sabato 27 ottobre 2012

Ecclesia Corciniana


  Canicattì

  

Canicattì

Eccola di fronte, aggrovigliata, da cima in fondo, inestricabile, disumanamente aggressiva, umanissima, recondita, ammaliante, repulsiva, bella, amabile, con i suoi inestricabili precordi atavici, preistorica nella sua grandezza, flessa nei tempi di mezzo, imperiosa dopo il tracollo narese dei secoli dei lumi, risplendente sotto i Borboni, esplosiva con i Savoia, egemone nei tempi dell’eldorado solfifero, ferroviaria, traviata dall’abigeato dei primi decenni del XX secolo, ironica e sardonica ma prospera sotto il regime nero, dominatrice con Guarino Amella, espansa nelle connivenze col regime bianco, città dell’uva Italia  regressiva per la conquista bancaria del Centro Italia, cedevole alle mire del Monte dei Paschi di  Siena , della banca Popolare di Lodi,  all’irruzione di paoline banche del Nord, alle banche nuove dei vignaioli vicentini. Frattanto le banche locali decrescono e si concedono forse per i figli prodighi dei parsimoniosi padri genuinamente canicattìnesi, nobili, estrosi, sardonici, fuori dal tempo.
Vescovi coltissimi, infusori della antica lingua greca nel seminario maggiore agrigentino tornano per un mistero che l’archivio segreto vaticano ancora non rende palese e mal si adattano alle cure delle anime nella grande chiesa madre. Là geni arcipretali, longevissimi sanno essere egemoni, inossidabili, imperiosi, irriducibili. Qualche giudice quasi ragazzino viene assassinato sulla scorrimento veloce del male, della devianza mafiosa.

Grande Canicattì




Ma lasciamo la parola allo storico  non indigeno che Canicattì l’ama forse più di noi per averla indagata negli archivi inaccessibili vaticani, in quelli impervi dell’EUR, tra le scartoffie della curia arcivescovile di casa nostra.
Storico non indigeno: Canicattì domina un “hinterland” tutto peculiare, un entroterra tra Agrigento e Caltanissetta, tra Licata e Cammarata e dopo avere assordito il decomporsi della civitas narense soggioga e monopolizza risorse, commercio, professioni di Montedoro, Sutera, Campofranco, Bompensiero, Milena, Racalmuto, Grotte, Castrofilippo, Naro, Sommatino, Delia, Serradifalco (in parte), propaggini di Campobello di Campobello di Licata, Ravanusa e Favara. Trattasi di una landa geologicamente ben specifica e soprattutto di un territorio ove ebbe a prosperare la civiltà sicana.
Canicattl ne era allora l’epicentro egemone, la capitale insomma per dirla in termini moderni; Canicattì dopo il miracolo economico degli anni’60 e la bolla speculativa legata allo sfruttamento dell’uva Italia degli anni 80-90 e primo quinquennio del duemila, ora ha segni di cedenza che si spera vengano presto superati e si torni ai tempi aurei dell’economia agricola e del commercio aperto all’estero.


venerdì 26 ottobre 2012

Historia brevis racalmuthensins - Racalmuto e la mafia





Racalmuto e la mafia

L’eloquio di don Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava. Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese:  «La piazza era silenziosa nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo  [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un cornuto … » .
Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960 linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.

Ma don Mariano, se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica.  («Diventa filosofo, a volte, pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima  il discorso diventa grifagno, acido, senza indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni  pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.

Se crediamo a Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in  Piazza Castello, tentando di vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione  - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamente, anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.

Se ci si domanda com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo, la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella, il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?

Piluccando da “il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo],i suoi materiali, nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla Si capisce che ci sono i testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quel Sciascia lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on. Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.

Per Sciascia il fenomeno della mafia è inestirpabile. Se  Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a lungo.
Sciascia: Allora la mafia era la mafia.
Porzio: Era una mafia per bene?
Sciascia: Per bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.


Sulla mafia durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella dissertazione. Dicevamo.

Divagazioni su due temi: Il vescovo omofobo e il bardassu trucidato a Porta di ponte; Il caso Sole, l’ergastolano ostativo divenuto filosofo.


Nella mia decrepita età mi succede anche di chattare con giovani donne non per tentare senescenti colloqui di un certo tipo (Dio me ne scansi e liberi) ma fornire spunti storici, archeologici, letterari. L’ho detto altre volte e qui lo ripeto, per mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo. Le giovani di Sicilia in una cosa continuano a rassomigliare a quelle dei lontanissimi tempi della mia gioventù: una riottosissima riservatezza. Mi hanno fatto promettere che non dovrò in alcun modo divulgare i loro messaggi (peraltro innocentissimi e di buona cultura).
In uno di questi che si dicono colloqui virtuali (non so cosa abbiano di virtuoso) ho affrontato due temi che mi stanno a cuore: l’omofobia della Chiesa Agrigentina del ‘500 ed il caso Sole, l’ergastolano ostativo, filosofo e letterato raffinatissimo. Cassando ogni riferimento alla interlocutrice, rendo qui pubblico ciò che mi appartiene: omertosissimo nelle sue cose, per le mie non credo che sia tenuto al totale riserbo. Taccio ciò che è suo, e divulgo ciò che è mio.
In Vaticano trovo gli atti processuali scabrosissimi di una sporca vicenda omofoba dell’agrigentino. Ne invio alcune fotocopie a chi so io. Gentilmente mi chiede:
- cosa sono quei documenti che mi ha mandato via e-mail? pomeriggio guarderò con attenzione, ne ho aperto uno a caso e ho trovato espressioni non proprio auliche.-
Nel mettere tartufescamente le mani avanti con questo avviso:
'ho detto che non sono per educande.  Sono documenti del Vaticano mandati da un vescovo di Agrigento! Se poi sghignazzavo col prete Acquisto e col contorno delle sue signorine, una qualche ragione ce l'avevo. Non sono io il depravato.
quindi abbandono i convenevoli per precisare:
La vicenda è scabrosa, scabrosissima. Agrigento usciva dal vescovo Haedo, un pezzo da novanta del Santo Ufficio. Si era a ridosso del Concilio di Trento. Quella che si chiamava controriforma, ora più pertinentemente viene considerata dalla più autorevole corrente di pensiero come riforma cattolica. Il re di Spagna piazzava comunque qui ad Agrigento un suo famiglio il vescovo spagnolo Horozco y Cuvarruvias. Pingue, incolto, plagiario, tombarolo anzi tempo, ed altre piacevolezze (pare comunque casto per eccesso di adipe addominale) soprattutto era dedito ai peccati della gola. Peccati che ad esempio consumava nei conventi femminili di Sciacca mentre i suoi palafrenieri riuscivano ad entrare tra le mura della clausura. Fioccavano le lettere anonime e meno anonime che ne richiedevano la rimozione al papa per indegnità. Il fascicolo è in proposito divertente. Vi è uno spaccato della Agrigento del cinquecento.
Fra tanti ribollimenti, scoppia lo scandalo del canonico Babilonia di Cammarata. Omofilo e pedofilo si aggregava la sera con equivoca combriccola a Porta di Ponte. Sceglieva il suo bardasso e andava negli anfratti dell’Agrigento sotterranea per peccati dicevano loro di nefando. Come lo sappiamo? Vi fu un bel processo: un prete notaio Di Marco (se non sbaglio) trascrive “fedelmente” le testimonianze. Il tutto viene raccolto e irritualmente finisce in Vaticano, ove l’ho rinvenuto. Non credo che nessun altro ne sappia qualcosa. A dire il vero ne scrissi pudicamente a padre De Gregorio: non mi risulta che ne abbia mai dato corso.
Emerge dalle testimonianze che il giovine succube della lascivia del canonico fu impietosamente giustiziato in pubblica piazza. Dovette essere un gran bello spettacolo come quello che vi fu a Piazza del Popolo nella Roma di fine potere temporale. 
Ma nessun segno di pietà si coglie nelle carte.
Sono carte di difficile lettura (ma non impossibile). Io ne ho fatto una veloce trascrizione. 
Il tutto però giace nel mio archivio personale, non  credo per molto. Certo non è la paura di andare all’inferno, solo la previsione di quel che succederà dopo (come si dice) la mia dipartita.

