Considerazioni conclusive sul Settecento
Racalmutese.
Il Settecento si chiude con quattro protagonisti, tutti
sacerdoti, dotati di una personalità spiccata; costoro furono sicuramente fra
loro confliggenti e lasciarono solchi indelebili nel corso della locale vita
paesana. Essi sono : don Nicolò Tulumello,
don Francesco Busuito, don Giuseppe Savatteri e Brutto, nonché
l’arciprete – non ancora canonico - don Gaetano Mantione.
Su don Nicolò Tulumello, con le sue poco pie voglie di
acquisire indebiti titoli nobiliari, abbiamo già detto. Su don Giuseppe
Savatteri, altrettanto enon vanno neppure obliate le stilettate inferte da
Leonardo Sciascia. Don Francesco Busuito – veniamo a sapere dal LIBER – fu
“consultore del Sant’Ufficio”, fino a quando non venne soppresso. C’era materia
per dileggi sciasciani, ma il sacerdote la passò liscia, per non conoscenza dei
fatti, pensiamo.
Era
imparentato con don Benedetto Nalbone ed insieme i due sacerdoti rilanciarono
un ramo di quella famiglia. Sulla vertenza Savatteri-Busuito abbiamo detto. Nel
LIBER, mentre al Savatteri è riservata una secchissima annotazione di morte, al
Busuito l’anonimo estensore, che non poteva che essere o subire l’influenza
dell’arciprete Mantione, viene dedicato quasi un epitaffio. «D. Francesco
Busuito – vi si legge – Collegiale, Missionario, Predicatore Quarisimalista,
Consultore del Sant’Ufficio, Parroco di Comitini, Maestro di Spirito sotto
Monsignor Gioeni alla casa degli Oblati e sotto Mons. Lucchesi successivamente.
– Maestro di Lettere, di Teologia Morale, Prefetto di studii, Direttore,
Rettore del Seminario di Girgenti, Vicario Foraneo, beneficiale del SS.
Crocefisso, Economo – obiit 29 Januarii 1802 – d’anni 74.» Non sappiamo se
tutti questi elogi siano dovuti al rispetto che ancora incuteva il defunto o
non era una scelta di campo dell’arciprete Mantione, tutto a favore del Busuito
e tutto avverso al Savatteri, anche dopo la morte.
L’eco di quegli intrighi si hanno persino nel 1870 in una
memoria difensiva del sacerdote don Calogero Matrona. Anche in quella sede è
detto che nel 1767 il vescovo Lucchesi Palli si ritrova vacanti alcuni beni
dell’Arciconfraternita del SS. Crocifisso e con bolla dell’8 luglio 1767 li assegna al sac. D.
Francesco Busuito. La ricostruzione del citato sac. Don Calogero Matrona,
divenuto beneficiario di quei beni per vie traverse, è particolarmente vivace ed intrigante.
«Con Bolla di erezione in titolo dell’8 luglio 1767 -
scrive fra l’altro il Matrona - da
Monsignor Lucchesi fu eretto nella Cappella del SS.mo Crocifisso dentro la Chiesa Madre di Racalmuto un beneficio semplice in adjutorium Parochi di libera collazione da conferirsi a
concorso ai naturali di Racalmuto con le obbligazioni di coadiuvare il Parroco
nell’esercizio della sua cura, di celebrare in diverse solennità dell’anno
nell’anzidetta Cappella numero trenta Messe, costituendosi in dote del
beneficio taluni beni, che esistevano nella Chiesa senza alcuna destinazione, dandosene
anche l’amministrazione allo stesso Beneficiale. Riserbavasi però il Vescovo
fondatore il diritto di conferire la prima volta il beneficio, di cui si
tratta, senza la legge e forma del concorso in persona di un soggetto a di lui
piacimento.
«In seguito di che con bolla di elezione del 10 luglio 1767 dallo stesso
Monsignor Lucchesi fu eletto per primo Beneficiale il Sac. Don Francesco
Busuito di
Racalmuto, allora Rettore del Seminario di Girgenti dispensandolo dall’obbligo del concorso, e
dalla residenza, e facoltandolo ad un tempo a sostituire a di lui arbitrio un
Ecclesiastico, per adempire in di lui vece le obbligazioni e pesi tutti al
beneficio inerenti.
