Verso il dominio dei Chiaramonte
Nel 1296, uno strano usurpatore - Federico III d’Aragona -
veniva incoronato re di Sicilia: era l’ex viceré che - officiato di tale incarico dal fratello Giacomo,
succeduto nella corona d’Aragona mentre era re di Sicilia - ardiva
ribellarglisi ed assentire alle trame autonomiste dei potetanti dell’Isola fino
alla ribellione completa, all’acquisizione del titolo regale.
Federico III potè detenere il regno di Sicilio per un
quarantennio, grazie a compromessi, ad abilità diplomatiche, a tregue, a
concordati ed altro. C’è chi afferma che tale quarantennio si stato comunque un
lungp periodo di lotta contro la Napoli angioina e c’è chi vuole il locale
baronato tutto preso dell’ideale dell’indipendenza dell’Isola. Per converso
Denis Mack Smith ha voglia di demitizzare: «in realtà, - scrive lo storico
inglese - interessi egoistici prevalsero
in questa guerra, e nulla se ne ottenne salvo distruzioni.» Valutazione estremistica,
inaccettabile se ci si avventura in inveramenti fattutali e puntuali. Non
crediamo, ad esempio, ne ebbe solo distruzioni: anzi, sviluppo demografico,
lavori pubblici per fortificazioni, profitti da commercializzazioni del grano,
necessario al vettovagliamento delle parti in guerra, sembrano i connotati
affioranti da questo travaglio della storia locale.
Federico III conclude nel 1302 una “pace di compromesso”:
gli bastò promettere di chiamarsi re di Trinacria, anziché di Sicilia: un
cedimento di poco conto, che peraltro neppure formalmente osservò. La guerra
ricominciò nel 1312 e durò, ad intervalli, fino al 1372.
Se vogliamo credere al Fazello, proprio in questo intervallo
di pace, un membro cadetto dei Chiaramonte avrebbe avuto voglia di innalzare nell’attuale
piazza Castello di Racalmuto una costosissima coppia di torri difensive,
apparentemente inutile e dispersiva. Francamente, la cosa non convince molto:
le fonti scritte tacciono, quelle archeologiche sono tutte di là a venire.
Il povero Fazello, invero, non è che si sbilanci troppo; si
limita ad annotare: «A due miglia da qui [Grotte] si incontra Racalmuto, centro
fortificato saraceno, dove c’è una rocca costruita da Federico Chiaramonte, a
cui succede, a quattro miglia, la rocca di Gibellina e poi, a otto miglia il
villaggio di Canicattini.»
Dal passo si evince che il Fazello comunque non aveva dubbi
sul fatto che la rocca racalmutese fosse stata “erecta a Frederico Claramontano”. Ma chi fosse codesto Federico non
è poi del tutto chiaro, potendo anche essere Federico Chiaramonte I, il
capostipite della famiglia, nel qual caso la datazione della fondazione del
Castello retrocederebbe e di molto.
Da dove abbia tratto
la notizia il Saccense, non è dato sapere: era comunque storico serio per
abbondonarsi a dicerie inconsistenti. Ci ragguaglia, però, in termini
circospetti e tanto deve spingere a cautele chi, a distanza di secoli, cerca di
investigare quelle vicende così basilari per lo sviluppo del centro abitato di
Racalmuto. Tinebra Martorana, ad esempio, non sa tenere strette le briglie e si
sbizzarrisce nella raffigurazione di improbabili indeudamenti da parte dei
Chiaramonte (pag. 63) o insostenibili sviluppi edilizi del Castello stesso
(capitolo X e in particolare pag. 71). Chi ha voglia di credergli, continui a
farlo. A noi sembrano solo giovanili fantasticherie, frutti acerbi di
irrefrenabile visionarietà.
Se poi diamo credito al San Martino de Spucches, proprio in
coincidenza dell’erezione del Castello, Manfredi Chiaramonte avrebbe fatto erigere
il vicino Castelluccio - ma qui crediamo che si tratti di un abbaglio: c’è
confusione con la rocca di Gibellina in provincia di Trapani. Per il San Martino, dunque, «IL
FEUDO DI GIBELLINI è in Val di Mazzara, territorio di Naro, da non confondersi
con l'altro sito in territorio di Girgenti, sul quale sorse poi la terra di
Gibellina, eretta a Marchesato. Appartenne per antico possesso alla famiglia Chiaramonte, dove Manfredo vi
costruì la fortezza; in ultimo lo possedette Andrea Chiaramonte; questi fu dichiarato fellone, ed in Palermo a
giugno 1392 sotto il suo palazzo, detto lo STERI,
ebbe tagliata la testa.» Una qualche astuzia stilistica cela la confusione in cui
si dibatte il peraltro avveduto arabista. Con franchezza, dobbiamo ammettere
che nulla di certo sappiamo sulle origini del Castelluccio: solo a partire
dalla fine del secolo XIV possiamo essere sicuri della sua esistenza.
