Città, Repubblica e Nobiltà
1.
Unione e libertà
Le
Leggi nuove, o leggi di Casale, che nel 1576 fissarono la definitiva
‘costituzione’ politica della Genova moderna, giustificavano il riconoscimento
della mercatura come arte nobile e lecita ai patrizi genovesi richiamando il
detto corrente Genuensis ergo mercator.
Che il mercante fosse la figura sociale caratterizzante la città e, prima di
tutto, il suo ceto di governo si avviava però ad essere piuttosto un’immagine
normativa e un auspicio che non una constatazione. Mezzo secolo più tardi,
infatti, Andrea Spinola precisò:
Noi altri Genovesi di prima
origine ebbimo il corso per mare; successe poi il traffico nelle più remote
parti del mondo. Da tempo in qua siamo applicati alla pecuniaria. Del corso non
convien più ragionare. La mercatura in gran parte è perduta e ce ne deve
dispiacer assai, perché in effetto è il miglior modo di qualsivogli altro per
mantenere la libertà publica, il viver civile e le cose private.
Mercatura e
libertà, dunque: un abbinamento ribadito proprio quando l’identificazione tra
genovese e mercante appariva sorpassata dalla divaricazione intervenuta tra
realtà sociale e modello culturale. La Genova cinquecentesca e primoseicentesca
aveva compiuto il percorso da città di mercanti a piazza di finanzieri. La
cultura politica genovese aveva ampiamente discusso i problemi che questo
processo comportava: e sia pure, spesso, dall’angolatura del dibattito sulla
nobiltà. Affidata a testimonianze per lo più manoscritte, questa discussione
non ebbe però né sul momento influenza al di fuori della città, né in seguito
molta notorietà. Ma il fatto che la riflessione politica genovese abbia
raramente trovato l’accesso alle stampe non le ha impedito di costituire un importante tassello della cultura
cittadina dell’età moderna. Piuttosto, l’abbondanza del materiale impone una
selezione per forza di cose limitata di personaggi e di testi.
Lo
sbarco a Genova di Andrea Doria e l’acclamazione della libertà genovese da
parte dei notabili presenti in città, nel settembre 1528, produssero un nuovo
assetto politico: le Leggi del Ventotto, come vennero dette, che sostituivano
le “regulae” quattrocentesche. Le immagini di Andrea Doria come liberatore, e
della “unione” come evento improvviso e quasi miracoloso, alla lunga entrarono
a far parte della ricostruzione del passato cittadino che il patriziato genovese
mise a punto nel corso dell’età moderna. Ma questa ricostruzione, dalle origini
partigiane, si impose a fatica e non prima che i problemi politici dell’età
doriana venissero acquietati dal nuovo assetto istituzionale del 1576. Solo col
tempo, dunque, il 1528 giunse a rappresentare per la cultura politica genovese non un momento di decisione travagliata e
controversa, ma uno spartiacque della storia genovese. Perché questo
avvenisse occorreva contrapporre nel modo più
netto “unione” e “libertà” riconquistate nel 1528 alle vicende tramandate
dall’annalistica medievale: e non tanto al lontano e sempre rimpianto passato
comunale, glorioso per l’espansione marinara; quanto piuttosto ai quasi due
secoli del dogato popolare, svalutati a lunga e confusa età dei torbidi.
Ai
contemporanei però la neonata Repubblica appariva una costruzione assai più
casuale e dalla genesi più complessa di quanto l’apologetica ufficiale non
pretendesse. Del resto, l’assetto politico della città venne sensibilmente
modificato nel giro di una generazione con la riforma detta del “garibetto”
(1547), contraccolpo della fallita congiura di Gian Luigi Fieschi. E proprio il
carattere del ceto dirigente cittadino e gli equilibri di governo tra le sue
fazioni interne nobile e popolare (o, come si erano ribattezzate dagli anni ‘40
in poi, della nobiltà ‘vecchia’ e della nobiltà ‘nuova’) era al centro di un
dibattito che metteva in causa il presente della città attraverso il passato.
2.
Apologia e pedagogia: Ludovico Spinola
La
riforma del 1528 non ebbe un vero e proprio manifesto ideologico. E singolare sarebbe
stato il modello culturale dei riformatori, a sentire uno spettatore e
(misconosciuto) storico degli eventi, il nobile Giovanni Salvago:
detta forma di govverno del
senato, la fu inventata da Don Gregorio da Modena, monacho de la religione de
Santo Benedeto, conforme al govverno de la loro religione, cioè de uno
presidente et otto definitori, li quali hanno cura de govvernarla e si
cambiano, et lui hebbe cura de reformarle et metterle in lingua latina.
L’atmosfera
della “unione” pervade però il trattatello latino del giovane umanista patrizio
Ludovico Spinola De reipublicae
institutione, steso all’indomani della riforma, dedicato ad Andrea Doria e
rivolto ad un consesso di patrizi, forse il Gran Consiglio. Nello scritto
l’autore, appartenente agli ambienti intellettuali cittadini caratterizzabili
come ‘erasmiani’ e in seguito in contatto epistolare con lo stesso Erasmo,
salutava e magnificava l’avvento del nuovo regime, realizzatosi repentinamente
per aiuto divino.
Nonne urbem nostram tot secula
bellis intestinis laborantem una diecula non solum liberavit, sed etiam in
libertatem summa cum gloria omnium nostrorum vindicavit?
Il
modulo retorico richiesto dall’occasione esimeva dall’entrare nei dettagli:
ascritto alla provvidenza, il ritorno alla libertà appariva svincolato dai
giochi della politica cittadina, nei quali i negoziatori e i legislatori del
1528 erano pur stati immersi sino al collo. Stato di ottimati, Genova godeva
ormai del migliore dei regimi possibili e poteva attendersi un radioso
avvenire. A una condizione: la conservazione della libertà presupponeva
un’adeguata educazione delle nuove generazioni e la trasmissione dell’ideale di
concordia civile:
quippe cum nullam maiorem
patriae iniuriam inferre possint, quam illi filios pravis moribus procreare.
Nec satis est parentes ipsos Rempublicam bene administrare, nisi etiam omni
diligentia adhibita efficiant, ne sibi succedant ii, qui quod ipsi tanta
videlicet cura diligentiaque auxerint ac conservaverint, id statim nulla
eruditione a pueritia imbuti disturbent ac funditus evertant.
C’era
dunque un fondo di inquietudine e di cautela nell’elogio della riconquistata
libertà: una libertà da vigilare con le armi e da nutrire con la beneficenza
dei privati. Ludovico Spinola rappresenta, secondo la sua più recente studiosa,
“un singolare caso di umanesimo municipale in ritardo”; il suo scritto è il
frutto di “una diramazione genovese dell’umanesimo civile”. Il ritardo
culturale di Spinola sarebbe in tono con l’arcaismo talvolta attribuito alle
forme della politica genovese fra Quattro e Cinquecento. E quello di arcaismo
appare un concetto accettabile in quanto descriva la discronia tra le vicende
politiche genovesi e quelle di altri stati cittadini; meno accettabile, invece,
se impiegato per giudicare negativamente l’esperienza politica genovese,
misurandola su modelli astrattamente ritenuti più moderni e migliori: il
principato come via maestra allo stato moderno, Venezia come esempio di buon
governo repubblicano. L’interesse dell’esperienza cittadina genovese sta
proprio nel non aver imboccato né la via del principato né quella della
chiusura oligarchica alla veneziana, ma di aver percorso, discutendone per
oltre un secolo, un cammino originale. L’opera di Ludovico Spinola appare
perciò anomala rispetto al clima e alle preoccupazioni del ceto di governo
genovese appena ricompattato: per un verso, anticipatrice dell’immagine
ufficiale, filodoriana e unanimistica, affermatasi in seguito; ma per un altro
verso assolutamente e volutamente disinteressata agli aspetti operativi della
nuova forma di governo. Del personaggio e dell’ambiente erasmiano genovese, al
quale anche Jacopo Bonfadio dovette essere legato, non sappiamo in realtà
molto. Si può però segnalare un dettaglio biografico sinora sfuggito: dallo
stesso ramo degli Spinola al quale apparteneva Ludovico uscì due generazioni
dopo Andrea, il maggior scrittore politico genovese del primo Seicento. Un
lignaggio e una casata di grande rilievo, che proprio dopo l’unione conobbe uno
spettacolare successo politico (vi appartenne il famoso marchese Ambrogio
Spinola; ma già due fratelli di Ludovico, Ambrogio e Paolo, furono oligarchi di
spicco, e il secondo anche un benefattore del pubblico). La preoccupazione
pedagogica di Ludovico riemerse fortissima nell’opera del pronipote (il quale
tuttavia ricordò la beneficenza del prozio Paolo, ma non l’opera dell’altro
prozio Ludovico), diretta ai rampolli del patriziato, ma con un’intonazione
francamente politica e polemica. Ludovico Spinola manifestava invece, forse
anche per i vincoli imposti dall’occasione, un’attitudine irenica che velava i
termini reali della discussione politica cittadina. Esso raccoglieva tuttavia
uno stato d’animo effettivamente diffuso nella cittadinanza. Movimenti
associativi giovanili e caritativo-religiosi (confraternite) all’insegna della
“pace e concordia” avevano infatti annunciato e accompagnato la graduale
affermazione, entro il ceto di governo cittadino, del programma dell’unione.
Non
casualmente la nozione di “unione” si impose come l’idea-forza della politica genovese
del primo Cinquecento. Che la discordia civile fosse la caratteristica
peculiare della politica genovese era infatti un luogo comune, che nelle Istorie fiorentine di Niccolò
Machiavelli trovò solo la testimonianza più celebre. Nel contrapporre la
lodevole ed esemplare stabilità del Banco di San Giorgio alla riprovevole e
dannosa instabilità della repubblica Machiavelli riecheggiava e sviluppava
(contribuendo involontariamente a creare un fraintendimento sui reali termini
della politica genovese) un sentire diffuso, rintracciabile anche in Philippe
de Commynes, secondo il quale a Genova “la gente [era] propensa ai
cambiamenti”. Un sentire condiviso anche a Genova: ad esempio dal patrizio
storiografo Giovanni Salvago, disposto a dannare la memoria stessa delle
discordie civili, delle quali, scriveva, “saria utilissima chosa, che non se ne
fosseno mai ritrovate, ni se ne ritrovaseno scriture, ni meno fosseno a memoria
di persone, non possandosene havere niuno bono documento”.
Ricompattandosi
nel 1528 il ceto dirigente cittadino si era reso meno permeabile. La Repubblica
di Genova adottò il singolare istituto dell’ascrizione annuale (sino a dieci
famiglie, sette della città e tre delle riviere, potevano essere ogni anno
cooptate nel patriziato), che non rinnegò mai. Ma un ceto in precedenza aperto
si delimitava in un “libro d’oro” originariamente patteggiato nome per nome tra
i maggiorenti delle fazioni.
3.
Un’immagine ufficiale: Jacopo Bonfadio
L’assetto
del 1528 poteva in ogni caso apparire il lieto fine di una vicenda tormentata.
Da lontano Francesco Guicciardini così riassunse il clima genovese post-1528:
“i cittadini, quieti e intenti più alle mercatanzie che alla ambizione,
ricordandosi massime de’travagli e delle suggezioni passate, avevano cagione di
amare quella forma di governo”. Da vicino, sullo stesso tono, Jacopo Bonfadio,
straniero ma annalista ufficiale della Repubblica, osservava che essa “tra le
altre repubbliche risplendendo in questi tempi, in un pacifico e quieto stato
onoratissima si riposa”.
Proprio
nelle pagine del Bonfadio possiamo cercare l’immagine che il governo genovese
intendeva diffondere di sé: non a caso, forse, grazie alla penna non di un
intellettuale locale, ma di un letterato forestiero. Bonfadio, nell’elogio di
Genova che apriva i suoi Annali
(stesi in latino e tradotti nel 1586 da un altro forestiero calato a Genova e
accolto nei circoli culturali della migliore nobiltà, Bartolomeo Paschetti: e
dalla traduzione del Paschetti saranno tratte le citazioni), non mancava di
sottoscrivere la tradizionale lode delle antiche imprese guerriere dei genovesi
e della costante difesa della religione. Più singolare era il commento sulle
vicende politiche della città.