Invero c’era stata un’ interlocuzione:

- caspita! ci sono tutti gli elementi per un romanzo! ma io prima le chiedevo info sulla storia di Sole, cosa la intenerisce? cosa scuote i suoi sentimenti? Lei crede che tutti a questo mondo abbiano diritto di un riscatto? - 

La storia di Sole ha tre tempi. Primo tempo: gli avvenimenti feroci, disumani imperdonabili d'esordio sono quelli narrati da Gaetano Savatteri in I RAGAZZI DI REGALPETRA: per taluni aspetti ho cognizioni diverse appena appena abbozzati nel mio RACALMUTO NEI MILLENNI, pag. 198 e ss. La mia razionalità mi porta ad invocare uno cento mille ergastoli. La pena di morte sarebbe insufficiente; accetto la volontà del legislatore dell'ergastolo, anche in carcere duro (art. 41 bis) e poi se del caso ostativo. Alfredo consuma i suoi orrendi crimini quando ha appena 21 anni. Secondo tempo: l'antimafia reagisce, diviene efficiente, a ventitre anni Sole viene incarcerato. Ha già un figlio (che sarà l'ulteriore vittima del tutto innocente). E' un duro, non parla "non collabora", persino insolente si crede un giustiziere: ha la sconfinata ammirazione di quelli suoi simili dannati alle più inflessibili carcerazioni. E' pressoché un analfabeta. Gli infliggono due ergastoli ma di quelli duri. Lo relegano in una cella per 22 ore al giorno. Per non fargli vedere il figlio lo rinchiudono in carceri lontanissimi, in modo che sia difficoltoso raggiungerlo. Le visite settimanali accordategli così si vanificano. Frattanto gli giustiziano quelli della cosca contraria, egemone, il padre, un fratello, altri della famiglia. Sole ora è davvero un capo, antagonista ma capo. Per le regole di quello strano ordinamento alla Santi Romano dovrebbe e potrebbe imporre le faide omicide. Ma qui comincia il cambiamento di Alfredo. Ferma le faide. Ma resta omertoso. Se parla coinvolge parenti o amici e lui ha quello strano senso dell'onore perché è (e si sente) uomo d'onore. Per qualche beneficio non sacrificherà mai il suo sangue, non tradirà, non può tradire: tacere e penare è la sua nuova cifra etica, il suo intimo orgoglio. Non collabora ed allora la giustizia si accanisce contro di lui, diviene disumana, barbara, inflessibilmente dura. I dettami costituzionali della redenzione del reo si attenuano nel trattamento verso questo membro deleterio del consorzio civile. Del resto sembra non dare segni di "resipiscenza". Terzo Tempo: inizia a leggere. Dostoevskij , libri ardui, studia, prima è solo un modo di passare il tempo, poi arriva il tempo della riflessione, del dubbio, delle inquietudini dello spirito. Si ingolfa nello studio della filosofia greca. Fa esami esterni per un diploma, e poi una laurea; non studia legge come un suo compagno di ergastolo, siciliano pure lui ed oggi ergastolano ostativo non pentito, battagliero, estroso, avvincente che attira su di sé persino la simpatia di Veronesi. Quello di Sole ha un taglio umanista. Uno dei primi miei contrappunti con lui ebbe a snodarsi su una mia confusione tra la parresia di San Paolo e la parusia dei tragediografi sommi della Grecia classica. Legge testi di filosofia. Se deve divagare con me sull'Antigone di Sofocle, mi cita passi e giudizi del Cacciari  filosofo. Intanto scrive e poi scrive: affina penna, pensiero, idee, snodo narrativo. Amici miei raffinatissimi critici riconoscono in lui un grandissimo talento letterario. Savatteri riporta nel suo libro una pagina di grande fascino calligrafico. Tiene una sorta di rubrica informatica. Ragazzine, giovani donne, belle anime femminili se ne invaghiscono. E Alfredo nelle sue risposte è garbato, suadente, consolatore. Ovvio che un cuore arido come il mio ha interni empiti ironici. Ma io ho avuto tardi tra le mani il libro di Savatteri: mi irrita; v'è una denigrazione sia pure inconsapevole del mio paese, del paese dei miei avi, di una stirpe come tante altre racalmutesi intemerata, ligia alle leggi, lontanissima da tutte ste escrescenze che si dicono mafiose e sono bubboni delinquenziali che investono piccole ed insignificanti frange del vivere civile di questa terra, forgiata dall'attaccamento a valori umani "come erba abbarbicata alla roccia" avrebbe soggiunto Sciascia.


Historia brevis racalmuthensis - Introduzione _ L’erba e le rocce racalmutesi.




Introduzione. L’erba e le rocce racalmutesi.


Questa storia di Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi riscritta e quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato tra le carte segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi come una folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che credevo decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono risvegliate come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati con supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
Mi accingo a divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò); si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi.   Non contraddittoriamente, ma con la solita arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da libri e manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria.»
 Già con le Parrocchie di Regalpetra, e poi con  La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e là, con il Mare colore del vino, e soprattutto con Occhio di Capra ed infine, per tacer d’altro, con Fuoco all’Anima, il nostro Compaesano munse quei succhi gastrici della memoria racalmutese.  Avvinto da Américo Castro, dalla sua storiografia,  per Sciascia Racalmuto “emerge [solo] nella prima metà del XVII secolo a una vita ‘narrabile’, da ‘descrivibile’ che appena e soltanto era.» Di solito, tutto si racchiude in una vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma dimessamente “abbarbicata al dolore ed alla fame come erbe alle rocce”. In quella visione desolata, il vivere locale fu «per secoli vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di Catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava» 
E con empiti ancora più disperati il Genio racalmutese sillabò che il senso di quella vita era una lontananza “dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Una Racalmuto né libera né giusta; una Racalmuto nel grembo della follia, dunque. Altro che paese della ragione; sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far credere che Sciascia credesse in una Regalpetra dimora di chissà quale dea loica.

Né ammaliati da sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati da voglie campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese del sale e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli sprazzi di inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di smentita) è ricca Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le propensioni al crimine, al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura, agli illeciti arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a trasformare quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché ciò si addice ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una un po’ dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi (per non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno di eroi.

Sciascia, per dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa di storico’: celiando con la ‘tentazione alla visionarietà’  dello storico locale Tinebra Martorana (dopo averlo accreditato quale autore di una buona storia del paese) un po’ si assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del piacere di riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra». E ci pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che ancora nel 1985 il preteso documento lo sussume al rango di fonte storica quando, nel presentare una mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era «antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui a sottilizzare sulle licenze poetiche d’indole geologica, visto che di zolfo nell’altipiano vero e proprio non ce n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in epoca del primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante rampogne andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche propinate dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde – e delle varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi, improvvisatisi arabisti.
Purtroppo noi siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose dicerie.
Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana, speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata elencazione.


