrinato per l’Italia per non apprendere qualcosa e rendermi conto che il mio paese non vola in alto per insipienza dei suoi uomini migliori e ciò mi fa specie. Quando mi si dice che qualcuno favorisce qualche altro con trucchi nelle licitazioni private per poche migliaia di euro e penso ai grandi crack bancari, qualcuno dei quali da me seppellito, mi vien … da piangere. Quando mi si dice che qualche mio compaesano di mezza età – magari per fottere meglio – qualche spinello se lo fa, penso ai grandi big della finanza o dell’industria da me qualche volta praticati; costoro non ci andavano certo leggeri in certe cose. Eppure furono grandissimi, come si diceva allora, ingegneri finanziari, o supremi manager. Io Racalmuto ce l’ho nel sangue perché ci sono nato, vi ho passato la mia gioventù, perché mio nonno contadino quando tentava di passare dalla categoria dei “viddani” a quella dei “mitateri”, essendo riuscito a comprarsi una mula, per Trento e Trieste, di cui non gliene fregava niente, ci rimise la pelle a 37 anni, a Caporetto. Considerato disperso non ha una tomba su cui gettare un fiore, io letterato a lui analfabeta (sapeva fare solo la firma), né a Racalmuto i “galantuomini” soprattutto imboscati, hanno ritenuto di ricordarlo non dico intestandogli una via (che quella va riservata ad incolumi militi franchisti), ma almeno una lapide collettiva, magari in quel guerresco (e brutto) cimelio di piazza Castello.
Vedi, io sono del popolino e amo i sindaci popolani come Canicattì, Sardo, Petrotto Uno, Restivo, Petrotto Due. Dimmi quello che vuoi, ma lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune, ogni organo pubblico insomma ha delle ragioni che l’umana ragione non comprende ed ha una morale che la morale comune non approva. Pena: il governo dei tecnocrati alla Monti. 
Contenti voi, contenti tutti. Caro, non facciamo la figura dei capponi di Renzo. Ho scritto sull’Ici, ho scritto sull’ICI-IMU. Sono passato inosservato. Ma ora qualche avvocato mi dice che qualcuno già corre da lui per certo insopportabile bruciore nel retrostante.
Dovremmo unirci per far fronte comune contro l’invadenza romana e far valere la nostra abilità nelle cose di legge (Sciascia, Picone, Giancani, Cavallaro, Marchese, Gigi Restivo ed anche (soprattutto) Lillo Mattina, … quanto ad acume togato Racalmuto eccelle). Racalmuto non si può sciogliere perché “manca il fatto”. Il sillogismo della Triade è da zero tagliato in filosofia aristotelica. “A Racalmuto viene martellata una egemone FAMIGLIA MAFIOSA; sindaci e giunta e consiglieri non hanno vigilato (non usi però a delinquere perché assolti) ERGO a Racalmuto - potenti ed impotenti, colpevoli ed innocenti, altolocati e povero cristi - tutti MAFIOSI, TUTTI INFILTRATI; TUTTI INDEGNI DI AUTOAMMINISTRARSI.
Calogero Taverna

