sabato 6 luglio 2013

Ma alla fine in Fuoco all'Anima Sciascia si stacca da mons. Casuccio.


Ma alla fine in FUOCO all’ANIMA Sciascia qualche strale astioso contro il vecchissimo arciprete lo scocca.

 

Non penso che in Fondazione Sciascia vi sia quel toccante testo sciasciano che Domenico Porzio voleva intitolare FUOCO ALL’ANIMA. Quel toccante testamento spirituale, quella struggente eppure rappresa memoria della parte terminale della sua esistenza, quella ironica competizione libraria giammai la riscontro  nelle agiografiche celebrazioni di Sciascia da parte degli Amici della noce di ogni tempo.

Eppure è proprio negli ultimi suoi giorni di vita, dal 30 novembre al 16 dicembre del 1988 che Sciascia, pensiamo con voce fioca e con corpo consunto ma con mente lucida e con intelletto ancor più acuto, lascia a futura memoria il meglio di sé. Così ci coglie di sorpresa rievocando qui la figura del vecchissimo ex arciprete; solo che ora Casuccio viene coperto da una velatura quasi ostile. Leggiamo in Fuoco all’Anima: «… io prima di fare l’insegnante, sono stato impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto. Era un mestiere che permetteva la conoscenza del mondo contadino. Momenti tristi, in cui mancava il pane, e i contadini erano particolarmente vessati perché consegnassero il grano. C’era una squadra di polizia che girava per fare delle perquisizioni nelle case di chi aveva la terra. Un giorno, durante il giro della squadra, hanno scoperto un contadino che aveva un quintale di frumento in più. E l’arciprete che ne aveva quindici.

[….] Sono stato chiamato come testimone, per confermare che i due  avevano denunciato una quantità minore. Ho seguito il processo. Il contadino è stato condannato a due anni, l’arciprete è stato assolto.»

 

Come si vede, l’arciprete qui non gode di alcuna simpatia,se non dileggiato appare comunque in una luce negativa, quasi un sopraffattore,  uno che la fa franca con la legge. Le espressioni quasi affettuose di un tempo, sparite. E c’era un perché. Stralciamo sempre da Fuoco all’anima.

«Dopo [il suicidio del fratello] è venuta una sequela di guai, perché mio padre si sentito responsabile del fatto, di non avergli detto vattene a casa”. Poi è stato preso da una forma di follia, alimentata dalla arteriosclerosi. Negli ultimi tempi era diventata anche una forma violenta. Per me è stata un’esperienza terribile, parlavo con una persona che non mi capiva, non mi sentiva, come un muro.»

Si era dato il caso che in quel periodo il padre di Sciascia aveva colpito con bastone proprio quell’arciprete. Costui, uomo che tendeva ad apparire uomo di vita santa, concesse subito il perdono ma usò il suo ascendente presso la locale caserma dei carabinieri perché gli fosse fatta giustizia. Pensava a chissà quale complotto. Soffriva di un certa mania di persecuzione. Buon per Sciascia che aveva amico quel captano che poi immortalò nel Giorno della Civetta. Seppe condurre le cose nelle debite proporzioni.

Quanto all’episodio dell’ammasso, mi va di sottolineare che tutti in paese avevano grano non requisito. In effetti né durante la guerra né subito dopo a Racalmuto si patì la fame (non considerando però gli sfollati). La terra era ubertosa e continuava a produrre grano in abbondanza, più che sufficiente per le esigenze del paese. I grossi proprietari avevano frumento in abbondanza e in una sorta di mercato nero lo vendevano a prezzi non eccessivamente esosi a chi ne aveva bisogno. Mio padre ne acquisiva una buona quantità per nutrirci in famiglia (eravamo in sei) e pensare anche alla suocera e alla famiglia di mio zio Angelo che stava in guerra nella cosiddetta armata s’agapò greca. Ma credo che rimase fedele e casto. Mia nonna aveva non più di un tumulo di terra; era buona per fare apparire alle compiacenti autorità che veniva da lì tutto quel frumento, tutta la “riconta” insomma.

Per quel che ne sappiamo noi, il contadino - che contadino non era ma un buon possidente con figlio ufficiale sotto le armi - uomo alquanto collerico, in pretura si mise a catoneggiare contro guardie e autorità e addetti al consorzio a suo avviso non intemerati. Per quello che ne abbiamo scritto in Soldi Truccati a proposito di un  Sindona che veniva a raccattare frumento a Racalmuto per un lucroso quanto illecito commercio in quel di Patti, forse una qualche ragione ce l’aveva. Indispettì e da qui la pesante condanna che non ci risulta abbia davvero scontata. Quanto all’arciprete, fu astio di prevenuti maggiorenti del momento.

 

venerdì 5 luglio 2013

Il quadrilatero Caico-Bufalino Maranella-Sciascia- arciprete Casuccio.

 
Sciascia un paio di altre volte si dedica all'arciprete Casuccio. Ne scrive ad esempio a pag. 10 delle Memorie del Tinebra  ricordando di avere fatto ricorso alla memoria del "vecchisimo ex arciprete (novantasette anni)" per avere modo di sbeffeggiare una certa Caico "- inglese sposata ad un siciliano di Montedoro". Oggi quella Caico, che tanto denigrò i racalmutesi la si vuol beatificare, plaudenti nostri insigni paesani.
Noi ce siamo dovuti occupare a difesa del nostro onore (letterario) atteso che un tal Messana Muntiduuriisi ci addebitava "scivoloni grotteschi". Qualche letterato locale  applaudì. Riportiamo qui un nostro non certo umile post.
 
 
 
 
 
 







 