Sfogliamo un bel libro: Manuel Vázquez Montalbán, Lo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il Vázquez  traduce alcuni passaggi di un volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che dopo la guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne chiamato a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da un arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose. 
Quanto al contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante – se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non andiamo errati.

Sciascia e la mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto; Sciascia e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti; Sciascia che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui ricava qualche bottiglia di vino e poche damigiane di olio, in proprio, a guisa di fluidi vitali che lo legano alla patria genetica»; sono noticine del libro, deliziose ma molto incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo tanto a che ridire.

Nell’agosto del 1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco all’anima. Soggiunge di essere stato proprio lui ad “impegnarsi nella revisione definitiva del testo”. Non mancò peraltro di «ringraziare la signora Maria, moglie di Leonardo Sciascia, per il suo interessamento a questo lavoro e per i preziosi consigli e chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché poi quel libro – edito da Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non più ripubblicato, magari con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in veste di semplice intervistato, resta un dilemma.
 Il libro è quanto di più bello, semplice, melanconico possa attribuirsi a Sciascia.
 Racalmuto ne possiede due copie: una sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo Unione.

Da lì traiamo spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto estremo dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al grande Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico che qui scrive.


giovedì 25 ottobre 2012

Messaggio per Angelo De Mattia


Carissimo Angelo,
faccio seguito all’incontro di oggi. Francamente non avrei dubbi sul fatto che una speculazione valutaria    dell’ordine  di
$ 3.659.511.933; DM: 2.905.097.000; Lgs. 10.000.000; Frb. 175.000.000
di acquisti a termine
contro
$    4.036,975,594; DM. 1.153.650.000;  Lgs.    25.000.000
di vendite a termine, (cfr. pagg. 46-47 del mio rapporto sulla Banca Privata Finanziaria)
finiva col determinare alle scadenze un tale sconquasso valutario e borsistico che non poteva non venire registrato dalla Banca d’Italia e dell’UIC. Infatti, le Autorità sapevano. Tacevano? No. Non potevano che essere gli artefici occulti di ciò che ritengo una contro speculazione del concerto delle Banche Centrali (Unione Sovietica in testa). Ma ciò sarebbe acqua passata se la storia non si ripetesse. Allora le Autorità riuscirono a fare apparire il tutto come una insana diavoleria mafiosa del Sindona. Non era un santo. Se fu suicidato, pace all’anima sua.
Quel che mi interessa è l’attualità. Allora di questa immane speculazione valutaria la magistratura non capì o non le fu fatto capire alcunché. Non vi è un accenno nelle sentenze delle varie condanne. Eppure avevano (tra l’altro) il mio rapporto ispettivo. Eppure potevano leggere il libro (da me ispirato) Soldi truccati, ove l’aspetto valutario del crack Sindona è tutto spiattellato.
Il nostro Presidente dovrebbe non considerare peregrina la mia tesi della contro speculazione, che ovviamente è molto più articolata (e documentata), se non altro per tranquillità della mia coscienza di … storico.

Oggi una domanda si impone: perché allora tanta sonnolenza mentale della magistratura milanese e perché invece oggi si inventano colpe stratosferiche di intelligenti, saggi, avveduti grand commis dello Stato. Il Governatore della Banca d’Italia ha mansioni costituzionali di difesa della moneta, della  avveduta politica bancaria. Il Governatore è anche il banchiere dei banchieri: deve agire in armonia con le peculiarità dei mercati e delle borse, necessariamente aperti alle aggressioni speculative mondiali. Se è impari, perché astretto dai lacci e laccioli di cui parlava Carli, beh! Povera economia finanziaria nazionale.

Ed un Governatore non può non servirsi di banchieri ultra abili e competenti del taglio di un Cesare Geronzi (al quale qualche pizzicotto ebbi a dargli, ma spero me l’abbia perdonato). Sono troppo pirandelliano per non avere il gusto del gioco delle parti. Questo però non mi impedisce di capire e di stimare. Diceva Sarcinelli che solo tre ispettori la Vigilanza era riuscita a forgiare ( e non poteva privarsene). Dell’Uva, De Sario e (bontà sua) Taverna. Solo che quando stizzito avevo voglia di sparare paradossi sghignazzavo: vero, solo che per gli altri due Sarcinelli si sbaglia. La modestia non è il mio forte.

Il mio Dio (o il mio demone) protettore mi perdoni. Se il giornalista Enzo Biagi (colpevole invero di un fallace articolo sul Corrierone del 29 giugno 1974) ebbe a dire che solo io avevo capito il puzzle Sindona , forse una qualche ragione ce l’aveva.

2) Ed allora? Bisogna costituire un gruppo di studio presso qualche prestigiosa Fondazione in grado di ricostruire una verità storica per un ammonimento attuale e per una riparazione di gravissime ingiustizie togate. Se i giudici ignorano, vadano a scuola; se imbecilli, vadano a casa. La politica, i presidenti della Repubblica, la Vigilanza democratica esistono per svolgere anche questa mansione. Un giornalista del calibro di Ferrara, saprebbe bene tuonare i tamburi della giustizia bancaria. Nessun tribunale speciale, sia chiaro, ma tribunali competenti, sì. Il Consiglio superiore della magistratura, esiste per questo. Se occorrono leggi specifiche, siano chiamate a farlo le forze politiche non cialtrone.

3) Ti dicevo dello sconquasso  economico di una terra come la mia: la Sicilia Meridionale. Abbiamo un aeroporto costato decine di miliardi di vecchie lire ed affossato per non dovere chiedere il rendiconto a dissennati amministratori (di ovvia provenienza politica). So che i capitali cinesi sarebbero ben disposti a prendere in mano l’iniziativa e portarla a buon fine magari solo per consentire lo scalo delle loro esportazioni. Un banchiere come il Presidente saprebbe ben parlare ai cinesi dell’ambasciata romana: ha autorevolezza, prestigio, affidabilità. Del pari  ciò vale per una grande impresa cementificia di Campofranco, certo in esordio inquinata da certa mafia palermitana. Basta ripulire il management. Risanarla amministrativamente, recuperare l’immane credito che vanta, superare il gap di liquidità. Ma le filiali bancarie siciliane e quelle racalmutesi in particolare stanno per essere chiuse. Oggi si paga la spregiudicata politica delle concentrazioni volute da governatori che non stimo. . Qui basterebbe forse solo il capitale nazionale. Ma ci vuole un banchiere d’altissimo profilo. Allora? V’è il peso antieconomico del costo del personale. Dico: se si dà oggi in appalto e subappalto tutto, guardare a Telecom o all’Enel per capire, perché non dare in appalto oltre che i servizi per le pulizie anche quelli della gestione bancaria: servizio di cassa. servizio istruttorie, servizio gestioni titoli e via discorrendo. Forse si salverebbero gli sportelli, il finanziamento radicato nel territorio, si avrebbe ili superamento di crisi come quella scaturita dalla cosiddetta trasparenza. Chi ha pratica di banche sa che vi sono le dilazioni dei pagamenti che si incorporano in titoli di credito (volgarmente chiamati assegni postdatati). Sono (o erano) titoli che i direttori delle filiali custodivano nelle loro casseforti a garanzia di apparenti anticipi su fatture e mandati all’incasso a tempo debito. Forse si è stroncata una prassi non lineare (i miei vecchi colleghi ispettori, mai ne hanno trovati perché o non sapevano o – come me – non volevano). Il risultato? Un crollo del PIL che non giova a nessuno.

Mi si dirà: Ma a te chi te lo fa fare? Non lo so: credo solo la voglia di non sprecare una saggezza accumulata in mezzo secolo di attività e di esperienze uniche.