venerdì 2 novembre 2012

"E' stato il figlio", perché piace il film di Ciprì





di CARMELO SCIASCIA

Grazie a Bellocchio ed al festival di Bobbio, di cui è stato l'ideatore e ne è tuttora l'animatore, ho potuto conoscere, qualche anno addietro, i due registi più originali del cinema italiano: Ciprì e Maresco. Dopo Pasolini sicuramente i più provocatori (provocazione come pro-posizione) della cinematografia contemporanea. Allora i due registi a Bobbio presentavano il film Cagliostro (film del 2003) film ideato e diretto dalla coppia. Quest'anno Ciprì da solo si è presentato al festival del cinema di Venezia, col suo "E' stato il figlio", film che qualche comunanza (e molte differenze) ha con la Bella addormentata di Bellocchio. In comune hanno un attore premiato, Fabrizio Falco premio Marcello Mastroianni., ed essere entrambi i film stati riconosciuti di interesse culturale e realizzati con il contributo della direzione generale per il Cinema. Di diverso, il premio per il miglior contributo tecnico per la fotografia, vinto da Daniele Ciprì. Molto se ne è parlato dalle pagine culturali di questo giornale (anche perché lo meritava) del film di Bellocchio, meno di quello di Ciprì. Ed è anche per questo che qualcosa vorrei sottolineare. La trama di "E' stato il figlio" è semplice, tutti la conosceranno o potranno facilmente conoscerla da un qualsiasi sito cinematografico. Quello che vorrei invece aggiungere e che non ho trovato scritto da nessuna parte è il continuo rimando di quest'opera al neo realismo cinematografico del dopoguerra. Mi spiego: vedere E' stato il figlio oggi nel 2012, è stato come rivedere La terra trema di Luchino Visconti del 1948.
La comunanza è data dall'unità di luogo, sono stati girati in Sicilia. Dall'unità di classe: i vinti (pescatori i primi, sottoproletari metropolitani i secondi). Dalla lingua dialettale, (vernacolo siciliano catanese in Visconti, palermitano nazional popolare in Ciprì). Stessa è la sofferenza di una miseria materiale delle famiglie coinvolte. Nel caso di Visconti, la famiglia Velastro, cerca un qualche riscatto con il figlio maggiore ‘Ntoni. Nel caso di Ciprì la famiglia Ciraulo cercherà di sopravvivere con il sacrificio del figlio Tancredi. Vi è un'aggravante in questo film. Si assiste, come bloccati, al dispiegarsi di una miseria morale che è tipica del nostro tempo: la miseria del totem del possesso. Il simbolo del possesso e del riscatto per antonomasia: la macchina. Una Mercedes nera sarà il simbolo della ricchezza, ma sarà anche ed inevitabilmente il corpo del reato di una sconfitta fisica, la morte del capofamiglia (il bravissimo Toni Servillo) ad opera del nipote, mafioso nell'animo e di bassa manovalanza.
Sarà la sconfitta anche del figlio Tancredi (nome nobile e glorioso, come non ricordare Tancredi d'Altavilla). Il figlio Tancredi che poi è l'uomo comune (in contrapposizione all'eroe delle crociate) che ci racconta la storia facendo la fila (come la facciamo noi quotidianamente, - c'è sempre qualche bolletta da pagare! -) in un qualsiasi ufficio postale. L'incubo del mare di notte nei Malavoglia ad Acitrezza, diventa l'incubo del quartiere ZEN a Palermo, in pieno giorno. Un quartiere che da elemento scenografico, si trasforma, diventa attore evidente ed invadente.
Il quartiere ZEN a Palermo, le VELE di Napoli, simboli di una miseria morale e materiale
cui sono cadute tante blasonate città italiane. Avrà qualche responsabilità, oltre le scelte opportuniste dei piani regolatori, la moderna architettura? Certamente no, se si osservano piazze come Potsdamer platz a Berlino, certamente sì, se si osservano gli squallidi quartieri dormitorio di tante periferie di città italiane. Cosa è mai cambiato dal ‘48 ad oggi? Ai lettori la risposta, a me rimane il compito di sottolineare, la drammaticità e la poesia (forse la poesia nasce proprio dalla sofferenza?), del film di Visconti come in quello di Ciprì. C'è nel suo film il canto di una poesia:
"Lu suli si nni va dumani torna
si mi nni vaiu iu, nun tornu chiui"
(il sole se ne va domani ritorna - se me ne vado io non torno più)
Drammatica e struggente poesia che da sola rappresenta l'eterna sofferenza della Sicilia. E basta ascoltarla dalla voce corale degli attori nel film che è come rivivere e riascoltare il dolore di una precarietà storica come è ci stata gridata dalla voce di Rosa Balistreri.
E il citare le favole di Giufà da parte del nonno è come sentire l'eco dei "cunti" (racconti) di una epopea popolare, che facendoci ridere della bonaria superficialità del personaggio ci aiutano a superare le difficoltà quotidiane, dandoci l'illusione di una intelligenza superiore. (Un po' come con il ragioniere Fantozzi di Paolo Villaggio). Per questo e per altre infinite suggestioni il film di Ciprì piace e commuove, diventa teatro epico, surreale ed iperrealista come verista lo era stato il film di Visconti, La terra trema di verghiana memoria. Unica e sostanziale differenza, oltre alla miseria materiale, l'abbrutimento morale cui ci ha fatto sprofondare sessant'anni di cattivo indottrinamento televisivo, a dimostrazione, ce ne fosse bisogno ricordarlo, della sempre attuale analisi di pasoliniana memoria.


30/10/2012

martedì 30 ottobre 2012

Intercalare

Una volta si era alla ricerca del senso delle proporzioni,testimoniato dal ripetuto  modo di dire, “nella misura in cui “, successivamente  perdendolo, con il pleonastico intercalare “come dire”   si è cercato di nascondere l’inadeguatezza del proprio discorso o agire, una sorta di sospensione del pensiero.
 Ultimamente prevale il “detto questo”   che anticipa, specialmente da parte dei politici,  argomenti o situazioni spiacevoli per chi ascolta.

