PARTE PRIMA
RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO
A RACALMUTO
Verso il periodo podestarile
* * *
Criteri
periodizzanti
L’oggetto
della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale,
organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra
agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una
profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda
l’istituto podestarile.
Per
convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non
è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la
vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in
coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa
sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia,
ormai sterminata, sul fascismo.
Sono criteri
che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali e
persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce è
sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista
definendola «funesto regime che è stato una triste parentesi nella .. storia»
d’Italia (), non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare
le coeve svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la
"rivoluzione fascista".
Per l’Ercole
(), ad esempio, è da parlare di due "tempi della rivoluzione
fascista": A) dalla "marcia su Roma" al discorso del 3 gennaio
1925; B) da predetto "discorso" alla legge 5 febbraio 1934 sulle
"corporazioni". Vi era stata prima "la vigilia della Rivoluzione
Fascista - dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su
Roma: 23 marzo-28 ottobre 1922.
Ma nella
stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un succedersi di
due "ondate" prima della marcia su Roma e dopo la "sosta
d’autunno" imposta a seguito del delitto Matteotti. Il ricorso ad
"una seconda ondata" era stato a dire il vero minacciato dallo stesso
Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il momento
di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella
valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata
"insurrezionale", ‘violenta’, che non è da escludere poteva scoppiare
se il re avesse "dimesso" Mussolino a conclusione della crisi
aventiniana. Per l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la reiterata minaccia della
cosiddetta seconda ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce,
quanto da qualcuno dei gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella
valutazione Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe stata di ridotti
effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed effimeri» (). Tale
suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione
periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura
antifascista del dopo guerra. ()
In campo
cattolico, Gabriele De Rosa () adotta la data del 3 gennaio 1925 per una svolta
di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date
caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del
lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini
per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre 1943 (appello di Mussolini
agli italiani da Monaco di Baviera).
Quanto allo
storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni sul
fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per il
regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista
sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed il gennaio
1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ()
In campo
marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo cogliere un
obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina ultraventennale
della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi del "fascio
della borghesia" giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag. 2120)
e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico
epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro
Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito
"regime reazionario di massa". Nessuna mutazione culturale né
evoluzione politica né conversione sociale avrebbero contraddistinto il
fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella persistente fedeltà all’obiettivo
di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 - cesura periodicizzante di risalto
ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è persino, insolitamente, sferzante.
«Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo sbocco dittatoriale era nella logica
delle cose, nella logica cioè di una ristrutturazione autoritaria della società
italiana messa in opera dai centri decisivi del potere economico, finanziario e
politico». ()
Quanto alla
storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del Renda sono
molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il diciottennio
1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della società che
quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito del
diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile distinguere
quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36, 1936-39,
1939-43.» () Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo
del parlamento (piuttosto punitivo nei confronti dei siciliani), vuoi per il
concordato, punto di agglutamento intorno al fascismo di consensi episcopali
della chiesa siciliana. L’anno 1936 viene ritenuto quello in cui «il fascismo
era apparentemente al suo massimo fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata
la legge contro il latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non
senza] scoperte intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).
Il Lupo, ()
un affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del
fascismo siciliano come "utopia totalitaria". Teorizza un’iniziale
«(breve) trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele
Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel
primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di
Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra
nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si
definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in
periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e
verticale dove le autonomie e i conflitti del politico venivano considerati
quali inammissibili residui del passato, delegittimati come beghismi,
personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429). Un
"totalitarismo", dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo
"alla prova" fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del
radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria
sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».
* * *
Il segmento
temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di microstoria
comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti. Non è però
in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto
significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica
storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino»,
"sosta estiva-autunnale", discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la
legislazione istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini
di salto qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si
attaglia al 1926 il motto "incipit novus ordo" che poteva leggersi
sotto una statua di Mussolini sita nell’androne del palazzo comunale di
Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno della radiazione dal parlamento degli
«aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione dei poteri del governo a scapito del
parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo
del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3
aprile 1926 e del regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la
serrata, istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i
sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della
pubblica amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio
del tempo "seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al
fenomeno sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo" () L’anno 1926 è
soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n. 1919,
«concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del
Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro per la
conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che consentiva
ad un proprio capo-popolo uno scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue
affinità elettorali tra conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente
mafioso, il fertile territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma
anche - bisogna dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza
politica, per lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con
un suggello legale da Gazzetta Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al
1946) neppure nei circoli, per le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di
"referendum" (solo sì oppure no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel
1929 e nel 1934.
* * *
Il 1931
viene assunto come dies ad quem scadendo il quinquennio della carica
podestarile ai sensi dell’art. 2 della legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul
piano politico, va registrato che sino al 1931 vi era una certa discrezionalità
quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e dirigenti al P.N.F. Con una serie di
dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque
volesse partecipare ai concorsi per impieghi pubblici di qualsiasi genere o per
impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per le
libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di
fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma subito si esaurì - la nota controversia
tra chiesa e fascismo sull’autonomia dell’Azione cattolica, che a Racalmuto
aveva una sua significativa presenza. Il contrasto si concluse con piena
soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag. 2223)
reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario del
PNF l’8ottobre 1930. Egli, in effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza
organizzativa e politica dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da
qui la sua breve permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931
veniva sostituito con l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la
fisionomia del PNF cambia vistosamente. Gli effetti si registreranno anche
nella lontana e periferica Racalmuto. Se prima, non si poteva essere
antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’ - come recitavano le carte
degli schedari della polizia - era in definitiva tollerato, ora occerreva anche
un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò
vale anche sul piano locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del
fascismo racalmutese ha dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si
pensi che il vecchio arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi
come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire ‘combattuto’ - la persecuzione
fascista contro l’Azione cattolica. ().
Le cadenze
temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate rispetto al
corso politico nazionale di quel periodo.
Il 24
gennaio 1924 (), con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si
chiude l’era dei sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di
transizione con un rapido succedersi di commissari straordinari (ben tre:
Ernrico Sindico; avv. Salvatore Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia
l’epoca fascista vera e propria, quanto all’ammonistrazione comunale), che
s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un decennio.
Per un
scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il 18
maggio 1936 (). Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu
Gaetano che dura, praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del
fascismo racalmutese sono in effetti cinque:
1°) la
vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli
amministratori demo-liberali del 1924;
2°) il
periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo
podestà del dott. Enrico Macaluso;
3°) il
decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;
4°) la
successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata in
guerra nel 1940;
5°) il
periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto
dell’esercito americano.()
Racalmuto
prefascista
Dal 1860 al
1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato da alcune
famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare titoli
persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio baronale, ma si
era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di Gibillini da
parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il Settecento e
l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I Tulumello, già ricchi
per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto e Montedoro,
locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale del secolo
scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei Savatteri e si
insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio, dal 1889 al
1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero economicamente e
sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella gestione della cosa
pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi che avevano fatto
fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque gli ottimati
locali, i cosiddetti "galantuomini", con la loro boria di nuovi
ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro
risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi
definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre
peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a
dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà -
trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.
Racalmuto si
consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale
segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che
hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a
Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino
Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi
Agrigento) il dott. Raffaele Rocco () partecipa al Ministro degli Interni che
l’associazione «Racalmuto - Lega di miglioramento fra zolfatai» aveva pochi
giorni prima cambiato titolo in «Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al
fascismo. () Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla "marcia su
Roma": avvedutezza degli zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed
era stata dominata dal socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati
appartenenti alle famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma
entrambe le cose sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta
costituita a Racalmuto il 26 dicembre 1926. ()
Racalmuto si
affaccia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia
- Calendario generale del Regno" del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento
di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie
delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In
Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto
- Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup.
Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla
sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani.
Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo
greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio
(bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale:
Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao
Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame:
(negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio.
E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli
(negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.)
Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè
Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè
Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè
Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi
Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi:
(negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami:
(negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia
Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di
salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella
Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento
Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli -
Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro
Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto
Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono
Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco -
Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore -
Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona
cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo -
Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu
Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci
Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli -
Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè
Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore;
Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello
Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode:
(negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone
Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè
Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe -
Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio
d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore -
Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri:
Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari:
(fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca
ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a
vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli:
Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni -
Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola
Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore -
Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta
Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo -
Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto
Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi:
Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti:
Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano
Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe -
Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore -
Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi
Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo
Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.
Il quadro
economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63 esercenti
di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma)
attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5
grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste
alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un
pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di
sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro
effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo:
negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai
ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri
(ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria
lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed
agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui
solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci
vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro
strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo
studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’,
"agrario" ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un
ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a
decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i mestieri.
Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i
Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i
vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo
rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del
fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di
Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in
senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una
sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle
funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento.
Luigi
Pirandello ne I vecchi e i giovani ( accenna alle condizioni - avvilentissime -
dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la
sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro
donne.
«..s’affollavano
storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o
di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e
arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno
turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone;
o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per
testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi
suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada
schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo
grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli
e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e
schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o
nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune
coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a
pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance
bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran
sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più
giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta
cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono
del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani
vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una
vesticciuola.»
Forse un
tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che
Nino Savarese () fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla
Racalmuto dell’avvento fascista. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i
pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo scricchiolìo, il
berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello,
sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati,
dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi,
grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o
sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi
animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di
commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di
essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro ben guadagnato. E fra i
proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una
netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel
linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di
gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi
disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti
al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima
di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si
seguono a brevissima distanza.
«Dalla
profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere
generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi
hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro
modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e
nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La
fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per
l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una
dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la
vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche
colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre
qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo
che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia
densa e giallastra. [...]
«I molli
pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi
luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]
«Qua e là,
tra le distese grige del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione,
sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già
fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in
prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a
sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di
minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni,
piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino,
col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi
soppalchi praticabili, viene versato il mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso
all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla
spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle
azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in
una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel
centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!
«Di notte la
miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato
il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non
lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno,
i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini
aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e
delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di
tranquillità.»
Quanto al
contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per
Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore
locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni
della classe agricola (): «Il contadino di questi luoghi non è un servo
della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben
pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito
nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua
famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla
cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di
zolfo, ora nei campi.»