Calogero Taverna

mercoledì 24 ottobre 2012

Nota aciduletta




Scrivo questa nota aciduletta in serenità senza acrimonia, quasi divertito. Certo a venire indispettito da sacerdoti del museo degli errori di Aldo Gabrilelli non è molto sollazzevole. Ah provesso’ guarda che non mi importa un fico secco se quale dietro a vocale non si apostrofa, se si parla mascolino. Oltretutto quel lapsus non è mio: è di uno che sta subendo tutti gli oltraggi alla sua umanità, definita ostativa, ma il ridicolo di precari in eterna attesa a passare di ruolo, maniaci di matite bicolori, l’ha potuto almeno quello dribblare. Ma guarda che là hai messo l’accento sulla e che è congiunzione; ma no è volutamente verbo, rafforza il concetto. Ma alle scuole medie non è consentito. Ma che vuoi che ad ottant’anni torni al ginnasio? ci stetti dal 1945 al 1950 (allora i cinque anni si chiamavano così, con bel termine classico; vero che si diceva punto interrogativo che guai a dirlo ora, in tempi di punto di domanda). Pinzillacchere, direbbe Totò: concordo.
Ed eccoci all’erudizione storica: qui le cose si fan ardue. Veneziano non bruciò in un carcere del Santo Ufficio. No, vengo erudito e mi dà tedio:
Non in quelle del Sant'Uffizio ma "nelle prigioni di Castellammare, in Palermo, a causa di una esplosione di polvere da sparo dell'artiglieria, posta nel magazzino delle carceri", come precisa, e questo ti farà piacere, un altro racalmutese, il poeta-notaio Giuseppe Pedalino, in un libretto che contiene i proverbi dialettali del Veneziano e, a conferma della considerazione del suo poetare in siciliano, i versi del Cervantes a lui dedicati: "El cielo que el ingegno vuestro mira...". "Il ciel, che tanto ingegno in te rimira...".


A me Pedalino non piace: prima fa le carte false per farsi dichiarare sansepolcrista e poi strilla se per un omonimo dell’abate Vella di Grotte ha qualche guaio dalle questure (per sua fortuna sottoposte a bravi grandi sbirri racamutesi). Come poeta mi dice nulla: quasi tutti siamo capaci di tradurre dall’italico linguaggio allo sciapito vernacolo. Chi ha letto le quartine del Veneziano si accorge che scrivere versi ispirati in dialetto è tutt’altra cosa.
Io il Veneziano lo ricordo solo per qualche spiegazione datami dal maestro Sciascia, se non ricordo male a proposito del carcere in cui morì un certo inquisitore per le muffole di tal sedicente diacono Matina. Sarà Castellammare il carcere, ma sempre del sant’uffizio era (credo la casa del goliardo a Palermo di fronte al quale c’era un sottoscala ove si mangiava tutto a metà, mezza bruccetta, gridò una volta un irato compaesanuzzu nostro perennemente iscritto a non ricordo quale facoltà – miseria d’altri tempi, la nostra.

Ma sto Pidalinu picchì Sciascia manco lo vede? Non l’aveva letto? Certo Sciascia era stullicusu. Non volle accreditare nessun racalmutese come magari bella promessa del bello scrivere. Perché? Uno, che sol perché aveva un nonno bizzarro, voleva a tutti i costi diventare scrittore, scrisse un manoscritto, lo passò a Giacomino acciocché lo passare all’eremita della noce e lo accreditasse  magari ad un attore vernacolo di Catania. Giacomino tentò. Sciascia finse di dare uno sguardo. Forse lo lesse. Poi chiamò Giacomino: e chi ta ddiri; si continua forsi arrinesci! Ta addiri però ca cu sti tempi ca currinu nun cci capisciu nenti; chiddu ca mi pari nnutili, avi un successu assà di tunnu. Donaccillu . eh .. eh ..
Naturalmente ci persi nna vintina di munuti pi diri chiddu ca dissi. (Preciso: qui cerco onomatopaicamente di rendere la lingua parlata, cosa diversa da quella colta o letteraria che dir si voglia. Molto meglio di me qualcosa del genere mi pare che il Sommo ebbe a dirla nel prefazionare OCCHIO DI CAPRA.

Torno al Veneziano. Provocato, cerco di saperne d più. Leggo:
In campo poetico, il petrarchismo allora dominante trova modo di esprimersi sia in dialetto con Antonio Veneziano (1580-1593), autore di un canzoniere in due libri intitolato "Celia", sia in lingua toscaneggiante con le Rime di Argisto Giuffredi (1535-1593).
E qui una folgorazione: Perché Carbone, Petrotto, Taverna, Borsellino. Liotta, Cutaia. Martorana (donna), Barracecchia (donna), Matrona ed altri letterati che non conosco non ci rechiamo a frotta dal Romamo messinese commissario e diciamo noi vogliamo fare opera culturale al Teatro Margherita. Noi mettiamo in scena la “CELIA” del Veneziano. Jannello credo che ci seguirebbe. Gli faremmo fare teatro e così si calma un po’.
A me preme di mettere in scena  L’EDIPU di un favarese, testo sublime in lingua della nostra costola staccatasi a Favara. E’ testo che regge il passo a qualsiasi traduzione nell’italico idioma di un tal SOFOCLE, greco.


P.S. – L’unica correzione che mi aspettavo non venne e cioè “un tal di prima” da identificare con “un tal di grado”.

P.S. n.2 -Interpello Giacomino e finalmente mi dice il nome del mancato romanziere negletto da Sciascia: un soggetto molto strambo analfabeta con la mania della scrittura. Non sta più a Racalmuto. Tolto Giacomino, il mio excursus regge tutto e l'ira del neofita romanziere che non  riesce a carpire una sollecitazione sciasciana con un grande attore comico catanese resta tutto.

P.S. n. 3 Col provessò le cose si sono tutte addolcite e viviamo entrambi in simbiosi letteraria e bloggistica: bizzarro lui, bizzarro io tutto finisce in bizzarria al quadrato.

Una partita a carte (politiche)

Col sindaco Petrotto – sì, appena si vota Racalmuto lo rieleggerà in modo plebiscitario – abbiamo avuto un dibattito agro-dolce. Siamo amici, ci stimiamo, siamo della stessa pasta letteraria ma divergiamo in politica e in diritto e in giudizi sui nostri reggitori nazionali in modo veramente inconciliabile. Dice mio fratello che è un saggio – io non lo sono – per tre cose si finisce col litigare sul serio. Per una partita di calcio, per una partita a carte e .. per un contrasto in politica.
Petrotto, a mio avviso, crede di essere salito sul carro di un vincente, un assordante frinico (veramente il frinire è delle cicale, ma fa lo stesso); io quello lì l’aborro ed ho l’imprudenza di dichiararlo pubblicamente e per iscritto e qui destando le ire degli invasati coreuta del grillame moralistico. Certo se vince son cavoli miei. Ma non credo che vinca, sia che vinca sia che perda. Appena eletti quelli lì che oggi si stracciano le vesti, subito si proneranno dinanzi ai potenti del momento che non potranno mai essere comici," per la contraddizion che nol consente". 
Sia Petrotto che io abbiamo avuto però buoni spunti, ma son finiti immersi in questo ginepraio di commenti e di superamenti per la pioggia di accavallantisi “post” mi pare che dite.
Io non voglio che si disperdano, voglio precostituirmi il capo d’accusa che mai sono stato un partigiano del grillante vincitore , a proposito, mi pare che da stasera Crocetta voglia davvero mettere tutti in croce con un assordante e martellante campagna elettorale. Finalmente!
Allora. Ecco la pia riesumazione del contrasto Petrotto-Taverna. Gli applausi che sotto banco ci siamo scambiati non è da gentiluomini – anche se lui ed io non bazzichiamo più il Circolo Unione – spifferarli in pubblico.( Come per le conquiste d’amore). A proposito alla lontana siamo parenti. Quelle dannate carte della Matrice che il prete Martorana ha eclissato, lo attestano.