Il Tinebra Martorana ed Eugenio Napoleone Messana sono
facondi nell’enfiare le rare e malcerte notizie degli storici secentisti che
hanno scritto delle cose racalmutesi di questo periodo. Faremmo vacua
erudizione se si mettessimo qui a contestare tutte quelle inverosimiglianze: in
encomiabile sintesi le aveva già additate il padre Bonaventura Caruselli,
quello che che per primo ci dà una versione della saga della Madonna del
Monte.
«Decaduta la famiglia
Barrese - scrive il frate di Lucca - e devoluto Racalmuto al Regio Fisco fu
concesso a Giovanni Chiaramonte Barone del Comiso. Federico secondo di questo
nome terzogenito di Federico primo Chiaramonte fabricò il magnifico Castello
tutt'ora in gran parte esistente. Onde si riuta l'opinione d'alcuni che
pretendono il Castello costruzione saracena. Il Fazzello, Inveges, il Pirri
confermano la nostra opinione. Dominò Racalmuto la famiglia Chiaramonte fino
all’anno 1307 passando, pel matrimonio di Costanza unica figlia del Barone
Federigo con Antonio del Carretto, a questa nobile ed illustre famiglia.»
Quel che resta da una rigorosa investigazione storica è ben
poco: non si può escludere l’impossessamento di Racalmuto da parte della
emergente famiglia Chiaramonte: avvenne, però, con usurpazioni che l’oblio dei
secoli impedisce di puntualizzare. Racalmuto passa, comunque, nello stretto
arco di tempo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, dalle libertà comunali alla
crescente sudditanza feudale: una sudditanza che si radicalizza solo a metà del
‘500 con la compera da parte di Giovanni del Carretto del mero e misto impero.
Il Caruselli va epurato dei falsi quali quello attinente all’inesistente
dominio dei Barresi, e quali quello che vuole Racalmuto preso da un ignoto
Giovanni Chiaramonte, barone di Comiso. Altri aspetti della ricognizione del
lucchese sono accettabili, purché meglio chiariti.
Quando, come, in che misura i Chiaramonte si impossessano di
Racalmuto?
Al tempo dell’intesa tra l’Angiò e Giacomo d’Aragona, si è
detto che Racalmuto venne a Napoli assegnato a Piero Di Monte Aguto e siamo nel
1299: era promessa avventurosa ed il beneficiario spagnolo aveva poche
probabilità di vedere avverata la regale assegnazione. Qualche eco ebbe a
giungere in loco. La famiglia
agrigentina dei Chiaramonte rivolsero allora i loro occhi a queste terre
alquanto periferiche: Manfredi si assegnò il territorio del Castelluccio e potè
benissimo muninerlo di una fortezza; il fratello cadetto Federico II si
dichiarò padrone del casale e dell’agro circostante, non mancando di ergervi
l’attuale Castello, sia pure nella sua embrionalità costituita dalle due torri
cilindriche. Costruire torri cilindriche in quel tempo era divenuta ardua
impresa per il diradamento delle maestranze fredericiane. Ed allora? Un
interrogativo che può dissolvere la fondatezza della congettura che siamo stati
per raffigurare. Solo i futuri scavi archeologici potranno chiarire il mistero:
un mistero che si aggrava se i nostri privati ritrovamenti di ossame e di
ceramiche sotto gli interstizi tra le due torri dovessero segnificare presenze
abitative o necropoli medievolati antecedenti il XIV secolo. Le ossa non
sembrano invero umane; i cocci sono angusti per configurazioni significative.
La congiuntura feudale è icasticamente ricostruita da
Illuminato Peri e noi ci accodiamo in
tutta umiltà: «Fu alle soglie del secolo XIV, quando, sotto gli Aragonesi,
mancò un controllo inibente da parte della monarchia, e le concessioni si
moltiplicarono, che i loro feudi e la loro influenza si allargarono; e fu
proprio allora che entrò nella vita cittadina un ramo dei Chiaramonte. Prima,
per tutto il secolo XIII, il feudo non ebbe il sopravvento, e particolarmente
nelle vicinanze della città, non ebbe larga parte neppure la grossa proprietà.»