L. Hamilton
Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di
Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un
paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno
riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al
quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità,
fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo
sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non
fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha
guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori
durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e
litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi?
Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena
compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare
dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e
alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà,
poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più
completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo
nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un
odio inconscio, le tendenze più perverse.» ()
Gli zolfatai
di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo visto come
subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato
molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per
contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. ()
Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti
sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura
che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio
moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom.
Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed
i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905
redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di
dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio,
le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le
statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi
e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione
morale ed economica [..].» ()
Quanto alla
vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo
cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare
Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875
davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare
fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da
una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e
morali: Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una
specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità
generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di
acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o
meglio consorzio.» ()
Racalmuto si
consegnava al fascismo dopo una freneteca corsa allo zolfo. Un indice è quello
demografico che è bene qui segnare:
Abitanti di
Racalmuto
Anno
|
N.ro abit.
|
Indici
1825 =100
|
1825
|
7.170
|
100
|
1831
|
7.806
|
108,87
|
1852
|
9.030
|
125,94
|
1869
|
12.252
|
170,88
|
1894
|
13.384
|
186,67
|
1901
|
16.029
|
223,56
|
1911
|
14.398
|
200,81
|
1921
|
13.045
|
181,94
|
1931
|
14.044
|
195,87
|
1936
|
13.061
|
182,16
|
1951
|
12.623
|
176,05
|
1961
|
11.293
|
157,50
|
1980
|
10.000
|
139,47
|
In quasi un
secolo, dal 1861 al 1951, i quozienti medi annui dell’incremento totale, di
quello naturale ed il saldo emigratorio sono stati:
Comune di
Racalmuto
Periodi
|
Incremento
totale
|
incremento
naturale
|
saldo
migratorio
|
1861 -1
871
|
3,6
|
8,86
|
-5,26
|
1871 -
1881
|
20
|
18,43
|
1,55
|
1881 -
1901
|
09,65
|
13,26
|
-4,64
|
1901 -
1911
|
-10,8
|
11,32
|
-22,12
|
1911 -
1921
|
-14,6
|
4,19
|
-18,79
|
1921 -
1931
|
11,4
|
9,93
|
1,47
|
1931 -
1951
|
-06,72
|
9,97
|
-16,69
|
Nel periodo
1861-1871 l’incremento totale della popolazione è inferiore a quello naturale,
il che comporta una emigrazione netta del 5,26 per mille; in quello successivo
tra il 1871 ed il 1881 il saldo migratorio s’inverte ed abbiamo una
immigrazione netta dell’1,55 per mille; dopo l’emigrazione prende il
sopravvento e nel periodo 1881-1901 è del 4,64 per mille, nel decennio
successivo di ben il 22,12 per mille e tra il 1911 ed il 1921 è ancora del
18,79 per mille; dopo - nel primo decennio fascista - abbiamo un’inversione di
tendenza: il flusso diviene immigratorio per l’1,47 per mille; quindi il flusso
emigratorio riprende il sopravvento ( 16,69 per mille nel ventennio 1931-1951).
()
Rispetto alla provincia di
Agrigento, lo sviluppo demografico di Racalmuto ha avuto il seguente andamento:
Anno
|
abit. Racalmuto (A)
|
N.ro ind.
(B).
|
abitanti prov. Ag. (C)
|
N.ro ind.
(D)
|
Rapporto %
A/C
|
Rapporto % B/D
|
1901
|
16.029
|
100
|
371.638
|
100
|
4,313
|
100
|
1911
|
14.398
|
89,825
|
393.804
|
105,96
|
3,656
|
84,77
|
1921
|
13.045
|
90,603
|
369.856
|
93,92
|
3,527
|
96,47
|
1931
|
14.044
|
107,658
|
398.886
|
107,85
|
3,521
|
99,82
|
1936
|
13.061
|
93,001
|
407.759
|
102,22
|
3,203
|
90,98
|
1951
|
12.623
|
96,647
|
461.660
|
113,22
|
2,734
|
85,36
|
1961
|
11.293
|
89,464
|
447.458
|
96,92
|
2,524
|
92,30
|
1980
|
10.000
|
88,550
|
449.699
|
100,50
|
2,224
|
88,11
|
Rispetto al
territorio del’intera provincia di Agrigento, la popolazione di Racalmuto scema
sempre più d’importanza passando dal 4,313% del 1901 al 2,224% dei tempi
d’oggi: un vero dimezzamento d’importanza. Eugenio Napoleone Messana (, uno
storico locale degli anni sessanta, da prendersi molto con le pinze, è alquanto
malizioso quando scrive: «Osservando i dati dell’Istituto Centrale di
statistica [...] balza evidente una crescente flessione demografica dal 1936 al
1961». Quasi si trattasse di un fenomeno inziato in pieno fascismo. Era invece,
come abbiamo visto, un deflusso che affondava le radici alla fine
dell’Ottocento.
La lezione
di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive in Occhio
di Capra, Leonardo Sciascia, il grande scrittore che a Racalmuto è nato: «Isola
nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un
lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo
.. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola
paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese,
l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia
locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se
il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità
esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su
Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto è solo uno scisto
della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» () Quanto a storia
fascista, ci pare che bisogna dar prorio ragione più ai locali ricercatori che
a Sciascia.
Leonardo
Sciascia, nato nel 1921, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e
là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta,
si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da
obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge.
Qualche
volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un
riferimento a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a
frequentare con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna,
famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce
a Brancati ventenne, ma in sostanza od anche a se stesso e quindi a Racalmuto,
in questo passo molto efficace (): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, d in
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama "gli anni del consenso": un consenso che, pieno e fervido
nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo
stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come
allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo -
pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia
, cui la "carta del lavoro" aveva dato, un po' in concreto un po’
d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano
ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche,
solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile
oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno
ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non
sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza,
quella unanimità, occorreva insorgesse "una strana quanto benefica mancanza
di rispetto": verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità
tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare
buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione
di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la
solitudine, l’esilio»
Sui rapporti
tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della
Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi
riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro di
Christopher Duggan () «L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente
comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può
riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgerelà dove il
socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo
prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente:
solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la
mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il
fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza rivoluzionaria degli
ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di federzoni per
osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non
dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute
minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi
del fascismo nelle regioni settentrionali e nella permissività e protezione di
cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di
quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti
dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del
tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile
anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi
degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo,
ponendosi in precisa continuità agli interessi "risorgimentali" -
volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli
agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo
il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo
l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura
del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan
e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente,
quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto
durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel
1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di
Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al
potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse
del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange
"rivoluzionarie" per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle
zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di
restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più
inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da
Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che
erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la
proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori,
insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto.
[...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello
stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere
da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il
conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile
successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche
il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra
che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne
può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione,
internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e
incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile
era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione
all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi
forma, poteva essere facilmente etichettato come "mafioso". Morale
che possiamo estrarrre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che
Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere.
Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e
spirito critico mancando.)» ( )
Qualche
giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriese della Sera), sull’onda
della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere
quello che con disprezzo viene chiamato "garantismo" - e che è poi un
richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante
nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio
che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che
c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che
può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se
messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia
continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice
so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta,
in certe pagine di Brancati () la rappresentazione del mafioso buono, del
mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ()
In altri
tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente
emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinerasi del pensiero -
Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «"avanti
che cambia bandierà"! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa
che "cambiasse bandiera", nel senso di un rovesciamento della
situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non
delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Cos’ americani
ed inglesi erano attesi; magari vagamenti, che pur nutrendo la più grande
fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua
tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello
annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello
stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha
tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non
mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto
la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore . Ma un’aria di festa
popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane.
Ci auguravamo allora fosse la Kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che
dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei
servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che
sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente
terminava un ventenniodi diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al
proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un
capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una
scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel
pomeriggio si diffuse la notizia che gli americavano arrivavano. Il podestà,
l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in
attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere,
ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi
scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato
sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta
semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uoministupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu totla di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per
tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio.
Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario
politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani
prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano.
In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito
su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca,
potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio
mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo
lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche
giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col
cittadino che gli americani subito predilessero.» ()
A voler
adattare la lezione sciasciana del fascimo alla storia locale di Racalmuto,
potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:
1°)
l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di
fascismo nel paese per quella "specie di sillogismo" mutuabile dalla
"favola (documentatissima)" del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in
loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari
del luogo, mafia che pertanto "è già fascismo";
3°) ma il
fascismo, come la mafia, "era .. anche altre cose";
4)°
"era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti"... che
trasmigrano al fascismo "non dismettendo del tutto vagheggiamenti
socialisti ed anarchici". (Si dà il caso che uno dei fondatori del
fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che
l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai
d’ispirazione socialista, convertendola, come si è visto, al fascismo):
5°) ma il
fascismo "volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti)
per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la
mafia". Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli
eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere
gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria,
piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo degli ex-nazionalisti;
6°) degli
ex-nazionalisti il fascismo "se ne liberò .. dopo il delitto
Matteotti"; "ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco".
Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e
provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma,
Burruano e Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso
che ebbe trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può
considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;
7°) giunto
il fascismo al potere, "ormai sicuro e spavaldo", nel liberarsi delle
sue frange "rivoluzionarie" chiede in contropartita agli agrari ed
agli esercenti le zolfare di "liberarsi delle frange criminali più
inquiete ed appariscenti". Questa fase, invero, risulta così nebulosa per
Racalmuto da considerala inesistente;
8°) inizia
la repressione Mori contro la mafia che incotra il favore delle masse
nell’agrigentino ("non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo
arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse
dubbio o disapprovazione"). A noi risulta qualche elemento di stridore. Si
racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto
racalmutese, che in piazza osasse andare "cu lu tascu tuortu"
(berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno.
Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto
inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica
dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante
il feudo di Villanova degli "ex-clericali" Nalbone);
9°) l’azione
di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe
stata "strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il
raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile". Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono
quindi "gli anni del consenso dei più": Sciascia ne è convinto sia
perchè l’afferma "lo storico" sia perché lo sa "non soltanto per
aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo";
11°) è un
consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe
borghese ... [e arriva] alla classe operaia , cui la "carta del
lavoro" aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni
di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non
essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un
consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio
di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.
