Scrivo
questa nota aciduletta in serenità senza acrimonia, quasi divertito. Certo a
venire indispettito da sacerdoti del museo degli errori di Aldo Gabrilelli non
è molto sollazzevole. Ah provesso’
guarda che non mi importa un fico secco se quale dietro a vocale non si apostrofa,
se si parla mascolino. Oltretutto quel lapsus non è mio: è di uno che sta
subendo tutti gli oltraggi alla sua umanità, definita ostativa, ma il ridicolo
di precari in eterna attesa a passare di ruolo, maniaci di matite bicolori,
l’ha potuto almeno quello dribblare. Ma guarda che là hai messo l’accento sulla
e che è congiunzione; ma no è volutamente verbo, rafforza il concetto. Ma alle
scuole medie non è consentito. Ma che vuoi che ad ottant’anni torni al ginnasio?
ci stetti dal 1945 al 1950 (allora i cinque anni si chiamavano così, con bel
termine classico; vero che si diceva punto interrogativo che guai a dirlo ora,
in tempi di punto di domanda). Pinzillacchere, direbbe Totò: concordo.
Ed
eccoci all’erudizione storica: qui le cose si fan ardue. Veneziano non bruciò
in un carcere del Santo Ufficio. No, vengo erudito e mi dà tedio:
A
me Pedalino non piace: prima fa le carte false per farsi dichiarare
sansepolcrista e poi strilla se per un omonimo dell’abate Vella di Grotte ha
qualche guaio dalle questure (per sua fortuna sottoposte a bravi grandi sbirri
racamutesi). Come poeta mi dice nulla: quasi tutti siamo capaci di tradurre
dall’italico linguaggio allo sciapito vernacolo. Chi ha letto le quartine del
Veneziano si accorge che scrivere versi ispirati in dialetto è tutt’altra cosa.
In campo poetico, il
petrarchismo allora dominante trova modo di esprimersi sia in dialetto con
Antonio Veneziano (1580-1593), autore di un canzoniere in due libri intitolato
"Celia", sia in lingua toscaneggiante con le Rime di Argisto
Giuffredi (1535-1593).