Lillo Mendola

Lixandru

Lixandru era rumeno ora è racarmutisi capace di parlare per lunghe ore in pretto linguaggio sicul-regalpetrese. E’ enciclopedico, emulo in sedicesima del nostro Leonardo da Vinci.
Lavori di terra, raccolte di frutti delle nostre campagne (avulivi, miennuli, piruna, racina, fiuri di serra e fiuri di campagna). Opere murarie sono bruscolotti per le sue capacità mentali, fisiche, intellettuali; per la... sua mente, per le sue braccia per la sua resistenza fisica.
Un difetto? Fuma troppo.
Ma questo è niente rispetto alla raffinata professionalità ormai consolidata nell’arte della pittura muraria, nel gusto della relativa policromia, negli orpelli lignei (perline, listelli, battiscopa), nella ingessatura, nei rivestimenti personalizzati, nelle angoliere fantasiose.
Volete provarlo? telefonatemi nel mio cellulare 3291383700: vi farò volentieri da intermediario. Quanto ai prezzi, beh! avete tutto da guadagnarci. Provare per credere

N.B. Questa non è pubblicità per niente e per nessuno. E' un atto di affetto ed un moto di ringraziamento per una bravissima persona che lascia la sua bellissima città per tentare fortuna in questa nostra disastrata Racalmuto. Ci porta la sua irrefrenabile allegria. Discute con noi avendo subito appreso, da buon uomo dell'Est, l'aspra lingua dei miei avi. Arricchisce umanamente Racalmuto: teniamocelo caro.

Carissimo Piero lu cannuni

Tu sei persona soave e le tue rabbie che sanno essere feroci riesci a comprimerli nel chiuso del tuo intimo esistenziale. Estroverso, sì ma in eccellente lingua italiana o in raffinatissimo eloquio della tua terra d’origine, che è poi anche la mia. Nel DNA siamo simili, nel folklore, no: diversi diversissimi. Tu sei persona educata, ammodo , tanto cortese: io l’opposto.
Se ti scrivono a spiovere fingi di ossequiarli, arrivi persino a scusarti, là dove nulla c’è da scusarsi.  Rimembri con toni di deliziosa ironia una pagina antica, un ricordo tanto sincero di una Racalmuto neghittosa a fronte di una Montedoro comunista (già, comunista!) effervescente, colta, musicalmente aperta, teatralmente calamitante, musealmente esplosiva, con biblioteca che attira l’eredità di uno scorbutico ma geniale racalmutese Raffaele Grillo che lì deposita i suoi cimeli avendo in gran dispitto l’insulsa  e miope Racalmuto (almeno nei suoi confronti, certa aggettivazione di E.N. Messana del tipo del cucurbitaceo irritano anche me, ancora).Ovvio che io ho apprezzato, applaudito al tuo scritto. E più che guardare una stella (quale?) vorrei che fossero le stelle a guardarci (ed a Racalmuto hanno poco da guardare).
 Si scrive a suocera perché nuora comprenda? Che ridere! Si accenna ad un CASTRUM da me subito derelitto e irriso, per aver dato ascolto a qualche becero calunniatore il cui coraggio è quello di obnubilarsi dietro un ignominioso anonimato? Si sappia: c’è di peggio ed ancora più fustigante in qualche neo blog che immediatamente viene inondato di visitatori veri e non “pompati”. Perché? Perché io sono io e loro sono un c… avrebbe aggiunto il marchese del Grillo. E si aspettino fustigazioni impietose, non delazioni. Non è quello il mio costume. Io faccio parlare i fatti (e i loro misfatti) e le mie variegate quanto privilegiate professionalità.
 Non mi lascerò giammai fuorviare da inventate frotte di giapponesine plaudenti, o di cinesine ridenti, o di fiorentine che d’incanto perdono il loro salace dire per osannare. Penso allo sperpero di miliardi di vecchie lire per un castello medievale ripitturato al ducotone, per una fondazione regalata a signori già generi per qualche apertura annuale a maggior gloria di chi non si sa chi.
 Alla dissennatezza di una miliardaria riesumazione di un bel teatro ottocentesco, mutilato, cementificato, reso inagibile per una redditività smunta fino al collocamento di qualche ragazzuolo senza arte né parte. C’è del marcio in Danimarca. Ed io per quanto mi è possibile lo fustigherò senza pietà, se mi riesce con sarcasmo, con un taglio dadaista, con un linguaggio alla Zaratustra. Mi disgusta che soldi macilenti di un macilento bilancio comunale finiscano a tarallucci e cocacola e pizzette e pasticcini al macello per onorare un estraneo signor nessuno. Già, e così il bilancio comunale va a puttane e mi si dice con obbligo assoluto di riservatezza che tanto ha portato a postulare dissesti forieri di dismissioni di oltre centoquaranta padri o madri di famiglia. Allegria brava gente!

lunedì 29 ottobre 2012

Scampato Pericolo (!??)

