Mi vien da
ridere, mi tocca leggere nella fucina della più accreditata cultura Racalmuto, quella
capace di far venire qui da noi carabinieri, finanzieri, poliziotti, congreghe
dell’antimafia che prima almanaccano fantasiosi giochi di potere, e poi
suffragano la nota TRIADE DI DIOMEDE, ed al contempo il missus panormitano e
non basta anche ministre prefiche, femmine al tramonto, pesti galeotti e
persino don Filipe de Romana Gente.
Acclarata la
cazzabubbola delle infiltrazioni mafiose mi costringono a leggere:
Secondo alcuni antichi storici, la storia di Racalmuto, ha
inizio nel regno di Ducezio re dei siculi, che l’avrebbe fondata nel sito di
gargilata, sotto il cast...
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Ducezio (Nea
o Mene, 488 a.C. – Kalè Aktè, 440 a.C.) fu re
dei Siculi dal 460 a.C. al 450 a.C.
Nato nella Sicilia sud orientale forse nella città di Mene,
l'odierna Mineo o Nea, l'odierna Noto, Ducezio era un uomo molto carismatico che riuscì a
conquistare l'animo dei Siculi che da alcuni secoli erano oppressi dalla
dominazione greca. L'influenza della
popolazione indigena stava crescendo ed egli sfruttò la situazione per cercare
di riaffermare la loro supremazia su quella dei conquistatori. Alla testa del suo
esercito, Ducezio dominò la scena militare per più di dieci
anni.
La sua prima impresa da generale fu quella di conquistare Aitna (già Inessa, presso l'attuale Paternò), sotto l'influenza siracusana da molto tempo. Nel 460 a .C. venne eletto re del suo popolo.
Nel 459 a.C. ricostruì Mene e distrusse la fiorente città di Morgantina. Nel 453 a.C. fondò Palikè, nei pressi dell'odierna Palagonia, e ne fece la capitale del suo stato. Nel 452 a.C. Syrakos e Akragas gli dichiarano guerra, alleandosi con i greci. Nel 450 a.C. venne sconfitto a Nomai (forse errata trascrizione di Noai) e successivamente a Motyon (vicino San Cataldo). Fu infine esiliato a Corinto.
Nel 444 a.C. rientrò in Sicilia e fondò Kalè Aktè, presso l'odierna Caronia; lì morì quattro anni dopo, nello stesso anno della
distruzione di Palikè / Trinakie.
Mi cospargo il capo di cenere e vado
a strappare, ad esempio questo mio scritto, qui:
Quell’antro,
ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il
destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo
di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso
una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è
l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad
un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi
di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della grotta, ai fianchi a
ridosso. Che cosa sia uno zubbio è detto in testi scientifici. Qui basta
accennarvi. Così sotto il costone abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire
del mio amico sig. Palumbo di Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati,
esplorati da squadre di speleologi professionisti: più della grotta visto che
ivi non è stato trovato granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei
sette inghiottitoi a valle vi saranno di sicuro argille cotte ed altro
materiale sicano e d’altre culture, a testimonianza del vivere che in Gargilata
v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi mostrava
analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà pre-sicana (quale
noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici risalenti ad una decina
di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella contermine Milena), a quella
delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e che si sogliono datare agli
esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla successiva della Magna Grecia
(dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà greco-romana, a quella
intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti, etc.), alla restaurazione
bizantina, per giungere a certa ceramica araba che andrebbe studiata con molta
attenzione per i risvolti nella chiarificazione della dominazione araba (a dire
il vero berbera) e del succedersi delle vicende legate a normanni e svevi, sino
al 1271. Questo caleidoscopio storico giace negletto in terre un tempo
vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad attingere l’acqua con una
minuscola brocca zingata (lanciddruzza); si trovava nello sprofondo di
Gargilata. Ora, per incuria delle autorità preposte alla vigilanza la sorgiva è
stata sotterrata per un po’ di vigna. Quelli di Agrigento hanno erroneamente
invertito le particelle catastali soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera
disattenzione o censurabile compiacenza? E perché, nonostante le mie
segnalazioni, non se ne danno per intesi?