Si dà il caso che scartabellando tra i mucchi di fotocopie di casa mia a Roma trovo questa impresentabile riproduzione dell’ormai lady Chatterley di Montedoro: il mondo di Louise . L’originale resta a Racalmuto e quindi le foto che qui riproduco non fanno giustizia alla indubbia abilità fotografica di questa fragile creatura d’Inghilterra.
E’ inutile negarlo: scrive soavemente; ha periodo lucido, ha aggettivazione accattivante, la sua paratassi non è di fattura scolastica. Certo, l’animo è femmineo, esile, e l’immagine è talora sdolcinata. Ma i luoghi sono resi per la loro avvenenza. E quel che mi appassiona e una Racalmuto  solare, mediterranea, persino possente con i suoi due torrioni di piazza Castello.
La Louise incontra un prete: padre Giuseppe. Saprà dopo (o crederà di sapere) che da giovane fu brigante  e chiamava “crocifisso il suo coltello”.  Ma sono due villici montedoresi  a cimentarsi a chi la sparava più grossa contro l’invidiato e più evoluto paese contiguo, il mio Racalmuto. Uno si chiamava Alessandro che a Montedoro credo si dica Lisciannaru e l’altro Turiddu (l’inglesina non lo italianizza). Come vede Louise quei due rozzi montedoresi, con tocco di romantico travisamento:  in un misto tra l’armonia dell’aprico monte Castelluccio ed il pittoresco dell’afrore contadino di questi due selvaggi compagni di viaggio.
A guardarli questi due villici accompagnatori della diafana Louise non saprei a chi dare lo scettro dello stalliere di lady Chatterley, ma nessuno dei due mi appare con le phisique du role  di David Herbert Lawrence (1885-1930) e l’arditezza del peccaminoso “strusciamento” a chi toccasse credo che manco l’onnisciente Messana di Montedoro saprebbe dirlo.
Va anche aggiunto che Sciascia non è perspicuo nel sintetizzare queste pagine di Louise, l’inglesina sposatasi a Montedoro: la sua consecutio temporum (storica e logica) mi pare inquinata da un lapsus memoriae come anche la vedova non ebbe ritegno ad ammettere con una mia cosa. Anche Sciascia, quando andava a memoria, cadeva nei “lapsi mamoriae” come ogni comune mortale. E siccome questo è un mio difetto che con il passare degli anni si aggrava , non sarò io a contestarlo. Certo, dimentico quanto volete ma non credo che dopo attente consultazioni possa davvero cascare in scivoloni grotteschi come il motedorese Messana impudentemente mi rinfaccia.
Sciascia invero s’indusse in errore perché indusse in errore l’arciprete Casusscio con quel magro e fuorviante padre Giuseppe della Caico. Forse l’attenzione andava spostata dall’ex francescano all’altro tonacato a cognome Romano, che mi risulta piuttosto discolo. Ma comunque  non tale da potere dire di lui (e men che meno di padre Giuseppe Bufalino Maranella):  un prete  molto “originale … perché nonostante la sua tonaca, viveva da feroce bandito. Chiamava crocifisso il suo coltello, ed era fedele amico e compagno di autentici briganti; arrestato più di una volta come ladro e assassino, è stato condannato a molti anni di esilio, e persino ora da vecchio, non se ne sta tranquillo come dovrebbe, dato che il vescovo gli ha ridato il permesso di dire messa”.
Ciarla di Alessandro da Montedoro, che il Messana mi pare cognomina come Augello. Lasciamolo stare come “grottesco microstorico ecclesiastico di Racalmuto”; ma neppure come loico mi pare che brilli. Se il vescovo a questo innominato padre Giuseppe “ridà il permesso di dire messa” (meglio leva la suspensio a divinis) vuol dire che il vecchio brigante si era ravveduto e che quindi da “vecchio  se ne sta tranquillo come dovrebbe”. Il Messana lo “scivolone grottesco” dovrebbe appiopparlo al suo prediletto compaesano.

Ma dove casca ancor più l’asino è in questo passo della deliziosa Louise: “L’ho mandato a chiamare  rispose Alessandro (alias Lisciannaru), perché sapevo che ci voleva una persona intelligente per parlare con Voscenza, e padre Giuseppe è l’unica persona intelligente a Racalmuto!”.

Non è del tutto fedele Sciascia quando fa dire alla “guida: E’ il solo uomo intelligente che c’è a Racalmuto; purtuttavia cade in uno intenzionale scivolone grottesco il Messana di Montedoro quando vuol tutto attenuare trasformando l’apodittico anatema di Liscianaru Augello in un passabile “ padre Giuseppe è tra le persone PIU’  INTELLIGENTI di Racalmuto”. Et de hoc satis.

L’abbiamo scritto quando eravamo innamorati di Montedoro (e su via! Lo siamo ancora ed anzi ancor di più; se una persona degna, intelligente e positiva incappa in una cazzata, poco male: succede a tutti .. il grave sarebbe per qualche carnalivari ca ‘cci va appriessu)  dichiaravamo di grande importanza archeologica lo scritto di Louise e soprattutto le foto di Louise. Ci ha tramandato squarci di Racalmuto unici e preziosissimi. Innanzi tutto, il Castello: hanno avuto di che fracassare padre Cipolla e certi santoni della Soprintendenza (e persino il genio militare nella guerra del 40-43 – per noi di Racalmuto). Louise ci ha tramandato una serie di foto di lu Cannuni (Cannuni, perché i militari del ’40 avevano piazzato in cannone sopra la torre di Nord-est; così almeno noi la sappiamo e potremmo venire documentalmente smentiti ma non per sentito dire), che mi consentiranno quando sarò sindaco di fare sagace e sapiente restitutio in integrum, depurando ogni tintura al ducotone, e recuperando i reperti archeologi del sotto-castello che so esservi a completamento del sarcofago romano di patri Cipudda e delle ceramiche che una ragazzuola protetta ha dichiato del quattrocento saccense.

Louise incontra padre Giuseppe che ci appare molto agguerrito in microstoria Racalmutese (altro che incallito brigante in senescente ladroneria);  dice all’inglesina cose di recente apprese e piuttosto corrette (qualche sbavatura è perdonabile). Si vede che codesto padre Giuseppe ha letto le memorie del Tinebra; e le ha lette per il verso giusto, senza bizzarrie fantasmatiche.

Padre Giuseppe affascina l’inglesina; Lisciannaru ne è geloso: non può competere sul piano dell’erudizione da ostentare a Voscenza. Si sbizzarrisce in “grottechi scivolini” microstorici tanto da fare “inorridire” la lady e le donne son volubili ma non come le vorrebbe Verdi; sempre pronte a mutare “d’accenti e di pensiero”.

Lisciannaru credo che tutto sommato confondesse e l’ex padre francescano o il non santo padre Giuseppe Romano con qualcuno che non la condanna al carcere ebbe ma processi civili sì e sospensioni a divinis tante: il padre Burruano. Questi però a tempo della gita a Racalmuto della lady Chatterley di Montendoro era morto da una quindicina di anni. Ne ho scritto, su codesto  davvero singolare prete capostipite  della gloriosa (almeno per tanti) famiglia Burruano (quella del feci quo potui, faciant melora potentes): mi si è rotto il computer ed ho perso le ricerche. Ne ha una copia quasi integrale l’avvocato Burruano: spero che ne faccia tesoro.

Interessante è soprattutto la descrizione del Castelluccio. Molto più veritiere delle notizie del Tinebra, quelle di carattere storico anche se non del tutto centrate, sono però le foto, davvero di somma importanza. Quella chiesa là è cimelio storico da recuperare. Vi era un vero e proprio villaggio attorno a quel Castrum, fortezza militare comunque imprescrittibile, inalienabile, inusucapibile. Non semplice “piccola cappella ora abbandonata” un tempo rifugio, non di “pacifici abitanti” assaltati da” pirati , sbarcati  nelle baie ridenti” (farneticazioni di inglesine in fregola romatica) ma da veri e propri coloni  dell’altro feudo “quello di Gibillini” in mano a varie nobili famiglie sino alla decadenza dei Tulumello che in quella chiesa, che piccola non era, andavano ogni domenica a sentir messa. Erano i castidddruzzara – ed un sopravvissuto diede uva e ristoro alla triade della lady – che in una numerazione delle anime del 1828 sono in Matrice segnati per come , cognome, età e consistenza familiare.

Seguiamo con voluttà la ormai diruta conformazione archeologica: “ la vista di una misteriosa scala ricavata nello spessore ricavata nello spessore delle mura, che conduceva chissà dove, evocava alla mia mente ogni sorta di romantiche avventure medioevali, e intanto gli uomini, che avevano condotto i cavalli nelle stesse stalle del castello, così ampie da poter accogliere ottanta cavalli, tornavano a disperdere crudelmente il mio fantasticare su quelle misteriose rampe di scale, domandandomi se non avessi fame, etc. etc.”