Sulla famiglia Chiaramonte, si hanno varie trattazioni di
valore però più araldico che storico, specie per quanto attiene agli esordi.
Chi ha voglia di dilettarsi sulle mitiche origini di codesta nobile schiatta
può consultare l’Inveges o il Mugnos oppure accontentarsi della diligenza del
nostro Tinebra Martorana che non manca di ragguagliarci sulla discendenza da
Pipino o da Carlo Magno; sui tanti porporarti, alti dignitari e principi reali
che la avrebbero contraddistinta; sul suo valoreatto a 174infrenare l’orgoglio dei re e costringerli
ad umiliazioni.»
Ciò che a noi preme sottolineare è solo il fatto che nei
primi del XIV secolo Racalmuto fu in effetti sotto l’influenza di Costanza
Chiaramonte. Chi fu costei? Non abbiamo elementi per contraddire l’Inveges che testualmente così la raffigura:
« Da questo nobile
matrimonio [ e cioè da Federico II Chiaramonte e tale Giovanna] nacque Costanza
unica figliuola, che nel 1307 nobilmente si casò con Antonino del Carretto;
Marchese di Savona, e del Finari, con ricchissima dote e facendosi il contratto
matrimoniale in Girgenti nell'atti di Not. Bonsignor di Thomasio di Terrana à
11. di Settembre 1307 doppo ratificato in Finari l'istesso anno. come riferisce
Barone, [De Maiestat. Panorm. litt. C.] raggionando di questa casa Carretto nel
suo libro: l'istesso che ci confirma il testamento nel 1311. à 27 di decembre
10 Ind. e poscia publicato à 22 di Gennaro del 1313. nell'atti di Not. Pietro
di Patti con tali parole: Item instituo, facio, et ordino haeredem meam
universalem in omnibus bonis meis Dominam Costantiam Filiam meam, Consortem
Nobilis Domini Antonini, Marchionis Saonae, et Domini Finari. Cui Dominae
Constantiae haeredi meae, eius filios, et filias in ipsa haereditate substituo,
ita tamen, quod si forte, quod absit, dicta Domina Costantia absque liberis
statim anno impleverit; quod ipsa haereditas ad Dominum Manfridum Comitem
Mohac, et Ioannem de Claramonte Milites, Fratres meos, legitime et integre
revertatur.
2. Venne
Costanza per la morte di Federico Padre ad esser Signora, e padrona
dell'opolenta eredità paterna; e dal suo matrimonio nascendo Antonio del
Carretto primo genito, li fece doppò libera e gratiosa donatione della Terra di
Rachalmuto: come appare nell' [pag. 229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in
Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344. quale insin ad hoggi detta famiglia Del
Carretto possede. Frà breve spatio d'anni Costanza restò per l'immatura morte d'Antonino
suo Marito vedova nel Finari, e per ritrovarsi bella; nel fiore della sua
gioventù, e ricca, passò alle seconde nozze con Branca, altrimente detto,
Brancaleone d'Auria, alias Doria; famiglia nobilissima di Genova; e che
nell'anno 1335 fù Governatore nella Sardegna: Riuscì cotal matrimonio fecondo
di prole. Poiche generò 1. Manfredo; da cui descese Mazziotta, 2. Matteo, 3.
Isabella; moglie di Bonifacio figlio di Federico Alagona; da cui nacquero
Giancione, e Vinciguerra Alagona. La quarta fù Marchisia; che fù moglie di
Raimondo Villaragut, delli quali nacquero Antonio, e Marchisia Villaragut; Nel
quinto luogo nacque Leonora, moglie di Giorgio Marchese. Doppo Beatrice; e la
7. & ultima si fù Genebra.
1.
Costanza,
restando la seconda volta Vedova, finalmente si morì in Giorgenti, havendo
prima fatto il suo testamento, e publicatoil 28 marzo 1350 nominando suoi
esecutori testamentari il suo primogenito Manfredi, il vescovo Ottaviano
Delabro ed il priore del convento di S. Domenico.»
