...per
mestiere spiego bene agli altri quello che per me non comprendo.
sabato 5
gennaio 2013
La
“buona tecnica” e l’ipotattico scrivere; favole antiche e questioni d’oggidì.
Recupero
finalmente il pacco con i libri rari speditomi a fine novembre da Agato Bruno.
Risultava introvabile il volume di Pier Maria Rosso di San Secondo “Tutto il
Teatro – la dimensione europea”. Il secondo volume ero riuscito a procurarmelo
a Roma presso la specializzata IBS di via Nazionale.
L’altro volumetto ormai ancora più
introvabile è “La Sicilia, il suo cuore – Favole della dittatura” del nostro
grande Leonardo Sciascia, l’Adelphi l’ha ceduto alla Bompiani ed ha tolto di
circolazione il dignitoso libretto che ospitava al n° 400 della Piccola
Biblioteca. Perché ciò non si sa o io non so o se non so questo non vuol dire
che non sospetti, e di grosso. Debbo notiziare che la casa Editrice dopo
pensamenti mi diffida dal chiosare con splendide pitture di Agato Bruno quelle
favolette scritte da Sciascia prima del 1950. Senza mezzi termini mi invia un
post ove si ardisce interdire opere d’ingegno altrui e non si accordano non
richieste autorizzazioni. Ho avuto voglia di pensare che la simonia non è solo
nelle cose della chiesa cattolica, ma alberga anche tra i mercanti delle opere
di ingegno e tra i locupletanti ereditieri dei sommi e Sciascia sommo lo fu.
Resta
singolare che le pagg. 67-71 accolgano un saggio del 1951 di Pier Paolo
Pasolini, il terzo volume della Bompiani, no. Cosa sia successo non mi è dato
di sapere. Anche qui sospetti .. buoni per eventuali dispetti.
Come
qualcuno sa, mi sono adoperato per far desumere opere pittoriche dal testo
delle favole edite nel 1950 dalla Baldi, pronubo quel Mario dell’Arco che venne
a Racalmuto per piazzare per poche lire alcune sue favole al Circolo Unione. In
cambio, Sciascia pubblicò il suo primo lavoretto presso la tipografia del
Parlamento, Baldi. Di quella edizione posseggo le fotocopie degli omaggi a
pagamento che Sciascia fece del suo primo successo editoriale a Giuseppe
Gregorio Delfino (in Racalmuto il 28/11/1950) ed al suo fido e valido parente
Jachino Farrauto. Il gusto scabro ed elegante della stampa Sciascia ce l’ha già
tutto, e se l’Adelphi con la sua Piccola Biblioteca non scantona troppo, non
altrettanto può dirsi della inelegante pingue edizione della Bompiani. Pervenuto
il libretto Adephi, leggo il Pasolini. Qui il sommo Pier Paolo bleffa alquanto.
Elegia ma fuori campo. Il testo sciasciano esordisce con il latino sempliciotto
di Fedro (superior stabat lupus), cosa da quarta ginnasiale. Ma Sciascia non
credo che sia stato un ginnasiale. Fino a quindici anni scribacchiava da cane
le cartoline “fascistissime” a don Piddu Tulumello. Esaltava e si esaltava per
le adunate che aveva potuto ammirare a Trieste, meta di uno dei suoi giovanili
viaggi a spese di zii federali e di zie maestre elementari. Povere cose –
diceva – quelle di Racalmuto, a confronto. Ma qui almeno la maestra Taibi
faceva sfilare fanciulle in fiore di quella che sarà Regalpetra e tra queste
v’era una tale innominata dal petto straripante che eccitava entrambi i due
corrispondenti. La grammatica a quel tempo era per Nardu un optional. E tale
restò anche nell'immediato dopoguerra per quello che gli rimbrottava un
autorevole firma vaticanesca, come rammento di aver letto.
Dice
Pasolini: “queste favole hanno la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci
pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla
lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea
di questo linguaggio”. “Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua
così ferma e tersa”. Comunque “questi improvvisi bagliori, queste gocce di
sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro
che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non
sia stata una favola”.
L’alato scrivere è fuori discussione, ma
il concetto non dovette essere “tenace” duraturo, se Sciascia a quasi un
decennio dopo sente il bisogno di puntualizzare, gradire eppure contrapporsi,
specificare in un commento al suo riuscitissimo pamphlet “ La Parrocchie di
Regalpetra” e scrivere note come queste: “debbo confessare che proprio sugli
scrittori ‘rondisti’ - Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere”;
“tengo a dichiarare che avendo cominciato a pubblicare dopo i trent’anni, cioè
dopo avere scontato in privato tutti i possibili latinucci che si imponevano a
quelli della mia generazione, da allora non ho avuto problemi di espressione,
di forma se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto
più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica”. Lode a
Pasolini dunque ma per sola buona educazione (e i malevoli direbbero per
convenienza) ma Sciascia non poteva accettare stilemi non congeniali; non
accettabile, dunque, che “la sua ricerca documentaria e addirittura la sua
denuncia”, potessero concretarsi “ in forme ipotattiche, - a dire di Pier Paolo
– sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile
razionalmente (e fino a questo punto la richiesta marxista del
nazional-popolare è osservata) ma anche squisitamente: sopravvivendo in tale
saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo”. In questo tirar
di fioretto tra due antitetici “intelletti” quel che di sicuro emerge è che
Sciascia non era ”marxista”, v’è persino stizza in lui ed i sofismi tra il
conoscibile (che è poi fantasia) e il conosciuto (la galassia della memoria)
sfumano nel “saper raccontare con buona tecnica”. Con sapiente sintesi, con
brevità, canoni cui mi pare Leonardo Sciascia si adeguò con crescente e
mirabile puntiglio.
Mi pare quindi disallineata la pagina
che il professore Antonio Di Grado ci regala nell’introdurre “gli amici della
Noce”. Paratassi oltre i limiti, apparire eruditi citando (un richiamo colto
ogni due righe), avventurarsi solo nel conoscibile, elusivi nella memoria e
nella contemplazione. Il magistero cade su “confrerès”; gli affetti e le
intelligenze sono un grumo intorno ai ricchi silenzi; le citazioni, allusive;
il carisma, sobrio. Si citano le “conversazioni in Sicilia”, ma non Elio
Vittorini: il magistero intellettuale del grande scrittore non avrebbe gradito:
e chiarisce ora il perché, spandendo fuoco nel mare in dispregio dei desiderata
del caro estinto, Paolo Squillacioti (pagg. 186-187).
Desistiamo.
Annusiamo effluvi censori (o di autocensura; peggio). Una triviale domanda: con
un “direttore artistico” di tal fatta quanta speranza residua nei conati di
conseguire gli scopi statutari della Fondazione Sciascia?
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