Quanta prudenza poi e quanta
virtù fosse in quelli [genovesi dei secoli passati] nel governar la Repubblica
circa le cose di dentro, la grandezza loro chiaramente ce la dimostra; [...] e
con ogni diligenza rimirando ogni cosa, più ardentemente si accendevano al
conservare con riputazione la libertà loro. Della quale hanno avuta sempre
questa special cura, che, quantunque volte è paruto loro valersi dell’autorità
e potenza di genti straniere, essi spontaneamente e con certe condizioni se li
sono eletti, sicché potevano ritenerli piacendo loro, e non piacendo levarli,
come il più delle volte avveniva. [...] Ma quello che più rincrescer ci deve
che nel governo della città i capi delle fazioni, l’uno o l’altro de’ quali per
la qualità di que’ tempi facevano Duce, non al ben della patria ma solo alla
privata potenza ed ambizione attendevano; e dove le parti de’ cittadini tra lor
discrepanti insieme unire, o il consenso de’ buoni aiutare e colle buone arti
della pace aumentar dovevano, essi, all’incontro, la rendevano più debole ed
alienavano; e dove protettori della cittadinanza conveniva loro mostrarsi, come
tiranni di vincerla e d’opprimerla con ogni studio procuravano. Nel qual tempo
quella città la quale da’ maggiori di generosi consigli e fatti egregi munita,
e famosa eziandio nelle ultime parti del mondo avevano ricevuta, è poi occorso
veder più volte correre pericolo di rovinare, e tutta lacerata e guasta:
essendo, per dispareri e per cupidità di regnare di coloro che ho detto, tutte
le cose da discordie e sedizioni sottosopra rivolte. Laonde, spiacendo
infinitamente a tutti i buoni i governi e varietà per l’addietro seguite, e
dagl’imminenti pericoli de’ passati danni fatti accorti, e specialmente dalla
crudele strage e percossa ch’ebbero pochi anni addietro [il sacco della città,
nel 1522], che fino a quel tempo stava loro fissa negli occhi, tutti, con ogni
studio, per la riputazione e salute universale procurarono di ridurre la
Repubblica a miglior stato e disciplina.
Quello
stato del quale l’annalista si accingeva a trattare. La rievocazione del
Bonfadio, attentissima a non fare né nomi né date, oscillava tra l’esigenza
celebrativa del passato e quella del presente. Di qui il lucido
ridimensionamento delle sottomissioni a signori stranieri, ridotte ad
opportunistici ingaggi di governanti; ma di qui anche la deplorazione delle
lotte faziose e il richiamo al desiderio di pacificazione emerso tra i
cittadini. Ineludibile, e significativo, il confronto con le gesta dei genovesi
dei secoli passati, affrontato in apertura del libro secondo dell’opera:
Riducendoci noi a memoria quegli
antichi, troveremo che per natura ed instituto loro solo ad onorate imprese ed
alla gloria miravano. In casa, tra loro di bontà ed industria contendendo,
delle mediocri loro fortune si valevano in guisa, che non erano loro stromenti
d’avarizia o d’ambizione, ma sì bene d’aiuto a virtuose operazioni. [...] Nulla
di meno, che quelli molto maggior studio ponessero nelle cose di guerra, che
consiglio nel governo della città e nel reggimento della Repubblica, affermar
liberamente conviene. Conciossiaché, nell’eleggere quelli che maneggiavano la
somma di tutte le cose, tenessero una varia e confusa maniera, dalla quale,
nascendo poscia molte differenze e rivoluzioni, sovente le contese delle
contrarie fazioni vituperosamente alteravano la Repubblica, siccome noi stessi
di fresca memoria l’abbiamo veduta stranamente conquassata, quando dalle
tempeste di varie sedizioni combattuta, a guisa di fluttuante nave, or a questo
or a quel signore, come a duri scogli condotta, miseramente percoteva. però fu
finalmente, per virtù de’ buoni nella riformata città stabilita la concordia, e
con l’aiuto specialmente d’uno [Andrea Doria] cresciuta, in somma fondato il
porto alla pace ed alla tranquillità. [...] Ora non navigano con armate in
Oriente, non acquistano titoli né giurisdizione presso straniere nazioni, lo
confesso; [...]la materia oggidì manca di propagare la gloria della virtù
militare, non mancando però nella città quello antico vigore, quella forza e
grandezza d’animo che vi bisognerebbe per conquistarla. [...] Ma questi tempi
altra vita, altri costumi richiedano: non si tralascia la virtù militare per
quello che torna conto alla Repubblica; però si attende più alle azioni civili
e alle buone arti della pace, le quali indubitatamente si debbono anteporre
agli studii della guerra, abbracciandosi questi per rispetto di quelli; vive il
sommo e sincero culto della religione, vive il continuo e pronto esercizio
della liberalità verso i poveri; l’ozio non vi ha luogo; la vigilanza, la
fatica, l’industria occupano ogni cosa. Lo studio di aumentare il danaro è per
certo grandissimo, però riguardando i monti, i dirupi e i sassi de’ Genovesi,
che nulla producono, non è in tutto degno di riprensione, essendo necessario;
considerando l’uso di quello in alcuni, eziandio degno è di molta lode. Ha
prodotti questa città alcuni, i quali io soglio molto ammirare, di ricchezze e
di facoltà agli altri di gran lunga superiori (che diresti esser Crassi o
Luculli), nel vivere poscia e nel vestire agli altri eguali; la somma
abbondanza ed estrema ricchezza de’ quali ai comodi degli uomini molto pronta mostrandosi,
riesce a loro un illustre trionfo di virtù.
Il
paragone degli antichi e dei moderni tornava, abbastanza prevedibilmente, a
vantaggio dei secondi. Ma l’elogio retorico della loro virtù si traduceva
nell’elogio della beneficenza privata, giustificazione delle ricchezze dei
singoli, e della frugalità di costumi: i Crassi e i Luculli genovesi osservavano
una virtuosa eguaglianza esteriore. L’elogio del presente ritornava come
premessa della narrazione della congiura di Gian Luigi Fieschi.
Però, essendosi i Genovesi
formata così fatta forma di repubblica [...], parmi che rallegrarsi con essi
loro somammente si debba; e perciò con orazione per avventura più lunga che il
luogo non ricercava, sono trascorso a ragionar di questa materia, per ammonirli
della felicità che godono al presente, o per congratularmi colla Repubblica, o
finalmente per legar più strettamente gli animi di tutti alla concordia, e
maggiormente accenderli a conservar la libertà. Né vi ha dubbio alcuno che
questa città, coll’abbondanza di tutte le cose, non sia per mantenersi ogni dì
più lieta e abbondante, e più sicura da ogni colpo di fortuna, se in questa
ottima maniera di vivere continuerà unita e concorde.
Così
il proemio al quarto libro degli Annali,
contenente il racconto della congiura di Gian Luigi Fieschi. In realtà, per
spiegare la strategia di alleanze del conte Bonfadio doveva introdurre gli
elementi di dissidio all’interno del quadro armonioso che aveva appena
schizzato: la divisione tra ex nobili ed ex popolari; il malcontento dei
tessitori. Dei fatti della notte dei Fieschi Bonfadio, testimone oculare in
mezzo agli oligarchi rinserrati in Palazzo Ducale, forniva un racconto colorito
e tutt’altro che trionfalistico per il governo. In compenso, nascondeva la
riforma del ‘garibetto’ dietro un semplice, pudico rinvio alla legge. Salvo
rievocare con un misto di ammirazione e riprovazione il tumulto antispagnolo
del dicembre 1548. Storiografo per sua stessa ammissione svogliato, ma
osservatore acuto, di quella che definì una repubblica “per dir così infante”,
Bonfadio fu annalista in definitiva meno ufficiale di quanto forse non volesse
il governo. E colpisce il contrasto tra l’inflessibilità mostrata nei suoi
confronti, e la tranquilla diffusione della sua opera.
4.
Il manifesto politico di Oberto Foglietta
La
stretta oligarchica sulla politica cittadina attuata dopo la congiura dei
Fieschi fu accidentalmente seguita dalla disastrosa guerra di Corsica
(1553-1559). La Repubblica, quasi disarmata (le principali forze navali
genovesi erano le galee di Andrea Doria e degli altri privati, quasi tutti
nobili ‘vecchi’, al servizio di Carlo V e poi di Filippo II) dipendeva
dall’aiuto spagnolo per riacquistare il controllo di quei mari che erano suoi
da secoli. L’affermarsi dell’oligarchia all’interno sembrava coincidere con il
nadir delle fortune militari genovesi.
Si
comprende perciò che proprio nel 1559 uscisse a Roma, dai tipi di Antonio
Blado, il dialogo Della Republica di
Genova, di Monsignor Oberto Foglietta, un genovese espatriato, rampollo di
una dinastia di notai e cancellieri. L’assenza nel testo di ogni riferimento
alla pace di Cateau Cambrésis (2-3 aprile 1559), grazie alla quale Genova
recuperò la Corsica, consiglia di datarlo, al più tardi, alla seconda metà del
1558: il dialogo ben si colloca nell’atmosfera di incertezza che poteva regnare
a Genova prima della pacificazione generale, con mezza isola in mani francesi
(anticipare il testo al 1556 sulla scorta dell’osservazione che Andrea Doria
aveva “nonanta anni” sarebbe azzardato, la precisione anagrafica non essendo
propria dell’epoca.). Opera giovanile, è stata definita dal miglior conoscitore
del Foglietta. E certo non occupa il posto d’onore nel complesso della
produzione fogliettiana. Ma rispetto al dibattito sulla politica genovese
questo dialogo, il solo testo politico genovese in quasi un secolo nato per la
stampa e attraverso la stampa immediatamente diffuso, riveste un’importanza
centrale, che ne giustifica un’analisi distesa.
Scenario del dialogo non è Genova, ma Anversa,
dove uno dei due intelocutori, Ansaldo, si sarebbe trasferito assai giovane “a
negotiare”. Non Siviglia, o un’altra città iberica, la nuova frontiera degli
affari genovesi, ma l’Anversa della colonia mercantile genovese di insediamento
medievale. Una scelta, a ben guardare, non solo singolarmente contro tempo, ma
scopertamente polemica, visto che Ansaldo afferma di aver rinunciato, “per
alcuni rispetti”, a stabilirsi nuovamente in Spagna.
Lo
spunto del dialogo è la delusione per l’andamento della guerra di Corsica. Ma
lo scacco della Repubblica in un’area strategicamente vitale come l’isola serve
da pretesto per un discorso sulla politica genovese in generale. Pungente la
riflessione sulle sorti della Repubblica posta in bocca ad Ansaldo:
Et pare che li pianeti et la
fortuna da molti secoli in qua habbia preso a perseguitare quella povera nostra
Patria, la quale essendo stata per tanti anni adietro vessata et agitata da
molte discordie et partialità, le quali furono cagione, che oltre altri
infiniti danni et travagli et ruine ella perdesse il dominio di tante terre
acquistate in Levante dalla virtù et fatiche de’ nostri maggiori, et insieme
col dominio la riputatione anchora del nome et l’honore appresso, hora che
pareva ragionevole, che mediante questo stato di unione et di libertà ella
dovesse un poco respirare, et riacquistare le cose et la gloria perduta, non
solo non possa fare questo, ma faccia anchora maggiori et più importanti
perdite in questo tempo tranquillo, che nei passati tempi turbulenti non ha
fatto. Percioché il Dominio delle terre di Levante era più presto cosa
gloriosa, et honorevole, che gran fatto utile. Con la perdita della Corsica è
congiunta non solamente la perdita dell’honore, et della reputatione, che poco
però non importa, ma un gran danno et ruina dell’essere et stato nostro. Grande
inimicitia certamente et ostinata persecutione è quella della Fortuna contra di
noi.