Noi siamo certi che la suddetta Costanza Chiaramonte ebbe la
disponibilità di Racalmuto (sotto quale titolo, però, non sappiamo) per la
testimonianza che ricaviamo da un diploma originale del 1399 ove tra l’altro si
specifica che i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto patteggiano fra loro il
riparto dei beni che per taluni versi derivano dalla loro ava Costanza
Chiaramonte. Si tratta dell’atto
transattivo in cui Gerardo cede al fretllo Matteo del Carretto, atitolo
oneroso:
«omnia
iura omnesque actiones reales et personales, universales, directas, mixtas
perentorias, tacita, civiles et expressas,
que et quas praedictus dominus Gerardus, tamquam primogenitus, habet et
habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice
domine Constantie de Claramonte eius avie, quam eciam hereditatis magnificorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto, eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
eciam quocumque alio iIure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione, occasione vel causa et specialiter in baronia
Racalmuti ut primogenito magnificorum
quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris/ eius territorio castro et
casali, nec non in bonis burgensaticis videlicet territorio Garamuli et
Ruviceto Siguliana terminis, cum onere
iuris canonicorum civitatis
Agrigenti ... .. ..et eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysii de Monteaperto ex parte meridi, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex partem orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines ac eciam in quoddam viridario quod dicitur ‘lu
Jardinu di la rangi’ posito in contrata Santi Antonij Veteris, cum terris
vacuis vineis, et toto districtu in p..io iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis, viam publicam ex parte occidentis, et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento, nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus
sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus (?) in
omnibus et singulis bonis stabilibus,
castris, villis baronijs feudalibus et burgensaticis ubique sistentibus.»
Ci pare di poter tradurre: «il predetto Gerado vende e avendone il potere di vendita concede e per
tratto della nostra penna di notaio trasferì ed assegnò al magnifico ed egregio
don Matteo, milite, marchese di Savona, suo fratello, presente e compratore,
che riceve ed accetta per sé e suoi eredi e successori, in perpetuo, tutti i
diritti e tutte le azioni reali e personali, universali, dirette, miste,
perentorie, tacite, civili ed espresse, che e quali il predetto don Gerardo,
come primogenito, ha e può o deve avere, per diritto di successione o
ereditario riveniente dalla quondam magnifica donna Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché per diritto
ereditario riveniente dal quondam
magnifico signore don Giacomino [Jacobinus] del Carretto, suo fratello,
così pure per diritto di successione ed eredità riveniente da quondam magnifico Matteo Doria ed anche
per qualunque altro diritto spettante al detto don Gerardo per qualsiasi
ragione, occasione o causa e segnatamente in ordine alla baronia di Racalmuto - come primogenito dei defunti suoi
magnifici genitori ed erede di suo fratello Giacomino - ed al pertinente territorio, castello e casale,
nonché in ordine ai beni burgensatici siti nel territorio di Garamoli,
Ruviceto [Rovetto ?] e Siguliana, con
i gravami verso i canonici della città di Agrigento, ed anche in ordine ad un
tale palazzo esistente nella città di Agrigento vicino al palazzo del magnifico
Luigi di Montaperto, dalla parte di mezzogiorno, nonché alla chiesa di S.
Matteo ed ai casalini degli eredi del fu don Federico di Aloisio nella parte
orientale, e prospiciente la via pubblica ad occidente, e con altri confini.
Del pari, viene venduto un giardino che chiamano “lu jardinu di l’arangi” posto
nella contrada di S. Antonio il Vecchio, con terre vacue, vigne, e l’intero
distretto ove scorre il fiume della detta città nella parte orientale e
confinante con la via pubblica ad occidente ed altri confini; e sopra di esso
gravano gli oneri che ha la chiesa di S. Domenico di Agrigento. Inoltre, il
predetto atto si estende a tutti e singoli i beni feudali, burgensatici e censi
esistenti nella città di Palermo e nel suo territorio con i suoi diritti su
tutti e singoli beni stabili, castelli, villaggi baronali, feudali e
burgensatici ovunque esistenti nell’intero Regno di Sicilia.»
E’ un passo che sancisce la storicità di Costanza di
Chiaramonte, prima signora di Racalmuto; il casale passa al figliolo Antonio
del Carretto - che Costanza ebbe dal
primo marito l’omonimo Antonio del Carretto - e quindi al nipote Gerardo del
Carretto per finire al fratello di costui Matteo del Carretto. Vero è altresì
che a Matteo del Carretto giugno anche i beni dello zio paterno Matteo Doria,
figlio del secondo marito di Costanza, Brancaleone Doria.
