Gli
stravolgimenti geologici
Sette milioni di anni fa – qualche secolo in più, qualche
secolo in meno – terminava il lungo processo di prosciugamento marino del
territorio racalmutese: abbattuto l’ultimo ostacolo nei pressi di Cozzo Tondo,
le acque defluirono anche da quel versante verso Passo Fonduto, e di là, lungo
il Platani, verso il mare. Dal Castelluccio erano scivolati scisti di pietra
dura, che scivolando verso il fiumiciattolo della Ciarla, appariranno agli
autoctoni dell’epoca sicana provvidenziali macigni per le loro tombe, a mezzo
tra la tecnica del “forno” e quella del “Tholos”. Alla luce dell’attuale
scienza geologica – destinata a venire travolta dalle tecnologie
dell’incombente futuro – siamo in tempi pliocenici.
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto
raggiunse, dunque, l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era
terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo,
visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni.
Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale
l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”. Ed anche qui trattasi
di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima
di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un
primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche ebbero ad abbozzare un
cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo
avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto
connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione
pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo
una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan, Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono
familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal
terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno dato i
loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati
sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue
quattro strati nel sottosuolo racalmutese:
1) complesso
argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e
Messinese.
4) una formazione
di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi
(Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del
Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura
uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo». Secondo tale affascinante teoria, le ricchezze
della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel
geologico vibrione; il che per qualche verso sa di beffarda premonizione e di
malefica iella.
Preistoria
racalmutese
Sull’altipiano di
Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre
quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta
prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano,
fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal
XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione
che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli
influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale
e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare
testimonianze che superassero l’onta del tempo).
Ma a che
epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso
teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi
che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,
in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la
terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L’insediamento
di Fra Diego è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si
effigiano uomini e dei. Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava
alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione
tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con
lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde'
di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Quello che
si diparte da Licata sino ai pressi della galleria ferroviaria prossima al
bivio Canicattì-Castrofilippo, viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. I reperti fittili salvati
dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo
siciliano. Le relative tombe a forno sono andate del tutto disperse per lo
sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto,
non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione
da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel
solerte ingegnere delle ferrovie. Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe
antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga
tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un
gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va
da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in
una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito
da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su
vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879]
furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» Si ha,
quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta
anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti
di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un
calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma
di un conno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me
descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei
Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti
d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà
indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà
in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi
ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui
è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la
descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora
portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa -
presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che
le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media
Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo
dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono
tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare
«ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» Il Monte
Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di
vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione
interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato,
come la rarefazione delle testimonianze archeologiche sembrano comprovare.
VERSO
L’AVVENTO DEI GRECI
Non riusciamo a resistere alla forte tentazione di formulare
nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi
racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione,
per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla
cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno».
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare
gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo
benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle
tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse
minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono
sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro
fu loro fatale.
A questo
punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei
Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal
mare, i Sicani di Racalmuto sembra abbiano preferito ritirarsi entro le più
sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle
agrigentina, per i radi indigeni di
Racalmuto fu il definitivo tracollo.
I moderni
storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo
geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi
di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, quella violenza la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia,
violandole con nozze coatte.
Un doppio
dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di
immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi
dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco
le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina.
Allora il nostro Altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano
giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C.,
per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione greca. I cadetti
greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato
del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche
Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra
Grotticelle e Casalvecchio, e, secondo recentissimi ritrovamenti archeologici,
anche alle falde del costone di Fra Diego. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino
non attestano solo l'inclusione
di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi
dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da
quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I
nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per
trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se
non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della
gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti
negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi,
feroci ma liberi, anarchici e misantropi, irriducibili ed incoercibili, simili
a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di
uomini fieri e ribelli. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto
l'ha potuto registrare solo molto di recente. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL
PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere
pertinenza rurale della polis di
Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la
tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo
fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Il piccolo
centro abitato vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che
poterono appropriarsi delle terre dell’Altopiano sito ad Oriente. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli
indici della loro presenza.
E' certo
che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli
Orlandini ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o più recentemente il La Rosa a Milena, a noi non resta che
avventurarci in malcerte congetture.
In una
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente
ubicata attorno a S. Cataldo o comunque nei pressi di Caltanissetta.
Quando vi
fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel
450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò queste nostre contrade: per quei
tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero
però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas,
sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di
Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria
di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine
dell’Ottocento-.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continuava a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Restava pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con quello di Siracusa, Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. E qui da noi circolavano anche le monete col granchio agrigentino,
testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la
locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone,
«violento ed assassino», per Diodoro Siculo.
La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico,
non fu forse neppure avvertita. Non
sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che
venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi
delle terre.
Dopo il
427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge
Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta
sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale
e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e
lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche
Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma ci suonano
attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli
ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa
trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte, Imera e persino tra i siculi
di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli
ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al
solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine
e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di
prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale
di quella polis, ne segue sicuramente
le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a.
C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu
l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo
della vicina polis akragantina.
Nel 406
a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas
iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e
potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come
vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle
indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però,
la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I
cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere
d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per
quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di
cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono
col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel
nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville,
ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio,
relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e
remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla
popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze
cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
tramutava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati
a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di
monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di
Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano
proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei
secoli.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature di Dione o di Timoleonte (357-317
a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente
assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio:
grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via
dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di
vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non
credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero
sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le
monete di cui abbiamo detto sopra.
LA
PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città di stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro.
Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa
ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a.