Ovviamente,
Foglietta non pensa neppure per un momento che responsabile delle disgrazie di
Genova (enfaticamente dilatate nel tempo: se duravano da “molti secoli”, quando
mai la Repubblica aveva conosciuto la gloria che rimpiangeva? E davvero le
conquiste in Oriente erano state gloriose e non utili?) sia la Fortuna. Sotto
accusa sono piuttosto i risultati del nuovo assetto di governo genovese,
apparentemente peggiori di quelli dei tempi più turbolenti. L’autore ha del
resto anticipato sin dalla prima pagina dell’opera i suoi bersagli polemici:
sono i cittadini “li quali parte per ottenere una eminente autorità et
potentia, parte per mantenere le immoderate ricchezze con modi forse poco
lodevoli in gran parte acquistate, sottopongono alle private cupidità il
rispetto della Patria”. Le loro pretese di supremazia politica sostanziate da
una superiorità di fortune moralmente sospetta sacrificano agli interessi
privati la pubblica concordia promessa dall’unione del 1528. Tutto questo
sembra destinare Genova “ad una ruina e forse Tirannide perpetua, o a qualche
altro dispiacevole et odioso fine”: che non può esser altro che la perdita
della libertà. I responsabili hanno presto un nome: sono i nobili ‘vecchi’, che
dopo la congiura dei Fieschi (1547) hanno manomesso attraverso la legge del
“garibetto” l’eguaglianza tra i membri del ceto di governo cittadino stabilita
nel 1528. Il dialogo si presenta perciò a chiarissime lettere come un manifesto
politico, rivolto contro chi è imputato di avere una parte preponderante nel
governo, e intreccia il tema del patriottismo (la difesa della Corsica) a
quello delle riforma politica.
Come
spiegazione delle disgrazie di Genova la “ambitione et cupidità di pochi grandi
et potenti” è stata anticipata nella premessa al dialogo. In aggiunta Foglietta
avanza un’altra causa: “le nostre discordie, et la non buona intelligentia, et
biasmevole emulatione, che è fra Noi, la quale nutrisce la importunità de i
potenti predetta”. Le due spiegazioni in realtà si completano: le ambizioni
individuali pesano in quanto il ceto dirigente cittadino non è unito. Il cuore
del problema è infatti la persistenza della “diversità del nome di Nobile et
Popolare”: una “peste” non rimossa dalle Leggi del 1528, quando venne
“stabilita la unione trattata molti anni adietro et fu tolta via la distintione
di ogni colore, et fu tutta la Città riddotta ad un corpo”. Qui si annuncia un
veleno: se l’unione del 1528 era stata “trattata molti anni adietro”, del suo
merito veniva implicitamente spogliato il liberatore Andrea Doria. La
sopravvivenza dello spirito di divisione è imputata esclusivamente ai
“domandati nobili”, contrapposti ai “cittadini popolari”, le due parti delle
quali Ansaldo e Princivalle si fanno rispettivamente portavoci. L’atto d’accusa
di Princivalle nei confronti dei Nobili è tagliente. Essi sono i maggiori
responsabili della “disunione” (disvalore sommo, nel discorso politico genovese
dopo il 1528, in quanto negazione dell’ unione fondativa della Repubblica)
perché
vogliono a dirla in poche
parole, che fra loro et gli altri Cittadini sia distintione, et che ella vi si
conosca, et mostrano apertamente, che in Genova sono dui corpi o vero due parti
della Republica, et che essi sono la principale, et si arrogano ogni superiorità
et autorità in tutte le cose, sprezzando ad un certo modo gli altri, et
tenendoli da meno di sé. Finalmente non vogliono in alcun modo l’uguaglianza.
La
necessità aristotelica di una graduazione di ranghi (“Non sapete voi che in una
Città libera deveno essere grandi, mezzani, et infimi?”) addotta da Ansaldo a
giustificazione dei nobili non risponde al reale obiettivo della parte, che è
la costituzione in ordine separato, l’affermazione di una supremazia di rango e
di sangue. “Superiorità et inferiorità la deveno fare le circustantie”, è la
replica di Princivalle/Foglietta: che anticipa così la piattaforma della fazione
‘nuova’ nel quindicennio seguente. Al corrente del dibattito sulle
caratteristiche della nobiltà, Foglietta considera ovvio il contrasto tra
“nobili” e “huomini nuovi”. Ma proprio questa distinzione egli nega che sia mai
esistita a Genova. Il suo colpo d’ala sta proprio nell’interpretare le vicende
faziose genovesi con un criterio radicalmente nominalistico. A Genova
è sempre stato usanza, che ogni Cittadino, il quale veniva alla
aministratione della Republica, si mettessi qual di dui questi nomi più li era
a grado, et si facessi di qual di dui questi colori egli voleva. Onde quelli di
loro, i quali si chiamano Populari, non sono distinti da coloro, li quali
Nobili si domandano né per novità et antichità, la quale per la maggior parte è
pari nell’uno e nell’altro colore, né perché siano maggiori li meriti de gli
antepassati de i Nobili verso la Republica di Genova, che i meriti de gli
antepassati de’ Populari.
Negli
annali Foglietta trova la smentita alle pretese di superiorità dei nobili; e
negli annali legge in maniera fortemente angolata la storia politica della
Genova medievale. All’epoca di Caffaro e del comune consolare, i cittadini
“senza alcuna differentia di colori o di sette, et senza distintione o
nominatione di Nobili o non Nobili tutti parimente erano ammessi al governo della Republica con nome di Consoli, dico
quelli Cittadini, li quali per facoltà et altre circostantie erano degni di
venire a quel luogo”. Nella città “liberissima” (anticipo della polemica contro
i successivi assoggettamenti a signori forestieri) esisteva un’originaria
indistinzione di rango. Lo stesso vocabolo di nobile daterebbe dall’avvento del
comune podestarile e dall’affiancamento al podestà forestiero di otto
cittadini, avrebbe un timbro esotico (“il Podestà come forastiero et nobile parlando secondo l’usanza di Lombardia, onde per
il più venivano li Podestà”) e un’origine di convenienza. L’“ottimo e
santo governo” dei podestà era perciò caratterizzato
dalla assoluta permeabilità della nozione di nobile. Un comune meritocratico,
un’élite aperta, una nobiltà di funzione: questa, per Foglietta, la Genova ante
1270, dove persino l’incertezza, quando non l’assenza, dei cognomi confermava
l’apertura del ceto dirigente ai meritevoli, per quanto “fossero persone basse
et oscure”.
Quando
e come si era passati dal “laudabile costume” di considerare nobiltà la
semplice amministrazione della città alle divisioni? Foglietta individua il
punto di svolta nell’avvento (1270) delle diarchie di capitani del popolo alle
quali non dà neppure merito dei successi militari dell’epoca: Meloria e Curzola
appartengono dopotutto a questi anni di “grandissima corrottione et
confusione”, che al polemista cinquecentesco interessano soltanto per gli
aspetti interni. Il tramonto della “prisca santità di costumi” politici risale
alla “ambitione di alcune Casate”, che aveva resa odiosa la qualifica di
nobile, tanto che
si cominciarono a cercare
Governi di altre denominationi, et questo nome Popolare cominciò ad essere
amabile come freno di quella odiata Nobiltà, in modo, che i Cittadini, li quali
di mano in mano sorgevano al governo si contentavano del nome di Cittadino et
di Popolare, cioè seguitante il bene et l’utile comune del Popolo et inimico
della causa Nobile.
Nel
Foglietta i tempi del dogato popolare non hanno alcuna connotazione negativa.
L’esclusione dei nobili dal dogato, e la loro riduzione ad una quota parte del
governo (provvedimenti punitivi, si sottintende, meritatissimi) giustificano il
fatto che le casate ascese al governo in quel periodo vengano tutte definite
popolari. Non solo
coloro, li quali in quelli tempi
venivano la prima volta alla amministratione della Republica, volevano essere
Popolari domandati, ma etiandio molti de i domandati Nobili, et antichissimi
Nobili già per tali nominati nel primo buon Governo si spogliavano quel nome di
Nobile a nessuna cosa utile, anzi per le cagioni dette dannosissimo et odioso,
et si vestirono del nome Popolare utile all’honore et alla grandezza, et
all’hora amabile.
Convenzionale,
l’adesione alla parte popolare era assolutamente utilitaria, tanto da provocare
delle defezioni nello stesso schieramento nobile. La denominazione di popolare
era perciò “segno di elettione et di fattione, et non di ignobiltà”. La
struttura stessa dei clan gentilizi (“alberghi”), dove si mescolavano case
illustri e case nuove, giustificava l’irrisione della pretesa purezza di sangue
dei nobili: “[Princivalle] Non sappiamo noi et ne conosciamo non picolo numero,
li quali non accade nominare, li quali sono libertini, figliuoli essi o nepoti
di schiavi stati di huomini di quello Albergho, li quali fatti franchi da
patroni ritennero sempre il nome della casata del patrone?”
Coerente
alla posizione antinobiliare è l’elogio di Simone Boccanegra, liberatore
anch’egli di Genova, ma dalla “tirannide” dei Doria e degli Spinola in grazia
della sua “virtù [...] grandezza d’animo[...] prudentia”. L’avvento del dogato
popolare appare un ritorno a “quelli primi felici tempi de i Consoli”: un
generoso proposito frustrato dalle ambizioni delle quattro grandi casate nobili
(Doria, Spinola Fieschi, Grimaldi) e delle altre loro aderenti: da allora
datava la “differentia” tra nobili e popolari, “cioè seguitanti la causa del
Popolo et comune”. Questo porta Foglietta a liberare in una certa misura Adorno
e Fregoso dalla damnatio memoriae
gettata su di loro dai riformatori del 1528. Fomentatori di discordia
dall’opposizione come lo erano stati al potere, i nobili delle quattro case
assolvono nella ricostruzione storica di Foglietta il ruolo di veri e propri vilains de la pièce, autori e
profittatori dello smembramento del dominio genovese. Le loro colpe
diminuiscono quelle dei capiparte Adorno e Fregoso “sorti a’ tempi, che la
Republica era già corrotta, et che gli animi de’ Cittadini erano già tutti
inclinati alle partialità, et perciò non si possono chiamare guastatori del
buono et Politico vivere, né autori della corrottione”.
Solo
oltre la metà del dialogo è introdotto il nodo della riforma del 1528.
L’abolizione dei cognomi originari, e la confluenza di tutte le famiglie del
ceto dirigente nei 28 alberghi della riforma era stato tuttavia un
provvedimento superfluo e doloroso. Lo avevano dettato in ogni caso
considerazioni pratiche: i cognomi degli alberghi non segnalano alcuna
superiorità di rango delle casate titolari, ma la semplice superiorità
numerica, le case più numerose. Dopo aver rilevato la lealtà dei popolari al
nuovo assetto e la doppiezza dei nobili, Foglietta introduce un confronto con
Venezia, dove pure erano state ammesse al patriziato casate popolari. Il confronto
è importante per due versi.
Venetiani dando la Gentilitia a Popolari, li fecero con quel dono
partecipi del governo della Republica, del quale erano per l’adietro in tutto e
per tutto privi; et vivevano in Venetia non come Cittadini di quella Città, ma
quasi come vassalli, come si vede che hora sono in Venetia quelli Cittadini, i
quali sono Popolari. [...] Al contrario si deve dire di Genova nell’unione del
28 quando dei Cittadini si fece tutto un corpo, et quello si battezzò Nobile.
Nel quale atto tanto è lontano che i domandati Nobili donassero cosa alcuna a
Popolari, che anzi i Popolari fecero infinito dono a Nobili [...]. Né li
Popolari furono chiamati alla amministratione della Republica, percioché da che
vi è memoria de Genovesi sempre la hebbero. Anzi il governo Popolare è in
Genova il più antico, et come di sopra si è detto dopo che dal tempo del
Boccanegra in qua cominciò la differentia di questi dui colori sempre li
Popolari hanno havuta l’amministratione della Republica dalla quale li chiamati
Nobili sono stati molte volte esclusi, et per gratia de Popolari (come si è
detto) anche ammessi. [...] Talché in quella Riformatione i Popolari non
acquistarono niente, et a i Nobili fu fatto dono del supremo Magistrato, per
comunicatione del quale in Roma già furono tante contese et tante baruffe.