La vita a Racalmuto
parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena giacché
decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori dell’Università di
Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la cultura pre-greca
dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su Casalvecchio, o su lo Judì e
via discorrendo peccano di erudizione. Faranno tutto ma non storia o veridica
microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il bisturi del suo scrivere alato
nella locale microstoria per dirci che “Racalmuto … [uguale] Rahal-maut,
villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo
trovarono desolato da una pestilenza” (Occhio di Capra) ed indulge nella
diceria del “paese che esisteva già, un po’ più a valle” (presentazione mostra
Pietro d’Asaro), e se giunge persino all’aforisma di un paese (che
«profondamente gli pare di conoscere, nelle cose e nelle persone, nel suo
passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni,
nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires. “ho
l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza
qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita non si riesce “ad
immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi arrivassero e lo
nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o almeno dello
scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali che si scriveva
Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi laici. Ed il nome
nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono ridevoli. Si pensi,
oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che tutto ha valenza
terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche … etc. etc.).
Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista vivente,
Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non ha
fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far scintillare
la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale teatro,
costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso nel
mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si
potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale,
autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si
chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui
sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie
del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove
v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni
o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno
prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma
irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per significativi
manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano il vivere
antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là dove era
disponibile.
Prima del Pliocene
centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese fosse tutto
un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio a
tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi scienziati
ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col termine di Desulfovibrio
desulfuricans) pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati
solfiferi delle future miniere. Altri
sconvolgimenti geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni
di anni addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al
fiumiciattolo ed oltre sino al sistema
collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo
“Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del
paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro versante,
da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle punte del
Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del Quaternario, al
Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che dobbiamo parlare di
sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra è pigra; Cugni
Luonghi, Mangiauomini ed altre lande acquitrinose non hanno destato molto
attaccamento alla terra; la moderna costruzione di un autodromo lascia
nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è da congetturare che verranno
assordati); altro discorso invece per il versante ovest: se vi si progetta un
aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre feraci, humus fertilissimo,
terreno intoccabile insomma vogliono rappresentarcelo. Stanno ordendo una
rivolta civica. Manco a farlo apposta, a mo’ di torre vi è la contrada Noce ove
albergava d’estate Sciascia per scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva
raccogliervisi ed ispirarsi e comporre con la sua prosa non scivolosa,
ipotattica disse Pasolini. Il silenzio si addice ai dintorni della Noce,
scrivono persino gli eccentrici organi di stampa meneghina.
Storia narrabile
dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi
sarà).
La civiltà sicana
che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche nelle
contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro per
fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca di
Cocalo. Le note del Mauceri, [1] nelle relazioni
al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da Licata si inerpica sino all’interno, sino a
Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro territorio
Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per le rotaie
della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito depredate).
Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano regolatore
racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente l’errore del
Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea località di Castrofilippo.
Quando si dice un ricorso storico secolare. Per colmo d’ironia, quel De Miro,
proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di reperti archeologici
greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o atto di devozione verso
un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati, invocano la negletta
archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno vi si stendano i
vincoli di dovere.
Dal Castelluccio,
l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio terra
argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la successiva
incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di spogliarla
(e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci centuripini di S.
Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il loro lento
scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo valle. Prima i
sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro sepolture. Un patrimonio archeologico che almeno andrebbe
inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero altri massi che
scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui cigli con
sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido. Come
nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo additato
all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una locale
televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi. La
labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si
accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha
attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o
queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli
“amici”).
La data di nascita
di Racalmuto non è araba; il toponimo lo è ma circolava già da un secolo; Rahal
Kamout si chiamava nel 1161 una località di Petralia (che invero nulla aveva a
che fare con Racalmuto). Il nostro altipiano ovviamente preesisteva. Non vi era
però nessun grosso centro che potesse prefigurare l’attuale paese con il suo
cacofonico nome arabo. Se Laterza chiamò il paese di Sciascia Regalpetra e ne
invocò le sue parrocchie, fu uzzolo letterario. Regalpetra ci piace ancor meno,
e tra il toponimo della letteratura e quello di nebbiosa origina araba
preferiamo il secondo. Come per lo stemma racalmutese, il pessimo gusto locale
esplode. Quant’era bello l’arcigno simbolo: strisce gialle – tante quante erano
le migliaia di abitanti che si andavano man mano censendo – su campo rosso e
tutto sotto una corona nobiliare (pare persino regale, sicuramente marchionale
– vecchia ambizione dei Del Carretto). E’ lo stemma dipinto in un bruciacchiato
quadro dell’Itria. A cominciare da certi sapientoni palermitani dell’Ottocento
lo si dice di Pietro D’Asaro; ma è infondata arditezza.
