Racalmuto e la mafia
L’eloquio di don Mariano
Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino
folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a
cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava.
Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio
racalmutese: «La piazza era silenziosa
nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è
codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale
dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide.
Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo
echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia
non ci crediamo [voi]… non siete
siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è
tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può
anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto
relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della
mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua
sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un
cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere
rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora
riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta
coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai
conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia , al limite della
piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari
tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che
sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole,
come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per
il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle
Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una
silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli
di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del
paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di
Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato)
si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo
personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo
linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e
traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia”
disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione
che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle
invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in
culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando …
Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più
fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa
a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i
politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del
popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e
come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare
infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi
squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un
cornuto … » .
Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960
linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini
erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio
qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese
s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.
Ma don Mariano, se deve
incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro –
reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un
vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo
di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli
ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il
capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente
attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in
un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro,
per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti
mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare,
salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica. («Diventa filosofo, a volte, pensava il
giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga
memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e
distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un
giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la
iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i
mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i
quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli
invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda
di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo,
lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta
non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose
erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima il discorso diventa grifagno, acido, senza
indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni
pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente
intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro
sia stato censurato.
Se crediamo a Michele Porzio,
ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto:
«non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali
che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che
proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide,
conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino
estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in Piazza Castello, tentando di vendere qualche
cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate
pistole dei mafiosi della nuova generazione
- li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed
apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun
codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro
genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi,
addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco
di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don
Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure
pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi
filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in
lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e
Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato
terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il
giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole,
insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La
cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né
organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno
ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era
stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la
morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la
vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai
consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone,
sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto
ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito
comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo
strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e
tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di
valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani
se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano
(anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava
che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i
politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango
che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da
sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi
vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo
nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la
sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamente, anche per gli infortuni in cui i
nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.
Se ci si domanda com’era la
mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia
e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo
ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal
parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso
siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana
– diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione
della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento
alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo,
la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini
locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono
umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza
minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di
pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella,
il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella
miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia
della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco
da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili;
non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che
mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo;
magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche
guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana
riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi
a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con
compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto
impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo
stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato
la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino
e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma
poteva chiamarsi mafia?
Piluccando da “il giorno
della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito,
non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo
Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa
provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era
nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato
autobus dell’esordio del romanzo],i suoi materiali, nafta, catrame, armature,
ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al
materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi
dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi
capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non
dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito
offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è
accaduto che vi ha persuaso ad accettarla … Si capisce che ci sono i testardi:
quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola
si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi
sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci
sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una
associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse
limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa:
la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per
le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione
privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica;
vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se
nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la
decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero,
ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora
bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o
ad uscirne per sempre annientandola…»
Quel Sciascia lì, di
sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome,
meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito
descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a
Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on.
Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero
delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri
catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla
lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più
aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di
imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia
scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con
leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove
appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli
appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che
oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia.
Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause
sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.
Per Sciascia il fenomeno
della mafia è inestirpabile. Se Domenico
Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la
risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni
notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò
ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio
domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La
risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere,
il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia
dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della
Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era
don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a
lungo.
Sciascia: Allora la mafia era
la mafia.
Porzio: Era una mafia per
bene?
Sciascia: Per bene no, non lo
è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva
allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le
tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle
tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.
Sulla mafia durante il
fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il
solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di
Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella
dissertazione. Dicevamo.
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