Preziosità da potere persino sfruttare per un turismo d’élite, scomunicando i nostri contigui nemici architetti di Grotte che penserebbero invece a fare di quel romantico castello una bolgia peccaminosa per ruffianerie e gozzoviglie  di depravato turismo.


Agato Bruno, pittore insigne, ha visitato le Favole della Dittatura di L. Sciascia da Racalmuto.

Un imbecille, affetto peraltro da codardia, ha creduto di avere titolo per dileggiare l'opera favolistica di Agato Bruno senza manco averla ancora vista. Usa ovviamente l'anonimato, il colpo di lupara dietro la siepe, giustificando così il provvedimento della Cancellieri.
Al contempo mi accusa di avvalorare pittori e pitture a suo avviso di nessun valore "non degno di me" insomma. Bontà sua. Ma io lo penso, lo dico e lo ridico: non sono critico d'arte. Sono daltonico e non riconosco i colori. Ho solo un po' di scrittura e di questa mi avvalgo per i miei svolazzi microstorici, per le mie diatribe politiche, per le mie censure verso i tanti piccoli, insignificanti manigolducci di paese.
Chiarissimo però che Agato Bruno è un grande pittore di fama internazionale. Riporto qui critiche ed apprezzamenti insigni. L'anonimo detrattore si reputa davvero più colto e più competente delle firme sotto segnate? Arriva a tale punto di follia autoesaltante?
Di mio aggiungo quanto ebbi già modo di scrivere nell'estate del 2006: "Agato Bruno, per me, è sempre sincero sino all'autocritica politica, e credo che ben si ambienti  in questa terra racalmutese satura di contraddizioni, eppure vogliosa di genuinità sino alla macerazione, sino alla tortura dello spirito. Per chi, come Agato, sa anche 'ri-guardare', in grande, con ilare esuberanza cromatica, questi uomini, spesso cupi, così diversi da lui, vengono sussunti ad intimo termine di confronto per quella necessità di contrapporsi a ciò che non ci è simile, che si snoda nel fioco, nel rappreso, nel malinconico dissolversi.
Da qui gli spunti, gli umori, gli ammiccamenti, le volute pittoriche, gli onirici 'ri-sguardi' per una godibilissima pittura, suggestiva, ammaliante che Agato Bruno [volle] esporre al Castello Chiaramontano a futura memoria - diremmo noi maldestri fruitori di luoghi comuni - di questa singolare vicenda umana, di questo approdo nel mondo sciasciano, di uno spirito ilare e profondo, diverso eppure convergente, di un ibrido sconcertante ma rilucente di mirabile mania."