C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e
Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine
e vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa
nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264
a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire la scansione di un'oscura appendice della lontana e
suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo
Cicerone: «prima docuit maiores nostros
quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa
gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E,
ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto)
saranno per i romani nient'altro che «extera
gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi
abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa,
abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare
alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra
punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i
parenti che si erano stanziati nella vicina polis;
distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni:
verso lo spirare del secolo, Akragas e
la vicina Eraclea Minoa appaiono
saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio
movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000
cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di
approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti
alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a
Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per
mano militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti
belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo
delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas
cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni
diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a
Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace
per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia
al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria
Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola,
a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quell'estensione avviene con la lex
Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi
di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna agli inizi del secolo furono
rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli
esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i
proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle
voragini del monte Castelluccio per il timore di espropri o molestie da parte
delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu
trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione
esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una
iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe
di Torremuzza, nel suo "Siciliae et
adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A
pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a
Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»]
poteva leggersi la seguente epigrafe:
C*
PP. ILI* F* FUSCI
RMUS.
FEC.
Il Mommsen diede
credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi
volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma
amputandola del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di
nome FUSCO, del tutto ignoto alla
storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana. Marziale augura al
potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28);
Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu
console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una
famiglia Fusco siciliana non sembra essere esistita.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o
in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino,
prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma di miniere racalmutesi non si ha non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., sotto
Commodo, secondo una fallace lettura del Salinas, si registra una svolta
economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come
alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza fu l’avv. Giuseppe Picone,
figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma
si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore
degli scavi e dei Monumenti di Girgenti
ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Emerge
un’appropriazione indebita da parte del grande tedesco ai danni del modesto
avvocato con antenati racalmutesi. Burocraticamente l’oggetto della
corrispondenza si denoma: Mattoni antichi
con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un ottocentesco alto burocrate
del Ministero della Pubblica Istruzione di quel tempo, il dott. Donati,
interpella saccentemente il Picone, segnala e pretende di sapere:
Il dr. Mommsen reduce dal suo
viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli
fittili con ricordi di preposti alle miniere sulfuree nei primi secoli
dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i
maggiori ragguagli.
L’interpellato risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) in
termini dimessi ma di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo
racalmutesi al tempo dei Romani:
Furono or sono pochi anni scoverti
nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi,
con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi
si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate
al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFURIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di
sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei.
Il Mommsen fu poco grato al Picone: pubblica - unitamente al
Desseau - i dati epigrafici nei volumi
del C.I.L. ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con una semplice
menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica,
ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza
dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.
Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di
reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e
finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del secolo scorso, il SALINAS aveva modo di
rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle che Mommsen
impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo
di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che
le aveva rinvenute presumibilmente nei dintorni di Santa Maria, nella
costruzione di un sepolcro.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad una lettura piuttosto arruffata che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei. Altre «tegulae» sono state rinvenute nel 1947
in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo, si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così
sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole
quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo,
rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il
Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo
immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome
di gàvite, nel fondo dei quali sono
parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte
in quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere
di Sicilia ha notato.»
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che
pare riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al
IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe
su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una
nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere.
Sotto la data del 22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro:
Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva
sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il
giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella
caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI
DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo
d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo
d.C. In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il
noto sarcofago del Ratto di Proserpina.
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi non resta
del tutto valido l’appunto della Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno
conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La coincidenza tra
la data del sarcofago e quella della tegula
studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di
zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e
l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui
ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi
è materiale di risulta che pare trattarsi di materiale ceramico databile ad
epoca post-normanna. In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva
l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento dello
zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in
Kokalos: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e
l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al
commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si
rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza
continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La produzione
era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il
silenzio dei documenti». Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della
miniera di zolfo, data la formula Ex
praedis M. AURELI. Di recente Giovanni Salmeri ha iniziato l’opera di
revisione nei confronti del Salinas, anche se non ha avuto il coraggio di
andare sino in fondo e lasciar perdere con la datazione commodiana delle
miniere solfifere racalmutesi: «le lastre della Sicilia […] sono state
rinvenute a Racalmuto – scrive lo studioso catanese di storia romana – in forma
intera adoperate come materiali da costruzione per sepolcro; su di esse si legge
la formula ex praedis/
M.Aureli/Commodiani». E’ piuttosto circospetto il Salmeri quando annota:
«Salinas in luogo di Commodiani
preferiva leggere Commodi Ant(onini)
pensando all’imperatore.» In effetti si trattava o di un abbaglio o peggio. Ma
scoperto l’inganno, la tentazione a datare comunque le lastre è invincibile e,
divenuto l’imperatore Commodo, “il liberto imperiale M. Aurelio Commodiano”,
non si rinuncia pur tuttavia a “collocare nei decenni finali del II secolo d.
C. ”il praedium in questione”.
I dati archeologici disponibili
permettono comunque di abbozzare dati descrittivi sull’industria solfifera
racalmutese ai tempi dei Romani, nonché alcune linee evolutive di quell’antica
economia mineraria. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro - pur essendo nulla rimasto delle antiche
miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di
estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace
aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento
nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione
specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida[sse] la gestione della miniera
e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta
al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una
organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà
imperiale emerge, in posizione evidenziata, la figura del concessionario
titolare dell’officina, dell’attività
industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «il manceps, figura che assume sempre
maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina
e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore.
[..] Il manceps tende ad assumere per
appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un
significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro
che attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignorava lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.»
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes
in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del
Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi
stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV
sec. d. C. là dove, poi, per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della
specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in
contrada Grotticelli, è per tanti
versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a
determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo. Ma i resti archeologici che
ormai vanno affiorando con ritmo crescente e con maggiore attenzione da parte
delle autorità, attestano necropoli bizantine sotto il Ferraro e soprattutto un
centro abitato – che per padre Salvo è il Gardutah dell’Edrisi – sotto la
grotta di fra Diego, come già si è avuto modo di accennare.
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