Mi sveglio stamani piuttosto presto e dopo le 8 scorro i vari blog e web per sapere come va a finire. Mi ero sabato sbilanciato in una dissennata scommessa (sia pure con me stesso). Me la potevo risparmiare. Nella mia lunga vita ho quasi sempre errato le previsioni in politica (quasi portassi iella ai miei preferiti).  Non è che poi posso dire che Crocetta sia un mio preferito: si fosse trattato del fratello, sì. Chi ha ancora memoria del mio QR del 2001, converrà che non mento. A dire il vero lì tifavo per Milioto e il mio parente Gigi mi ha dato una sberla elettorale che ancora mi brucia. Mi consolo dicendo: se i sapientoni racalmutesi mi avessero seguito nelle mie preferenze elettorali (turandosi il naso magari) quanti guai in meno avremmo avuto tutti. L’on. Milioto, sarà tutto ma pesce scaltro è e nessuna comunicazione giudiziaria gli è mai pervenuta. E dire che come vetero socialista in congrega con De Michelis e para democristiano in congrega con Fontana di scogli ne ha dovuto aggirare. E l’ha fatto a quel dio biondo. Cari racalmutesi, credetemi, in questo campo io la so lunga molto lunga, anche per frequentazioni di archivi occulti e come invitato in qualche pranzo magari con Cusumano (convivio mangereccio solo, s’intende: i maligni non pensino a male, né io né Vicienzo deviamo in quel campo lì). Volete un consiglio cari racalmutesi? Supplicate in ginocchio l’on. Milioto a tornare a fare il sindaco. E Petrotto? Io ho sempre tifato per lui, ma lui mi pare che gira e rigira è salito sul carro del perdente. Grillo può prendere magari anche il 20 % del 45% o del 40% dei voti validi, ma in Sicilia abbiamo vinto noi, quelli di CROCETTA (salvo spiacevoli, per me, sorprese dell’ultima ora. I politicanti del grillismo siciliano hanno straperso perché non stanno nello scranno della presidenza regionale. Quei 10-12 eletti saliranno sul carro del presidente vincente e verranno magari subito irradiati dal partito che non c’è. Alla Scilipoti, per intenderci. Tutti i plaudenti dovranno vedersela con quelli che il presidente a Sala d’Ercole ce l’hanno e (vecchia storia) ve victis.
Stamani mi sono sentito male quando certi blog m'insinuavano che Grillo aveva vinto e che la presidenza regionale era sua. Qualcuno mi propina una cassa da morto, roba da stropicciarsi tutte le pudenda possibili, della parte davanti però. Pensate voi: un Grillo che vince in Sicilia e sconquassa partiti a Roma, distrugge ogni credibilità all’estero, all’UE ci mandano subito in coda alla Grecia, alla BCE Draghi avrebbe dovuto fare le valige. La vendetta, feroce: gli apporti alla regione da rivedere alla luce dei più agguerriti revisori contabili; il CGA costretto a manganellare a destra e a manca (e stavolta non c’era Cuffaro che a Roma diceva o fate stare buono Virgilio o io dico ai miei di farvi cadere il governo), e i conferimenti delle addizionali irpef irpeg etc  rimisurati al ribasso, e … e  .. e il crack delle finanze regionali irrefrenabile e … i miei diletti LSU di Racalmuto i soldi (pochissimi pro capite, salvo sommatorie familiari, un milione e mezzo l’anno per la collettività) li avrebbero visti col cannocchiale .. e che facevano sciopero? L’unico che gli era possibile tornare davvero a lavorare (e stavolta gratis). Scampato Pericolo , dunque? Sì, speriamo di sì.

domenica 28 ottobre 2012

Historia brevis racalmuthensis : La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.