CRITICHE SUL PITTORE AGATO BRUNO





Attorno il pane

Provocatorio in certa misura fu allora, e volutamente in certa misura ambiguo, il titolo “Attorno il Pane” per la mostra che Agato Bruno tenne nel 1983 presso la galleria “Due Ruote” di Vicenza, diretta da Virgilio Scapin. Provocatoriamente  riprendiamo ancora quel titolo, che non tutti compresero, chiarendo – per taluni che si ritengono fini intenditori di letteratura e sono invece schiavi di formule e stereotipi – che né allora né ora siamo ricorsi in un “lapsus calami”,  e tantomeno in imprecisione di scrittura. Non si volle dire “Attorno al Pane” che ripeteva un modo antico (e di alto lignaggio) di titolazione ben acconcio per indicare il tema catalizzatore di riflessione e dialoghi sviluppati su un piano squisitamente letterario e filosofico: pensiamo al “De amicitia”, al “De senectude”, al “De divinazione” di Cicerone per non dire il “De tranquillitate animi” di Seneca e il “De consolazione Philosophie” di Beozio: Si volle dire e affermare- semplicemente o, se volete crudamente- una valenza assertiva, cioè il senso molto più ampio di una presenza soggettiva, rispetto ad una funzione più ridotta come la pura constatazione della presenza o della identità: valenza dunque ben più che dichiarativa, ben più che… amara fronte delle asserzioni magrittiane, ad esempio. Insomma l’argomento era il pane –essenzialmente il pane- nella sua fisicità, nella sua immediata riconoscibilità figurativa, e quindi nella  sua tautologia al di qua e al di là del simbolico ( il simbolismo non costituiva per l’autore, allora, uno specifico punto di partenza o di arrivo per le sue comunicazioni). Ed era sufficiente proprio la tautologia perché dietro ogni elemento materiale, dietro ogni comportamento umano si potesse individuare uno spezzone di racconto,  l’ “incipit” di una storia esistenziale. Il pane, dunque, nella sua prima e vera valenza di fatto esistenziale, rappresentata nella ben conosciuta corporeità figurale e capace di dilatarsi e di espandersi oltre la finitezza fisica. Era questo il senso del lavoro di Bruno, allora. E questo senso interpretò, e in modi  pertinenti sviluppò, la mia poesia stampata su un piccolo tagliere di legno che accompagnò la mostra vicentina. Che quella significanza assertiva fosse coscientemente perseguita nel lavoro di Bruno e con precisione trasferita in un titolo da alcuni contestato, risulta ora confermata dalla nuova antologia pittorica dell’artista casertano che Roma conoscerà in anteprima e per la quale proponiamo il titolo “Attorno il pane  (n° 2)”. Anche qui, ancora qui il pane: il pane intorno a noi non come emblema o simbolo, né come bandiera di una carità pelosa di un filantropismo in ghette, di un populismo ovvio, di una ideologia rivendicativa. Il pane intorno a noi è presenza, non dono, né miracolo, anzi è realtà fattuale, è storia, è conquista, è cultura che permea i giorni e le memorie del presente e del passato per chiunque di noi, per la stessa Maria Antonietta prodiga di “brioches” (e il richiamo alla regina di Francia –come si vedrà- non è gratuito né superfluo). Anche qui, ancora qui il pane, divenuto però il fulcro di una ricerca più raffinata, più sottile e penetrante rispetto a quella condotta nei primissimi anni ’80 quando l’artista si costrinse non solo ad un rapporto monotematico (di chiara valenza esistenziale, come si è detto), si costrinse anche all’impatto duro con la grafica: tra l’esercizio del disegno a china o a matita e l’esercizio dell’incisione con lo scavo del bulino e degli acidi. Si, allora Bruno si costrinse a scavare, con mezzi poveri e rudimentali, e a far emergere la cruda dimensione esistenziale: e furono squarci, interni di case contadine ed operaie ben prossime alla sua formazione umana, con testi popolari e borghesi proprio del suo “habitat”. Dopo quindici anni scanditi da esperienze pittoriche molto ricche, il cui punto di fusione più alto è il telero “Ri(s)guardi” presentato a Gubbio nel 1991 e ad Anagni nel 1995, Agato Bruno torna con i nuovi racconti del pane. I fili che l’artista casertano ora mette insieme per dare struttura e forma ai nuovi racconti sono ben più preziosi, vengono da antiche manifatture, da manifatture illustri sulle quali la storia e l’arte hanno impiantato pagine importanti. Fra questi lacerti emblematici che si chiamava e ancora si chiama “Terra di Lavoro” Bruno ritorna sull’abbrivio del riguardare appunto all’indietro, non per passione di archeologo o storico, ma per compito d’artista che vive e intuisce il presente e dai reciproci riverberi delle stagioni presenti e delle passate trae materia per la sua invenzione/comunicazione artistica. In questo scorcio finale di secolo, che coincide con la conclusione di un millennio, pesanti nubi offuscano l’orizzonte dell’umanità: l’incidere lento e inesorabile del deserto, ad esempio, e gli incrementi demografici mondiali, per non dire di altri rovinosi squilibri che minano il vivere e il sopravvivere sulla faccia della terra. E ancora una volta non può non tornare in primo piano il tema del pane, atavico problema di generazioni e generazioni che ora nuovamente Bruno ripropone come fattore esistenziale, come valore esistenziale, ma anche come elemento di una cultura non solo materiale. Se la nostra storia, se la civiltà dell’uomo non possono prescindere da questo sostegno basilare della vita quotidiana, sappiamo anche che una rivoluzione non si fermò innanzi alla provocatoria offerta di “brioches” da parte di una regina. Quella rivoluzione ebbe il passo lungo, superò le Alpi e dilagò fin nella “Campania Felix”dei Borbone: i francesi a Caserta entrarono nel 1806 e condizionarono perfino la manifattura del pane. Alla tradizionale pagnotta rotonda si aggiunse la “pagnotta alla francese” caratterizzata per alcuni tagli superficiali sulla crosta superiore, e al lungo filoncino napoletano si aggiunse “lo sfilatino alla francese” impastato con fiore di farina, bianchissimo e leggero, dalla crosta croccante per i rilievi e i tagli obliqui nella parte superiore: insomma una versione più larga e più corta della baguette, dal peso di circa 500 grammi(cfr. Domenico Ianniello, “il pane francese a Caserta”, in rivista “Frammenti anno 2° -gennaio 1993). L’innovazione riguardò, quindi, non solo la qualità del pane, ma anche i tipi della panificazione locale. Da poco meno di 200 anni il pane a Caserta si fa cosi. Bruno viene a conoscenza di questo fatto storico e  questo piccolo evento rimette in moto il meccanismo dell’immagine, saldamente ancorato a taluni capisaldi: la Reggia Vanvitelliana, S. Angelo in Formis, le “matres matutae”, le sete di San Leucio. Bruno rivede questa testimonianza e quelle pagine dell’arte /Bosch, Bruegel, Piero della Francesca) che soggiogarono la sua sensibilità e le ricontestualizza trasferendo tutto intero il “peso specifico” dello stralcio architettonico o artistico o artigianale. Cioè gli squarci del Palazzo Reale e della Basilica di S. Angelo in Formis, cosi come le misteriose “madri di tufo” sono state estrapolate e riproposte con tutta la loro forte “personalità”, anche nei dettagli, come “campi” non estrinseci, né refrattari al colloquio con altri capisaldi dell’arte italiana ed europea. Non solo, ma il dialogare di Bruno – che va a sussumere spirito e forma della rivoluzione francese, e di questa anche le propaggini che si attestarono nella città voluta da Carlo III di Borbone –fonde storia e arte, vita e cultura in una reinvenzione talora ludica, talora irridente, talora ironica, talora amara. Il pane come elemento non di mera raffigurazione, ma di reinterpretazione svolge appunto un ruolo “maieutico” con la sua elementarità rispetto a riproposizioni e a ipotesi culturali complesse. Se la sostituzione dei fantolini sulle braccia della madre di tufo si pone in chiave di lettura diretta e immediata (la “mater matuta” come dea della fecondità, dell’abbondanza ecc.), ben pi ù sottile la riflessione pittorica sottesa  al lavoro “ipotesi per una pala” nel quale una “Mater”  è sospesa al filo che discende dalla volta vanvitelliana del balcone reale con evidente richiamo alla pala “Sacra conversazione” di Piero della Francesca conservata a Brera. Se nel vestibolo della Reggia casertana può sorprenderci un cappottone appeso ad una colonna, sovrastato da una coppola che sembra piuttosto una pagnotta tonda, mentre da una tasca fuoriesce una “baguette”  (anzi lo sfilatino alla francese), Bruegel calato al sud celebra (v. “la Mietitura” Metropolitan Museum of Art, New York city) nel parco vanvitelliano la mietitura intorno ad una albero: forse un rinato Albero della Libertà. Opera felicissima questa, intitolata “se Bruegel venuto al sud…”, anche perché  nonostante la serrata trama dei richiami storici – culturali – iconografici l’autore si sente appagato da una propria interna libertà. E cosi via, da “Pioggia di fiori, pioggia di pani, a “Camposerico perché il pane ruoti, fino ancora a “Il pane non ha prezzo” e “Arrivano i francesi”, l’ironia (che è odio-amore) di Bruno quanto più appare legata e legarsi a contesti artisticamente “imperiosi” di per se intangibili, tanto più sorprendentemente trova l’appiglio perché nella visione data o ipotizzata compaia – subdola presenza – lo sfilatino alla francese. Superfluo ogni ulteriore  suggerimento di lettura per la singola opera o per l’intero ciclo, tra l’aristocratica “brioche” di Maria Antonietta e il popolare “rivoluzionario” sfilatino. Ancora  una volta Bruno conferma il più autentico interesse per la condizione e il destino dell’uomo, a partire proprio da quel livello esistenziale – il vivere, il sopravvivere – che è del singolo come dell’intero genere umano. I tempi della storia e della civiltà sono stati quasi sempre contrassegnati dalla lotta per la sopravvivenza, ancor prima delle pagine scritte e delle immagini rupestri; e via via  l’assalto al forno di manzoniana memoria. “Pane amaro” di Silone, la sequenza della conquista del pane  in “Roma città aperta” di Rossellini. Storie di ieri, di oggi purtroppo, e purtroppo di domani. Tutto questo è presente e non soltanto sotteso nei lavori bruniani di questa metà degli anni novanta. Il millennio sta per essere doppiato lasciando alle spalle un secolo ben ricco di rivolgimenti ideologici e culturali. Abbiamo assistito alle mutazioni, agli stravolgimenti e agli snaturamenti della pittura e della scultura fino a ritrovarci nuovamente con pennelli e scalpelli, tra calchi e forme. Non è il caso di ripercorrere qui gli stravolgimenti di una storia complessa, che chiede di essere decantata ancora di scorie e di esibizionismi. Avviandoci alla conclusione, basta qui dire che Bruno no è stato mai in realtà un “a-figurativo”. Si, la sua partecipazione al gruppo “ Proposta 66 – Terra di Lavoro”, come altrove abbiamo rilevato, fu laterale; ed i suoi successivi esercizi d’arte non sono mai pervenuti alla dissoluzione della pittura: se or qui, or li “a-figurale”, ma comunque dilatata o aggrumata su tessiture pittoriche, tra bagliori  accecanti e voluttuose profondità, che non hanno mai inteso annullare la forma, laa figura, la cosa. In queste opere recentissime Bruno porta a sintesi la sua accuratezza costruttiva, il suo dipingere terso, i nodi di luce o di buio in impaginazioni che alla frontalità preferiscono i tagli verticali, i punti di vista obliqui. Rispetto alla staticità , alla stabilità, alla monumentalità (in sostanza) l’artista ci induce a ripercorrere visioni trasversali oppure verticalmente strette che ci consentono di andare un po’ oltre gli strati superficiali ed ufficiali, e di comprendere quindi i meccanismi e le logiche (antiche e meno antiche) del predominio e della conservazione del predominio.