La storia
nazionale del fascismo e suoi (flebili) echi sulla vicenda locale prima del
1925.
Quando il 18
ottobre 1914 Benito Mussolini pubblicò sull’ «Avanti!» lo storico articolo
«Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», è molto dubbio
che qualcuno a Racalmuto ebbe a leggerlo. Poteva, eventualmente, averne presa
visione l’unico socialista di cultura di Racalmuto: l’avv. Vincenzo Vella. Il
suo fascicolo che la P.S. da tempo approntava ce lo mostra assiduo lettore di «La
Lotta di classe», «La Giustizia sociale», di «Riscossa» e di
certi «opuscoli editi dal Comitato Regionale della Federazione socialista
Ligure» .() Per il questore di Girgenti, il Vella - così annota il 20
ottobre 1913 - «è laureato in legge, ma la sua cultura non va oltre gli studi
fatti e le molte pubblicazioni socialiste lette e ben poco ben assimilate».
Fose fra quelle letture c’era l’ «Avanti!», ma possiamo essere certi - a
prescindere dalle malevoli note del questiore ‘girgentano’ - che non afferrò di
certo che la storia d’Italia prendeva in quell’ottobre 1914 una radicale svolta
nella storia dei partiti politici d’Italia. La successiva velenosa polemica tra
il partito socialista e Benito Mussolini, il Vella, però, sicuramente la dovette
seguire in quel di Racalmuto. E quando - dopo il delitto Matteotti - finì sul
serio negli schedari politici del fascismo e ne fu perseguitato ancor più
pressantemente di quanto non lo fosse stato prima dalle questure antisocialiste
dei governi liberali.
A noi pare
che la lezione di Ernst Nolte () abbia maggiore vigore di quanto leggesi tra i
detrattori () del fascismo e i suoi coevi esaltatori(): non sembri quindi
ozioso se ci permettiamo di riportare il seguente stralcio dell’opera dello
studioso tedesco. «L’articolo fu in effetti l’ultimo scritto da Mussolini in
veste di direttore dell’ «Avanti!». Il giorno dopo, il direttorio del partito
si riuniva a Bologna, e qui la posizione di Mussolini non trovava neppure un
difensore; e, benché si cercasse di fargli dei ponti d’oro, dovette
immediatamente dimissionare dalla direzione dell’ «Avanti!». Le spiegazioni,
che egli ne ha dato all’epoca, permettono di affondare lo sguardo nei suoi
moventi: «Io capirei la nuova neutralità assoluta qualora avesse il coraggio di
arrivare fino in fondo e cioè di provocare un’insurrezione; ma questa a priori
la scartate, perché sapete di andare incontro ad un insuccesso. E allora dite
francamente che siete contrari alla guerra ... perché avete paura delle
baionette ... Se lo volete, se vi sentite, io sono alla vostra testa:
neutralisti fuori della legalità ... ebbene, bisogna essere decisi. Ma la
neutralità assoluta nella legalità ormai è divenuta insostenibile.»
«Non viene
addotto alcun motivo di natura contenutistica: qui non si parla di democrazia,
delle necessità vitali dell’Italia, dei territori irredenti; l’impossibilità di
una radicale coerenza spinge il rivoluzionario su una strada, sulla quale
avrebbe dovuto procedere assieme ai suoi avversari più decisi. A quanto sembra,
tuttavia Mussolini sperava di portare dalla sua il partito ovvero cospicue
frazioni di esso. Pochi giorni gli sono sufficienti per togliergli le
illusione: il 25 ottobre, Mussolini scrive all’amico Torquato Nanni «Ho voluto
aprire il vicolo cieco nel quale si era ficcato il partito, ma nell’urto sono
caduto»
«Mussolini
non era uomo da sottomettersi alla disciplina di partito; si sarebbe potuto
aspettarsi da lui che tacesse o, per lo meno, che non scrivesse contro il
partito, e a quanto pare una premessa del genere è stata da lui fatta ai
compagni della direzione. Ma egli non riuscì a tenersi chiuso dentro quella che
riteneva la sua verità, e nel giro di poche settimane tra Mussolini e gli
antichi amici si scavò un abisso di incomprension, disprezzo e odio, che mai
più sarebbe colmato.
«Pare che
alla fine di ottobre, Mussolini abbia concepito l’idea di crearsi un proprio
organo di stampa: già il 15 novembre, apparve il primo così numero del «Popolo
d’Italia. E’ perfettamente comprensibile che i socialisti annusassero odor di
«tradimento», che sospettassero che Mussolini si fosse «venduto»: sembrava
impossibile che un uomo completamente privo di mezzi potesse, con le sue sole
forze e nel giro di pochi giorni, far sorgere dal nulla un quotidiano.
Effettivamente Mussolini, ancora in veste di direttore dell’ «Avanti!» aveva
avuto degli abboccamenti col direttore di un foglio bolognese, che sapeva
organo degli agrari; da costui, egli ebbe, anche in seguito, un valido appoggio
di carattere tecnico-tipografico. Ma da dove venissero i capitali è, oggi
ancora, cosa non sufficientemente chiarita. Si parlò quasi subito di denaro
francese, supposizione che però non si riuscì mai a provare. L’ipotesi più
probabile è che organi governativi si siano assunti il compito di finanziatori
indiretti; numerosi erano infatti i circoli, in Italia, interessati a un
indebolimento del partito socialista. Indubbiamente dunque Mussolini nel
momento in cui si fece dare un giornale, divenne una carta in mano di qualcuno.
Affatto infondata è invece la supposizione che il denaro, il giornale proprio
fossero il
motivo
per il suo passaggio in campo interventista. Ma proprio questo lasciò supporre
l’ «Avanti!», ponendo, immediatamente dopo l’apparizione del nuovo giornale, e
instancabilmente, la domanda: «Chi paga?». Nel giro di poche settimane,
l’ex-beniamino del partito era divenuto un «venduto alla borghesia» e un
«transfuga», che meritava «il sacrosanto odio del proletariato italiano».
Allorché, il 24 novembre, Mussolini si presentò alla riunione dei membri della
sezione milanese, chiamati a decidere in merito alla sua espulsione, il suo
discorso fu sommesso da un uragano di ingiurie, fischi e minacce. Il partito
socialista compì un linciaggio morale nei confronti del «traditore»; nessuno
dei fogli socialisti italiani si schierò dalla sua parte, e Mussolini non
riuscì a tirare dalla sua parte neppure una minima frazione del partito. Era la
sua prima sconfitta, e insieme quella che avrebbe avuto le maggiori
conseguenze. Mussolini era solo.»
Da qui «prese
le mosse una polemica della massima violenza e spesso bassamente ostile, nel
corso della quale furono poste le basi per l’interpretazione socialista del
fascismo e per l’interpretazione fascista del socialismo. In ogni caso, la
dissociazioneera compiuta. Mussolini era adesso un generale senza esercito, un
credente senza fede. Un piccolo gruppo di individui, per i quali egli era il
«duce», naturalmente gli si raccolse ben presto attorno. Già nell’ottobre,
quando ancora Mussolini lottava con se stesso, dalle file dei sindacalisti e
socialisti si erano costituiti i fasci interventisti, sotto la guida di
Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Massimo Rocca, Cesare Rosssi e altri. In
dicembre questi si fusero coi seguaci di Mussolini nel «fascio d’azione rivoluzionaria»,
la cellula germinale del fascismo. L’unico punto programmatico sostanziale è il
proposito di provocare l’intervento a fianco dell’Intesa; per il resto,
Mussolini pone un postulato non facilmente superabile: «Riaffermare le idealià
socialiste rivedendole a lume della critica sotto l’attuale terribile lezione
dei fatti» [...]».
Ma tra
fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe
essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria
storia e questa storia è indissolubilmente connessa alla biografia di
Mussolini» (op. cit. pag. 226).
Le vicende
richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di Milano e
Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella solatìa
Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli agrari
liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si confondevano e
si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era appetibile: contadini
e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte alla terra ed alle
miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse erano ostili alla
guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore gioventù (la guerra del
1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a 33 dispersi: a scorrerne
i nomi, i figli dei "galantuomini" erano riusciti quasi totalmente a
farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo). Quanto agli agrari
e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il diradarsi della mano
d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo nel professare il
non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una qualche presenza
locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto limitata, anche a
credere a quello storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto
si sarebbe limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva
sulla politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu
rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola
suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non
andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il
diabete.» ()
In ogni
caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto solo al
tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione
rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.
Ben diverso
è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo
Fascio di combattimento in data 19 marzo 1919. Un racalmutese il notaio
Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato nientemeno che un
"sansepolcrista". Il personaggio, sul quale sono disponibili alcune
fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè di A.G.
Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto il
3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901 e si trasferisce a
Milano per esercitarvi la professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella
di notaio sino. Morì a Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal
23.3.1919. E.N. Messana così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti
interventisti si ricorda il notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al
fascio e divenuto un sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un
tipo bizzarro, che amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in
cui cantò luoghi e persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse
molti anni a Milano e vi morì». () Salvatore Restivo riscrive, palesemente
agiografico, così la biografia nel giornaletto locale del maggio 1993 () « ...
Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con
Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui
facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara. [ ..] Il 23 marzo
1919 partecipò alla fondazione dei fasci di combattimento, dai quali si
allontanò progressivamente fino ad essere "eliminato per diserzione".
[...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani a cui
parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino ebbe,
invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla
celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico
centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.°
6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a
Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il
15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il
24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo
(fasc. 17912) nato a Grotte il 2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare,
anche brevemente, all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici,
socialisti, antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri
fini, il richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342)
ci serve per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le
questure d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante
Nunziato. Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni .
Ecco la risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI. Oggetto: Vella Dante fu
Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24/3/1908 residente a
Lugano ... Prefettura di Milano ... "comunico che l’avv. Pedalino Giuseppe
fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879 (e non 1895)
risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via Pergolesi n.° 23
con studio in via Monforte n.° 14.
«Coniugato
con Passoni Maria di Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una
figlia a nome Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è
zio materno del Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere
ed è iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).»