Resta quindi incagliata in questa griglia la vicenda feudale
di Racalmuto dal 1313 al 1392 e sembrerebbe che i Chiaramonte siano estranei
alle locali vicende di questo periodo, fatta eccezione del breve perido in cui
la baronia sembra im mano di Costanza Chiaramonte. Ma è così? Purtroppo, un
documento pontificio del 1376 - che avremo occasione dopo di meglio esplicare -
revoca in dubbio una siffatta impostazione. Forse le terre racalmutesi furono
di proprietà dei Del Carretto solo come beni burgensatici, mentre l’egemonia
feudale rimase una prerogativa dei turbolenti Chiaramonte del XIV secolo.
Racalmuto subì dunque i travagli che la famiglia agrigentina procurò con la sua
strategia politica e con i suoi ribellismi. In che misura? anche qui un
mistero.
E’ complessa la pagina della storia dei Chiaramonte di
Agrigento per l’intero secolo XIV. In sintesi, possiamo solo rammentare che
all’inizio della loro potenza fu rimarchevole soprattuto la figura femminile di
Marchisia Prefolio, sposata con Federico I Chiaramonte. I tre figli - Manfredi,
Giovanni il Vecchio, Federico II -
ebbero storie simili ma distinte. Manfredi avrebbe sposato nel 1296 Isabella Musca figlia del conte di
Modica, quello di cui abbiamo detto essere forse il barone di Racalmuto al
tempo di Carlo d’Angiò. La contea di Modica passa, quindi, a Manfredi Chiaramonte. Siniscalco del re
Federico III diventa signore di Ragusa. Nel 1300 succedeva alla madre nella
contea di Caccamo. Nel 1301 difendeva Sciacca. Stipulata la tregua tra i re di
Napoli e Sicilia (1302-1312), Manfredi avrebbe fatto edificare il palazzetto
della Guadagna a Palermo. Otteneva anche nel 1310 dalla chiesa agrigentina la
concessione enfiteutica di un tenimento di case per la costruzione di un’altra
sua dimora che si chiamò Steri
(l’attuale seminario vescovile). Ambasciatore presso l’imperatore Arrigo VII di
Lussemburgo nel 1312. E’ nominato nel 1314 capitano giustiziere di Palermo.
Muore attorno al 1321, lasciando come suo erede il figlio Giovanni I.
Giovanni Chiaramonte, detto il Vecchio, sposa Lucca Palizzi.
Nel 1314 comanda la flotta siciliana contro Roberto d’Angiò che assediava
Trapani. Nel 1325 coadiuva efficacemente Blasco d’Aragona nella difesa di
Palermo contro l’assedio delle truppe angioine comandate da Carlo di Calabria.
Diviene vice ammiraglio del Regno e poi capitano giustiziere di Palermo. Il Picone
ci assicura che «Giovanni possedette in Girgenti e nel suo territorio
case palagi castella, e terreni che egli economizzava, e nel 1305 permutava il
suo casale Margidirami, o di Raham come leggesi in alcuni diplomi,
colla chiesa nostra, e ne riceveva in corrispettivo il casale Mussaro, col suo fortilizio coi
casamenti, e i terreni che locingevano, perché la chiesa non bastava a
mantenerlo e custodirlo. - Così egli aumentava le sue guarnigioni nelle
vicinanze della città.» Sarà stato per questo e mal leggendo il Musca (Ruolo
n.° 23) che i nostri storici locali hanno dato la stura a tutta una serie di
falsi, propinati ingordamente, sulla baronia di codesto Giovanni Chiaramonte su
Racalmuto. Quest’ultimo muore nel 1339.
Il terzo dei figli - Federico II - ci tocca direttamente:
signore di Favara, Siculiana e Racalmuto, muore nel 1311, lasciando erede la
figlia Costanza.
Il figlio di Manfredi - Giovanni Chiaramonte - eredita la
contea di Modica, la signoria di Caccamo ed altri beni feudali nel 1321; sposa
Leonora d’Aragona, figlia illegittima del re Federico III e diviene
ambasciatore straordinario presso l’imperatore Ludovico IV il Bavaro, di cui
ottiene signorie e privilegi in Ancona e Napoli. Nel 1329 una svolta:
aggredisce Francesco I Ventimiglia, conte di Geraci, reo di avere ripudiato la
moglie Costanza che era sorella appunto di Giovanni Chiaramonte. Deve scappare
in esilio per sfuggire al castigo del re. Si rifugia alla corte di Ludovico il
Bavaro ed offre quindi i suoi servigi a Roberto d’Angiò. Passato così al nemico,
partecipa nel 1335 alle scorrerie degli Angioini nelle coste siciliane. Muore
frattanto Federico III ed il successore Pietro II lo richiama nel 1337
dall’esilio e lo reintegra nei beni ad eccezione di Caccamo e di Pittinara.