Roma, aprile 1996

 

                                                                                                                             Vincenzo Perna




Agato bruno

Un mondo semplice, chiaro e immediato, espresso attraverso un linguaggio artistico che gli appartiene, quello di Agato Bruno, profondamente legato alla sua terra d’origine dove ora ritorna con questa mostra personale di una ventina di opere realizzate recentemente, alcune della quale pensate proprio per questi spazi. Per certo diventa complicata e direi intenzionalmente  da lui stesso non auspicata una precisa e facile etichettatura della sua produzione che, per tali motivazioni, si connota di un’ evidente originalità. Uno spirito libero, fuori dagli schemi e dalle mode, dotato di una ben precisa identità e sentimento ideologico cui ha mantenuto fede nel tempo, aspetto alquanto raro oggi in quanto siamo sempre più adusi a facili quanto rapide virate e cambiamenti di bandiera, cedendo a opportunismi spiccioli, di ogni genere, che vanificano il credo più autentico e solido. Nell’affrontare alcune considerazioni sulle sue opere avverto la necessità di indugiare sull’uomo Agato Bruno che, cosa altrettanto rara, pienamente coincide con l’artista, inteso ancora in senso tradizionale di uomo –artista, attento e curioso studioso, fine operatore culturale, già docente e preside per molti anni nelle scuole  secondarie di istruzione artistica, che ha relativizzato tutto questo suo bagaglio di esperienze motivanti la sua ricerca attraverso una chiara e coerente appartenenza a un senso civico perseguito eticamente. Un’attività che non può non riconoscersi nella più conseguente appartenenza politica, vissuta on discrezione, comunque, pronta a confrontarsi lealmente e con una predisposizione innata rivolta a garantire il giusto rispetto reciproco, pur nel mantenimento delle rispettive posizioni, anche con chi non la pensa allo stesso modo e magari si trova  ideologicamente agli antipodi. Partendo da tali presupposti possiamo iniziare a prendere in considerazione l’odierna produzione collegata da un sottile ma ineluttabile filo rosso che cuce le opere, alcune delle quali, di primo impatto, così diverse per tecnica di realizzazione e apparentemente di soggetto. Nella sempre presente tematica sociale e politica, è, tuttavia, individuabile quale comune denominatore  di confronto, la natura e tutto ciò che da essa di fatto deriva nel bene e nel male in una sua positiva o deleteria o deleteria gestione. Il tipo di approccio e di osservazione primaria rivolta all’elemento naturale,, così come dovrebbe essere per ogni buon artista, lo conduce a fare arte nel pieno coinvolgimento e diretta partecipazione con quanto gli sta e avviene intorno. Dalla grande passione coltivata nei confronti del variegato intrigante mondo dell’incisione, in particolare di matrice nordica, soprattutto espressionista, solitamente dettagliata nei particolari e nelle  avvertito dall’autore dichiarate scelte ideologiche e politiche di denuncia, gli deriva la notevole attenzione rivolta sia agli strumenti di narrazione dei contenuti sia ai valori simbolici e formali nel rimando ai significati analogici dall’autore privilegiati. Così anche nei dipinti, come con parole appuntate su un quaderno che poi diventa libro, Agato Bruno parte da valutazioni espresse in merito a una natura matrigna e resa ancora più caotica dall’intervento interessato, avido e corruttore dell’uomo, utilizzando colori accesi a riempimento di un segno veloce che descrive pesci con bocche spalancate e biforcute terminanti con punte che ricordano tiare vescovili, edifici piacentini ani porticati in bilico e pendenti, giganteschi uccelli incombenti o rapaci sullo sfondo. Tutto sembra ricomporsi nella parte dell’orizzonte retrostante dove predominano tinte uniformi di colorazione oscillanti nelle diverse gradazioni del rosa e dell’azzurro. Dal primo olio si passa ai vellutati pastelli dove si avverte un soffuso richiamo all’astrattismo di Kandinskij, risolto, tuttavia, in un’accezione di maggiore consapevolezza interpretativa per quanto  concerne uno slancio sentimentale avvertito dall’autore a contatto con il paesaggio, espressione di una natura, in questo caso, senza dubbio  rigenerativa. Se nella crescita la natura viene costretta e avvolta da un drappo, essa riesce, tuttavia, a riaffiorare e a farsi strada creandosi un varco, e fuor di metafora, nonostante le ottusità di un potere becero e finalizzato esclusivamente a mantenere e potenziare all’inverosimile i propri esiziali interessi che proprio recentemente hanno portato l’Italia e gli italiani, come esplicitamente ci suggerisce Bruno, “alla frutta”. Da qui si passa ai palazzi rappresentativi del sistema, pubblico e privato si confondono, da Palazzo Chigi  al Grazioli, di triste, seppur recente, memoria, dalla villa di Arcore a quella in Sardegna trasformata per l’occasione, in discarica pubblica della mondezza già a suo tempo accumulata in eccesso nelle strade di Napoli, al Quirinale, sede del Presidente della Repubblica Italiana, ultimo baluardo e freno a una dilagante volgarità diffusa e che ancora si richiama con orgoglio a un’unità nazionale riecheggiata nei festoni e nei drappi tricolori srotolati sulla piazza antistante l’edificio. Questi ultimi lavori rivolti a descrivere la recente triste commedia umana di un berlusconismo imperante ma ora al capolinea, sono realizzati da Bruno cona la tecnica dell’acquerello, una tecnica difficile da padroneggiare ma molto sentita e ben assimilata dall’autore che, in tal senso, ottiene effetti di fattura briosa, raggiungendo risultati freschi e allo stesso tempo caldamente coinvolgenti risolti in un’armonia compositiva sapiente ed efficace, come d’altronde e parimente evidente nelle opere esposte per questa sua coinvolgente e interessante rassegna.

Simi  Saverio de Burgis



Caro Bruno,

 sembra che il mio destino sia sempre quello di sostituire all’ultimo istante le presentazioni, promesse agli amici, con brevi  lettere di augurio, causa pesanti e sempre più onerosi impegni di lavori imposti dal mio ufficio. Una sorta di piccolo “escamotage” non privo, per taluni, forse, del sapore, un po’ amaro d’una piccola presa i n giro, anche se ciò non è stato mai nelle mie intenzioni. Tanto meno per quanto di riguarda.