( )
Fino al
1937, il Pedalino è dunque ancora un "regolare fascista" che può
vantare la prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei
sansepolcristi. Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per
un fatto anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo
quella richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi
nipoti, per parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in
quell’anno si erano arruolati nelle "milizie rosse" della guerra di
Spagna.
Ma davvero
il Pedalino partecipò a quella adunata tenuta la sera del 23 marzo 1919,
fra le mura di un vecchio palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, donde uscì
il primo Fascio di combattimento? Non va dimenticato che quella
fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria.
() Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta
parla di cinquantadue che "giurarono che la lotta che avevano
intrapresa - quella sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una
trionfale vittoria", ed altra volta rettifica in cinquantatre (12
febbraio 1925) () Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai.
Una qualche piccola astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del
concorso a notaio. Era un avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della
III Internazionale, finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a
guastargli quella vantata primogenitura politica.
Ma il
Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè
aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si
riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono
spingerlo in tal senso. Con il Nolte () bisogna ammettere che, fondato il 23
marzo 1919 a Milano, nel corso di una non mumerosa assemblea, in massima parte
da ex-inyterventisti di sinistra, vuole essere inteso come l’inizio di un
socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E questa tendenza
mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo delle origini - gli
storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze, almeno sino al
congresso di Roma del 1921. () Non è questa la sede per trattare tale
atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono i travagli della sconfitta
elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920; l’intrigo con la borghesia
agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra di coinvolgimento di
Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921 (elezioni volute - e perse
- da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti il 3 agosto 1921; la
retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre 1921); la
trasformazione in partito del "movimento fascista"; la professione
mussoliniana della "tendenza repubblica", etc. Dalla sera di San
Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921
la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con
collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la
Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino
totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali
(salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco
prima della marcia su Roma.»
Ma che tipo
di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921? A questa
domanda tenta di rispondere il Ragionieri (). «Non era poi un partito troppo
differente dagli altri partiti di massa», afferma lo storico di sinistra e
continua: «La sua caratteristica più originale era in foldo rappresentata dal
fatto che esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi
nella Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle
organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche
quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di
ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la
direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei
tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella
massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per
l’avvenire».
Sarà stato
per la mancanza di quei "gruppi superiori degli industriali"; sarà
stato per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano),
fatto sta che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a
diffondersi in Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto
(ove peraltro mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di
agrari nel senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una
propria coscienza di ceto egemone).
Nell’agosto
del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e
dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si
apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma
in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).
Nulla
troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto
che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i
padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale,
di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente a respiro unpò più
vasto, regionale) erano avviati verso uno scialbo tramonto.
Racalmuto,
invero, era troppo in periferia, persino rispetto alla storia siciliana, per
avere acume di analisi e lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in
quel biennio cruciale per la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o
raffinati giornalisti alla Albertini, o, in particolare, economistti già
celebre alla Einaudi non riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo
che esplodeva sotto i loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi
Einaudi. Sfogliando le sue Cronache economiche e politiche di un trentennio
(1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una retriva polemica con
i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che «il primo atto
concreto dei socialisti unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di
intensificare alla camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era
facile prevedere che la scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato
ambedue le frazioni ad una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma
per dimostrarsi ognuna di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ()
Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio "Alla ricerca di
una formula definitiva per risolvere il problema del pane" (op. cit.
pag. 40 e segg.) e con quello del 24 febbraio "ed ora all’opera!" (op.
cit. pag. 44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro
i socialisti, anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921
(op. cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna avere - scrive a pag. 112 - il
coraggio di dire che siffatto latte e miele è pernicioso. Costoro, che dopo
così recenti esperienze socialistiche dichiarano ancora che tutto il mondo è
socialista, sono gente senza idee, o sono semplici procacciatori di voti.
Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco anticomunista. Non si
può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni sorta di
socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro, i quali
hanno paura di essere detti "nemici del popolo o del proletariato" e
son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti.
Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno
di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e
forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici.» In una parola occorreva
essere solo «liberali» (op. cit. pag. 118 e segg. Articolo del 17 aprile
1921); cioè «L’unica nota veramente distintiva del blocco anticomunista è
sempre quella di "liberale". Questa sì è una qualità che né
socialisti né comunisti possono far propria. Liberalismo e socialismo sono due
concetti contraddittori. Lungo tutti i secoli della storia sempre il concetto
della libertà fu in guerra aperta con concetto della tirannia - e socialismo e
comunismo altro non sono che asservimento completo dell’uomo alla collettività
[ ....]». L’astuzia di Giolitti che quelle premature elezioni del 1921
volle finì male, come ben si sa per doverla qui commentare. Quel blocco
"liberale" apriva irrimediabilmente la porta al fascismo della
dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non voleva (op. cit.
pag. 766 e segg.). Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.
Cert, a
questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei tempi,
anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per ampi
stralci.
«Lo
spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le agitazioni
continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate hanno
avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in una parte
notevole dell’opinione pubblica una parola: "dittatura". Si parla da
molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla
crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono
trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il
governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di
Montecitorio appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco
a poco l’idea della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e
di tirannia da cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo
sapiente saprà trarre il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di
quindici ministri provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli
uni gli altri, alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a
concepire qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render
favori agli elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita
quotidiana; mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo,
fornito di poteri illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia
porsi una meta, il quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i
migliori tecnici nei vari rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci
sulla china spaventevole lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.
«Contro
questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di Cavour: la
peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel anticamere:; noi
non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio degli impotenti e
degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta
contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]
«Lasciamo
pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi
stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini capaci di essere i
dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non si sono fatti
innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione pubblica?
Degli uomini chiamati negli ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni
sono a mala pena considerati degni di essere presidenti costituzionali di un
consiglio; intorno a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non
diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di governare il paese con poteri
dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone,
poiché a questo si pensa quando si parla di un dittatore capace di salvare il
paese, non si sarebbe fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto
come tale, quale probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?
« [..]
Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una qualche cosa che noi
conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il
governo per mezzo di decreti-legge.
« [ ...]
« [ ...] Il
problema da risolvere non è già di trovare dei grandi insustriali disposti a
governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare
che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori. Chi può immaginare
quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e fidente in sé, un
uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi rapidamente da solo, quando
si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili come il disavanzo, le
imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso primo che viene dagli
audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non
decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche
di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via. [...]
«La verità è
che la capacità e la pratica di governo non sono innate e non si acquistano
facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana.
Orator fit;
così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con gli
avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche persuaso
dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria strada. [...]
«Insistiamo
oggi su queste considerazioni fondamentali perché le vicende di questi giorni
hanno avuto per effetto, come si diceva in principio, di render popolare presso
una parte del pubblico l’idea di forme più o meno larvate di governo
autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni fasciste su Roma per
prendere possesso del potere, di colpi di stato, di dittature o di direttori
nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito fascista si è
affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non impedirà che
certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice» immancabili nei
momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on. Mussolini durante
l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito fascista si
riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.
«Ora noi non
vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci correnti possano
corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere possano trovare
il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento fascista.
«Oggi i
fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno
probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è
assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi
non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine
secco e perentorio, con la facile arma della dittatura. Attraverso alla
discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un parlamento di
neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di
guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la guerra. Domani,
il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in cui entri come
uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche altro fascista
sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei
suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti
perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla
tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali
l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora
sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la
nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi
vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di
pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista.
Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal
brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della
vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro
grati.
«Ora si
aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione immediata e diretta. Non
più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei principii per cui si è vinto.
Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida della dittatura, via brillante,
senza avversari costretti alla fuga, senza critiche dei giornali, soggetti a
censura, con uomini fidi di governo, dotati di poteri illimitati; e quella
noiosa, fastidiosa, minuta della legalità costituzionale, dinanzi ad un
parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso le lungaggini della procedura
parlamentare, e sotto al maligno vaglio di giornali avversari ed infidi.
«Ma la prima
via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed alla
rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di fedeltà alla
costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della
Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario di sperimenti
politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e demagogiche a cui
una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata; vuol dire necessità
di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi costituzionali; vuol dire
oscillare tra un governo di generali, un consiglio dei dieci aristocratico od
un consiglio di commissari socialisti. A che scopo, quando non si vedono i
generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente e quando i nostri
comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante il loro
fanatismo, trassero la Russia alla morte?
«Quanto più
gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del paese, è la seconda
viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La costituzione e la monarchia
valgono non per sé, ma come incarnazione di tre quarti di secolo di vita
nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia e la formazione di uno
stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro i
quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla
continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali sentono che in politica
le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma che ogni più audace novità
può essere innestata nel vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una
vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione
di dittature incapaci, devono contrastare l’avvento della dittatura! [..]»
Einaudi
raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se
essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla
vigilia della "marcia su Roma". Prima aveva sottovalutato il fenomeno
fascista. In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle
colonne del Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i
socialisti, aveva accordato loro «causa vinta» «contro ai casi singoli di
violazione dei diritti degli operai, verificatisi sporadicamente ad opera di
qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo citato, sembra - a scorrere
le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che non esista una questione
fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922 (op.cit. pag.
926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono
arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si
sapesse aliunde della capitolazione del re di fronte agli ultimatum di
Mussolini del 28 ottobre. (). Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia
politica di un economista? Sottovalutazione di un fenomeno di massa o
marginalità effettiva della realtà politica del partito fascista, prima della
scelta di Vittorio Emanuele III, improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione
(borghesia agraria, corpi militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato
qui dare ponderate risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio
alla storia del fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai
tentata. Quel che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del
calibro di Einaudi sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia, ben
speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e noi
appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse neppure
percepita.
Attorno al
1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi finanziaria
del settore zolfifero.
Nel
settembre del 1922 una commissione degli esercenti le miniere di zolfo della
Sicilia si era recata a Roma per premere al fine di ottenere un decreto-legge
autorizzante l’emissione di obbligazioni per 120 milioni di lire garantite
dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un disegno di legge in tal
senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma il senato ancora no, per
via della crisi ministeriale. Si cercava, con il decreto-legge, di ovviare al
pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme parlamentare. Pronubo il
sottosegretario Lo Piano.