Salvatore .Petrotto  
Sono tutti vergognosamente venduti, RAI, Corriere della Sera, La Repubblica, Il Messaggero, Il Tempo, Il Giornale, Libero, tutti gli organi di partito, tutti pagati da noi contribuenti.
Il Corriere della Sera, ad esempio, riceve dallo Stato oltre 40 milioni di euro l'anno e così tutti gli altri giornali e TV, locali, regionali e nazionali.
Si pappano centinaia di milioni di euro, qualche miliardo 
di euro l'anno assieme ai partiti.
Tutti quanti assistiti, in maniera clientelare dal Parlamento, dai nostri parlamentari: tutti quanti vergognosamente venduti!
E poi parliamo di libertà d'informazione o degli LSU (Lavoratori Socialmente Utili) e dei forestali siciliani che sono troppi e che vanno licenziati!
Ma voi, cari giornalai da strapazzo, editori venduti, privi di coscienza, non vi vergognate a prendervela con i più deboli, con i morti di fame!
Perchè non attaccate la Corte Costituzionale che ha stabilito che gli stipendi dei Giudici (anche quelli della stessa corte), dei dirigenti e manager di Stato non si toccano, anche quando questi guadagnano due milioni di euro l'anno?
Cara stampa prezzolata, sapete quanti LSU o disoccupati ci potrebbero vivere con i soldi che guadagnano questi boiardi di Stato, questi ladri di futuro?
E voi giornalai attaccate gente che guadagna, facendo LSU, il cassaintegrato o il forestale, semplicemente 500 euro al mese? Venduti che non siete altro, prezzolati che non siete altro, perché ve la prendete con la povera gente?
Volete far vedere in TV le immense maree di persone, incazzate nere, i milioni di siciliani che seguono direttamente o via internet, i comizi di Beppe Grillo, in ogni paese e città visitata dal comico genovese.
Finitela con questa farsa di occultare la verità!
L'avete fatto da oltre 60 anni, politici e mezzi di informazione, tutti quanti venduti!
E' finita per voi, la gente non ne può più di imbonitori di Stato, di gente pagata per dire cazzate, per fare i ruffiani dei potenti di turno. Aprite le vostre TV locali ed i giornali, fate entrare dentro le vostre redazioni la verità!
Spiegate ai cittadini siciliani come ci hanno rubato miliardi di euro con i rifiuti, l'acqua, l'energia, la benzina o il gasolio.
Del resto ci sono un mare di denunce che aspettano nelle Procure e nei Tribunali che soltanto voi ne parliate!
Parlate della verità e dite a tutta quanta l'Italia che la colpa dei nostri mali o della disoccupazione in Sicilia, non è dei disoccupati, dei poveri disgraziati ma di chi si è arricchito facendoci pagare delle salatissime bollette, facendoci pignorare tutto dalla Montepaschi Serit, all'Agenzia delle Entrate, per dei servizi che sono i più illegali e costosi del mondo.
Parliamo di rifiuti, energia, acqua, gestiti da ladri ampiamente denunciati che si sono fottuti svariati miliardi di euro, nascondendosi dietro il paravento dell'antimafia di professione: l'antimafia 'di la munnizza' e dei quali voi non avete mai parlato nei vostri giornali, nelle vostre TV! Parliamo ancora di benzina o gasolio? Con tutte le raffinerie che ci ritroviamo in Sicilia, paghiamo la benzina ed il gasolio più caro del mondo. Ditele queste cose ai vostri colleghi giornalisti venduti come voi, quelli del Nord. C'è chi si vende a Nord, c'è chi si vende a Sud. Voi giornalisti ed editori prezzolati, pagati da Parlamento Nazionale e dalle Regioni, per dire cazzate, vi vendete a tutte le latitudini!
Abbiate uno scatto d'orgoglio, mollate i vostri editori che percepiscono fior di centinaia di milioni di euro dai contribuenti italiani e dite una volta tanto la verità! Grillo, da solo, sta facendo liquefare un'intera classe politica! Soltanto voi, in Sicilia, non ve ne state accorgendo! Milioni di Siciliani, l'hanno capito ed hanno detto basta alla stampa di regime, ai nostri politici ascari, alle banche, all'alta finanza, all'agennzia delle entrate od alla Montepaschi SERIT, che ci fanno pagare le tasse ed i tributi, soltanto a noi poveri, mentre la Corte Costituzionale ed il Parlamento proteggono coloro i quali si sono arricchiti con i finanziamenti pubblici, mi riferisco alle banche, ai partiti, ai giornali ad alcuni imprenditori (o per meglio dire prenditori) che con i rifiuti, l'energia, i carburanti o l'acqua si sono mangiati famiglie, imprese, comuni. Un'intera Italia distrutta economicamente dai manager di stato da due milioni di euro l'anno!
E voi che dite?
Non dite un cazzo, voi organi di stampa siciliana, a partire dal Giornale di Sicilia o La Sicilia, o dalle TV locali!
Parlate di Crocetta, Minchetta, Musumeci o Micciché!
Ma in quale Sicilia vivete?
Non vi accorgete che è finito tutto!
Chi cazzo li segue più questi quattro balordi che calano da Roma, Alfani o Fini, munnizza o case a Montecarlo, Casini e suo suocero, il palazzinaro Caltagirone Bellavista che sta mettendo le mani in ammollo con la gestione dell'acqua in Sicilia. Od ancora quello zombi godereccio di Berlusconi o Maroni! Ormai ci stanno tutti quanti sopra i coglioni!
Avete paura?
Ma di che cosa avete paura?
Ormai è tardi!
E' finita per tutti voi: la gente non segue più le minchiate che raccontate ogni giorno!
Sveglia, sveglia, sveglia!!!


Calogero Taverna
Gli ELLE ESSE U non vanno   licenziati, vanno adeguatamente sistemati secondo le regole del vostro capitalismo efficientista, moralista, perbenista. Ed è possibile oltre che augurabile. 
La via? Saprei indicarla ... ma io non faccio politica né cerco voti per amici o novelli alleati. Tu sei troppo colto per non capirmi. Se ti piace un mio sofisticatissimo post sul duo Leopardi-Saffo non me la dai poi a bere se ti vesti con apicali fogge di un codazzo afflato, per dritta o per manca, da vituperati banchieri esteri di rito scozzese. Senza sordi un si nni canta missa e le messe dei novelli crociati dell'anticasta sono assordanti.
........

Io un grande sogno ce l'ho: riportare Petrotto nello scranno di Matrona. Quando? pare non prima del 2014, alla prima votazione utile dopo i 24 mesi degli intrusi di Roma. Non è d'ostacolo la "incandidabilità" voluta dal ministro in gonnella?. Ma non scherziamo? Tutto incentrato s immaginari "giochi di potere" di scherani in divisa che si stanno sbriciolando come neve al sole (per essere poetici), su una invereconda divagazione in cosiddetta motivazione che si distacava dall'assoluzione perché il fatto non sussisteva (o per non aver commesso il fatto?) su una infiltrazione quando nulla si poteva infiltrare perchè c'era l'ostativa dimissione di un paio d'anni prima. Forse uno spinello .. ihihihih! Se vi è giustizia a questo mondo, pessimismo manzoaniano a parte, in appello o in cassazione la "incandidabilità" ritorna nel sedere di chi l'ha architettata. Ostacolo? Per la mia età ci sarò nel 2014? Io vivo sub specie aeternitatis e non voglio né posso fare bilanci preventivi. Ma Tò non ti ci mettere tu a creare ostacoli, senza Baffetti territoriali, senza mastri lindi, con contro la triade rossa (un ex senatore, un ex deputato regionale, un medico anti riddilio) come pensi che io possa riuscire qui a Roma a superare gli ostracismi dell'attuale sinistra (che tu oggi deridi)?