L’elogio
di Venezia e del suo ceto di governo è già un topico, che Foglietta riprende.
Ma il parallelo addita soprattutto la radicale differenza tra la storia
politica veneziana e quella genovese. Venezia ha un regime originariamente
oligarchico e una nobiltà immemoriale. Genova è invece una repubblica
originariamente popolare. E la convenzionalità, la natura pattizia ed empirica
dell’assetto politico era stata espressa proprio nel 1528 dall’incertezza nella
scelta del nome da attribuire alla classe dirigente della città.
La cosa non è tanto vecchia che in Genova infiniti non si ricordino, che
quando fu fatto della Civilità tutto uno corpo, et s’instituì l’unione, fu
dubitato che nome si doveva porre a i Cittadini di questo corpo, et se ne
proposero molti, come ottimati, huomini di Consiglio, Nobili, et altri nomi, et
questo di Nobile fu più comunemente ricevuto, facendo di ciò (come io vi ho
detto) grande instantia li Nobili et cuoprendo la loro intentione con questo
colore di ragione, ch egli ci darebbe più riputatione appresso de’ forastieri.
Nel
1528, insomma, i governanti genovesi erano “tutti nati Nobili in un giorno”. E
precedenza ed antichità nel governo, a Genova, stavano dalla parte degli ex
popolari. La pretesa dei ‘Vecchi’ stava di avere la parità nelle cariche di
governo pur essendo meno numerosi era un abuso consentito dalla “fattiosa et
scelerata legge” del Garibetto. Foglietta ritiene ingiusta e inutile
l’offensiva politica attuata dai ‘Vecchi’. Questi non ne traggono né utile
“acquistandosi in Genova le ricchezze con l’industria mercantile”, né
supremazia (“percioché essi non possono mai designare di doventare soli
Signori, et Governatori di Genova”). La loro chiusura difensiva, alimentando il
gioco delle appartenenze di colore, cioè di fazione, è addirittura
autolesionista: perché (insinua conciliante Foglietta)
io Popolare eleggo più presto il
Popolare di minore valore, che il Nobile valorosissimo, per essere il Popolare
del mio corpo, et ritenendo io nell’animo una certa amaritudine contra il
colore domandato de’ Nobili, il quale mi vuole essere superiore, la quale me li
fa abhorrire. Ma come tolta questa distintione eleggendo all’hora colui, il
quale hora per Nobile da’ Popolari si distingue, mi parerà eleggere uno de’
miei, chi dubita, che io non debbia sempre preporre la maggiore virtù alla
minore? Et essendo poi fra loro al presente più huomini di valore, che non ne
sono ne colore domandato Popolare, non sì presto si sarano senza fuco o
fallacia tutti una cosa medesima, che subito haranno tutta la amministratione
della Republica in mano.
Un
comportamento politico così irragionevole non può essere ascritto che a “vanità
et [...] superbia”, al “lusinghevole lenocinio, che ha in sé il vocabulo” di
nobile.
I
‘Vecchi’ favoriscono inoltre la debolezza militare della Repubblica, a vantaggio
della potenza privata: “non pur patiscono ma procacciano et difendono che in
una Città libera siano Cittadini potentissimi, et di eccessive forze, et la
Republica sia debole et disarmata”. La stoccata ad Andrea Doria e agli altri asientistas de galeras non potrebbe
essere più chiara. L’ascendente doriano e ‘vecchio’ presuppone una repubblica
inerme. Di rito le proteste di non voler intaccare minimamente i meriti del
Principe Doria, ma evidente l’intenzione di non attribuirgli meriti
inesistenti. Reale invece il pericolo dell’assoggettamento di Genova a principi
stranieri. Foglietta non accetta di distinguere il “poco di emulatione” dei
suoi giorni dalle “arrab- biate discordie” del passato. La prudenza
fogliettiana invita a fermare il dissidio all’origine, e si fonda su una
realistica presa d’atto del mutamento nei rapporti di forza internazionali
rispetto all’età dei ‘cappellazzi’:
erano all’hora certe qualità di
tempi, nelli quali era in facoltà de’ Cittadini medesimi agevolmente mandarli
via ogni volta che volevano, come sempre che quelli Governi sono loro
rincresciuti hanno fatto. Ma hora ciascuno vede che le cose sono talmente
cambiate, che non potendosi venire se non in mano di Principi potentissimi,
considerando colui, il quale vi entrasse, di quanta opportunità fosse Genova a’
suoi dissegni, et come ella è solita a fastadire [sic] et cambiare spesso li Governi forastieri, se ne assicurerebbe
in modo, che non potriamo scherzare et ci ridurrebbe et con fortezze et con
altri infiniti presidij in uno stato et servitù, la quale Dio prohibisca da
Noi.
La
lezione del 1547, il ricordo della proposta di Ferrante Gonzaga di assicurare
la città mediante la costruzione di una fortezza, brucia ancora. L’alternativa,
del resto, pare il rischio di sottomissione ad un cittadino potente: principato
straniero o principato indigeno, Foglietta lancia un allarme sulle sorti
dell’indipendenza cittadina: “il fine dele discordie civili è la servitù o di
gente forastiera, o pure de’ suoi proprij Cittadini, massimamente se quelli
popoli lasciano sorgere fra loro uno Cittadino o una Casata di eminente stato
et di straordinaria potentia”. Non certo il Principe Doria: ma non si esclude
che il suo successore, o altri, possa indirizzarsi diversamente, anche a
dispetto delle preferenze degli stessi consorti ‘vecchi’. La lezione delle cose
e le letture concordano nel dettare a Foglietta una diffidenza radicale verso
le aspirazioni signorili. La storia cittadina italiana, del resto, era un
cimitero di libertà.
È cosa naturale et ordinaria,
che non havendo gli animi humani nelle cose della ambitione et della grandezza
modo né termine alcuno, quando tu dai ad uno sopra molti autorità et potentia
granda, egli non possa contenersi dentro a termini che tu li prescrivi, ma
inescato dalla dolcezza del comandare, della quale non è alcuna che tiri a sé
con più dolce allettamento l’appetito humano, procede tanto oltre quanto quello
acuto stimolo del Regnare lo spinge. La quale soavità del Regnare è tanta, et
tanto secondo il gusto humano, per essere gli animi nostri di natura sublime et
magnifica, che ella non ci lascia havere altra consideratione o di gratitudine
o di religione, o di qual si voglia altra cosa, in modo che così è facile ad
opprimere coloro, li quali furono principio et cagione di quella grandezza come
gli altri. [...] Et se questo fu sempre in ogni tempo et in ogni Popolo, et è
ragionevole che così sia, non è già da dire, che Genova non sia sottoposta al
medesimo pericolo, et per l’essempio, che ne ha di altre volte, et per essere
Genovesi di natura caldissima, et di ingegni et complessioni vehementi et
accesi, li quali nelle cose poco si sanno temperare. Anzi in Genova questo
pericolo è tanto maggiore, quanto le altre famiglie, che di sopra habbiamo
detto che si sono fatte padrone delle loro Patrie, sono state portate a questo
grado della autorità et potentia solamente, che dava loro una parte de
Cittadini. Ma in Genova coloro che hanno queste forze, et delli quali per la loro bontà non si può temere, ma bene de i
loro posteri, li quali non si può indovinare che huomini habbiano ad essere, né
essi li possano a loro posta creare buoni. Costoro dunque, oltre l’autorità la
quale è loro data, saranno armati di così gagliarde loro forze private che
quasi basteriano anchora con quelle senza questa autorità ad opprimere la
Città, et haranno li appoggi et provisioni grossissime di Principi forastieri.
Pandolfo
Petrucci nella pagina fogliettiana si presta ad esempio di principe nuovo
asceso dal basso profittando dell’insipienza e delle discordie degli oligarchi.
Ma l’allusione vera, ad uso interno, riguarda gli eredi politici dei grandi
vecchi della Genova doriana: il successore di Andrea Doria, il figlio di Adamo
Centurione. A questo punto Foglietta avanza la provocatoria proposta che Andrea
Doria stesso distrugga la potenza privata della propria casata rinunciando alle
galee, e comprandosi col ricavato un feudo nel regno di Napoli: disarmo ed
autoesilio volontari sono i pegni che il polemista osa chiedere al più potente
personaggio della scena genovese, lanciando un parallelo con l’azione di
Ottaviano Fregoso, che aveva rinunciato a farsi signore di Genova ed aveva anzi
demolito la fortezza che poteva dargli forza militare.
Il
modello politico che Foglietta propone è classico: la repubblica romana, in
virtù del suo meccanismo elettorale per centurie. Là il polemista scorge un
accorto sistema politico censitario, che non mortificava formalmente nessuno, e
nel contempo rispettava rigorosamente le gerarchie di fortuna. I Romani,
infatti,
vedendo che in una vera libertà
non era honesto privare alcuno Cittadino per basso et oscuro che egli fosse del
suffragio et voto, né allo incontro era conveniente, che tanta autorità havesse
uno basso et vile et di nessuno valore, quanto uno il quale per ingegno et
facoltà risplendeva, trovarono questa via, la quale salvava l’una cosa e
l’altra.
Ogni
centuria agiva come un collegio uninominale: il voto della centuria era quello
della sua maggioranza. Le centurie avevano però diversa consistenza numerica a
seconda delle classi, ed ogni classe comprendeva un numero diverso, e
decrescente, di centurie. La piramide elettorale era il rovescio di quella
sociale:
In modo che rarissime volte o
non mai si veniva al voto della infima classe de i Capitecensi [...] et a
quello non venendosi mai restava esclusa questa feccia della Città quasi in
tutto dalla amministratione della republica, e ricompensavano questa dishonoranza
con la essentione, la quale havevano da ogni gravezza, et dalla militia
anchora, la quale in quelli tempi era una gravezza grandissima.
A
rendere questo sistema tollerabile ai cittadini delle classi inferiori
contribuiva l’equa ripartizione delle imposte, in misura proporzionale al
rango. Il sistema romano, di imposte dirette progressive, figura dunque in
positivo a confronto del sistema genovese, di imposte indirette distribuite
egualmente su tutti, dunque maggiormente sui poveri: i romani
facevano del tutto esenti dalle
gravezze li poveri; et Noi altri li quali pur siamo Christiani, più li graviamo
con le gabelle sul vitto ugualmente da loro pagate, come da i ricchi, né è
alcuno, che mosso da charità o da humano rispetto dica la ragione della misera
gente.
Il
confronto con i romani (rafforzato per la circostanza dall’esempio di Venezia)
permette di a Foglietta di proporre addirittura l’attribuzione delle decisioni
politiche a tutto il corpo della nobiltà convocato in assemblea generale, e non
al solo Consiglio grande.
L’importante
digressione sul modello romano repubblicano è però soltanto un intermezzo prima
del ritorno alla questione cruciale della volontà o meno di Andrea Doria di
accettare la sfida fogliettiana, e vendere la galee alla Repubblica. Il dubbio
che egli lo faccia prepara la stoccata finale alle pretese benemerenze del
Principe, che per Foglietta si limitano a “poche cose”. Il debito di
riconoscenza dei genovesi per Andrea Doria è un mito, a ridimensionare il quale
Foglietta dedica l’ultima parte del dialogo. È Ottaviano Fregoso ad assurgere a
promotore della riunificazione del ceto dirigente cittadino: e sia pure in
negativo, attraverso la rinuncia a mantenere la signoria della città, piuttosto
che in positivo:
il primo il quale si svegliasse a dimostrare questo segno di amore alla
Patria, di volerla mediante l’unione de’ Cittadini ridurre a migliore stato, et
riformare il corrotto vivere passato, fu il Signore Ottaviano Fregoso, il quale
all’hor teneva il Principato in Genova, indutto a ciò, et dalla sua naturale
bontà, et dalli assidui conforti di Raffaello Ponsono Segretario del publico,
il quale lasciato l’ufficio si era fatto sacerdote.