E’ vero che nel tuo caso avevo tentato disperatamente, anche perché conscio del periodo rappresentato dall’incauto ascolto di certi canti di sirene, ad esempio di quelli provenienti, in maniera così suadente, da talune persone come ad esempio il mio fraterno amico Mario ABIS docente di storia dell’arte all’Accademia di BB.AA. di Venezia, di prendere le dovute distanze e precisare i termini di un impegno in una prospettiva di tempo assai elastica. Poi, sollecitato dell’interesse, assai notevole, che molti dei tuoi disegni, tra l’altro, a mio avviso, destinati a riscontrare la loro definitiva, maggiore e più funzionale conclusione in soluzioni incisorie, ebbero a suscitare nel mio animo, commisi il malaugurato e imperdonabile errore di definire i tempi di questo mio impegno.

Ora la tua mostra non soltanto è definita nelle scadenze, ma ormai bussa alle porte, senza che abbia avuto la facoltà di stendere una sola parola.

Che dirti? Che fare se non , ancora una volta, chiedere scusa e ricorrere al solito “trucco” della formuletta legata alla letterina propiziatoria, non fosse altro che per riempire, in un modo o nell’altro, una parte dello spazio già preventivato e calcolato, per la presentazione, nella impaginazione del catalogo e dirti, ora tuttavia, con maggiore serietà, che gli auguri in questi casi, come nel tuo, ho sempre sentito di doversi esprimere non gratuitamente, ma soltanto a coloro in cui credevo.

Ritengo, infatti, che in questi tuoi fogli, dalla grafia intensamente elaborata e tecnicamente già assai raffinata, attestante, già, del possesso di un mestiere non trascurabile, portato a procedere in profondità, in precisi e costanti, crescenti verifiche, ritengo, ripeto, che in queste pagine vi sia, senza alcun dubbio, la testimonianza di un non comune impegno umano . Un impegno teso, in una, ci sembra, coraggiosa e chiara consapevolezza di scelte ineluttabili e necessarie, nella prospettiva di uno sforzo doloroso e drammatico di redenzione e di riscatto, di liberazione delle genti da condizioni millenarie sottomissioni, di rinunce, di paure e di angosce lontane, di pregiudizi, qui tradotti nella forte suggestione di cupe allucinazioni di una atmosfera che sembra chiaramente richiamarsi alla visione di un BOSCH.

Quell’impegno che, particolarmente in momenti come questi  di così sconvolgente travaglio di una nostra società in crisi, e nella misura del potenziale di fiducia dell’uomo in esso implicito, non può non suscitare profondo interesse e commossa tensione in quanti ancora fermamente credono nel possibile recupero dell’individuo avvertito nello spazio e nelle dimensioni di una sua reale autonomia e di una sua nuova, autentica dignità. Certo si tratta di una strada dura e di scelte che, come sempre si dovrà e dovrai pagare caramente.

La coerenza e il coraggio, ne sono convinto, tuttavia, non ti mancano e altrettanto convinto sono che, pur attraverso anche errori inevitabili e difficoltà, saprai garantire alla tua ricerca il costante punto focale di riferimento e di certezza nella verifica, rappresentato dall’uomo. Quell’uomo che oggi, non scordiamolo, è considerato il vero autentico e reale nemico di quella civiltà dei consumi, non disposta ad ammettere e ad acconsentire autonomie e libertà decisionali di sorta, in cui si identificano tragicamente i termini sempre più esasperati, e senza vie d’uscita, della crisi insanabile della società borghese.

Quindi, ancora una volta, auguri vivissimi pregandoti di perdonare il carattere maldestro, forse anche sgrammaticato e scorretto, di queste mie brevi e affrettate, ma sincere parole.

 

 

                                                                                                                                              Giorgio Trentin

 

Venezia, 23 marzo 1979    

L'arciprete Casuccio ne Le Parrocchie di Ragalpetra di Leonardo Sciascia

L'arciprete Giovanni Casuccio non fu molto antipatico a Leonardo Sciascia. Lo scrittore intimamente anticlericale finisce col vedere quasi in positivo questo prete alto di statura magari per il gusto di stare in contrapposizione alla locale comunità ecclesiale che nutriva ripulsa verso codesto pastore di anime.
E cos' il primo prete con cui ci si imbatte leggendo le Parrocchie di Regalpetra è proprio lui. Tradizionale festa quella del Monte a Racalmuto, nel Santuario posto in alto vi si accede con una scalinata erta e piena di scalini sia pure a larga spianata. I muli con le provvisioni (un tempo quasi in esclusiva, ma ora soppiantati da fieri cavalli bardati) vi salgono veloci sospinti da grida e qualche frustata dai padroni. Un tempo, fino a qualche anno prima della pubblicazione delle Parrocchie, le bestie entravano per il gran portone, il tempo per depositare i sacchi di frumento delle "prummisioni" e quindi l'uscita per la porta fanza. Ma a metà degli anni '50 vi fu un divieto episcopale per l'entrata in chiesa degli animali. Apriti cielo, quasi una rivolta popolare. Vi si aggancia Sciascia per raccontare che " alla comunicazione del divieto furore di rivolta agitò i regalpetresi. Incerti, .... gli offerenti non sapevano che fare; ma gli spettatori sciolsero ogni dubbio - niente muli in chiesa, niente frumento." Noi invero la storiella la sappiamo un po' diversa. La minaccia vi fu ma venne subito concordato un compromesso: il frumento venne lasciato sul portone e i muli poterono ritornare indietro girando l'angolo della chiesa.
Sciascia mette sale su quella pustola e soggiunge: "manco a dirlo, la colpa del divieto fu attribuita all'arciprete ... perché il popolo ritiene che a far dispetto al paese, in materia di fede o di politica l'arciprete ci gongola". Anche qui dissentiamo: a me dissero che il divieto episcopale l'aveva sollecitato il nuovo rettore del Monte, l'arcigno padre Farrauto che comunque riscuoteva profondo rispetto presso i fedeli, specie al Carmelo ove era stato parroco. E fu proprio per questo che il popolo racalmutese, edotto delle ragioni del provvedimento, e per la stima riscossa da padre Farrauto, subito si conformò al decreto episcopale e lasciò solo borbottare i soliti tradizionalisti, tanto ciarlieri quanto negletti.
Sapido comunque Sciascia che così continua nel dileggio-difesa dell'arciprete Casuccio: "qualunque cosa crederebbero i regalpetresi  dell'arciprete, che tiene un harem o che mangia a bagnasale i lattanti, qualunque atroce cosa." Ma anche qui qualche piccola distorsione della realtà dei fatti. Certo l'arciprete Casuccio, pur così austero, quasi sosia di Pio XII, amato non era. E quanto a cose di sesso, a Racalmuto per ogni prete c'è un'aureola denigratrice. Ironici i più colti dicono che le donne sono attirate dalle tonache in cerca dell'uccel di Dio. L'arciprete Casuccio era un  bell'uomo e certo un tiaso di orsoline e qualche matrona d'alto bordo lo adoravano. Ma noi sappiamo, il tutto nei rigorosi limiti di quel che si chiama amore platonico. Forse nella primissima gioventù, l'arciprete Casuccio qualche peccato di prolifica lussuria ebbe a commetterlo. Così affermava un mio cugino contadinotto, che puntigliosamente annotava nel libro non scritto delle sue memorie illegittimi figli di preti nostrani.  Non gli abbiamo mai creduto.
Dicevamo che a Sciascia, Casuccio in un certo qual senso andava a genio; ecco un passo rivelatore: " e l'arciprete sa di portare cappa di martirio; ha avuto la vigna stroncata, i buoi rubati, lettere minatorie gli arrivano ed insulti; come i santi vengono raffigurati con gli elementi del martirio, l'arciprete di Regalpetra può entrare in una pala d'altare con in mano una lettera anonima."
Sciascia  ha penna fina, lascia il pettegolezzo e passa ad acute note rievocative: " l'arciprete di Regalpetra, cameriere segreto di Sua Santità e dunque monsignore, è un uomo piccolo e scuro [invero, il contrario: alto, persino di tratto aristocratico] le mani sempre congiunte a groppo sul petto, la testa alta come di chi si alza sulla punta dei piedi per guardare al di là delle cose che gli stanno davanti; buon suonatore di organo [non l'abbiamo mai visto strimpellare sull'harmonium che invece suonava la fedelissima donna Marietta] e buon parlatore [noiosissimo quanto incomprensibilmente lungo]; non ipocrita come lo giudicano, ché tutto quello che in lui si trova di sgradevole appunto nasce dalla sua incapacità di mistificazione.
Qualche volta ci incontriamo, e io metto a dura prova la pazienza di monsignore facendo cadere il discorso sulla Spagna, dove loro stanno benissimo, e su Peròn; monsignore si rifà parlandomi di Dio e consigliandomi edificanti letture, forse per la salvezza della mia anima prega, il pensiero che più appassionatamente pregherebbe se ci fosse modo di farmi arrostire su un bel fuoco di legna secca, mi dà un senso di sicurezza di tranquillità; con uno di questi preti nuovi comincio a sentirmi inquieto".