La crisi
zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata
micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si
era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana»
al quale il produttore era obbligato di consegnare il minerale estratto. Il
consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30 aprile del 1922
erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di zolfo. Su tale
quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e si rifiutavano
di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si era continuato a
produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo. Gli industriali
chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di togliere lo stock
dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata vendita della
nuova produzione. ()
Einaudi era
sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag. 887) -
si arrangi. Può darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo
stock, facendo un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo
vendere in tempi migliori. E’ accaduto parecchie volte che l’operazione è
riuscita bene. Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro
il naso. [...] Ma - si obietta - il consorzio fu creato dallo stato; i prezzi
li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il governo o mantenga
le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A chi vuol dare ad
intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il governo osi
sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio rimarrà
finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai siciliani.
Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci ha messo
bocca e non osa metterci bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani.
E’ uno di quei casi di leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni
hanno ritegno di parlare, temendo, se parlano contro, di suscitare delicate
recriminazioni regionali. Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è
qui: nel non avere osato, se aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla
valere per timore di dire o di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi
si persuadono, e sarebbe tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua
esistenza nuoce alla Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo
dicano chiaro e netto; e lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento
disposti a mandare a carte quarantotto un esperimento tollerato solo per
reverenza al volere che sembrava unanime di quella grande e patriottica e
nobile regione.»
Quel numero
del Corriere della Sera sarà arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati.
Einaudi era anche senatore. Sarà stato considerato alla stregua del nostro
Bossi. Negli ambienti degli esercenti sarà corso un brivido; forse una
fibrillazione. Intanto saliva al potere quel Mussolini di cui si era appena
sentito dire. A lui si guardò certo con acuto interesse in quel di Racalmuto,
più in speranzosa attesa che con timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non
era proprio un’appetibile scelta politica!
Lo storico
locale E.N. Messana (op. cit. pag. 358) retrodata sentimenti antifascisti del
dopoguerra con evidente falsificazione della realtà, quando storicizza le sue
personali fantasie sul tiennio racalmutese 1919-1922. «A Milano intanto, -
annota - nel marzo dello stesso anno [1919], fu fondato il fascio di
combattimento. La borghesia e specialmente i capitalisti presero respiro di
quella forza antirivoluzionaria e violenta che subito cominciò a bravacciare
nelle città e nei comuni. A Racalmuto, il partito nazionalista, di già
menzionato, aveva accampato le pretese di rappresentare la conservazione contro
la evoluzione affiorante, sebbene con metodi inesperti e puerili. Le notizie
dei fasci e dello squadrismo si raccontavano al circolo Unione ed al circolo
degli Amici. Qualche do’ esultava a quelle nuove e non nascondeva il
desiderio che anche a Racalmuto venissero i prodi in camicia nera a bastonare
gli zolfatai e i contadini.» Ma la questione - come vedremo in seguito -
era ben altra, più complessa e più gravida di conseguenze sociali.
Il biennio
1923-1924 è denso di avventimenti che sicuramente moficano lo scenario
nazionale: è però erroneo ritenere che si apra una parentesi destinata a
chiursi a conclusione della guerra, adottando il criterio interpretativo del
Croce. La storia non procede per salti. Solo alcuni processi modificativi hanno
sussulti di accelerazione. E la consegna dei pieni poteri a Mussolini alla fine
del 1922 è una di queste fase. Peculiare diventa l’acquisizione di una
sensibilità delle masse in senso nazionale che, sicuramente prima difettava,
specie in Sicilia.
Per il
pensiero ufficiale del fascismo del tempo si iniziava una Rivoluzione;
ma è da credere allo stesso Mussolini se nel drammatico discorso al Senato del
1924 precisava: «all’indomani della Rivoluzione, io mi trovai di fronte a
questo quesito: creare una nuova legalità o innestare la Rivoluzione nel
tronco, che io non ritenevo affatto esausto, della vecchia legalità? Fuori la
Costituzione o dentro la Costituzione? Io scelsi e dissi; dentro la
Costituzione. Questo vi spiega la composizione del mio primo Ministero, e vi
spiega la serie dei successivi atti politici». Il 12 giugno del 1924, in un
altro discorso al Senato, Mussolini aveva ancor più puntualmente aveva ben
raffigurato questo processo di «normalizzazione costituzionale» del primo
fascismo: «Si trattava di riassorbire la illegalità nella Costituzione ... di
rimettere grado a grado ... nell’alveo della legalità la vasta fiumana che
aveva rovesciato gli argini. [...] Chiamai al governo uomini di tutti i
partiti. Riapersi il Parlamento, e ne ebbi, dopo regolari discussioni, i pieni
poteri. Affrontai e risolsi di lì a poche settimane il problema gravissimo
degli squadristi. Ho esercitato i pieni poteri per un anno. Potevo chiedere la
proroga ... Vi rinunciai. Non avevo proposte leggi eccezionali e mi proponevo
di fare un altro passo innanzi sulla strada della legalità .... Sciolta
regolarmente la Camera, furono nei termini prescritti dalla legge, indetti i
comizi elettorali. La lista nazionale ha raccolto circa 4 milioni ottocentomila
voti ... Ottenuto il suffragio del popolo, le necessità della politica interna
si delinearono ancor più chiaramente nel mio spirito, precisate in questi
capisaldi fondamentali:
«1° far
funzionare regolarmente l’istituto parlamentare come organo del potere
legislativo ...; 2°) regolare dal punto di vista della Costituzione la
situazione della Milizia Volontaria; 3°) reprimere i superstiti illegalismi del
Partito; 4°) chiamare all’opera di ricostruzione tutte le forze vive della
Nazione ... Tutte le mie manifestazioni politiche dal 6 aprile in poi tendono a
questa mèta: ad accelerare l’entrata definitiva del Fascismo nell’orbita della
Costituzione». E ritornando al discorso al Senato del 5 dicembre, Mussolini,
alla domanda rivolta a se stesso: «Da allora ad oggi c’è stato o non c’è stato
un processo di riassorbimento della Rivoluzione nella Costituzione?», affermava
«Rispondo nettamente: c’è stato: faticoso, lento, difficile, ma c’è stato ...».
()
Siamo
propensi a credere che - ad onta delle autorevoli affermazioni del Valiani e
del Ragioneieri () - ben diverso sarebbe stato il corso della storia nazionale
se non ci fosse stato il delitto Matteotti (10 agosto 1924) e l’irrigidimento
aventiniano. Ciò - s’intende - tenendo presente che la storia non ammette
ipotesi.
Come veniva
ricostruita quella tragica crisi seguita al delitto Matteotti, all’interno del
fascismo coevo? Stralciamo dallo studio dell’Ercole () i seguenti passaggi:
«Mussolini
pareva esser riuscito ... «a ristabilire i termini necessari di quella
convivenza politica e civile che è più necessaria fra le parti opposte della
Camera ...» (V, p. 10),»; eppure «"mentre nel Paese si era diffusa
la sensazione che un nuovo periodo di tranquillità e di pace stava per
iniziarsi [si aveva] l’episodio tragico, che è costata la vita all’on.
Matteotti" (IV, 24 giugno al Senato p. 195). Quella sciagurata
beffa del giugno, come Egli la chiamerà in Gerarchia, in uno
articolo scritto alla fine di ottobre ‘25, "diventa orribile tragedia
indipendentemente, anzi contro la volontà degli autori", la quale
determinerà nello sviluppo della Rivoluzione la "sosta di un
semestre" (v. Elementi di storia in Gerarchia, p. 179)»
«Perché dal
delitto Matteotti le opposizioni credettero subito di poter trarre il pretesto
per tentare di "annullare tutto quello che significa, dal punto di
vista morale e politico, il Regime che è uscito dalla Rivoluzione dell’ottobre"
(IV, 25 giugno 1924, alla maggioranza parlamentare, p. 207), inscenando la
secessione parlamentare cosidetta dell’Aventino e abusando di una persistente
eccessiva libertà di parola e di stampa, per chiedere, e per proprio conto
iniziare, il processo al regime, alla Marcia su Roma e alla Rivoluzione ...
(‘il Regime non si fa processare se non dalla storia ‘.. (IV, 22 luglio
‘24: al Gran Consiglio, p. 214, e v. anche 7 agosto ‘24: al Consiglio Nazionale
del Partito, p. 242), in nome di una pretesa normalizzazione, dietro cui
non si nascondeva che la speranza di potere agganciare Mussolini, isolare
materialmente e moralmente, disarmandolo, il Fascismo e i Fascisti nel Paese,
creare una situazione tale da permettere il ritorno alla paralisi parlamentare,
sbarazzarsi del Governo fascista con un semplice voto di maggioranza della
Camera dei Deputati: come se il Fascismo fosse arrivato al potere per la via
ordinaria, e questo gli fosse stato dato da un ordine del giorno: come, cioè,
se esso potesse considerarsi "alla stregua di tutti i Partiti e
considerare il Parlamento come l’unico ambiente, nel quale tutte le situazioni
politiche di una Nazione in momenti eccezionali potessero trovare la loro
soluzione ordinaria e regolare" (IV, all’Associazione Costituzionale
di Milano, 4 ottobre ‘24, p. 290).»
«Alla quale
speranza Mussolini darà la definitiva risposta, parlando il 29 ottobre 1924, al
Popolo di Cremona:
«"Noi
siamo qui a dire che .. non siamo dei vanitosi e nemmeno dei prepotenti, ma
siamo dei soldati fedeli alla consegna, e la consegna ci è stata data dal Re e
dalla Nazione. Solo al Re, solo alla Nazione noi dobbiamo rendere atto del
nostro operato; non a coloro, che ad ogni gesto, ad ogni provvedimento, ad ogni
legge, vorrebbero intentarci il loro ridicolo processo, mentre sono gli
esclusie i condannati dalla nuova storia" (IV, p. 335): onde la
dichiarazionedel 5 dicembre in Senato: ... "Si è detto: voi
voleterestare al potere ad ogni costo. Non è vero. Nella grande piazza di
Cremona, ad una moltitudine immensa di Popolo, ho detto che riconoscevo i
diritti della Nazione e i diritti imprescrittibili di Sua Maestà il Re. Se Sua
Maestà al termine di questa seduta mi chiamasse e mi dicesse che bisogna
andarsene, mi metterei sull’attenti, farei il saluto militare e obbedirei. Dico
Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III di Savoia; ma, quando si tratta di Sua
Maestà il Corriere della Sera, allora no" (IV, p. 411).»