Il testimone del disinteresse nel patrocinare la
concordia civile e la riforma politica era stato raccolto da Stefano
Giustiniani, da Agostino Foglietta (il padre di Oberto), da Antoniotto Adorno:
tutti e soltanto personaggi di parte popolare. Le circostanze, più di tutte la
questione di Savona, avevano poi precipitato una riforma nella cui genesi il
ruolo del Doria era stato accidentale:
alla deliberatione fu la
benignità di Dio favorevole, fece cadere opportunissimamente che il Principe
Doria oltre il publico rispetto fusse per private cagioni alienato da’
Francesi. Venne dunque a Genova il Principe Doria con le sue Gallee chiamato da
Cittadini, li quali dopo molti lunghissimi tratti già havevano concluso
l’unione, et con l’aiuto et favore di quello la Città scacciò Francesi, ruinò
il Castelleto, et riprese dalle mani di Francesi Savona.
Semplice,
e non disinteressato, esecutore il Doria, dunque, e niente più, ma non “autore
né perfettore della unione, né della Riforma, né della estintione delle
fattioni”. “Autore” della libertà: ma solo perché già esisteva la “unione”.
“Che quanto ad entrare dentro con le sue Gallee, et ad aiutare la Città a
scacciare Francesi, questo la Città etiandio senza lui bastava per se stessa a
farlo, come molte volte già ha fatto”. Foglietta nega anche che Andrea Doria
possa essere definito “autore di questo stato Riformato”. Infatti,
più presto si doverebbe chiamare
mantenitore, et conservatore. Ma se così vi piace, facciamolo anche assertore,
et orniamolo di questa laude. Ma avvertite, che essendo con questa libertà
congiunta la sua grandezza, potrebbe alcuno calunniarlo, che la sua intentione
non fusse stata né fosse questa libertà et questa riforma, ma la grandezza sua
propria, et il fine suo fusse stato et fosse instituere et fondare in Genova
essendosi spente le fattioni Adorna et Fregosa sotto questo colore di Republica
libera una straordinaria potentia di casa sua.
Perciò
al Doria deve essere chiesta una prova: “Dare le Gallee alla Patria che questa
sola è la pruova, che egli preferisce alla grandezza della casa il ben publico,
per il quale bene ha fatto tutto ciò che ha fatto”. Il dialogo precipita ad una
conclusione frettolosa, improntata ad una manierata ostentazione di fiducia
nella buona volontà del Principe Doria. E nella conclusione Foglietta condensa
la sua proposta politica.
Risolviamoci pur Noi ad unirsi da dovero, et a stabilire uno stato
quieto et glorioso, mantenendo sempre Cinquanta Gallee sforzate, le quali
saranno la salute nostra, et quelle che ci faranno rispettare così da tutta la
Italia come da tutti gli altri Principi, et senza altra spesa ci faranno
restituire la Corsica, et ci assicureranno il traffico, il quale è la vita
nostra, et daranno un continuo inviamento, et honesto essercito [sic] et
intratenimento alla nostra gioventù, la quale hora per il più otiosa è sforzata
a darsi a mille male arti.
Questa
grande flotta di stato verrebbe posta al servizio dei principi italiani “dico
di quelli che hanno li stati al mare inferiore”. A chi allude Foglietta? Al re
di Spagna? Al pontefice? Probabilmente a quest’ultimo. Ma il senso della
proposta non cambia se si sostituisce ad esso il re di Spagna. La flotta
genovese starebbe alla politica spagnola come le truppe svizzere a quella
francese. La neutralità nominale della Repubblica si sostanzierebbe dei
profitti di un mercenariato navale volto a beneficio pubblico, anziché a quello
privato degli asientistas de galeras.
Questo mercenariato navale sarebbe perciò veicolo di libertà e indipendenza
(come per gli svizzeri), invece che minaccia di soggezione. Senza dire che la
pratica dell’armamento legherebbe Genova a un ruolo marinaro ed esalterebbe le
figure sociali del mercante e dell’arma- tore, in declino di fronte alle
ricchezze emergenti dei finanzieri, gente di parte ‘vecchia’ legata a filo
doppio alla Spagna.
Impossibile
sopravvalutare l’importanza del dialogo del Foglietta nel dibattito politico
genovese del Cinquecento. Foglietta dava voce per primo allo scontento diffuso
tra gli ex Popolari nei confronti della correzione oligarchica all’assetto del
1528 attuata col “garibetto”. Prendendo a rovescio l’immagine della Repubblica
che stava proprio allora costituendosi, Foglietta ribaltava il giudizio sulle
discordie civili; spogliava Andrea Doria dello stesso attributo ufficiale di
liberatore; affermava il carattere popolare della tradizione repubblicana
genovese; rilanciava il ruolo marinaro e mercantile della città; sosteneva
un’attitudine di indipendenza orgogliosa e armata; proponeva un modello di
organizzazione politica aperto e partecipatorio, dove l’accesso al potere fosse
premio alla ricchezza prodotta dalla capacità individuale, senza pregiudizi di
casta, ma dove anche il ceto di governo si accollasse l’onere della tassazione.
Per la sua lettura del passato genovese come per il suo progetto di futuro
Foglietta veniva a negare nel dialogo l’intera costruzione della Repubblica
uscita dalla riforma. La stessa parola d’ordine del ritorno al Ventotto era poi
contraddetta dalle riserve rivolte alle disposizioni delle Leggi. Le
argomentazioni e i temi sollevati da Foglietta aprirono il campo a quasi un
secolo di polemica politica filomercantile, navalista, antispagnola,
anticambista, suntuaria: in altre parole, alla grande stagione della
pubblicistica politica genovese. Repubblica armata, rafforzamento della flotta,
indipendenza dalla Spagna, superamento delle divisioni interne, diffidenza per
i personaggi eminenti legati al re Cattolico: tutte le sfaccettature dell’orientamento
più tardi definito “repubblichista” erano già adombrate nel dialogo
fogliettiano, che forse riecheggiava posizioni e spunti circolanti in città e
passati senza lasciar traccia scritta. Il dialogo, è stato scritto, “potrebbe
anche essere considerato l’ultima voce di libertà in un periodo in cui l’Italia
si stava avvilendo”. Eppure, a Genova, di tutto ciò che venne avanzato da
Foglietta si discusse e si scrisse ancora per decenni: anche se gran parte di
quella riflessione restò manoscritta, col risultato di generare un’impressione
di atonia politica dove c’era invece un’attenzione quasi ossessiva per il
problema dell’operatività del governo e per la definizione delle
caratteristiche del ceto che ne deteneva dal 1528 il monopolio.
5.
Politica ed economia nel “Sogno” in morte di Agostino Pinelli
Il
manifesto fogliettiano uscì intempestivamente per più motivi. Andrea Doria morì
di lì a poco; ma il successore ed erede Gian Andrea si trovò provvisto di una
forza navale diminuita e osteggiato da alcuni degli stessi oligarchi ‘vecchi’.
Inoltre, la Corsica fu restituita alla Repubblica proprio nel 1559; salvo
esplodere di lì a pochi anni in una nuova ribellione (1564-1569), sia pure
priva di sostegni esterni. La nuova emergenza bellica contribuì a ritardare
l’attacco frontale all’assetto del 1547, anche se nel contempo attizzò il
risentimento per il carico fiscale che imponeva soprattutto ai ceti più poveri.
Ma nel 1566 l’assassinio del Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli da parte del
figlio dell’ex Doge Giambattista Lercari, un personaggio di parte ‘vecchia’
avversato, e messo da parte, per il suo protagonismo dagli oligarchi della sua
stessa fazione, diede lo spunto per un nuovo dialogo, rimasto manoscritto,
intitolato Sogno sopra la Republica di
Genova veduto nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo. Interlocutori
Stefano Giustiniano primo Institutor della Unione, e detto Agostino Pinello
Procuratore in Vita. Il testo, opera forse di Bernardo Giustiniani Rebuffo
(autore di almeno un altro libello di tono antispagnolo, ma personaggio tuttora
pressocché sconosciuto), introduce nella pubblicistica genovese il genere
lucianeo del dialogo dei morti. Sotto questo profilo fa da battistrada alla libellistica
degli anni seguenti forse più che non il dialogo del Foglietta. Un anonimo,
forse seicentesco, annotò sulla copia del dialogo conservata nell’Archivio
Storico del Comune di Genova, dove il Sogno
è seguito dai dialoghi di Caronte dei primi anni ‘70: “tutte insulse satire di
quei tempi di partiti”. La sottovalutazione del dibattito politico cittadino cominciò
presto.
Il
dialogo appunta il malumore provocato dalla infelice conduzione della guerra di
Corsica su alcuni aspetti del sistema di governo. Dal Foglietta è ripresa
l’esaltazione di Stefano Giustiniani, interlocutore positivo del dialogo,
espressamente introdotto come “primo institutor della unione”. Tuttavia
l’autore del Sogno non ha la
posizione sferzantemente antidoriana di Foglietta. Forse perché il vecchio
principe è già morto e il suo erede appare meno pericoloso per la libertà
cittadina di quanto non avesse temuto Foglietta. Ancora in comune con il Foglietta,
ma con una sfumatura limitativa, è l’apprezzamento per Ottaviano Fregoso
(“vera-mente ottimo principe fra tutti li tiranni stati alla città nostra”).
Appare invece accentuata, rispetto al precedente fogliettiano, l’attenzione per
la sorte della plebe, schiacciata dalla fiscalità indiretta. Il che introduce
un elemento del tutto assente dal dialogo del monsignore: il giudizio sul ruolo
di San Giorgio. Un giudizio, tra l’altro, fortemente critico, soprattutto
perché l’ano-nimo prende di petto il luogo comune di una differenza di
interessi e di collocazione tra San Giorgio e la Repubblica: nega, insomma,
l’esistenza di una sorta di doppio stato (“Vedo ben chiaro, Ms Agostino, in che
abuso sete et in quanto errore venite presuponendo che il danno di San Georgio
non sia della Republica, et quello della Republica non è di San Georgio, come
se la republica e San Georgio fossero due signorie separate, e che una senza
l’altra potesse vivere da sé et mantenersi in grandezza et reputatione”), per
additare invece il ruolo chiave di ristrettissimi gruppi di oligarchi di parte
‘vecchia’ asserragliati, in quanto ex dogi, nella funzione di Procuratore
Perpetuo. L’insistita polemica contro i Procuratori Perpetui, dei quali aveva
fatto parte l’interlocutore negativo del dialogo, Agostino Pinelli, di famiglia
‘vecchia’, forse era occasionata proprio dalla circostanza, ghiotta, di
chiamare in causa la vittima del clamoroso attentato. Ma può darsi che altri
episodi, dei quali non siamo a conoscenza, avessero portato alla ribalta della
polemica di tutti i giorni proprio alcuni dei Procuratori Perpetui. L’anonimo
attribuisce inoltre ai ‘vecchi’ un espediente elettorale che mezzo secolo dopo
in un altro dialogo politico si troverà imputato ai ‘Nuovi’: di eleggere al
dogato, quando la carica spetta all’altra fazione, i candidati più vecchi,
nella speranza che la loro permanenza tra i Procuratori Perpetui sia breve, e
di eleggere al contrario candidati giovani della propria parte. Forse viene
generalizzata e interpretata maliziosamente, sia in questa circostanza sia in
seguito, una occorrenza casuale. Questa attenzione ai meccanismi operativi
delle istituzioni cittadine conferma però l’estrema concretezza della
pubblicistica politica genovese: risvolto positivo del suo scarso, e non molto
originale, respiro teorico. L’anonimo ha pur presenti, e cita, esempi alti:
Machiavelli per l’esortazione a ripigliare lo stato, il cardinal Contarini per
l’elogio di Venezia. Il principio machiavelliano serve a giustificare la
proposta di tornare alla riforma ‘tradita’ del 1528:
Agostino: Che vole inferire ripigliar lo stato?