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mercoledì 3 luglio 2013

I miei contropenseri su Accursio Vinti, pittore astratto.

Carissimo Accursio, ti prego di apporre i tuoi titoli sintetici alle condivisioni che sto facendo dei tuoi quadri. In modo particolare mi servirebbero i tuoi due dipinti su Racalmuto e su Avignone. Mi occorrono per i miei riferimenti storici. Da Avignone veniva l'arcidiacono per tosarci a noi racalmutesi fiscalmente nel 14° secolo d'accordo con il domicellus Chiaramonte. L'uno per toglierci la scomunica per il gravissimo peccato dei Vespri siciliani di cui i nostri antenati nulla avevano saputo: l'altro perché convinti che la mala epitimia che falciava le vite dei suoi coloni fosse dovuta alla vendetta divina per quel lontano esproprio ai francesi del feudo siciliano. Il Du Mazel aveva contato tutte le case di Racalmuto, le aveva trovate malconce (copertae palearum) non aveva trovato nessun CASTRUM. Ma non aveva avuto pietà. Tutti dovevano corrispondere l'obolo salvifico: tre tarì gli abbienti, due tarì la classe media; un tarì i poveri. Esenti e...brei, puttane de preti.
Ma ni si fece un censimento e non si applico l'imposta clericale secondo la vera rispondenza economica< racalmutese. Si andò a muzzu (come adesso, perché così apita quando a reggerci o a tassarci sono estranei vuoi avignonesi allora, vuoi rom ani, adesso). Un terzo per definizione erano ricchi, un terzo, mediani e un terzo poveri. Ad anticipare il tutto i sindaci e gli amministratori di allora. Bravi se poi riuscivano e recuperare. Non ho elementi per precisarlo. Ma pare che ora ci siano microstorici locali molto più talentuosi di me e quindi avremo da loro tra breve svelato l'arcano.
E l'artista, che astrato o iperrealista che sia, sempre ispirato dagli dei è magari in empiti di follia, cosa dice? Ecco il perché della mia strana postulazione. Grazie Accursio.,
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  • Lettera inevasa di diversi anni fa

    Carissimo presidente Baiamonte

    Ti invio una bozza del bando di concorso di pittura di cui ti ho parlato ieri.

    Ne ho già scritto a Guagliano e spero concordi.

    Che fare? Iniziamo con un manifesto sulla base della bozza che ti allego, la quale ovviamente potrà venire integrata con i suggerimenti che riterrai opportuni. La stesura definitiva del bando dovrebbe essere divulgata con i tanti blog e con ogni altro strumento mediatico.

    A chi l’ho prospettata, l’iniziativa è apparsa degna ed alquanto originale. Doveva lanciarla il Circolo Unione, ma un mio attuale dissidio mi spinge a levargliela.

    Affettuosità e auguri.



    Dottor Calogero Taverna


     

     

     

     
    Bando
    per un concorso di pittura


    in onore di Leonardo Sciascia
    Il Castello Chiaramontano di Racalmuto nella persona del suo direttore artistico Piero Baiamonte e la Pro Loco di Racalmuto nella persona del suo presidente Giuseppe Guagliano, indicono un concorso di pittura, possibilmente cromatica, per onorare Leonardo Sciascia e la sua opera giovanile, ispirata dalla Racalmuto degli anni ’50.

    L’opera prescelta è la raccolta di favole mordacemente localistiche quali sono le FAVOLE DELLA DITTATURA che possono gustarsi nell’originaria edizione numerata di Bardi (Roma 1950) oppure nella troppo compressa riedizione postuma del terzo volume edito da Bompiani o nei recenti tipi di Adelphi.

    L’artista interessato potrà far pervenire entro il 31 dicembre 2012 una sua rivisitazione di una o due favole sciasciane in piena ed assoluta libertà di espressione ed a qualunque scuola pittorica si voglia ispirare. Ma verrà preferita la lettura più consona alle opzioni estetiche dello Sciascia di quell’epoca, quali si evincono dal profilo di Santo Marino, pubblicato da Sciascia per Salvatore Sciascia (il n. 60 dei quaderni di Galleria edito nel 1963).

    A titolo orientativo si richiamano qui alcuni brani: "Il libro illustrato può anche essere bellissimo oggetto, spesso lo è … " Dicendo questo non intendo dare giudizio di merito". Ma occorre "…. Oltre che buon talento, una certa finezza di soluzioni, come ad esempio nel figurare … le similitudini" sciasciane.

    E noi pensiamo a quel "questa volta non ho tempo da perdere" del lupo per il "balzo" sopra l’agnello per "lacerarlo"; alle scimmie predicatrici dell’ordine nuovo; alla gabbia del canarino il cui canto addolcisce - si fa per dire - la vecchia noia del predace gatto gabbato: alla "lumaca [nel] mastello d’acqua rovesciato tra le pietre", durante l’ingannevole "notte diaccia", e via discorrendo.

    Con ciò bando al calligrafismo figurativo; vanno invece colti gli umori, gli spasimi del gramo vivere, le rabbie per premature dipartite di persone carissime, i ghigni ed i sogghigni della coeva Racalmuto sussunta a Regalpetra parrocchiale, pullulante di pretini come allora li faceva sfilare il pennello scarno di Caffè.