«[ ...]
"La maggioranza cominciò a perdere alcuni dei suoi elementi in margine:
liberali, democratici, combattenti. Credo che nella seduta del 16 dicembre - la
seduta di tre ex-presidenti - questo processo di erosione ai margini abbia
toccato il punto estremo" (V, Elogio ai gregari, p. 23)».
Il tentativo
parlamentare di far crollare il fascismo non ebbe successo «perché dall’altra
parte stava il Fascismo "con i suoi ottomila grusppi in ogni angolo
d’Italia, con le sue forze politiche, sindacali, amministrative, sempre
imponenti": il Fascismo che era stato "percosso, non
abbattuto", e a cui il colpo aveva finito per giovare, facendogli
perdere "le scorie funeste" (IV, p. 197). [..] "Se il
Regime rapidamente potè essere in grado di sferrare il contrattacco - il che
avvenne il 3 gennaio di quell’anno (1925) - il merito -- va alle masse rurali
del Fascismo, che non si sbandarono, a me, che rimasi tranquillo al mio posto
nell’imperversare delle molte bufere, e al Popolo italiano, che non fu
dimentico del passato e non disperò dell’avvenire" (V, Elementi di
Storia, p. 179).»
Non crediamo
che fra quelle "masse rurali" era da includere il ceto contadino
racalmutese. Nulla ce lo lascia intravedere. E’, però, certo che agrari locali,
esercenti delle miniere di zolfo racalmutese, gabellotti, contadini e
braccianti ed il piccolo ceto dell’infima borghesia di Racalmuto ebbero modo di
disaffezionarsi ai loro referenti politici sia della Democrazia Sociale di
Guarino Amella e Colonna di Cesarò, sia allo stesso partito
democratico-riformista di Enrico La Laggia, cui ultimamente aveva aderito una
frangia degli ottimati racalmutesi. Mussolini parlava dell’ «Aventino» quale epicedio
dello stato demo-liberale. Non cìera cultura greca a Racalmuto bastevole
per apprezzare l’immagine classica. Vi era molto buon senso (ed pressanti
interessi del quotidiano) per dissentire dai loro deputati eletti nel
listone "nazionale" del 1924 che ora facevano l’«Aventino». In
definitiva, nepppure Gramsci mostra di apprezzare questi rappresentanti degli
agrari siciliani con i quali, inopinatamente, si trovava in sodalizio.
«Ho visto in
faccia la "piccola borghesia " con tutti i suoi tipici caratteri di
classe - scriveva Gramsci alla moglie il 22 giugno 1924 commentando i primi
lavori dell’Aventino (). - La parte più ributtante di essa era costituita dai
popolari e dai riformisti (per non parlare dei massimalisti, povera gente di
cascia andata a male; i più simpatici erano Amendolae il generale Bencivenga
dell’opposizione costituzionale che si dichiaravano favorevoli in principio
alla lotta armata e disposti anche (almeno a parole) a porsi agli ordini dei
comunisti, se questi fossero in grado di organizzare un esercito contro il
fascismo. Un deputato democratico-sociale (è questo un partito siciliano che
unisce latifondisti e contadini) che è duca Colonna di Cesarò, ministro
di Mussolini fino al mese di marzo, dichiarò di essere più rivoluzionario di me
perché fa la propaganda del terrore individuale contro il fascismo. Tutti,
naturalmente, contrari allo sciopero generale da me proposto e all’appello alle
masse proletarie ... ».
Colonna di
Cesarò - è certo - non riuscì a propagandare "il terrore individuale
contro il fascismo", a Racalmuto. I locali suoi aderenti dovettero
disorientarsi non poco: già amavano molto poco i blandi socialisti racalmutesi
agli ordini dell’avv. Vella; figuriamoci se potevano dare credito a chi osava
associarsi con i bolscevichi del 1921.
A livello
locale il problema centrale restava sempre quello dei finanziamenti per lo
zolfo invenduto. La faccenda del 1922 veniva ricordata ancora. I più avvertiti
avevano l’odiato senatore Einaudi per quello che scriveva allora sulle colonne
del Corriere della Sera. Il governo di Mussolini diede quel decreto invocato
sotto Facta (D.L.n. 202 dell’11/1/1923). Nel nuovo corso fascista si potevano
dunque riporre attese meridionalistiche e di intervento statale. Tra le varie
provvidenze del decreto, lo stato garantiva lo smaltimento a prezzi
remunerativi dello stock e si impegnava nel finanziamento del Consorzio, ma su
obbligazioni dell’ente garantite sugli esercizi futuri. «Insomma - scrive
Salvatore Lupo - a pagare sarebbe stata la futura produzione». Vi era - è vero
- chi come Carlo Sarauw, forse per opposto interesse, aveva di che ridire su
quanto si riusciva a conbiare in provincia di Agrigento e di Caltanissetta. «Io
posso spiegarmi che un’accolta di maffiosi ignoranti delle province di Girgenti
e di Caltanissetta abbia potuto premere a Palermo sull’amministrazione del
Consorzio [...] ma non posso ammettere che essa potesse allungare i suoi
tentacoli fino a Roma o piegasse il Governo alle direttive di quegli organi del
Consorzio che subivano la sua azione». () In quel di Racalmuto, ove gli
interessi zolfiferi passavano trasversalmente per tutti i ceti sociali, vi fu
soddisfazione per il provvedimento mussoliniano del gennaio 1923 ed iniziava
quel consenso che dopo il 1926 si consoliderà penetrantemente, in profondità,
in maniera totalizzante. Le bizze dell’Aventino dei propri deputati
dovettero apparire atteggiamenti incomprensibili, sospetti, fedifraghi, da non
approvare, da rimuovere.
Il delitto
Matteotti, invero, non lasciò indifferente l’intera comunità civica
racalmutese. Se dobbiamo credere a E.N. Messana, il socialista Vella si diede
da fare: «Fu lui - scrive il Messana () - che in seguito all’uccisione di
Giacomo Matteotti si presentò con la guantiera a raccogliere il contributo per
la corona. Entrò nel salone di Salvatore Rizzo, Paparanni, e là Luigi
Scimè, giovane figlio del Dr. Nicolò, gli diede L. 0,50, altri uguale cifra o
meno. Contribuirono molti racalmutesi, oltre i summenzionati si ricordano il
comm. Giuseppe Bartolotta consigliere provinciale in carica, il sindaco Scimè,
Pio Messana, Salvatore Falcone, Calogero Mattina fu Gaetano, Carmelo Schillaci
Ventura, Giuseppe Cutaia, i fratelli Luigi e Giuseppe Lo Bue. Questi furono
segnati a dito e perseguitati dal fascismo. Luigi Scimè, ufficiale effettivo
dell’esercito, non avanzò più di grado.»
L’emozione
per l’efferato delitto dovette essere una momentanea reazione, non coinvolgente
la stima verso Mussolini. Questo, almeno a Racalmuto. A più ampio raggio, ancor
oggi non crediamo che sia stata stabilita la verità storica. Troppi
risentimenti, molti condizionamenti ideologici. A distanza di settant’anni, in
riviste storiche pur autorevoli, la vicenda Matteotti viene così rievocata,
passionalmente, con evidenti pregiudizi di valore:
«Giacomo
Matteotti - leggesi nell’editoriale del n. 1-2 del 1994 di Storia e Civiltà
( ) - segretario del partito socialista unitario, capo - con Giovanni Amendola
- dell’opposizione al fascismo, [..] mentre dalla sua abitazione, per il
lungotevere Arnaldo da Brescia, si dirigeva, attorno alle 16, verso il
Parlamento, era sequestrato, costretto a entrare in un’automobile ed, essendosi
difeso, ucciso. [Fu] uno dei più esecrandi delitti che la storia ricordi. [Ad
eseguirlo, c’erano] una brutale figura di squadrista toscano, Amerigo Dumini e
suoi quattro complici.
«Come
sarebbe emerso, dal memoriale Rossi, e da altre ammissioni, se anche Mussolini
non era stato il diretto mandante, vi aveva dato il suo tacito consenso. La
commozione popolare fu così profonda, che avrebbe dovuto avere per sbocco, con
quale vantaggio per l’Italia è inutile dire, l’immediato tracollo del fascismo.
Mancò una forza organizzata a dirigere la rivolta. Non vi fu, da parte della
Monarchia, come nel ‘22, la coscienza del dovere. Al governo venne lasciato il
modo, con pochi ritocchi alla sua compagine, di sopravvivere, e al fascismo di
consolidarsi, più per l’altrui debolezza che per virtù propria, profittando
anzi dell’irrimediabile errore delle opposizioni, di astenersi dalla presenza
in Parlamento (l’«Aventino»), che avrebbe consentito, nel gennaio ‘26, di farne
deliberare la decadenza. Non mancò la "trahison des clercs",
in un’ora straordinariamente feconda per la cultura: e Giovanni Gentile, pur
surrogato come ministro dell’istruzione, ad assicurarsi maggior potere, si
assunse la responsabilità d’un manifesto degli intellettuali a favore del
fascismo, cui, con un numero minore di firme, se ne sarebbe contrapposto un
altro, redatto dal Croce.
«[Il
processo venne trasferito] alla lontana e più tranquilla Chieti, [e si ebbe]
l’arrogante difesa di Farinacci (cui si consentì di dichiarare di assumerla
"prima come segretario del partito, e poi come avvocato" e che il
processo non si sarebbe fatto "né al regime né al partito"). Esclusa
dalla stessa pubblica accusa, la premeditazione ed ammessa la
preterintenzionalità, la sentenza, del 24 marzo 1925, condannava solo tre degli
imputati a cinque anni, undici mesi e venti giorni, che, col condono di ben
quattro anni per una opportuna amnistia, e tenuto conto della carcerazione
preventiva, li rendeva, di fatto, liberi.»
L’avvento
del fascismo nell’area provinciale di Agrigento.
