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Le armi che spararono a Portella
Tra
le varie armi che spararono a Portella vi furono i mitra Beretta, cal. 9. Armi
rivelatrici perchè, a differenza di molti componenti della banda terroristica
di Giuliano, al quale oggi qualcuno irresponsabilmente dedica musical e
teatrini vari, queste sono armi i cui proiettili sono stati riscontati nei
corpi dei feriti. Alcuni di loro sono stati esaminati, in tempi
a noi vicini, dal dottor Livio Milone su richiesta dell’Associazione ‘Non solo
Portella onlus’, rappresentata da chi scrive. Si tratta di feriti che, per
quanto colpiti dai mitra, rimasero miracolosamente vivi, riuscendo a convivere
con i proiettili, o con le schegge di granata, anche per diversi decenni.
Esaminandoli radiograficamente, il dottor Milone ha
riscontrato che tra i vari colpi esplosi certamente vi furono anche quelli di
quest’arma (cal. 9 parabellum) in possesso di Salvatore Ferreri, alias
Fra’ Diavolo. Il confidente dell’ispettore Ettore Messana. Un testimone
scomodissimo che fu liquidato il 26 giugno 1947 dai Carabinieri in un conflitto
i cui contorni sono stati chiariti durante il processo Giallombardo-Casarrubea
riportato in questo stesso blog.
I giudici di Viterbo ci dicono, inoltre, sia pure in un
breve accenno, che quella mattina a Portella furono esplose delle granate. I
contadini le scambiarono per ”mortaretti”, ma quegli spari,
invece, che essi chiamavano “carrittigghi”, avevano lo scopo di
disperdere la folla per consentire che i terroristi-banditi mettessero in atto
i loro piani: sequestrare e uccidere, davanti a tutti, i capi del movimento
contadino presenti sul luogo. Maria Caldarera, un’operaia agricola ferita quel
giorno, sentita dai giudici istruttori qualche ora dopo la strage, ci ha
raccontato che subito dopo gli spari vide “la terra aprirsi e sollevarsi
davanti ai suoi occhi” e che gli effetti prodotti da quelle esplosioni
erano tali che i frammenti metallici degli ordigni raggiungevano gli arti
inferiori provocando ferite penetranti.
Una prima ispezione fra i roccioni fu operata dal capitano
dell’esercito Ragusa, lo stesso pomeriggio del 1 maggio. La prima domanda era
d’obbligo: che armi si erano usate? La verifica fu fatta da graduati
dell’artiglieria di Palermo, che per l’occasione spararono, dal punto in cui si
erano trovate le tracce delle postazioni di armi automatiche, in direzione del
podio (480 metri), usando 1 fucile mitragliatore Breda mod. 30, 4 moschetti
mod. 91, 1 mitra americano, 1 mitra Beretta mod. 1938/A a canna lunga. Ma ci si
sarebbe dovuti chiedere, però, e non risulta dagli atti processuali che
qualcuno se lo sia chiesto, come mai si era potuta registrare una grande
varietà di armi, quando i quattro cacciatori presi in ostaggio, ebbero a
dichiarare, al contrario, che, per tutte le ore in cui restarono sequestrati,
essi avevano visto “dodici individui armati di moschetto militare e di un
fucile mitragliatore, avvolto in una coperta e portato a spalla”. Evidentemente
non c’erano state solo le undici postazioni di tiro individuate.
Il militare poté raccogliere ben oltre 800 bossoli e desumere,
dai punti in cui erano stati in gran parte trovati, che le persone che avevano
sparato erano otto. Era stato preceduto, quel pomeriggio, da Giovanni Parrino
(immediatamente avvisato dal Caiola in mattinata), dal maggiore Angrisani, e
dai commissari Guarino e Frascolla. Il più tempestivo era stato il maresciallo
Calabrò della stazione dei carabinieri di San Cipirello, solerte quanto qualche
altro graduato della vicina stazione di San Giuseppe: si erano messi a
raccogliere bossoli, senza nessun coordinamento, e senza che nessuno abbia mai
saputo a quali armi si riferivano e dove e quando fossero stati repertati e
conservati. E soprattutto da quali posti fossero stati prelevati. Fatto che non
esimeva, però, il Parrino dal dichiarare, davanti al giudice, che “i bossoli
rinvenuti dal Ragusa [erano] diversi da quelli rinvenuti dai carabinieri del
nucleo e della stazione di S. Giuseppe Jato e di S. Cipirello”.