Giovanni Chiaramonte assurge nel 1338 alla carica di giustiziere di Palermo.
Ora combatte contro gli Angioini e riconquista i territori siciliani ancora in
loro possesso. In una battaglia navale, combattuta nel 1339, cade prigioniero
degli Angioini ed è costretto a vendere al ricchissimo cugino Arrigo, maestro
razionale del regno, i suoi beni per pagare il riscatto. Muore nel 1343 senza
eredi maschi.
L’intreccio avventuroso di Giovanni II Chiaramonte travolge
l’intera Sicilia e quindi anche Racalmuto, ma è tale per cui il fulcro politico
di quella famiglia egemone passa di mano e perviene ai tre cugini Manfredi II, Arrigo e Federico
III, figli di Giovanni il Vecchio. Gli altri due cugini - Giacomo e Ugone -
hanno o vaga apparizione (Giacomo è governatore di Nicosia e vi batte moneta) o
al di fuori del nome (Ugone) non se ne sa nulla.
Manfredi II si ammoglia due volte; eredita dal cugino
Giovanni II tutti i suoi beni in virtù di una clausola contenuta nel testamento
di Manfredi I. Assurge alla carica di giustiziere di Palermo (1341) e quindi
receve l’investetura degli stati dopo averli riscattati dal fratello Arrigo
(1343). Anche Racalmuto vi rientra? Non abbiamo elementi dosrta per articolare
una qualsiasi risposta. Nle 1351 Manfredi II diviene vicario generale del
Regno, Gran Siniscalco e Gran Connestabile. Muore nel 1353, lasciando eredet il
figlio Simone avuto dalla seconda moglie (Mattia di Aragona).
Arrigo Chiaramonte compra (1339) da Giovanni II la contea di
Modica e diviene maestro razionale del Regno. Sempre nel 1339 partecipa con il
fratello Federico III alla riconquista di Milazzo per il re Pietro II.
Federico III Chiaramonte sposa Costanza Moncada e diviene
governatore di Agrigento. Nel 1339, come si è detto, partecipa alla conquista
di Milazzo per il re Pietro II. Il re Ludovico nel 1349 lo nomina Cameriere
Maggiore, Vicario generale e Maestro Giustiziere del Regno. Nel 1353 partecipa
con il nipote Simone alla sollevazione di messina contro Matteo Polizzi.
Concorre alla chiamata in Sicilia del re di Napoli e partecipa alle distruzioni
a danno dell’Isola. Nel 1356 succede al nipote Simone nel titoli dei
Chiaramonte, conti di Modica e Caccamo, per privilegio del re Federico IV.
Possiamo solo congetturare che Racalmuto
- stante anche la lontananza dei Del Carretto, forse sulla carta
titolari della baronia - sia in questo torno di tempo ricaduto nelle mani dei
Chiaramonte. Federico III sale ancora nella scala degli onori pubblici
divenendo nel 1361 Pretore di Palermo e poi (nel 1362) Governatore e Capitano
Giustiziere di Palermo. Muore nel 1363 lasciando erede il figlio Matteo.
Simone Chiaramone, figlio di Manfredi II e Mattia Aragona,
costitusce cuna parentesi che si apre e si chiude con lui nel gioco di potere
di quella schiatta trecentesca siciliana.
Sposa Venezia Palizzi ma la ripudia dopo la sollevazione di messina del
1353 e l’uccisione del suocere Matteo Palizzi e della sua famiglia, voluta da
Simone, dallo zio Federico III e da altri congiurati. Nel 1353 eredita i titoli
ed i beni dei Chiaramonte. Diviene signore di Ragusa. Trovatosi a capo della
fazione dei Latini, allo scopo di avere il sopravvento sulla fazione dei
Catalani, congiura contro il sovrano e chiama in Sicilia il re di Napoli, in
nome del quale egli presidia Lentini e Federico governa Palermo. Chiede a Luigi
d’Angiò di sposare Bianca d’Aragona, sorella del re Federico IV che lo stesso
Luigi teneva prigioneriero a Reggio. Non venendo accolta la sua richiesta, pare
che si sia avvelenato, oppure che gli sia stato propinato il veleno. Muore
senza lasciare successori legittimi nel 1357. La meteora di Simone Chiaramonte
pare non avere neppure lambito Racalmuto: altrove era il teatro delle gesta di
questo turbolento personaggio.