Stefano: Vol dire
ripigliarsi alle prime leggi come già ho detto et abolire quelle nuove rifforme
fatte in 47 con tanta violentia tanta foza tanta iniustitia causa d’ogni male.
L’esempio
veneziano viene accettato in maniera un po’ convenzionale, come modello
positivo: ma affermando subito la sua scarsa imitabilità sulle spiagge della
Liguria per la differenza di “clima”
Agostino: A voler osservar i
costumi e legge de Venetiani bisogneria che noi Genovesi fussimo situati in le
tartare paludi sicome sono i venetiani, e sotto quella clima così stabile e
fermo e non sotto questo volubile.
Si
è detto che, a differenza di Foglietta, il Sogno
fa l’elogio di Andrea Doria. Ma non per l’unione del 1528, messa all’attivo di
Stefano Giustiniani; bensì per la resistenza opposta nel 1547 alla costruzione
di una fortezza in città. In quel momento i peggiori nemici della libertà
genovese erano stati altri oligarchi ‘vecchi’, chiamati in causa
nominativamente, ma non il Principe: anzi, “se non era il buon Principe Doria
actum erat della Republica e della libertà insieme”. L’apprezzamento, e questo
suona più singolare, si estende a Gian Andrea Doria, “quale sosteneva la
grandezza della Republica”, a differenza di Marco Centurione, figlio del grande
banchiere Adamo Centurione, asientista de
galeras anch’egli e uomo della Spagna, la cui morte recente, nel 1565, non
ispira alcun compianto all’autore del Sogno.
Questi giudizi discendevano forse da considerazioni contingenti: diversamente
da Foglietta, il polemista non individuava nei Doria i più schietti interpreti
degli interessi ‘vecchi’; al contrario, li distingueva dalla fazione alla quale
pure appartenevano naturalmente. Il programma in positivo del Sogno era tutto sommato modesto: “a
salvar la Republica non ci è altro rimedio che la intiera osservanza delle leggi,
che le armi proprie, quali sono galee, et le amorevolezze fra’ cittadini”.
L’autore insisteva sul tema dell’armamento: “Stefano: Il sostegno di tutto sono
l’armi proprie alli Genovesi, l’armi proprie sono le Galee”. Il messaggio
trascendeva l’occasione: la rivolta corsa non era certo reprimibile con la
flotta: sul piano militare l’allestimento di una squadra di galee di stato
poteva essere stato urgente quando scriveva Foglietta (ed era stato
effettivamente promosso nel 1559), non nel momento in cui si discuteva come
eliminare Sampiero di Bastelica, capo dei ribelli: una soluzione che il
libellista caldeggiava (“Le republiche ben ordinate, et ben composte di ottimi
cittadini, quando non puonno haver un loro seditioso cittadino, o subdito nelle
mani, s’agiutano del suo migliore et per qualsivoglia via lo cercano di
castigare in qualsivoglia modo per sostegno del publico et universal bene”), e
che sarebbe stata raggiunta di lì a pochi mesi.
Nell’insieme,
il modello repubblicano dell’autore del Sogno
veniva tratteggiato per accenni marginali: la
critica ai Procuratori Perpetui paragonati, del tutto impropriamente, ma con
efficacia polemica, al Consiglio dei dieci veneziano; la sottolineatura del
ruolo sovrano del Maggior Consiglio (“il Gran Consiglio de 400 eletti giusto le
leggi et li santissimi ordini de i dodici
è il vero Principe, e il Duca e Signori sono legitimi Procuratori di quel Consiglio”);
infine, la rivendicazione della libertà di parola dei consiglieri, conculcata
dai governanti anche attraverso provvedimenti di esilio nei confronti dei
dissidenti, esempio recente Leonardo Sauli:
Agostino: Lo bandirno per essere uscito fuor della posta con sì poco
rispetto et per opponersi sempre a tutte le dimande del Senato.
Stefano: Li
consigli debeno esser liberi et ogni cittadino deve poter in quelli dire
liberamente il suo parere e deve imparare dalli venetiani quali hanno per bene
che sempre in quello li siano delli cittadini che contradichi l’uno a l’altro
et spesso il figlio ha contradito alla sentenza del <padre>.
Oltre
a questo, il libellista sottolineava fortemente quel che in Foglietta era
soltanto accennato: la polemica contro il lusso, imputazione tipicamente
rivolta ai ricchi di parte ‘vecchia’. Venezia, non si sa quanto plausibilmente,
tornava qui come metro di paragone. Ma la polemica suntuaria si arricchiva di
previsioni fosche sullo spopolamento della città e sul rimescolamento della
popolazione provocato dall’immigrazione di forestieri: previsioni che mettono
in piena luce il versante passatista di un po’ tutta la pubblicistica di
opposizione. Bersagli del dialogo il lusso dei matrimoni, il livello eccessivo
delle doti, l’uso di camerieri e paggi, il gioco, le vesti lussuose delle
donne. Il tutto da combattere con forti gabelle suntuarie.
Stefano: [...]altrimenti vi
protesto, che non verrà l’anno del 600 che una gran parte delle famiglie che
adesso regnano, saranno estinte, et la Republica resterà in gente nuova et li
sarà sempre da vedere nuovi successi et nuovi imperij.
Agostino: È quasi impossibile questo, perché i
ricchi non vogliono gabelle, se non sopra le vettovaglie.
Stefano:
Se questo è impossibile, è impossibile conservar la libertà, perché i prudenti
Venetiani da principio, quando formarono la loro quasi perpetua Republica che è
quasi mille anni che ella si mantiene, cosa che sino a qui non si legge di
alcuno altro Imperio al mondo, constituirono alli huomini un habito honorevole,
e cittadinesco, et alle donne un altro, né quello si varia in modo alcuno, di
maniera tale, che con quello moderanno il lusso cittadinesco, et il povero e
patritio cittadino non ha da invidiar il più ricco e potente, perché comorando
insieme le donne et gli huomini col paragone si conservano così tanto può le
sostanze de grandi come de mezzani.
Agostino: La libertà è più possibile conservare
senza le sostanze perché animo volenti nihil difficile.
Stefano:
Questo non è cosa difficile ad uno che voglia da dovero, ma come si può
conservare in uno che già sia stato ricco et si veda poi povero, mirate a Lucio
Sergio Cattilina e compagni, e quanto più poco si conservò Roma in libertà poi
di quel lusso così grande in che vivevano li Romani.
Agostino: I
Venetiani non vivono con lusso più grande de noi altri.
Tutti
gli argomenti e gli obiettivi della polemica sul lusso sarebbero ritornati nei
decenni e nei secoli seguenti, con leggere varianti formali. In sé, dunque, un
filone moralistico di ascendenze antiche e di grande avvenire, e a prima vista
politicamente neutro. In realtà, mirato anch’esso, visto che obiettivi polemici
erano quei ‘Vecchi’ che avevano abbandonato la mercatura per farsi feudatari di
principi e segnatamente della Spagna.
Stefano: Ve lo dico et ve lo
attesto, et vi soggiongo che tutti quelli vostri cittadini diventati di
mercadanti principi duchi et marchesi sono i maggiori nemici che habbiate in
Genova perché oltre che vi danno nemico il mondo tutto con haver accumulato oro
et tanti stabili per conservarli sono quelli che hanno da vendere la Republica
et voi altri et voi altri et alla fine ogni cosa resterà in ziffra.
L’autore
del Sogno arrivava a chiedere
l’eclusione dal governo degli interessati con il re di Spagna.
Stefano: Vi dico che sarebbe bene che [...] l’interessati con il Re et
Principi stranieri non governassero la Republica, dico quelli che li danno il
suo e quello delli altri, perché non è ponto dubio che per conservare le
proprie et private fortune li lascieranno andar il resto della vostra libertà:
e questa legge è di quelle che con l’autorità de voi perpetui doveria esser
rifformata et posta in osservanza.
Agostino: Volete
troppo Ms Stefano: i principali di Genova sono quasi tutti a questa foggia interessati
con Re Filippo.
La
grana del repubblicanesimo espresso dall’autore del dialogo mancava forse di
finezza retorica, ma non certo di chiarezza: come nella professione di fede
repubblicana messa in bocca all’ex Procuratore Perpetuo Agostino Pinelli.
Agostino: Vi dico in prima che è
meglio e senza dubio commandare che ubidire, e sentirsi et vedersi commandati
da altri è troppo duro osso ad un cittadino libero; e meglio ancora esser
cittadino di una republica libera che soggetto ad un re non che ad un prencipe
tiranno: perché un cittadino libero in una Republica libera è simile al Re; e
assai meglio essere tassato da un magistrato sottoposto alle leggi che dal
voler di un solo; et per concludere vivere in una Republica dove alle volte se
sei virtuoso et prudente comandi che sotto ad un Prencipe solo dove sei
sforzato ad ubedire e tanto peggio quando è tiranno.
Il
repubblicanesimo andava congiunto strettamente alla difesa autonoma della
città, che riecheggiava temi machiavelliani solo in parte sollecitati dalla
contingenza militare della Repubblica: “senza armi proprie”, ribadiva Stefano,
“non si ponno li stati longamente conservare, e quelli li quali si sono
lungamenti conservati, sono stati armati et rare volte han variato gli antichi
ordini”. Non solo mercatura e libertà, dunque, ma anche armi e libertà.
6.
La sfida nobiliare
Il
Sogno anticipò la battaglia
libellistica che preparò ed accompagnò la guerra civile del 1575 e l’assetto
costituzionale del 1576: un compromesso elaborato dal mediatore cardinale
Giovanni Morone, che faceva tesoro delle proposte emerse dal dibattito politico
cittadino (della città rimasta in mano ai nobili ‘nuovi’ e ai loro alleati
popolari), senza esserne però vincolato.
Nella
battaglia a colpi di dialoghi ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ badarono soprattutto a
valorizzare le rispettive benemerenze, disperdendosi però nelle frecciate
personali. Più interessanti e meglio articolati sono alcuni testi dati alle
stampe durante il conflitto. In particolare, la Risposta del S. Leonardo Lomellino Gentilhuomo Genovese al discorso de
l’Ambasciadore Sauli, uscito dai tipi milanesi di Paolo Gottardo Pontio,
nel 1575. Non si è certi che il Lomellini fosse il vero autore del libello. Ma
di sicuro questo esprimeva nel modo più netto la posizione della nobiltà
‘vecchia’. L’autore, che continueremo per comodità a chiamare Lomellini,
ricordava (ed era un topico della sua parte) l’evergetismo dei ‘Vecchi’:
non mancherei di dire che in
essi si sono veduti donativi di infinito valore fatti da particolari Nobili
vecchi antichi e moderni al pubblico per estinzione e diminuzione delle
gabelle, infinite elemosine per sostentamento della povertà e della minuta
plebe; contribuzioni gravissime di danari, servizii importantissimi con le
galere loro nei bisogni pubblici e particolarmente nelle guerre di Corsica.
Su
quest’ultima benemerenza i ‘Nuovi’ non potevano essere d’accordo; ma i ‘Vecchi’
dovevano rimarcare il proprio paternalismo verso la plebe e la beneficenza
individuale verso la Repubblica per giustificare la parità di posti nel
governo, benché inferiori di numero rispetto ai ‘Nuovi’. “Secondo tutte le
leggi divine, naturali, canoniche, e civili alla nobiltà di sangue devesi
deferir molto”, sosteneva Lomellini. E proseguiva: “altro è l’indistinzione
degli ordini quanto al governo, ed altro fare assolutamente di due tutto un
ordine”. Gli esempi di Roma e di Venezia, che i ‘Nuovi’ con più o meno
convinzione solevano addurre, non valevano: là, “prima che si confondessero
totalmente gli ordini quanto al governo, ricorsero le centinaia d’anni [...] ma
in Genova la nobiltà della maggior parte dei Nuovi incomincia dall’età nostra”.