«Appena verificatasi tale elezione, come risulta da un
avviso dato dal Parroco locale di quel tempo, dal Sac. Don Giuseppe Savatteri
qual uno degli eredi e successori di D. Giaimo Lo Brutto di Racalmuto impugnavasi la fondazione e ricorrendo al
Tribunale della Reggia Gran Corte Civile, otteneva lettere citatoriali contro
il detto Reverendo Busuito, affine di rivendicare i
fondi constituiti come sopra in dote al beneficio come appartenenti al suddetto
Lo Brutto. Sostenevasi dal Savatteri che la Confraternita del SS.mo Crocifisso dentro la suaccennata Chiesa Madre percepiva
onze cinque annue per ragion di canone enfiteutico sopra quattro salme di terre
esistenti nello Stato di Racalmuto contrada Menta dotate alla moglie del suddetto D. Giaimo Lo
Brutto dalla di lei zia D. Vittoria del Carretto, annuo canone destinato per
legato di maritaggio di un orfana. Nel 1659 i Rettori della cennata
Confraternita per attrarsi di pagamento del canone anzidetto e per
deterioramenti avvenuti nei suddivisati fondi, unitamente all’Arciprete e
Deputati dei Luoghi Pii senza figura di giudizio e senza le debite formalità
giudiziarie s’impossessavano di quei fondi e melioramenti in essi fatti dal
predetto Lo Brutto. Si credettero autorizzati a far ciò senza ricorrere alle
procedure giudiziarie da un patto enfiteuco solito apporsi in simili contratti,
in cui espressavasi, che venendo meno il pagamento o deteriorandosi il fondo
fosse lecito all’Enfiteuta di propria autorità ripigliarsi il fondo enfiteuco,
come tutto rilevasi dagli atti di possesso presso Notar Michelangelo Morreale di Racalmuto sotto il 3 settembre 13 Ind.
1659. Così postasi la Chiesa in possesso dei fondi, conosciutosi che pagate le
onze cinque per legato di maritaggio ed i pesi efficienti, il resto delle
fruttificazioni rimaneva senza destinazione, pensavasi dal Vescovo Monsignor
Lucchesi per di esse fondare il beneficio anzidetto, che indi conferivasi al
sopra indicato Sac. Busuito. Impugnavasi questo fatto dal sac. Savatteri e
facevalo come sopra citare a fin di chiarirsi nulla la suddivisata fondazione.
Ma il beneficiale frapposti buoni amici persuase il Savatteri a rimettere tutto
al saggio arbitrio di S.E. Rev.ma Monsignor Vescovo di Girgenti, il quale tutto riponendo
sotto lo esame dell’Assessore Canonico d. Nicolò A. Longe, fattesi varie
sessioni inanzi a lui con l’intervento dell’arciprete di Racalmuto per parte
del Beneficiale e di altra persona per parte del contendente Savatteri,
dichiaravasi dall’Assessore nullo l’impossessamento dei fondi e riconosciuta
evidentemente la usurpazione dei fondi fatta dalla Chiesa. Ma protrattosi a
lungo l’affare, pria di definirsi pubblicavasi la prammatica della prescrizione
del 22 settembre 1798, quindi il Beneficiale avvalendosi di tal legge non volle
più fare ulteriori trattamenti della causa, né arrendersi alle pretensioni del
Savatteri.
«Morto però il Beneficiale, il cennato Savatteri fece
ricorso al Re e dalla Segreteria Reale abbassavasi biglietto alla Giunta dei
Presidenti e Consultori per informare. Moriva intanto il Savatteri ed il di
costui erede Don Pietro Cavallaro e Savatteri agendo con più di moderazione
pensava di mettere l’affare in mano del Vescovo Monsignor Granata, e
desiderandosi dal ricorrente che il beneficio rimanesse, si contentava soltanto
che divenisse patrimoniale e proprio della di lui famiglia e suoi discendenti.