Nella
Sicilia - scrive Salvatore Leone () - in cui il fascismo ebbe "natura
ricettiva e non radiante", schematizzando possiamo dire che l’aristocrazia
agraria aderì al regime nei tardi anni ‘20, quando si renderà contodella
sostanziale convenienza ad appoggiare il nuovo gruppo di potere. La piccola
borghesia cittadina darà il suo consenso agli inizi degli anni ‘20 con uno
spirito fortemente protestatario nei confronti di quello Stato liberale che
l’aveva schiacciata al basso al livello contadino. L’adesione al nuovo regime
della media borghesia e degli intellettuali, parecchi dei quali avevano alle
spalle una consistente tradizione autonomista, avvenne mediante comportamenti
incerti e talora contraddittori che si protrassero fino ai primi anni ‘30».
La provincia
di Agrigento (allora Girgenti) rispecchia grosso modo siffatta diversa
datazione del consenso al fascismo, anche se è difficile rinvenire
intellettuali di spicco che tardino nel concedere il loro accondiscendimento al
nuovo regime. Luigi Pirandello aderisce tempestivamente al fascismo; Enrico La
Loggia se ne mantenne sempre fuori; ed anche Giovanni Guarino Amella. Francesco
Renda vuole come nemico del fascismo padre Michele Sclafani «che diede filo da
torcere ai fascisti dell’Agrigentino [..] seppure anche lui non fu alieno dal
cercare l’intesa e la collaborazione con essi e addirittura dal proporre
soluzioni impossibili, come la costituzione di un grande partito siciliano
clerico-fascista». () Per non parlare dei socialisti rimasti coerenti, è difficile
inquadrare figure come i fratelli Ambrosini di Favara, o l’avv. Cesare Sessa, o
l’avv. Bonfiglio. Fortemente caratterizzata in termini di pronta adesione al
fascismo è la figura dell’on. Abisso, che alla fine, però, si guarda bene
dall’aderire alla Repubblica sociale di Salò. Analogo discorso potrebbe farsi
per il narese on. Riolo.
Francesco
Renda ha ben ragione quando dichiara che le origini dei fasci di comattimento
di Girgenti (e di quei radi della provincia nel periodo 1919-20) sono «avvolte
nella nebbia». () Nell’agrigentino, il fascismo ebbe davvero, dai suoi esordi
sino al consolidamento del Regime, "natura ricettiva, e non
radiante."
Quando nel
1942, in piena guerra, vari autori - spesso maldestri, o ingenui o disinformati
- redassero i «Panorami di realizzazioni del Fascimo» che dovevan essere
una ricerca delle primissime origini del fascismo delle varie province, non
avevano molta carne al fuoco, per quanto riguarda il Meridione e la Sicilia.
L’autore agrigentino - tal Vincenzo Agozzino - deve proprio arrmpicarsi sugli
specchi per reperire esaltanti «cronache della vigilia rivoluzionaria
fascista nella provincia di Agrigento» ()
«Agrigento
sempre più bella e suggestiva», aveva detto Mussolini al popolo di
Agrigento il 15 agosto 1937. E’ frase lapidaria che l’Agozzino invoca in
premessa. Ci racconta poi del fascio di Agrigento nel 1919. «..La Camera del
lavoro di Agrigento, - narra - aderente al Partito Socialista Ufficiale, con
rapida azione agganciò le masse delle zone industriali prima e poi delle zone
minerarie ed agricole, creando una forte organizzazione che presto si mosse
alla conquista delle amministrazioni comunali. Così in Canicattì, Ravanusa e
Palma Montechiaro si ebbero maggioranze socialiste e quasi ovunque le minoranze
furono rosse. [..] In questi ambienti [..] solo un manipolo di giovanissimi
intese il richiamo dei valori spirituali della stirpe fondando nel maggio del
1919 il primo Fascio dell’agrigentino. La riunione avvene in una stanza
dell’Albergo Centrale dove si costituisce un nucleo di azione contro il
sovversivismo locale di vario colore, dal rosso, al nero e al verde, che assume
il nome di Fascio Futurista di Azione [..]
«1920- 21 -
22
«Si forma
poi il Fascio di Combattimento che in un secondo tempo viene intitolato al
Caduto Pierino Del Piano. Solo il 20 novembre 1920 avviene il riconoscimento
ufficiale del Fascio di Combattimento di Agrigento. Viene anche ad Agrigento la
propagandista rossa Maria Giudice. Migliaia e migliaia di persone sono adunate
all’Arena Bonsignore [..] La propagandista non doveva parlare e non parlò.
Aveva appena pronunciato la parola ‘Compagni’ che ebbe inizio una fitta
sassaiola [da parte di piccoli bene appostati sulla terrazza di villa
Garibaldi]. [Ne seguì] un fuffi fuggi generale, mentre la stessa oratrice
veniva colpita al viso. Legnate da orbi furono distribuiti agli uscenti dalla
arena, mentre la lotta si spezzettava in singoli episodi dai quali però
risultava la coraggiosa fuga dei rossi e il primo assalto alla Camera del
lavoro [..] [Si trattava] di pochi squadristi, circa quaranta, che
[cominciarono a] sgominare le forse rosse, nere e verdi.
«[Altra
aggressione.] La Camera del lavoro viene assalita e devastata, mentre mobilio e
carte son dati alle fiamme fra il canto di Giovinezza. Successivamente
dopo un comizio tenuto dai combattenti, vien dato un nuovo assalto alla Camera
del lavoro con la completa distruzione del mobilio, delle carte e di una
bandiera rossa che è poi bruciata in piazza Gallo. La stessa sera avviene un
conflitto con un gruppo di guardie regie, risoltosi con una brillante fuga
degli agenti di Cagoia [Nitti, n.d.r.]. [..] Altre azioni repressive, di
ritorsione e di propaganda vennero eseguite in tutta la provincia: vengono
impediti alcuni comizi; venne incendiato il circolo ferroviario; [talora]
vengono a dar loro man forte i camerati dei fasci di Porto Empedocle,
Canicattì, Palma Montechiaro e Sciacca. Il 24 aprile del 1921 una squadra
agrigentina partecipò alle azioni di rappresaglia in Caltanissetta in occasione
dell’uccisione di Gigino Gattuso. Alla Marcia di Roma [..] partecipò una
squadra, mentre le altre rimasero mobilitate in sede.
«In
provincia agirono in periodo ante marcia i fasci di Canicattì, Licata, Palma
Montechiaro, Porto Empedocle, Ravanusa, Raffadali, Naro, Sambuca, Grotte,
Bivona. Il fascio di Canicattì venne riconosciuto il 4 dicembre 1920; il Fascio
di Licata, il 1° febbraio 1921; quello di Montechiaro fu fondato il 1° marzo
1921; quello di Porto Empedocle fu riconosciuto nel marzo 1921; quello di
Ravanusa, il 15 ottobre 1920. Altri fasci venero fondati nella seconda metà del
1922 e fra questi Raffadali, Sambuca di Sicilia, Naro, Grotte e Bivona. Naro
soprattutto, fondatosi il fascio nel luglio del 1922 e riconosciuto il 18
ottobre successivo, si segnalò in vivaci interventi locali contro i sovversivi,
che culminarono con la devastazione della sezione socialista.»
Il volume
dei "Panorami" riporta a questo punto un’altro squarcio del discorso
che Mussolini pronunciò "dalla terrazza del Palazzo Reale di Palermo - 5 maggio
1924": "C’è forse una pietra del Carso, pietra di quelle doline
dove non abbiano sofferto e dove il popolo è diventato grande, c’è forse zolla
di tutto l’arco di trincee che andava dallo Stelvio al mare che non sia stata
bagnata da stille di purissimo sangue siciliano?»
Prima della
marcia su Roma, il quadro del fascismo agrigentino è rado e sfilacciato.
Iprefetti del luogo non vedevano di buon occchio il nuovo movimento politico;
lo tolleravano appena e se potevano lo disperdevano. Rivelatrice è questa
missiva al Ministero degli Interni del sostituto del prefetto Vergara del 20
giugno 1922 (): «Significo che al 31 maggio 1922 esistevano in questa provincia
le seguenti sezioni del Fascio di combattimento: Girgenti con 50 aderenti;
Canicattì 20; Ravanusa 80; Sciacca 80. A Palma Montechiaro la sezione è stata
sciolta, ma esistono tuttavia una diecina di simpatizzanti del partito
fascista. La sezione di Naro, segnalata con mia nota dell’11 maggio 1921 n.
225, è composta da ex-combattenti e non fascisti. Anche la sezione di Porto
Empedocle è stata sciolta».
Con la
marcia su Roma, l’atteggiamento dei prefetti ovviamente cambia, anche perché
giungono prefetti di evidente ispirazione fascista. Più che con il Ministro
dell’Interno Benito Mussolini, i rapporti (improntantati alla più deferente
fiducia) sono con il sottosegretario Finzi (almeno sino alla caduta di costui
per il delitto Matteotti). In questa congiuntura fu prefetto di Agrigento il
dott. Ernesto Reale. Già vice prefetto, fu nominato nella carica il 16 marzo
1923 ed il 22 ottobre 1924 lasciò Agrigento per la prefettura di Potenza. Era
nato a Sassari il 30 giugno 1875 (morirà a Roma il 30/12/1947). Era dunque un
uomo di 58 anni, ma evidentemente aveva fiutato il nuovo corso e vi si era
prontamente adattato. Non è da credergli quanfo afferma: «Escludo nel modo più
formale che io abbia imposto la costituzione di Fasci nei comuni dove non
esistono sotto minaccia diretta o indiretta di scioglimento dei Consigli
Comunali o pressioni di qualsiasi altro genere.» () Era una risposta ad un perentorio telegramma dell’11
luglio 1923, a firma Mussolini, che reclamava seccamente una giustificazione. «
S.E. Cesarò - diceva il testo - comunicami che V.S. avrebbe invitato costituire
fasci dove non esistono sotto minaccia scioglimento consiglio comunale. Voglia
V.S. notiziarmi in propoisto.»
La
puntualizzazione del prefetto è abile come emerge dal seguente "rapporto
dimostrativo":
«
Dal marzo,
quando assunsi in questa provincia le funzioni di Prefetto, ad oggi furono istituiti
cinque nuove sezioni del P.N.F. nei seguenti comuni:
1. Castrofilippo - dove
l’Amministrazione comunale era già sciolta ed il Comune retto da un
R.Commissario;
2. S. Giovanni Gemini - Amministrazione
Comunale Popolare;
3. Alessandria della Rocca -
Amministrazione Comunale Riformista;
4. Raffadali - Amministrazione Comunale
Socialista;
5. Montaperto - Frazione di Girgenti -
Amministrazione Comunale Popolare.