Eppure vi era vita.
Se mancava una estesa dimora vitale come oggi siamo abituati a vedere un paese,
non si trattava solo di masserie disseminate qua e là, come si crede che sia
avvenuto dopo il crollo dell’impero romano; come si va dicendo che sia avvenuto
nell’Agrigentino sotto papa Gregorio. Le testimonianze archeologiche ci fanno
pensare ad una sorta di cespugli uno qua uno là. Il più consistente sotto fra
Diego. Non era Mothion, termine che in lingua pre greca poteva pur significare
‘aiuto’, e che non disdice ad un insediamento di nostri avi. Padre Salvo è
acuto – ma troppo fantasioso: vorrebbe Racalmuto un misto di arabo e di
antichissima lingua (sicana). «Ben si spiegherebbe la composizione del nome
arabo di Racalmuto, che potrebbe risultare dal prefisso arabo Rahal e da Mothion,
cioè da Rahal-Mothion corrotto in arabo in Rahal-Maut, ‘Villaggio di Mothion’.
In questo caso gli Arabi avrebbero conservato l’antica denominazione del
vecchio villaggio presso cui si stabilirono in contrada Casalvecchio-Saraceno.»
Il prete è erudito e si vede.
Noi lo stimiamo.
Francamente è andato un po’ troppo nel congetturare. Una storia così può
soddisfare solo chi se la inventa.
Alla fantasia noi
concediamo invece che il primo uomo sapiens sapiens dell’altipiano possa
essersi deciso a stabilirvi stabile dimora una trentina di migliaia di anni
prima degli arabi. Doveva necessariamente essere troglodita: la grotta di fra
Diego, questo inghiottitoio di acque essiccatosi dopo il crollo del gigantesco
zubbio, esposto a sud-ovest dovette essergli propizio, accogliente per le sue
primordiali esigenze abitative. E dopo?
Dopo una ventina di
migliaia di anni, una popolazione autoctona ebbe a diffondersi in tutto il
circondario: da lì sino a Mussomeli, ma anche
da lì sino a Pietralonga; a cespugli più che ad estesi agglomerati, a grossi
insediamenti. Le tombe di fra Diego sono tante: svelano aggregati umani non
spregevoli. Quelle di Ponte Gianfilippo sono anch’esse non sparute. Ma le altre
– dietro, sotto, a fianco del Castelluccio, ad esempio – se non solitarie, sono
circoscritte: due o tre nuclei familiari conviventi vi trovavano sepoltura se
non imperitura, almeno durevole. Anche la pubblicizzata necropoli di
Pietralonga aveva dimensioni plurifamiliari, ma limitate.
Quella popolazione
autoctona la si chiama sicana. Persino Tucidide vi ha messo del suo per
consacrare quel ceppo, quella genia. Risaliva a circa sette cento anni prima
della caduta di Troia, riferiva. Ora, per i vicinissimi reperti archeologici di
Milena, i laboratori di fisica nucleare di Catania non escludono datazioni
risalenti a dieci mila anni fa. La scienza contro la storia antica. Ma fino ad
un certo punto, basta sapere coordinare; smussare le discrasie più illogiche.
Nulla vieta di chiamare sicani gli antenati racalmutesi che dieci mila anni fa
– a Gargilata – sapevano già cuocere materiale fittile per i loro usi
domestici. Non siamo come Sciascia; non vogliamo essere arabi a tutti i costi
(sol perché i preti scrivevano nei loro registri parrocchiali Xaxa). Ci
piacerebbe tanto essere gli eredi di quei sicani di dieci mila anni fa, con il
nostro sicilianissimo – come dire racalmutese -
DNA, con le stigmate del sopravvivere in un aprico altipiano, con quel
sole che sorge sempre da dietro il Castelluccio e che tramonta dietro la Montagna , con il
succedersi di stagioni bizzarre, eppure composte, che ci hanno forgiato nella
mente, nel cuore, nel nostro peculiare essere blasfemi, violenti eppure
generosi, amabili, sottomessi a leggi, a potenti, a signorie anche straniere
con sornioneria, senza suicidi ribellismi.
[1]
) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza
fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra
Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere
ingegnere e direttore dell’Ufficio
Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule.
(cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' e BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1°
versamento – busta n. 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
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