Se Foglietta era stato nominalista, quanto all’origine delle divisioni di
fazione, Lomellini era realista: ‘Vecchi’ e ‘Nuovi’ erano diversi:
egli è così in sostanza, che i
Nuovi sono Nuovi, che li popolari sono popolari, che gli aggregati sono
aggregati, che li artefici sono artefici [...]E meno fia possibile che si
estinguano questi nomi, quantunque si vietasse il lor uso con mille leggi:
perché come dissi vengono dalla natura istessa.
Le
leggi del 1528 avevano lasciato “la somma delle cose all’indiscreta discrezione
della fortuna” affidando al sorteggio la composizione dei Consigli. Sbagliavano
dunque i Nuovi a proporre, contro il garibetto, il ritorno al Ventotto. L’unica
soluzione soddisfacente per gli interessi dei ‘Vecchi’ stava nella rigorosa
distinzione tra loro e i ‘Nuovi’, e nel contempo nel pari diritto di
rappresentanza, per “ordine”, nel governo. Lomellini, in altre parole,
postulava l’esistenza a Genova di due nobiltà, beninteso con graduazione di
dignità fra la nobiltà autentica e antica dei ‘Vecchi’ e quella convenzionale e
recente dei ‘Nuovi’.
Il metallo della nobiltà
vecchia, è senza dubbio di liga migliore, più perfetto e più purgato da ogni
oggezione, parlando semplicemente ed avendo riguardo all’antichità, sebbene
quanto al governo non vi è differenza alcuna, in quanto però che tanto vi sii
atto il minimo de’ nuovi, come il maggiore de’ vecchi: perché così vollero li
12 riformatori, e la convenzione fra noi.
Gli
stessi modi di vita e l’origine delle fortune testimoniavano a favore dei
‘Vecchi’. Non era in questione la dignità della mercatura:
il nome di mercante, quanto alla
professione è comune all’una parte ed all’altra (quantunque dalla banda dei
Nobili Vecchi vi siano infiniti che non fanno mercanzia, dandosi all’esercizio
dell’armi, ovvero al governo de’ lor castelli e stati, o veramente a una vita
quieta di Gentiluomo) né perciò sarà stimata professione disonorevole, perché
la mercanzia grossa e denarosa non solo non è biasimevole, ma piuttosto onorata
e lodevole, non scemando punto alla Nobiltà di chi l’esercita, e de’ suoi
maggiori, massimamente nelle Repubbliche d’Italia e fuori.
I
polemisti ‘nuovi’ additavano nei ‘Vecchi’ un’oligarchia di finanzieri e
appaltatori di galee: tratti che Lomellini sfumava in un’aura di vita
cavalleresca e feudale. Invece “la voce e professione di artefice, quanto sia
poco onorevole alla Repubblica, e diametralmente contraria al nome di vita di
Gentiluomini, non accade provarlo”. Alla proposta di un corpo unico e indistinto
della nobiltà e dell’applicazione del principio maggioritario avanzata dai
‘Nuovi’, ad esempio dal protonotario Marcantonio Sauli, ambasciatore del
governo genovese (controllato dai ‘Nuovi’) presso il re di Spagna, i ‘Vecchi’
per sua bocca rispondevano con la proposta di una rappresentanza paritaria per
“ordini” distinti. Si trattava, in buona sostanza, di riproporre il modello
istituzionale vigente prima del 1528, all’epoca del dogato perpetuo, ma con la
compartecipazione al dogato dei Nobili, resi per giunta più forti dai rapporti
preferenziali stabiliti con il re di Spagna, e dalle possibilità di patronato
nei confronti delle famiglie ‘nuove’ minori (secondo Lomellini “non solo gran
parte degli aggregati fu aggregata per opera e favore degli stessi Vecchi,
nudriti, allevati e beneficati dai Vecchi”).
L’esito
del conflitto fu in realtà sfavorevole tanto ai ‘Vecchi’ quanto agli esponenti
più radicali di parte ‘nuova’. Il più eloquente portavoce dei quali era stato
forse il medico Silvestro Facio, autore di una risposta del “Popolo di Genova”
alle argomentazioni dei ‘Vecchi’ e di una polemica orazione per l’incoronazione
del Doge Prospero Fattinanti. Facio, come l’autore del Sogno, puntava il dito sulla politica fiscale seguita
dall’oligarchia al governo, accomunandola agli altri ideali capi di imputazione
rivolti alla fazione avversa: che erano
l’havermi [si intende, il popolo] escluso a fatto del Governo; non voler
fabrica di Galere, dalle quali [...] pende lo splendore, e la salute della
Repubblica; l’haver imposte gravissime Gabelle sulle vettovaglie per fuggir la
necessità di ritrovar danari co’l mezzo giustissimo della Taglia; l’haver
mantenuti tutti i beni del Publico impegnati nella casa di S. Gregorio [sic per
S. Giorgio]; l’haver conservato una quasi perpetua carestia.
L’attacco
a San Giorgio, cioè al sistema fiscale della Repubblica, la preferenza per
l’imposta diretta invece dell’indiretta, erano spunti radicali: mettevano in
discussione l’intero assetto istituzionale genovese. Andavano di pari passo con
la rivendicazione navalista, cavallo di battaglia, come si è visto,
dell’opposizione ‘nuova’ in quel momento, e degli innovatori ben addentro il
secolo seguente. Ma, a differenza del navalismo, che poteva anche sbiadire in
retorica innocua, l’attacco a San Giorgio, se condotto fino in fondo, era
eversivo. La voce del popolo espressa attraverso il medico Facio era in questo
un canto del cigno, non un preannuncio.
Il
compromesso del 1576 abolì il garibetto senza però tornare alle leggi del
Ventotto (come del resto, una volta data la parola alle armi, neppure i ‘Nuovi’
avevano più sollecitato a fare). Venne accolta la sostanza delle richieste
“nuove”: ordine unico della nobiltà, ritorno di ogni famiglia al proprio
cognome, scelta del governo attraverso un sistema misto di elezione e di
sorteggio accettabile per entrambe le due parti. Infine, la prassi tacita di
seguitare ad assicurare una rappresentanza più o meno paritaria a ‘Vecchi’ e
‘Nuovi’ nelle principali cariche placava i timori dei ‘Vecchi’ di essere
soverchiati dal numero.
7.
Da un secolo all’altro: le ultime polemiche
Il compromesso di Casale segnò una svolta
decisiva. Ma i genovesi non cessarono per questo di polemizzare sulle
caratteristiche del ceto di governo. Niente del molto che fu scritto al
riguardo andò tuttavia alle stampe. Non certo gli Annali commissionati dalla Repubblica al cancelliere Antonio
Roccatagliata, che li iniziò nel 1581 e morì nel 1607 senza aver elaborato un
testo vero e proprio. Dati da rivedere ad una commissione di patrizi, i suoi
appunti vennero ricuciti in un testo continuo, destinato ad ampia circolazione
nelle biblioteche private genovesi, ma stampato solo nel 1873. Qualsiasi cosa
Roccatagliata, a suo tempo uomo di parte ‘nuova’, avesse avuto in animo di
fare, il manoscritto che lasciò non diffondeva certo, come forse il governo aveva
sperato, un’immagine lusinghiera della Repubblica pacificata. Era piuttosto il
resoconto delle difficoltà che questa incontrava sia nelle relazioni
internazionali, sia nello stabilire la concordia interna. Bersaglio di
Roccatagliata era Gian Andrea Doria, capoparte “vecchio” nel 1575 e principale
esponente di quei patrizi “eminenti” fatti ricchi, potenti e prevaricatori dai
legami stabiliti con il mondo spagnolo. Il Principe Doria era il protagonista
negativo delle vicende genovesi. Il testo ricomposto dedicava al comportamento
del Doria una colorita digressione, introdotta da un commento eloquente:
Perseverava in Genova l’odio
universale de’ cittadini verso del Doria, perché non solo appresso de’ mezzani,
ma de’ più inferiori, era in opinione ch’egli non istimasse la Repubblica, e
che nelle occorrenze porgesse occasione di disgusti e pregiudizii, ed appresso
de’ grandi non solo per le cagioni di sopra narrate, ma perché anco nelle
occorrenze li andava oltraggiando, e trattando ingiuriosamente.
Questo il giudizio sulla situazione dell’ordine
pubblico nel 1585: “andavasi in questi giorni commettendo de’ gravi delitti, i
quali non erano generalmente castigati, massime quando dipendevano da persone
grandi”. Eloquente il resoconto delle manovre faziose nelle elezioni dogali del
1585:
la cagione di tutte queste
difficoltà e dispareri dipendeva in tutto da’ nobili vecchi, perché essi non
volevano in guisa veruna acconsentire che nel numero de’ sei si ammettesse
alcuno de’ nuovi, come in effetto riuscì loro, e ciò per accautelarsi tanto più
che nel maggiore Consiglio non si eleggesse altro Duce fuori che della loro
banda, e benché i nuovi acconsentissero che il dovere fosse di eleggere uno de’
vecchi, si lasciavano però alla scoperta intendere che questa azione loro fosse
mal fatta e mal intesa.
A
mitigare un quadro così cupo, Roccatagliata citava la comune disponibilità dei
cittadini alla difesa, che gli forniva il destro per manifestare le simpatie
navaliste prevedibili in un anziano popolare:
e benché in questi tempi
vivessero etiandio nelle dissensioni loro, quando però si è parata avanti loro
occasione, mandando in disparte tutte le passioni, congiungendosi sempre in un
valore, ed intenti al bene della patria, voltarono affatto li studi loro alla
comune difesa di essa.
Ma
nel complesso erano le “passioni” e le “dissensioni” a campeggiare in un testo
che non esitava ad adoperare quelle denominazioni di parte, come ‘nobili
vecchi’, formalmente proibite dalle leggi. Questa singolare attitudine di un ex
cancelliere stipendiato ufficialmente dalla Repubblica come annalista spiega
come il testo non sia mai andato alle stampe. Sorprende, piuttosto, che un
resoconto così franco e partigiano venisse rielaborato su incarico pubblico e
trovasse circolazione, sia pure privata, per quanto se ne sappia indisturbata.
Ma si capisce che la Repubblica abbia rinunciato da allora a promuovere un’annalistica
ufficiale.
Roccatagliata
era stato un protagonista delle discordie civili. Il vocabolario fazioso e la
polemica faziosa si riproposero però anche nella generazione seguente.
L’orientamento dei ‘repubblichisti’, come Ansaldo Cebà e Andrea Spinola, non
esauriva affatto il dibattito politico. La loro posizione, quella di Spinola in
particolare, più aderente alle effettive discussioni interne al patriziato,
risalta non perché rappresentativa dei temi e dei toni della polemica politica,
ma perché programmaticamente tesa a superare, anche passandole sotto silenzio,
le diatribe faziose cinquecentesche. Spinola non entrò mai nel campo dell’erudizione
storica, come fecero invece Antonio Roccatagliata prima di lui, il quasi
coetaneo Giulio Pallavicino (1558?-1638), e i più giovani Federico Federici
(1570 ca.-1647) e Agostino Franzone (1580 ca.-1658).
Avvocato della “unione” in chiave
“repubblichista”, Spinola votava all’oblio l’età delle lotte faziose. Se la
ricerca antiquaria si dimostrava ora occasione involontaria, ora pretesto
deliberato per rinfocolare gli antichi e recenti contrasti, meglio non
praticarla: nelle migliaia di pagine spinoliane la rivisitazione del passato
genovese è quasi assente. Pochi, e in linea con la tradizione ‘vecchia’, i riferimenti
alle vicende cinquecentesche: all’elogio di Andrea Doria, il liberatore
disinteressato del 1528 e il difensore dell’indipendenza genovese del 1547, si
contrapponeva la menzione ostile di Ottaviano Fregoso, sospettato di ambizioni
signorili. Tuttavia Spinola, benché di famiglia inequivocabilmente ‘vecchia’,
fondeva nella sua idea di città elementi che provenivano da entrambi i filoni della
polemica politica cinquecentesca. L’elogio della mercatura e della navigazione
proveniva soprattutto dalla tradizione ‘nuova’, anche se realisticamente non
comportava alcun disdegno per l’attività finanziaria. Tutta di origine ‘nuova’
era l’insistita polemica suntuaria, non priva di accenti antifemminili e antigiovanili.