.........
Guarda che a vedere sta fotografia mi vien fatto di dire: si iungieru tri di la maidda... per turlupinare il convitato di pietra (che pare però se ne fotta)- Toglila sta foto, per favore! -

Salvatore .Petrotto  

C'è chi è PROGRESSISTA, c'è chi è CONSERVATORE. 
Chi vuole andare avanti e chi no! C'è chi è fascista e chi stalinista! Ma quando ce ne usciamo dallo schifo di Stato d'Europa e di mondo che abbiamo creato! Banche, alta finanza e Troika: FMI - BCE - UE e poi ONU e tutti gli organismi internazionali a che cosa servono? Che modello di vita ci propongono, che economia? Crescita e speculazione, del tutto virtuali! Abbandono dell'economia reale e tanta fame e sottosviluppo: cu mori mori e cu campa campa! Risultato quello che hai visto in piccolo a Racalmuto. Quando tenti di dare risposte alla Gente, cerchi di ragionare: TI FANNO FUORI! Bisogna essere degli Yes Men! Signor si e basta! Uno Stato di Merda retto da quattro tecnocrati di merda che non sopportano critiche e che mantengono una sfilza di boiardi di stato, come del resto sono anche loro. Il tutto per affossare l'Italia! E la Sinistra dov'è? Dovevamo aspettare Beppe Grillo per cantar loro in faccia, in maniera cruda e comprensibile queste amare verità! 
La Sinistra PD gioca con le primarie! Renzi (il damerino che va bene a Destra ed a Sinistra e soprattutto ai Finanzieri) o Bersani che regge il moccolo a Monti assieme a Berlusconi, Casini e Fini! Ma mi faccia il piacere! direbbe il mio omonimo. Grazie comunque per le Tue simpaticissime lusinghe.



lunedì 22 ottobre 2012

Dilettosi Errori


Aspettando la sera tardi – ad 80 anni non si ha mai sonno, si teme di anticipar l’esodo – di beccare qualche insolente che osasse rimbeccarmi per friggerlo nella padella del mio sarcasmo, mi capita di leggere non so se di signorine o di menopausanti in cerca di acri pulsioni per la notte sterile rammarichi del tipo:
se ci si accorge di non essere orgogliosi della propria vita, bisogna avere la forza d ricominciare da zero.Inizio modulo

Mi va di celiare
Calogero Taverna E come faccio ad ottant'anni?
Mi si rimbecca con tre punti interrogativi (così mi insegnarono nelle mie lontanissime scuole elementari). Cerco di spiegare:
Calogero Taverna ? vuol dire che non è accordato a nessuno di ricominciare da zero. Siamo fieri del male che abbiamo fatto e vergogniamoci del bene che ci dicono di avere compiuto.
Troppo arduo per l’ interlocutrice
Ognuno ha il suo pensiero.
Meglio desistere, urbanamente, con banalità
Ed è vero, ineludibile.
Nel contempo leggevo un commento di Leopardi ad un verso di Saffo (appena posso lo giro al mio amico Alfredo, l’ergastolano ostativo e gusterò le sue ripiccate risposte: in questo campo continuerà a redarguirmi per la mia insipienza in campo letterario di agnazione Magna Grecia.

Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori Il Tartaro m’avanza.

Mi pare assonante con il mio aforismo che mi fa fiero del mio male commesso e tediato per il bene ascritto a mio merito.
Spiega Leopardi: Il Tartaro è forse una palma o un error dilettoso? Tutto l’opposto , ma ciò appunto dà maggior forza a questo luogo, venendoci ad entrare una come ironia. Di tanti beni non m’avanza altro che il tartaro, cioè un male. Oltracciò si può spiegare questo luogo anche esattamente, e non con un senso molto naturale. Cioè, queste tante speranze e questi errori così piacevoli si vanno a risolvere nella morte: di tanta speranza e di tanti amabili errori, non esce, non risulta, non si realizza altro che la morte. Così il di viene a stare molto naturalmente per da o per o cosa simile. Che se la frase è ardita e rara, non per questo è oscura, ma il senso n’esce chiarissimo. E di queste tali espressioni incerte, più incerte ancora di questa n’abbonda la poesia latina. Virgilio, Orazio, che sono i più perfetti: anzi questi due n’abbondano massimamente. E lo stesso incerto, e lontano, e ardito, e inusitato, e indefinito, e pellegrino di questa frase le conferisce quel vago che sarà sempre in sommo pregio appresso chiunque conosce la vera natura della poesia. Insomma il luogo sta bene così, e non bisogna guastarlo. La voce tante è da conservare a tutti i patti, che nessun’altra potrebbe supplire all’effetto suo; effetto che appartiene all’intima natura del cuore umano, e deriva dall’indeterminatezza di questa voce, ossia della quantità ch’ella significa; come ho notato altrove (10 maggio. Domenica 1822).
Se una signora che tanto mi avversa, che non vuol camiare mai, ma che forse mi vuol bene mi accusa di sprecar tempo ed intelligenza a parlar così e a parlare di cose così in FB, divagazione per signorine lettrici un tempo di Liala, non ha voglia ancora di capirmi, sappia almeno stasera –se mi legge – che in quel che dico e come lo dico c’è anche il rammarico che né preti al tempo del mio ginnasio né reduci, laureatisi in divisa, al liceo ebbero mai a farmi amare Saffo, non per pruriginose curiosità sul suo ambiguo tiaso, ma per l’incanto della sua soave poesia.
 Forse, stasera con questa insolenza alla giovanile imbecillità di chi frastorna la nostra bella lingua con segni matematici per cui X vuol dire per, un messaggio un invito un soffio giunge là dove i sacristi piazzati dalla Curia per insegnar religione, diventano docenti delle belle lettere, perché avevano conseguito laurea con rette pagate ad istituti della truffa legalizzata

E così divento moralista, ma non grillino, dopo che avevo iniziato a leggere Leopardi che blasfemava: Iddio, o per se, o ne’ suoi Angeli, non isdegnava ne’ principi del mondo di manifestarsi agli uomini e di conversare in questa terra colla nostra specie ….. Ma cresciute le colpe e l’infelicità degli uomini, tacque la voce di Dio, e il suo sembiante si nascose agli occhi nostri, e la terra cessò di sentire i suoi piedi immotali, e la sua conversazione cogli uomini fu troncata. V. Catullo nel principio del poema de Nuptiis.  … 

Finisce la vita pastorale: incomincia la cortigiana e cittadinesca: nasce la fame dell’oro, la sfrenata e ingiusta ambizione, e d’indi in poi la storia dell’uomo è una serie di delitti, e di meritate infelicità.

domenica 21 ottobre 2012

A proposito di un ergastolano ostativo vero: Alfredo Sole, killer un tempo oggi letterato e grecista.