    A noi pare che quei succhi gastrici sciasciani, estetiche d’avanguardia saprebbero meglio coglierli. Ma anche noi cadiamo solo con in un "nostro pregiudizio". Libertà assoluta d’espressione, dunque: soltanto una lettura intelligente mentre si va dipingendo per tormenti pittorici magari chiari, magari aperti, magari immediati; eppure con un "segreto, come del resto l’opera di ogni artista vero, che tanto più anzi è segreta, esclusiva, come nell’intimità e continuità di un colloquio, quanto più appare aperta ed immediata."

    Ognuno legga quelle auree paginette di "galleria" e poi dipinga come vuole, con lo stile che ha prescelto, con il limite se ha una scuola che lo disciplina.

    Gli artisti dovranno segnare in cartigli di proprio gusto l’indicazione della favola prescelta con il solo numero della pagina dell’edizione Bardi 1950, astenendosi da citazioni più lunghe per non scalfire i diritti d’autore di cui a recenti vicende giudiziarie.

    Una commissione di cui faranno parte Agato Bruno di Vicenza, Patrizia di Poce di Roma, uno scultore o un cattedratico di Racalmuto, un membro della famiglia Sciascia (si spera), ed autorevoli personalità della cultura, indipendenti e disinteressate, stabilirà la scala dei valori assegnando al più ragguardevole degli artisti partecipanti un riconoscimento simbolico di non più di mille euro, non ripartibili.

    Gli artisti ritenuti rappresentativi vedranno esposti i loro lavori in una apposita mostra che verrà allestita nei prestigiosi locali del medievale Castello Chiaramontano. Gli Enti organizzatori potranno ricavarne immagini fotografiche per una pubblicazione con i profili degli artisti e con le note critiche di scrittori e giornalisti legati a Racalmuto ed a Sciascia. I quadri resteranno comunque di proprietà degli autori che ne disporranno in piena libertà (dopo il periodo della mostra), ricadendo ovviamente su di loro ogni rischio patrimoniale o peso assicurativo, se voluto.






    La Racalmuto genuina nei libri di morte della Matrice (inzizio dell'indizione 1694-agosto 1695).

    • Secondo Baiamonte io possederei un archivio meramente fantomatico; insomma avrei un bel nulla. Oggi ho voglia di dimostrare il contrario. Mi si dice che per la quarta o quinta volta si stia mettendo mano (competente?) nell'archivio parrocchiale della Matrice. Questo è un archivio cui ho dedicato quasi un quarantennio di mie personali e non condivise ricerche. Trascrivo qui un piccolo stralcio dell'esodo di questa terra dei racalmutesi nel primo trimestre della annata agricola settembre 1694-agosto 1695. Riporto: data cognome nome paternità o parentela maternità età chiesa della sepoltura sacerdote officiante il rito funebre e le eventuali note che si rinvengono in quei preziosissimi registri che dopo secoli di conservazione da parte di diligentissimi sacerdoti archivisti non vadano dispersi per l'imprevidenza dei novelli custodi in abito talare.

      MORTI 1694 1707


      N.RO DATA NOME PATERNITA' O PARENTELA MATERNITA COGNOME TITOLO ETA' MESI GIORNI CHIESA SEPOLTURA SACERDOTE NOTE


      1 14.09.1694 GIOVANNA ANTONINO NICOLA GUELI 14 MATRICE
      2 18.09.1694 MARCO CALOGERO POTENZIANA RIZZO 7 MATRICE
      3 19.09.1694 MARIA GIUSEPPE FILIPPA LO BRUTTO 7 MONTE
      4 19.09.1694 ANNA MARIA PAOLINO SANTA NICASTRO di 3 CONGREGAZIONE TAU
      5 05.10.1694 IGNAZIO GIOACCHINO LEONORA PILATO 19 MATRICE
      6 05.10.1695 ANTONIA UXOR MATTHEI OLIVERI 70 TAU CONGREGAZIONE CASTROGIOVANNI VINCENZO 
    •  

    •  7 09.10.1694 ELISABETTA UXOR Q. LUCIANI FARRAUTO A. LA CITIZA 60 MONTE CASTROGIOVANNI VINCENZO
      8 10.10.1694 LEONORA UXOR Q.GERLANDI MESSINA 60 MATRICE CASTROGIOVANNI VINCENZO
      9 10.10.1694 GIUSEPPE BARTOLO ROSALIA TROISI 24 MONTE ACQUISTA SANTO
      10 12.10.1694 VINCENZA ANTONINI Q. GERLANDA CAPIZZI TEZIARIA S. DOMENICO 45 S. MARIA IMPROVVISA MORTE
      11 14.10.1694 SANTA VINCENZO ANNA LA LATTUCA 18 S. FRANCESCO SFERRAZZA SALVATORE CAPPELLANO GRATIS PRO DEO
      12 15.10.1694 ANGELA NICOLO' CATERINA TROISI 4 S. MICHELE ARCANGELO
      13 23.10.1694 ANNA MARIA GIUSEPPE MARIA CURTO 1 MATRICE
      14 24.10.1694 RAIMONDO NATALE CATERINA CALAMERA 5 MATRICE
      15 28.10.1694 ONOFRIA NICOLO' GERLANDA MARTURANA CIUCIA 1 S. GIULIANO
      16 30.10.1694 ANNA MARIA GIROLAMO GAETANA CASTROGIOVANNI MASTRO 4 TAU CONGR.
      17 2.11.1694 FRANCESCA UXOR Q. VINCENTII BARBERI A. SURCILLO 64 MATRICE CASTROGIOVANNE VINCENZO CAPPELLANO
      18 2.11.1694 ISIDORA CRISTOFORO MARIA CASTRONOVO 2 MATRICE
      19 11.11.1694 VINCENZO FILIPPO MARIA BURZELLINO VUSCALAVITA 3 MONTE
      20 19.11.1694 ANTONINA UXOR Q. SIMONIS FALLETTA CARAVASSO 62 MATRICE CASTROGIOVANNE VINCENZO CAPPELLANO
      21 24.11.1694 ANNA VINCENZO GIOVANNA COLLURA 3 MONTE
      22 3.11.1694 GIOVANNA UXOR Q. MARIANI MULE' A. LO MONACO 65 MATRICE CASTROGIOVANNE VINCENZO CAPPELLANO GRATIS PRO DEO
      23 7.12.1694 NICOLO' CARLO VINCENZA MULE' FRACANZILLO 1 MONTE
      24 8.12.1694 VINCENZO Q. IACOBI VIR SANCTE MULE' 73 MONTE CASTROGIOVANNE VINCENZO CAPPELLANO
      25 17.12.1694 ELISABETTA DOMENICO FILIPPA SANCALOGIARO LAURICELLA 16 MATRICE CASTROGIOVANNE VINCENZO CAPPELLANO
      26 18.12.1694 LUCIA ANTONIA GASPARE ANNA DILIBERTO 4 S.ANNA DENOMINATA TAU
      27 20.12.1694 ANGELA GAETANO DIEGA GULPI 4 S. GIULIANO
      28 22.12.1694 LIBERTINO VIR JOSEPHE VELLA MAGISTER 70 MONTE SFERRAZZA SALVATORE CAPP.
      29 24.12.1694 SIMON VITO GIUSEPPE MARGHERITA VITILLARO 2 MONTE