1938 - Una corsa di avanguardisti per andare ad incoronare Maria SS. del Monte che non potendo aspirare ad essere la santa patrona di Racalmuto, la si dichiara Regina di Racalmuto - sottotitolo: Compatrona. Purtroppo lo scranno di Santa Patrona è occupato dal 1626 da Santa Rosalia per volontà della contessa di Racalmuto. Il fascismo a quell'epoca tollerava Vittorio EmanueleIII che stava cedendo alle leggi fasciste razziali. Un pizzico di monarchia Giuggiu Agrò - in prima fila - poteva accordarlo.



Scrive in Occhio di Capra,  Leonardo Sciascia: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto  è solo uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([1]) Così, quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar proprio ragione più ai locali ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge, e a dire il vero molto di più.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un aggancio a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare  con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza anche a se stesso e quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([2]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, di un fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesse “una strana quanto benefica mancanza di  rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»

Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro  di Christopher Duggan ([3]) «L’idea, - scrive Sciascia - e  il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo
prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza  rivoluzionaria degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo  trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali  e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi “risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.)» ( [4])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriere della Sera), sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in certe pagine di Brancati ([5]) la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([6])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinearsi del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandiera”! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Così americani ed inglesi erano attesi; magari vagamente, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore. Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventennio di diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’  dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel prover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del  fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.» ([7])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascismo alla storia locale di Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, però, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti)  per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo, gli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e  Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”. Questa fase, invero, appare così nebulosa per Racalmuto da doverla forse rigettare;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incontra il favore delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche aspetto diverso. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare  “cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia, cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.

Ci siamo dilungati nelle citazioni sciasciane perché illustrano e spiegano un ventennio della storia racalmutese (che inizia un po’ dopo l’avvento del fascismo e finisce nel luglio del 1943). Poi, Le parrocchie di Regalpetra,   La morte dell’inquisitore, in buona parte il giorno della civetta, e poi gli scritti minori e poi Occhio di capra e quindi questo meraviglioso fuoco all’anima (che la famiglia si intestardisce a censurare) martellano di commenti tristi e cupi l’evolversi della vita paesana sono alla morte dello scrittore. Noi, qui, facciamo richiami introduttivi. Diamo i temi. E nella formulazione dei temi v’è Sciascia e v’è la sua intelligente lettura del nostro essere racalmutesi nel suo secolo (con qualche riserva che ci deve essere permessa. Questa riserva – e talora divaricazione – la andremo ad ordire dopo, quando nella successione temporale degli eventi verrà il turno. Non ci si dica che non amiamo Sciascia, che lo critichiamo. Apprezzandolo, leggendolo, meditandoci sopra spesso la pensiamo diversamente. Qualche volta, contraddicendolo, ci contraddiciamo. Siamo suoi scolari, in fin dei conti.


[1]) Calogero Taverna - conferenza tenuta nella Fondazione Sciascia il 18 giugno 1995 - ds. pag. 14.
[2]) Leonardo Sciascia - del dormire con un solo occhio - nota alle Opere 1932-1946 di Vitaliano Brancati - Bompiani, Milano 1987, pagg. XIII e XIV.
[3]) Christopher Duggan - La mafia durante il fascismo - editore Soveria Mannelli, 1987. Sciascia definisce l’autore «giovane ricercatore dell’Università di Oxford ed allievo di Denis Mack Smith»
[4]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani, Milano 1989, pagg. 126-128.
[5]) crediamo che si riferisca al racconto il ladro dottore de i fascisti invecchiano in opere cit. pagg. 1118 e segg. Tra l’antifascismo di Sciascia e quello di Brancati vi sono assonanze impressionanti, persino sotto il profilo stilistico. Non è questa la sede per approfondimenti. Del resto - si sa - che ad avviare all’ “antifascismo” Sciascia, fu proprio Brancati al tempo in cui era il Brancati insegnante di italiano all’istituto magistrale di Caltanissetta. I due “antifascismi”, tanto affini da confondersi, appaiono, però, meri atteggiamenti cerebrali, in negativo. Sono due atteggiamenti “contro”. Per converso, entrambi gli scrittori non sanno, non vogliono prendere partito in positivo. La politica come “non valore” riaffiora immancabilmente nei loro scritti. Non per nulla Sciascia si presentò e fu eletto nelle liste di Pannella.
[6]) Leonardo Sciascia - a futura memoria (se la memoria ha un futuro) - Bompiani, Milano 1989, pagg. 138-139.
[7]) Leonardo Sciascia - Una Kermesse - in  Malgrado tutto - periodico cittadino di Racalmuto - settembre 1993 Anno XII n.° 4, pagg. 4-5.