Scrissi e pubblicai su ARTICOLO21 una sommessa preghiera al direttore di Repubblica perché dedicasse una qualche sua attenzione al caso singolo di un vero ergastolano ostativo, su Alfredo Sole rinchiuso nel carcere di Opera ove persino un magistrato sotto accusa per reati che oggi si ascrivono alla mafia tentò un serio suicidio.
Alfredo Sole dicevo al direttore di Repubblica  è oggi  “filosofo e scrittore raffinatissimo” che viene ancora bollato come OSTATIVO trattato inumanamente per  “l’assurdità di questo gravame penitenziario che peraltro gli è stato inflitto dopo ben 9 anni di regime c.d. 41bis e che dura da 12 anni.”
A sensibilizzare l’opinione pubblica è stato ARTICOLO 21  pubblicando un mirabile scritto di codesto ergastolano ostativo. Sull’onda del conseguente interesse pubblico, proprio su Repubblica codesto medievale istituto carcerario fu oggetto di stigmatizzazione da parte dello scienziato Umberto Veronesi e di esplicazioni preoccupanti da parte di Adriano Sofri.
Ma dopo, il nulla. Chiedevo: “Gentilissimo signor Direttore, non è che Lei possa fare qualcosa di più per meglio sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda di un ravvedutissimo Alfredo Sole, ora colto studioso di filosofia greca e sapidissimo autore di spunti letterari di cui qualcuno ha avuto l’ambito onore di venire ospitato nel libro di successo di Gaetano Savatteri, i ragazzi di Regalpetra? “
Certo se si andava a spulciare nel citato libro qualcuno mi avrebbe rimbeccato citando questi passaggi delle pagine 261 e 252:
“Un uomo dentro una cella ha tempo per pensare. Troppo tempo. Nelle spalle anni di solitudine, davanti la prospettiva di due ergastoli, una detenzione che solo la morte potrà concludere. Alfredo Sole è in galera dal primo settembre 1991. E’ stato processato e condannato per l’omicidio di Alfonso Alfano Burruano, il paciere con la coppola storta: processato e condannato per la strage della sera del 23 luglio  1991, guidava l’auto dei killer. Due ergastoli, due condanne a vita. Non uscirà mai di galera, l’aggravante dell’associazione mafiosa lo sottrae ai benefici concessi ai carcerati, semilibertà permessi sconti.
Sepolto per anni in una cella singola, ventidue ore al giorno da solo tra quattro mura, Alfredo Sole ormai cosa tra le cose, avrebbe detto Michel Foucault: un numero di matricola, un fascicolo, un ergastolano. Una voce spenta: lui stesso aveva deciso così, non parlando ai processi, negando ogni addebito. Era stiddaro Alfredo Sole: le code chiatte avevano ammazzato suo fratello Alfonso, quando Alfredo era già in carcere uccisero suo zio Giuseppe, suo padre Salvatore. Cosa Nostra fece tabula rasa dei Sole, ne annientò la semenza. Voci spente e sconfitte”.
Il libro ebbe successo enorme: da parrocchia di regalpetra, a paese di sciascia, addirittura a paese della ragione (per imperio cavalleresco il cui dittatore disse poi di averlo detto per celia), Racalmuto è diventato così quello dei “Ragazzi di Regalpetra”. E i baby delinquentelli assursero persino ad essere detti e creduti “capimafia” astutissimi e naturalmente sanguinosissimi. Un obeso giovinastro si dichiara responsabile di una cinquantina di esecuzioni mafiose, una media da capogiro. E’ reo confesso, è collaboratore di giustizia: mi dicono che i lauti mensili per la sua libertà in incognito gravano tutti sul disastrato bilancio del mio paese Racalmuto appunto. E già: una ministra in gonnella crede a siffatta vulgata giornalistica e chiude Comune e affossa le libere elezioni.
Se la libertà di stampa avalla e conforta tutto questo, se ormai è prona alla voglia di liberare Sallusti, mi dichiaro anticostituzionale, sono contro l’articolo 21 (in minuscolo). Alle fandonie prima riportate, la mia consunta laurea in giurisprudenza mi si rivolta dentro, vomitevolmente. Dimostrare? Non posso in questa sede per questioni di spazio.
Chi avesse voglia di saperne di più consulti Informacarcere : Le lettere  di  Alfredo Sole.
Mi sono interessato ad Alfredo Sole, specificatamente, solo da un anno. Prima lo infilzavo anonimamente in pagine di un mio libercolo che nessuno legge: Racalmuto nei millenni. Iniziai irritato per il misticismo esoterico del novello arciprete (termine improprio ormai, mi si dice, ma io vi sono legato) che non si cura di una sua  pecorella finita sulla croce al posto del Buon Ladrone. Ne è nata una conversazione epistolare che ho appena  citata su Le lettere di Alfredo Sole.
Nacque una sfida se potevo mandargli o  meno una cassata siciliana genuina confezionata dal piccolo ilare Capitano o no: con l’aiuto di ARTCOLO 21 ho vinto io la scommessa.
Quanto all’autore del libro, ho cercato di farmi pubblicare questa contrapposizione, senza riuscirvi:
IL CASO SOLE E L'ERGASTOLO "OSTATIVO"

O io in quasi quarant'anni di vita ispettiva contro banche e finanziarie, speculatori e orditori di cambi a termine, talora intento a seguire le alchimie fiscali di Berlusconi (magistrale il dividend washing), talaltra a deliziarmi all'AIMA nel sorridere nei confronti dei miei paesani che erano capaci di raccogliere frumento come il nostro territorio fosse dieci venti volte più esteso e che sapevano far figliare trenta quaranta volte l'anno le loro striminzite caprette, oppure di appurare che fine facevano certi crediti cinematografici concessi dagli adepti del satrapo Cacciafesta, o che so io? mettiamo anche non alieno dal contestare alla mia banca d'Italia che se aveva davvero voglia di credere desueta (il mio censore meneghino, mi consente il termine?) la norma fascista della legge bancaria che imponeva il discarico sulle banche inquisite delle spese di vigilanza, io sapevo leggere nell'intricatissimo bilancio BI a quanto ascendevano siffatte spese non traslate, farne la base per un accertamento fiscale e contestarne l'evasione per 250 miliardi di vecchie lire che il disorientato Ciampi fu costretto ad ammortizzare con uno concordato che all'epoca fece davvero scandalo, dicevo o io ho visto sempre lucciole per lanterne o il prode Tano (nel suo libro "I RAGAZZI DI REGALPETRA", pagg. 261-276) obnubila uomini e cose, latebre psicanalizzabili, senso criminale   di efferati fatti di sangue, episodica rilevanza, denominazioni alla moda, scaturigini di perversi DNA, evanescenze confessorie, redenzioni culturali, svolte esistenziali, ribellismi carcerari, apologhi su rapaci notturni liberi, repressioni di giovanili furori omicidi, tristezze sul ciglio del baratro dell'autosoppressioni, sconvolgimenti di quella cosa lì che sta dentro di noi come il cielo sta sopra di noi, barbarismi di funzionarietti divenuti per la pagnotta psicologi carcerari, assenze decisionali di giudichesse che nei comodi scranni di quell'albo palazzo di giustizia milanese si piegano alle istanze di carcerieri che vedono in Sole uno cui difetta il concetto che loro hanno di "resipiscenza" per protrarre sine die una deleteria "ostatività" congetturata dal siculo Alfano su suggerimento, pare, di un ex pdista (sic!) agrigentino, giudice traslato a Roma. Ma tutto ciò non basta dirlo: occorre dimostrarlo. Prometto che tenterò. Del resto quand'ero in banca d'Italia riuscivo a redigere brillantissimi ed apprezzatissimi rapporti ispettivi su misteriosi intrecci bancari criminali  che non avevo per nulla capiti; insomma spiegavo bene agli altri quello che  per me risultava inaccessibile.
Calogero Taverna
Ma chi è ora davvero Alfredo Sole? Mi limito qui a svelare la sua ultima lettera:

Carissimo Lillo,
cercherò di rispondere in un'unica lettera per evitare di “spezzettare” il mio pensiero. Non credo che ti abbiano accreditato a torto come un combattente contro l'ergastolo. Dici che a te interessa di più il “modus punendi et espiandi” anziché la durata. Noi per questo lottiamo. Quella “durata” che non ha senso se non per placare la sete di vendetta. Se si abolisce l'ergastolo nasce la necessità del “modus punendi” perchè che siano 20 o 30 anni di carcere, alla fine il detenuto lo devi mettere fuori e devi per forza poterlo restituire alla società migliore di quando è entrato. Col fine pena mai, tutto questo non avrebbe senso. Infatti, non ha senso cercare di migliorare il detenuto quando non avrà mai la possibilità di dimostrare il suo cambiamento. Questo mi porta alla tua “scocciatura” per non essere riuscito a comprendere appieno il senso del mio pensiero sulla collaborazione. Devo fare una premessa in modo che il mio pensiero venga percepito come pensiero non pratico. Cioè, io anche se volessi collaborare per neutralizzare quell'ostativo, non potrei neanche farlo, il motivo è che sanno già tutto di me e di nuovo (che è poi quello che gli interessa) non avrei nulla da dire, neanche contro di quelli cosiddetti nemici. Di conseguenza nessun: “L'infame va punito e se un pentimento proficuo può giovare a chi dentro l'ordinamento parastatale si è macchiato di condotta antidoverosa secondo quei codici d'onore, il pentimento collaborativo non è ammissibile, costi quel che costi”. Sono d'accordo con te. È allucinante. Se solo mi accorgessi che il mio pensiero altro non è che questo tipo di mentalità mafiosa, smetterei perfino di pensare. Sì, mio carissimo Lillo, hai capito male. Ma è meglio dire che non ho espresso il mio pensiero in modo comprensibile. Io ho odiato e continuo a odiare la mentalità mafiosa, non è forse questo odiare la mentalità mafiosa che mi ha portato a combatterla? Certo, comportandomi a mia volta da mafioso! È come quando qualcuno cerca di degradare la filosofia perchè inutile e non si accorge che per farlo deve per forza filosofare. Dirai: “ma alla fine, qual'era il tuo pensiero?”. Adesso non saprei più come esprimerlo. Cadrei in un circolo vizioso di parole che mi porterebbero solo a ripetermi. Posso solo dire una cosa, se cambiare significa non fare più del male ad altri, che se lo meritino oppure no, beh, allora io sono cambiato. Qualunque cosa questo possa significare logicamente, tranne che essere mafioso!!

per quanto riguarda la “tiratina d'orecchie”, ci potrebbe stare. Sì, da autodidatta non ho mai subito correzioni in rosso e blu, cosa necessaria per una buona formazione, ma ho lo stesso imparato a riconoscere gli errori e quei segni rossi e blu li metto da solo. Non ti mando nessun accidente né un momento di rabbia a causa di provocazione. Anzi, colgo sempre di buon occhio le critiche e provocazioni perchè so che possono solo migliorarmi. Visto che siamo in tema di provocazioni, il tuo Luckacs dice che i greci conoscevano solo risposte e niente domande. Siamo migliori noi oggi che conosciamo tutte le domande e nessuna risposta? Devo rimangiarmi tutto e... mangiarmi tutto visto che ho appena ricevuto i dolci! Non saprei come chiamarli, ma sono delle prelibatezze con impasto di frutta candita. Fai i miei complimenti a Capitano e un grazie a te per il pensiero. Tutto quel mio pensiero che non potessero entrare... Sarà cambiato qualcosa e io neanche lo sapevo?
Vorrei fare qualche commento sullo scambio di lettere tra Nicolò; Giuseppe, Beppe e te, ma non lo faccio, ci stanno pensando loro a “tirarti dentro” la lotta contro l'ergastolo.
Il mio nulla osta per tutta la corrispondenza?
Certo che puoi pubblicare le lettere nel tuo libro, neanche io amo le censure ma mi affido a te su cosa ritieni utile da pubblicare e cosa, invece, debba rimanere “privato”.
Adesso ho da fare. Devo rimpinzarmi di dolcetti...
Un abbraccio Alfredo
e sulla conoscenza delle cose della Magna Grecia? Mi limito a questi piccoli stralci:
Carissimo Alfredo
giunto a pag. 43 del romanzo di Tanu "Gli Uomini che non si voltano" mi trovo nel bel mezzo di una piccolo-borghese scuola liceale e debbo sorbirmi la spiegazione che il prof. Ristoro dà dell'Antigone di Sofocle.
"La tragedia nasce quando c'è conflitto tra libertà e necessità", esordisce il prof. Ristoro. Il tutto si conclude a pag. 44 piuttosto banalmente con il professore irritato che pontifica: "La vostra compagna ha fatto diventare la storia di Antigone una telenovela: Eumene si ammazza per amore. Insomma un dramma passionale. No, picciotti miei, non è una storia di amore: è una storia di potere!"
Mi sarebbe piaciuto che Tanu mi avesse spiegato con quali sfumature angoscianti si è sempre vissuta codesta "tragedia" del conflitto tra la libertà del singolo (valore insito in quello che in gergo si chiama diritto naturale) e la superfetazione talora persino irrazionale della legalità che il potere distilla nel c.d. diritto positivo, nella legge insomma. A tal proposito ho pensato a te, al tuo caso, al tuo essere nato in un ordinamento a detta di sommi costituzionalisti (ricordiamoci che Vittorio Emanuele Orlando si proclamava "mafioso") ed essere poi transitato in un altro ordinamento (tanto colto, sofisticatamente colto) quello che fonda le sue radici nella filosofia greca, in Aristotele, in Platone, etc,). Francamente l'Antigone di Sofocle poco scandaglia in codesto ormai modernissimo conflitto tra legge e morale, tra legge e natura, tra legge e umanizzazione della pena, tra legge e ordinamenti carcerari, tra legge e convinzioni religiose, tra legge e regole di una società tribale, tra legge e sacrosante vendette come da obblighi biblici del dente per dente. Non mi dilungo. Qui capirai perché Eschilo e Sofocle, oltre al diletto estetico, nulla mi dicono; quanto ad Euripide già lo sento più vicino se nelle Baccanti fa strillare il re - il potente di questo mondo - un'invettiva contro il semidio Bacco che scende dai cieli per avere livori e invidiuzze con gli umani. Con paterno affetto Calogero Taverna

La risposta

Non conosco il libro di Tanu: “Gli uomini che non si voltano”. Quando gli scriverò gli dirò di spedirmene una copia. Mi hai incuriosito, adesso voglio leggerlo. Per adesso non ho nulla da "sbertucciare" visto che non conosco il contenuto del libro. Ma nella spiegazione che il prof. Ristoro dà dell'Antigone, nella parte dove dice che “La tragedia nasce quando c'è conflitto tra libertà e necessità”, potrei non essere d'accordo. Questa tragedia di Sofocle nasce dalla “parola”, a citare il prof. Cacciari direi “la parola che uccide”. “La tragedia nasce quando due figure si affrontano con l'arma più tremenda, la parola, e scoprano reciprocamente di essere destinalmente impotenti all'ascolto, lì scoppia il conflitto incompassibile” (sempre il prof. Cacciari nell'introduzione alla tragedia di Sofocle). In effetti questa tragedia è parola che si fa atto, azione, a partire dal Coro. Mi fermo qui. Non posso commentare un libro che non conosco anche se potrei commentare l'Antigone.
Ciao un abbraccio Alfredo