Sul luogo, dopo le prime ricognizioni, furono trovati
complessivamente oltre mille bossoli, non tutti repertati, e non contando
quelli che erano andati a finire nei crepacci della montagna, o che non furono
mai trovati per altre ragioni. Dirà l’Angrisani ai giudici: “Ricordo che furono
rinvenuti caricatori di fucile mitragliatore e di armi automatiche italiane,
senza trovare i relativi bossoli. La qual cosa mi fece supporre che quelli che
spararono raccolsero poi i bossoli”. E’ più ragionevole pensare che siano stati
altri a svolgere questo delicato compito. Erano entrati in funzione fucili
italiani, tedeschi e americani, armi di grande potere balistico, mitra e
mitraglie. Una massa di fuoco imponente. Le stesse forze dell’ordine capirono
immediatamente che, oltre alla banda, c’erano stati altri tiratori. Conoscevano
bene i personaggi, e sapevano che non avevano potuto agire da soli. Lo stesso
Paolantonio dirà: “Ordinariamente, Giuliano, quando doveva compiere un’azione
in grande stile, cercava di neutralizzare le caserme dei carabinieri, e perciò
non è da escludersi che oltre coloro che spararono a Portella vi siano state
delle pattuglie di protezione in vari posti”. Ma non tutto quel
potenziale di morte fu scaricato sulla folla. I primi colpi, come asserivano
diversi testimoni, ad esempio Leonardo Di Maggio, furono sparati in aria,
servirono a fare disperdere la folla. Dirà Giovanni Parrino, che da
carabiniere dovette assistere impotente alla tragedia:
“D.R.: La sparatoria durò circa venti minuti.
D.R.: Ebbi la sensazione che delle pallottole mi lambissero
quasi le spalle; data la posizione in cui mi trovavo e dati i luoghi non
potevano che provenire dalla Pizzuta.
D.R.: Se i primi colpi sparati avessero avuto la direzione e
la prensione che ebbero gli ultimi, lì a Portella si sarebbe avuto un secondo
cimitero di Piana.
D.R.: I primi colpi non furono neppure da me avvertiti o
almeno non li intesi passare sulla testa e quindi penso che avessero avuto una
direzione verso l’alto.
D.R.: Non posso dare spiegazione come mai i primi colpi non
avessero raggiunto il podio, perché era naturale che si volessero colpire
quelli che erano attorno al podio che dovevano essere le autorità”.
Giuliano si era distinto per avere adoperato il
mitragliatore Breda 30 cal. 6,5; la maggioranza della banda aveva usato,
poi, il moschetto militare mod. 91 cal. 6,5, qualcuno la carabina
americana cal. 7,6, o il mitra corto Thompson. Ma si era fatto ricorso anche ad
armi che non erano solitamente in dotazione alla banda, quali il fucile a
ripetizione Enfield, il fucile mitragliatore Bren, il moschetto automatico
mitra Beretta cal. 9. Sette tipi di armi diverse, in tutto. Ad esse dovevano
essere aggiunte quelle usate dal versante del Kumeta, e le altre che avevano
sparato dalle postazioni disseminate, che nessuno identificò mai per il
semplice fatto che nessuno si prese la briga di effettuare un’analisi
dettagliata su tutto il terreno di Portella, nel raggio di almeno 500 metri
attorno al podio. In ogni caso, la superficialità nell’espletamento delle
ricognizioni è dimostrata dalle contraddittorie relazioni degli ufficiali che
se ne occuparono. Bastino, per tutte, quelle del Ragusa, ribadite l’indomani (8
maggio) dal Frascolla, e dell’Angrisani che redasse la sua relazione qualche
giorno dopo:
I giudici romani fecero notare: 1) che nella prima relazione
mancava ogni riferimento ai reperti dei mitra Beretta; 2) la notevole
difformità sui caricatori e sui bossoli. Questa contraddizione non poteva
spiegarsi, soprattutto se si poneva mente al fatto che le indagini sul
terreno furono avviate dal Ragusa lo stesso primo maggio e che questi nella sua
relazione aveva “omesso di menzionare altre sei postazioni rinvenute più in
basso”.
“Mancò -scrivevano- un coordinato piano di azione per la
conservazione delle tracce del reato, o quanto meno per l’esatto accertamento
di esse, ai fini dell’identificazione topografica di tutte le postazioni da cui
i malfattori avevano sparato; taluni degli investigatori, non ritenendolo
compito proprio, non riferirono nulla all’Autorità giudiziaria, altri,
distratti forse da più pressanti incombenze, omisero di esporre in modo
completo i risultati delle loro osservazioni.
[ ... ] E’ manifesto -concludevano- che, purtroppo, da parte
di coloro cui incombeva l’onere della conservazione di tali reperti non si ebbe
la percezione della importanza di essi, e non si pose la dovuta cautela nella
loro custodia”.
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