Negli anni ’60 altri sono i protagonisti chiaramontani.
Cominciamo da Giovanni III. Figlio di Arrigo, figura Governatore del castello
di Bivona nel 1360 e quindi nel 1366 signore di Sutera e conte di Caccamo.
Ricadono sotto la sua signoria Pittirano, Monblesi, Muscaro, S: Giovanni e
Misilmeri. Diviene Siniscalco del regno. Muore nel 1374.
E’ quindi la volta del cugino Matteo, figlio di Federico
III: sposa questi Iacopella Ventimiglia. Nel 1357 eredita la contea di Modica,
la signoria di Ragusa ed altre terre. Gran Siniscalco e Maestro Giustiziere del
regno nel 1363, nel successivo 1366 gli viene concessa la città ed il castello
di Naro e di Delia. Muore nel 1377 senza eredi maschi e gli succede nel contado
di Modica Manfredi III.
E’ costui un personaggio centrale, di grande spicco a mezzo
del Trecento. Abbiamo documenti vaticani che compravano che il vero padrone di
Racalmuto è ora lui: Manfredi III Chiaramonte appunto, avendo in subordine i
Del Carretto o avendoli estromessi, non sappiamo. Figlio naturale di Giovanni
II /secondo La Lumia, Villabianca e Pipitone Federico), sposa in prime nozze
Margherita Passaneto e poi Eufeminia Ventimiglia. Nel 1351 domina in Lentini e
Siracura. Partecipa alla congiura contro il re con Simone Chiaramonte. Nel 1358
chiede aiuti al re di Napoli contro il re di Sicilia ed i Catalani. Finalmente,
nel 1364 si riconcilia con il Sovrano, riporta Messina, ancora in mano degli
Angioini , all’obbidienza di Federico IV (detto il Semplice) dal quale viene
onorora della carica di Grande Ammiraglio. Nel 1365 ottiene dal re la contea di
Mistretta, la signoria di Malta, della città di terranova, di Cefalà. Fu
padrone delle terre di Vicari, Palma, Gibellina, Favara, Muxaro, Guastanella,
Carini e Comiso, Naro e Delia, oltre altri feudi intorno a messima. Manfredi
III si trasferisce nel 1365 da Messina a Palermo. Nel 1374 eredita dal cugino
Giovanni III il contado di Caccamo e i feudi di Pittirana, S. Giovanni e
Misilmeri. Ma in quell’anno è divenuto tanto potente da impedire al re Federico
IV di sbarcare in Palermo per l’incoranazione ufficiale. Nel 1375 può
conciliarsi con il Re e gli viene concessa la signoria di Castronovo con
Mussomeli, che da lui prende il nome di Manfreda. Nel 1377, alla morte di
Matteo, viene investito dal Sovrano della contea di Modica, comprendente vari
feudi. Nel 1378 fu uno dei quattro Vicari che governarono la Sicilia durante la
minore età della regina Maria. Conquista nel 1388 l’isola delle Gerbe e viene
investito dal papa Urbano VI del titolo di Duca delle Gerbe. Nel 1389 dà la
figlia Costanza in sposa al re Ladislao di Napoli, il quale ripudia la moglie
dopo la rovina dei Chiaramonte. Muore nel 1391 lasciando eredi delle sue
sostanze le figlie. Per un bastardo, il destino ebbe in serbo una sequela di
ascese da capogiro. Con chi non fu
concepito in legittimo talamo il potere di una sola famiglia tocca l’acme: ma
subito dopo fu il tracollo, per imprevidenza, per intrusione nelle cose di
Sicile di case regnanti aragonesi, per il gioco della politica a dimensioni
divenute sovranazionali. E Racalmuto tornerà nell’alveo di una dimessa baronia
delcarrettiana.
Alla morte di Manfredi III spunta un Andrea Chiaramonte di
dubbia paternità. Nel 1391 eredita tutti i beni e ititoli dei Chiaramonte
comprese le cariche di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale
Tetrarca del Regno; riufiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza
la resistenza di Palermo all’assedio delle truppe catalane.