E ancora ‘nuova’ (benché anche i ‘Vecchi’ avessero maltollerato nel Cinquecento
il protagonismo di alcuni tra loro) l’ostilità verso gli ‘eminenti’. La
diffidenza verso gli ordini religiosi “moderni” e il proselitismo ecclesiastico
tradiva poi il rimpianto per la religione civica del secolo precedente e per un
rapporto tra laicato e clero che era certamente, e irreversibilmente, cambiato.
Radici ‘vecchie’ presenta invece l’adesione spinoliana ad una immagine
sostanzialmente immobile della società cittadina. Era questo il presupposto
della sua avversione alla legge che consentiva al patriziato di cooptare ogni
anno nuovi membri traendoli dal mondo popolare. Disposizione destabilizzatrice,
gli pareva: perché generava aspettative permanenti di ascesa sociale, che non
potevano (anzi, non dovevano) essere soddisfatte. L’idea di città spinoliana
contemplava un ceto di governo concorde, frugale, mercantile, consapevole dei
propri doveri, provvido verso gli inferiori; ma anche un ceto di popolari
operosi, leali e privi di ambizioni di ascesa sociale. Aleggiava, dietro questa
proposta, la suggestione del modello veneziano: patriziato chiuso, e secondo
ordine contento del proprio stato. Sottintesa, un’idea di ordine sociale
fondata su una stratificazione articolata non solo della città, ma dello stesso
patriziato, che il lusso e la diffusione di nuovi modelli culturali (i “costumi
cavallereschi”) tendevano a semplificare brutalmente.
Negli stessi anni in cui Spinola rielaborava i Ricordi, però, la polemica
cinquecentesca sulle fazioni venne riproposta per l’ultima volta: nel 1622-23
da un dialogo anonimo rimasto manoscritto che incorporava alcuni testi del 1575
(riproposti a stampa nel 1628, sullo sfondo della guerra tra Repubblica e duca
di Savoia e della congiura di Vachero, dal filosabaudo Gian Antonio Ansaldi), e
nello stesso anno dalla prima parte del dialogo Aristo. Sotto questo titolo va la riflessione politica che
l’intellettuale e uomo di governo Agostino Franzone stese in dodici parti
(“giornate”) fra il 1623 e il 1641, e che circolò anch’esso largamente senza
andare mai alle stampe. La prima “giornata”, dedicata al tema della nobiltà di
Genova, rispondeva (se deliberatamente o no lo ignoriamo: non è possibile
stabilire con certezza quale testo sia stato scritto prima) ai dialoghi
anonimi. La coincidenza temporale delle due opere esprimeva evidentemente lo
stato d’animo, anzi di malanimo, del momento. I dialoghi del 1622-23 assumevano
un punto di vista risolutamente ostile all’azione dei ‘nuovi’, considerati
traditori della causa “popolare” nel 1575; tuttavia la loro ispirazione è
ambigua: essi sottolineavano soprattutto la convergenza degli interessi delle
due parti contro i comuni nemici ‘nuovi’. Sul piano operativo sembrano tuttavia
più un appello alla riscossa dei ‘Vecchi’, che non un incitamento all’eversione
rivolto al popolo.
Nella rivisitazione polemica e ‘antinuova’ dei
fatti del 1575-76 i dialoghi riprendevano lo spunto proposto alla fine del
secolo precedente in uno dei più straordinari pezzi della pubblicistica
politica genovese: quella Relazione di
Genova, databile molto verosimilmente al 1597-98, che è stata (e talvolta è
tuttora) attribuita al Doge Matteo Senarega, ma che c’è motivo di credere sia
stata invece stesa da un intelligente e ‘machiavellico’
intellettuale-avventuriero toscano forse al servizio del Granduca, Jacopo o
Giacomo Mancini da Montepulciano, morto assassinato a Genova nel 1603. La relazione,
e due scritti più brevi ad essa correlati, se opera del Mancini rappresentavano
una acuta analisi del governo genovese e soprattutto dei suoi punti deboli, ad
uso di chi volesse (e il Granduca era un candidato plausibile per la parte)
sfruttarle a proprio beneficio. È invece molto più impegnativo giustificarne
l’attribuzione a un protagonista, pur spregiudicato, della politica genovese
come Matteo Senarega. Il governo genovese fece bruciare il testo (che per altro
ebbe larghissima diffusione) attribuendolo al già defunto Mancini.
La
Relazione, è stato osservato, pare
rispecchiare gli interessi e il punto di vista di un estraneo, non di un
genovese. Non così i dialoghi del 1622-23, cosparsi, come già la pubblicistica
precedente il 1575, di attacchi personali. Disinvolto pastiche di toni e argomenti di riporto, e di riferimenti
d’attualità, i dialoghi furono forse travolti dalla cronaca, ovvero dalla
guerra savoina del 1625 e dalla successiva congiura di Vachero, e non ebbero
seguito.
A
sua volta, Franzone chiuse senza saperlo il dibattito sulle caratteristiche del
ceto di governo genovese, riprendendo e rovesciando la posizione sostenuta tre
quarti di secolo innanzi dal Foglietta. A somiglianza del quale risaliva
infatti alle discordie duecentesche, ravvisando nelle bipartizioni dei posti di
governo l’origine della scissione faziosa. Diversamente da Foglietta, però,
rilevava l’importanza della ripartizione dei posti di anziano praticata a
partire dal 1290. Là, più ancora che nell’avvento del dogato popolare del
Boccanegra, stava lo spartiacque politico del passato genovese:
dalli quali ordini come ho detto
cominciò la divisione nel governo perché quelli che in l’avvenire avevano da
esser ammessi conveniva che fossero dichiarati o dell’ordine de nobili, o di
quello de populari, e da qui nacque, che ogniuno o fosse di casato e
generazione nobile o vero persona nuova si faceva porre per governare la
Republica in quale di quelli ordini meglio gli pareva e di qui venne che il
nome de nobili e di populare acquistarono, oltre la loro propria
significazione, quella di fazione e mutavansi i cittadini da un ordine
all’altro secondo le occasioni e gli interessi che correvano.
Quanto
al significato delle fazioni, Franzone era dunque nominalista. Era una
riproposta di Foglietta, ma capovolta per un aspetto capitale: inizialmente il
ceto di governo genovese era stato unito e in qualche modo ‘nobile’. Dove
Foglietta aveva visto apertura e permeabilità, Franzone scorgeva chiusura ed
esclusione. Già in età comunale chi entrava a far parte del governo doveva
essere stato implicitamente cooptato nella nobiltà. Essere nobile o popolare
“era elettione e non necessità, e così fazione e non condizione di persone”. Il
regime del capitano del popolo aveva diviso artificialmente e per motivazioni
faziose un ceto dirigente in precedenza concorde. Proiettando in un passato
originario l’unione faticosamente raggiunta dal patriziato cittadino in due
tappe nel corso del Cinquecento, Franzone chiudeva davvero un’epoca.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Il dibattito politico
genovese nel Cinque-Seicento è ottimamente utilizzato in Costantini, La Repubblica di Genova, al quale rinvio per il quadro generale
della Genova dell’epoca e per una bibliografia esauriente. Le origini e le
caratteristiche della riforma del 1528 sono stati di recente studiati da Pacini, Le premesse politiche del ‘secolo dei genovesi’; mentre la guerra
civile del 1575, le leggi di Casale e l’ampio dibattito politico sviluppatosi
sul tema della riforma politica sono stati analizzati da Savelli, La repubblica oligarchica. Costantini ha messo in rilievo il grande
interesse delle Historie di Giovanni
Salvago, il cui manoscritto si trova nella Biblioteca dell’Istituto di Storia
Economica dell’Università di Genova, Archivio Doria, scat. 417, n. 1912. Il
trattatello di Ludovico Spinola, segnalato da Musso,
La cultura genovese fra il Quattro e il
Cinquecento, è stato edito in appendice a Seidel
Menchi, Passione civile e aneliti
erasmiani di riforma. La biografia del personaggio resta però da fare. Su
Jacopo Bonfadio si veda La letteratura
ligure. La Repubblica aristocratica. Cito
gli Annali dalla traduzione del
Paschetti, Genova, presso Girolamo Bartoli, 1586. Su Oberto Foglietta rimando
ancora a La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica, limitandomi
a segnalare qui Musso, La cultura genovese, e Libri e cultura dei Genovesi, che
assieme ad altri lavori dello stesso studioso sono stati ristampati inalterati
in Id., La cultura genovese nell’età dell’umanesimo. Sul Sogno sopra la Republica di Genova veduto
nella morte di Agostino Pinello ridotto in Dialogo, che ho citato dalla
copia conservata in ASCGe, Manoscritti
Pallavicino 164, ved. Costantini,
La Repubblica di Genova, e Savelli, Tra Machiavelli e San Giorgio. Sulla pubblicistica genovese in
particolare ved., sempre di Savelli,
Potere e giustizia, e La pubblicistica politica genovese. Ho
citato il testo di Leonardo Lomellini dall’edizione di Agostino Olivieri in
appendice a Le discordie e guerre civili
dei genovesi nell’anno 1575 descritte dal doge Gio. Batta Lercari. Si
avverta che il testo attribuito dall’Olivieri a Giambattista Lercari è invece
di Scipione Spinola: cfr. Savelli,
Potere e giustizia. Degli Annali di Antonio Roccatagliata ho
utilizzato l’edizione a cura di Vincenzo Canepa, Genova 1873. Il manoscritto
originale si trova in ASGe, Manoscritti
64. La vexata quaestio della Relazione di
Genova del 1597 è discussa in Costantini,
La Repubblica di Genova e nei lavori
citati di R. Savelli. Entrambi questi studiosi, ed anche chi scrive, dubitano
fortemente dell’attribuzione tradizionale del testo a Matteo Senarega.
Sulla pubblicistica politica
genovese del primo Seicento rimando ancora a Costantini,
La Repubblica di Genova, e a Doria-Savelli, “Cittadini di governo”. Esiste un’antologia spinoliana, a cura di
chi scrive: Spinola, Scritti scelti; mentre il nesso tra
dibattito politico e problemi di governo nello stesso periodo è discusso in Bitossi, Il governo dei magnifici. Su personaggi come Federico Federici e
Agostino Franzone, non ancora oggetto di studi specifici di ampiezza pari
all’interesse delle figure, si trovano frequenti riferimenti nei già citati
lavori di C. Costantini, R. Savelli, e C. Bitossi, ai quali si rimanda anche
per ulteriori riferimenti biobibliografici.
[1]
Nato dall’invito di Franco Croce Bermondi a collaborare alla storia letteraria
della Liguria della quale è uno degli ideatori e direttori, questo testo è
comparso ne La letteratura ligure. La
Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, 1.,
9-35, alleggerito per esigenze di spazio nelle citazioni. In questa sede
ripristino la stesura originale. Poiché il taglio dell’opera escludeva la
possibilità di apporre note, i riferimenti bibliografici, per altro sommari,
sono concentrati in una nota finale. Nel redigere il saggio ho avuto modo di
constatare ancora una volta la scarsezza di studi aggiornati sui principali
esponenti della cultura politica genovese del Cinque-Seicento. Ludovico Spinola
resta assolutamente misterioso. Giovanni Salvago attende ancora un editore,
come anche la citatissima Relazione di
Genova del 1597, che tra l’altro si presterebbe a un esercizio di
virtuosismo filologico, nella ricerca dell’identità dell’autore, degno dei
“giochi di pazienza” di Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi. Oberto Foglietta
meriterebbe quell’ampio lavoro al quale per molto tempo aveva atteso il
compianto Gian Giacomo Musso. In breve, sembra quanto mai opportuno un ritorno
al lavoro sui personaggi e i testi della grande stagione della pubblicistica
genovese avviato a suo tempo da Costantini e da molti anni incagliato.
Nessun commento:
Posta un commento