«Il Vescovo conosciuta la validità delle ragioni e la
pienezza del diritto del ricorrente, perché fondato il beneficio sopra beni
proprii di D. Giaimo Lo Brutto di lui autore, a vista della patente
usurpazione fattasi dalla Chiesa, della non ecclesiasticità del beneficio,
perché fondato senza la volontà del padrone dei fondi, pensò accordarne la
prelazione ai discendenti della famiglia Brutto. Quindi perché conobbe la
verità delle cose per conscienzioso temperamento pensò conferire anche in
minore età quel beneficio ad un chierico erede dei beni, che è l’attuale
investito Cavallaro. Ed infatti il conferì con
decisione del 16 giugno 1804. [...] Ottenne per ciò pria dispensa della Santa
Sede, perché al detto chierico avesse potuto conferire il beneficio nella
minore età di anni 14, lo dispensò dalla legge del concorso e dell’obbligo
della coadiuvazione del Parroco nello adempimento degli offici parrocchiali
sino all’età del sacerdozio e gli diede l’amministrazione dei beni dotalizii
[...]»
Al beneficiale don Ignazio Cavallaro succede il nipote (figlio della sorella) don
Calogero Matrona,
con bolla di Monsignor Domenico Turano del 1° marzo
1875. Ma non fu una successione pacifica. Vi si rivoltò contro Giuseppe
Savatteri, unitamente alla moglie donna Concetta Matrona, con cause, ricorsi,
appelli che durarono decenni. Eugenio Messana, nello scrivere le sue
memorie su Racalmuto, risente ancora di quel clima infuocato che in
proposito si respirava ancora nella sua famiglia.
Il
beneficio del Crocifisso è quindi oggetto di una bolla di collazione nel 1902 (cfr. reg. Vescovi 1902
pag. 703). Viene poi assegnato al padre Farrauto, per passare nelle mani di
padre Arrigo. Attualmente è accentrato presso la Curia vescovile di Agrigento.
Il
canonico Mantione è personaggio tuttora popolare: ci viene tramandato come uomo
coltissimo ma sbadato, grande mangiatore di olive come il padre Pirrone del
Gattopardo. Personalmente ci indispettisce per la faccenda della chiesa di
Santa Rosalia. V’è tutta una documentazione all’arcivio vescovile di Agrigento
ove si parla della chiesa in questione. È fatiscente; si chiede e si ottiene
l’autorizzazione avenderla come “paglialora”. La comprano i voraci sacerdoti
Grillo;a venderla è proprio il Mantione. In cambio null’altro che un altare –
quale ancora sussiste – alla Matrice. E’ questa – a nostro avviso – una imperdonabile colpa del
canonico Mantione. Per mera grettezza economica ha lasciato che una
gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa
Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa
in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del
Santissimo Sacramento (cfr. Cascini op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed
una sacralità superiori allo stesso
interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva
permettere quello scempio. Era da
quattro anni arciprete di
Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un
tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. E’ un comportamento – quello
dell’arciprete del tempo – che mi appare incomprensibile. Un pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la
dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella
gli riverbera una poco esaltante ombra.
A voler sintetizzare, quella era un’antichissima chiesetta
risalente, a seconda delle varie versioni ,
al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente
quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali
agrigentine). Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio
venne riadatta, o edificata (o riedificata); resistette sino al 3 giugno 1793 quando fu ceduta, appunto, al
sac. Salvadore Grillo; e ciò per un baratto: un altare con statua alla Matrice per una
chiesa da ridurre a stalla.
Santa
Rosalia non ha più casa a Racalmuto: è proprio la fine del Settecento.
Nell’epoca del romanticismo, i racalmutesi opteranno per Maria Santissima del
Monte di cui credono di avere una statua marmorea “miracolosissima”. Una saga
era stata inventata a metà del Settecento per la penna di un seminarista, don
Francesco Vinci, ritornato allo stato laicale ove l’attendeva un ruolo egemone
nell’amministrazione della cosa pubblica. Nel 1848, anche le autorità
ecclesiastiche derubricano come patrona S. Rosalia ed il suo posto è preso
dalla più romantica “imago Virginis Deiparae”, tutta di marmo, splendidamente
eretta sul Monte. Ai piedi l’erta scalinata per le “prumisioni” a dorso di muli
recalcitranti oppure racchiuse in pesanti sacchi, portati su a fatica sulla
testa di donne smunte o obese, a piedi scalzi, per devozione, triste ed
ancestrale. Immagini romantiche appunto, o – direbbe Sciascia – soffuse di un’
«aura romantica ed un tantino melodrammatica».
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