Promuove la riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel
1391. Cerca di impegnarli alla difesa dell’Isola contro i Martini. L’anno dopo
(1392) arresosi ad onorevoli condizioni, viene preso con inganno e decapitato
dinanzo allo Steri il 1° giugno dello
stesso anno. Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima
parteggia per Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più
conveniente fiancheggiare i nuovi regnanti catalani. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia originaria di
Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare
sulla scena politica siciliana per lo spazio di un mattino: nel 1392 si
sottomette a Martino e dopo la morte di Andrea e si rifugia con aderenti e
amici nel castello di caccamo, che successivamente dovette abbandonare per
andare esule in Gaeta, dove sembra abbia finito i suoi giorni.
La nobile prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai
più a dominare. La sua storia è quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento
ed ingloba la dominazione baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i Del
Carretto ad avere peso sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente
incidenza la ebbero i Doria (in Particolare, Matteo Doria); per il resto il
potere porta il nome dei Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello
sulle grassazioni tassaiole; quello delle cariche pubbliche; quello stesso che
investe i pastori delle anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime
e primizie. Oggi, i racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza
Castello, non serbano ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi
dominatori e gli dedicano strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse
trattato di benefattori.
Giammai notato v’è un inciso nei processi d’investitura dei
Del Carretto, che si custodiscono negli archivi di Stato di Palermo, di
grandissima importanza per la storia di Racalmuto: nell’agglomerato di atti
notarili che Matteo del Carretto esibisce a fine secolo XIV nell’improba fatica
di far credere del tutto legittima la sua baronia racalmutese, affiora una
dichiarazione di Gerardo del Carretto ove, come si disse dianzi, si afferma una
provenienza ereditaria di beni da Matteo Doria. E’ questi un personaggio che ha
l’attenzione del Chronicon Siculum
(CVIII) e del Villani (XI, 108). Nel
novembre del 1339 la flotta siciliana tenta di contrastare quella napoletana
che sosteneva un corpo di spedizione sbarcato a Lipari. E fu una débcle. Il cronista coevo ci racconta
che i Siciliani «furono debellati, e presi così che non uno di essi sfuggi, se
non quelli soltanto che gli stessi nemici dopo tale disfatta vollere rilasciare
e rimandare». Fra i nobili catturati furono Giovanni Chiaramonte (di cui
abbiamo detto prima), il comandante della flotta, Orlando d’Aragona fratello
naturale del re, Miliado d’Aragona figlio naturale del dento re Pietro
d’Aragona e di Sicilia, Nino e Andrea Tallavia da Palermo, Vincenzo Manueòe da
Trapani. E, per quello che anoi più preme, Matteo Doria. Questi per adempiere
all’impegno contratto per il riacquisto della libertà dovette vendere la tenuta
di Fontana Murata del valore di 1500 onze per 500 onze. Matteo Doria era figlio di Brancaleno Doria e
di Costanza Chiaramone, proprio quella che aveva avuto per marito di primo
letto Antonio del Carretto con cui aveva generato il nostro Antonio II del
Carretto. Questi e Matteo Doria erano dunque fratelli sia pure soltanto
uterini. Matteo Doria aveva per fratello germano Manfredo (ribelle a Federico
III, ma reintegrato nei beni; esule e poi stabilitosi ad Agrigento) e le tante
sorelle: Isabella, Marchisia, Leonora, Beatrice e Ginevra. Costanza Chiaramonte
fu dunque donna molto feconda: tre figli maschi da due diversi mariti e ben
cinque figlie femmine (per quello che se ne sa). Nelle tante doti che dovette
fare rientrò mai Racalmuto? Davvero venne assegnato in esclusiva ad Antonio II
del Carretto? Ed il riafflusso dei beni di famiglia da Matteo Doria ai nipoti
di cogmone Del Carretto annetteva anche
la nostra baronia? Misteri del Trecento che lo storico obiettivo non è in grado
di dipanare. L’Inveges va invece a briglia sciolta. Chi ha voglia di seguirlo,
faccia pure.
Se
seguissimo l’attendibile Fazello, dovremmo pensare che Manfredi Doria abbia
spostato l’asse del suo potere feudale a Cammarata. Il De Gregorio ci pare in definitiva piuttosto perplesso. Ai
fini della nostra storia, i Doria non ci paiono, comunque, di particolare
rilievo, ragion per cui non abbiamo dedicato molte ricerche su tale ceppo di
mercanti e navigatori genovesi, approdati ad Agrigento che fu provvida pedana
per una fortuna feudale che li fa assurgere a cospicui rappresentanti della
nobiltà sicula trecentesca.
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