Per la
costituzione di Tali Sezioni non ci fu affatto bisogno di intimidazioni o
minaccie né da parte mia né da parte della Federazione Provinciale. Fu
l’effetto di una attiva propaganda Fascista.
Faccio
osservare a V.E. che fra i Comuni sudetti non ve n’è alcuno amministrato da
Democratici-Sociali. Sto esaminando personalmente la posizione del Comune di
Raffadali dove àavvi il feudo di S.E. il Ministro Colonna Duca di Cesarò, il
quale intende porre la Sua candidatura in quel Mandamento, e mi riservo fare le
proposte del caso.
Restano tuttora da costituirsi le
sezioni del P.N.F. nei comuni seguenti:
Aragona
|
Montallegro
|
Villafranca
|
Comitini
|
S. Angelo Muxaro
|
Calamonaci
|
Favara
|
Cianciana
|
Burgio
|
Lampedusa
|
Lucca Sicula
|
Ad eccezione
degli ultimi due, dove l’Amministrazione Comunale è Riformista e Popolare, e di
Lampedusa, lontana, sperduta nel mare Africano, tutti gli altri comuni sono
amministrati da scritti alla Democrazia Sociale. E per questi, non solo non fu
fatta da me alcuna pressione per la costituzione di Sezioni del P.N.F., ma
dovetti mostrarmi a ciò risolutamente contrario almeno per ora. Invero quei
Comuni - specialmente i maggiori - Favara e Aragona - sono talmente infestati
dalla mafia, che è necessario procedere ad un’accurata chiarificazione e
selezione, per evitare che nelle costituende Sezioni Fasciste venga ad
annidarsi la forma più subdola della delinquenza Isolana.
Nei detti
Comuni pertanto, che come ho detto, sono amministrati da Demo-Sociali, nonché esercitare
pressioni, è stato invece necessario a me ed al Fiduciario Provinciale
resistere alle vive e ripetute pressioni che ci vennero fatte per la
costituzione di Sezioni Fasciste da elementi di altri partiti troppo
interessati e troppo malfidi.
Si addiverrà
certamente a costituire anche lì Sezioni Fasciste, ma solo quando il lavoro -
delicatissimo - di selezione sarà ultimato. E le Sezioni dovranno essere
formate da elementi puri e sicuri. E senza bisogno di minaccie di scioglimenti
di Consigli Comunali.
A proposito
dei quali debbo fare presente alla E.V. che gli scioglimenti da me proposti
furono sempre effettuati per ragioni di ordine pubblico o per disordini
amministrativi e riguardano i seguenti Comuni:
Canicattì -
Palma Montechiaro - Ravanusa - già amministrati da socialisti ufficiali;
Sambuca
Zabut - Campobello di Licata - S. Margherita Belice (quest’ultimo in corso),
già amministrati da riformisti (La Loggiani).
Faccio
osservare che nessuno di questi comuni è amministrato da democratici Sociali.
Concludendo:
1. Nessuno dei Consigli Comunali
sciolti dal marzo in poi era amministrato da Democratici Sociali.
2. Non solo non ho fatto minaccie per
la costituzione di Sezioni Fasciste nei Comuni dove mancano (quasi tutti
amministrati da Demo-Sociali) ma ho dovuto e devo tuttora resistere, per le
ragioni suesposte, a pressioni che vengono fatte, anche da elementi
Demo-Sociali, per la costituzione di talune Sezioni stesse».
Nel
successivo luglio il prefetto Reale sembra più un federale fascista che un
dipendente del Ministero degli Interni. Ecco quanto scrive il 10 luglio 1923:
«Alla
vigilia della riunione della Giunta Esecutiva del P.N.F. credo doveroso
inoltrare il seguente rapporto riassuntivo sull’andamento del Fascismo in
questa Provincia.
Dal Marzo in
poi si è verificato un considerevole sviluppo ed una notevole chiarificazione.
Sviluppo
: in quanto
sono numericamente cresciuti gli iscritti alle Sezioni dei Fasci (4568) e dei
Sindacati (4382). L’entrata nel Fascismo dell’on. Abisso ed una parziale
fusione, da me caldamente patrocinata, delle forze migliori degli
ex-combattenti, hanno contribuito a tale sviluppo. Occorrerà lavorare ancora
per assorbire nei Fasci almeno un altro migliaio di ex-combattenti che ora sono
fuori perché non possono e non credono di distaccarsi da altri partiti.
Chiarificazione
: in quanto,
dopo mie vive insistenze, si è proceduto alla epurazione di talune sezioni,
mediante eliminazione di elementi indegni.
In proposito
debbo rilevare di avere dovuto superare non poche resistenze da parte del
Fiduciario Provinciale e della Federazione Provinciale che non vedevano con
eccessiva simpatia l’ingerenza del Prefetto in questo campo.
Questo
processo di epurazione si è accentuato maggiormente nei riguardi della M.V. i
cui iscritti avevano raggiunto il numero di 1800, mentre ora sono ridotti a
poco meno di 1500. Ma è un bene.
Attualmente
la situazione, tenuto conto delle difficoltà ambientali, e dei personalismi da
superare, e specialmente dei numerosi elementi malfidi infiltratisi nelle
sezioni, e che debbono man mano eliminarsi, può dirsi abbastanza soddisfacente.
Però la mia
opera assidua di sgretolamento delle camarille locali, dei vecchi ed agguerriti
partiti, e specialmente del partito riformista (La Loggia), di quelle
Social-Comunista e popolare - opera che ha portato allo scioglimento di sette
Amministrazioni comunali, e che intendo continuare - dovrebbe essere più
attivamente fiancheggiata dalle Autorità Fasciste di questa Provincia. Dovrebbe
soprattutto essere ripresa l’azione di propaganda fascista che ora languisce in
una stasi apatica.
E’ d’uopo
riconoscere che il Fiduciario Provinciale attuale Ing. Narciso Dima, se pure
non eccessivamente energico, ha finora fatto il possibile per lo sviluppo del
Fascismo, sacrificandosi anche finanziariamente, contribuendo del proprio,
trascurando la sua professione. Le sezioni Fasciste non gli dànno che un aiuto
finanziario scarsissimo.
Occorre, è
anzi urgente, che l’On. Giunta Esecutiva stabilisca un congruo aiuto
finanziario.
Nessuna
preparazione ha potuto fare la Federazione per le lezioni Provinciali appunto
per mancanza assoluta di propaganda. Occorrerebbe istituire nuove sezioni nei
Comuni dove ancora mancano (18 su 41)), ma occorrono mezzi sopraluoghi locali
ecc., mezzi che mancano.
Se si
dovessero fare le elezioni provinciali ora, alla scadenza dei poteri della
Commissione Reale, sarebbe una
débacle
dal punto di vista fascista. Mentre gli altri partiti, soprattutto i
Democratici sociali e i popolari, si vanno organizzando e preparando alla
lotta, che ritengono imminente, e dispongono di mezzi finanziari cospicui, i
Fasci poco o niente hanno potuto fare. Occorre, ripeto, finanziarli.
Ho detto
débacle
se i fasci dovessero lottare da soli, chiudendosi nella più assoluta
intransigenza nei riguardi degli altri partiti.
Ma occorre
esaminare la situazione nei riguardi della Democrazia Sociale: situazione che
in questa Provincia è estremamente delicata.
La
Democrazia Sociale si mantiene qui in piede di guerra pronta ad una lotta, come
pronta ad un accordo coi Fasci, per una eventuale collaborazione.
Senonché qui
si presenta una difficoltà.
I Deputati
Demo-Sociali sono gli On. Pancamo e Guarino-Amella; binomio indissolubile. L’On.
Pancamo è elemento puro, inattacabile. L’ideale sarebbe poter scindere il
binomio, e accordare i Fasci cogli elementi migliori della Democrazia Sociale
che fanno capo all’On. Pancamo. Ma questo è impossibile.
Non poca
parte degli elementi che fanno parte all’On. Guarino-Amella - che ha largo
seguito - sono bacati dalla mafia che sino a poco tempo addietro ha imperato in
questa provincia, e che ora è smontata, disorientata. Effetto dei provvedimenti
energici di P.S.- Accordarsi cogli elementi demosociali che fanno capo all’On.
Guarino Amella, vorrebbe dire accordarsi anche in certo modo con la mafia. E
allora si ricadrebbe nel vizio delle elezioni precedenti che si facevano
appunto con l’aiuto della mafia.
D’altra
parte il partito Guarino Amella vuol dire S.E. Di Cesarò, del quale il primo è
il più fido e autorevole luogotenente in questa Provincia.
I fasci
risentono di questa situazione.
Il
Fiduciario Provinciale Ing. Dima, sembra contrario a qualsiasi accordo coi
Democratici Sociali. I suoi avversari - e ne ha anche in seno ai Fasci - dicono
che ciò dipende dalla sua origine La Loggiana.
Comunque
questa situazione non può risolversi se non si conoscono in modo preciso e in
tempo utile le direttive del Governo al riguardo.
Concludo:
1. Occorre finanziare la Federazione
Provinciale perché eserciti una più attiva azione di propaganda;
2. Occorre procedere alla nomina del
Fiduciario Provinciale. L’attuale Ing. Dima, in conseguenza della ritardata
conferma ha perduto un po’ di autorità e prestigio. Urge quindi o confermarlo o
nominarne uno nuovo, che possa esplicare con autorità e energia l’azione
Fascista, e fiancheggiare la mia azione politica e amministrativa.»
Il prefetto
di Agrigento è, peraltro, quello che è in grado di fornire ragguagli precisi e
dettagliati sulla "situazione del Fascismo in Provincia di Girgenti al 27
ottobre 1923". Val la pena di riportare integralmente la sua relazione al
ministero:
«In
mancanza di fascismo puro, limitato a pochissimi elementi, i Fasci della
Provincia di Girgenti sono costituiti necessariamente da elementi tratti da
altri partiti politici.
Il partito
politico finora predominante in questa Provincia era il partito Demosociale,
imperniato sui Deputati Grarino Amella e Pancamo, (agli ordini di S.E. Di
Cesarò) e Abisso. Col passaggio di quest’ultimo al Fascismo, avenuto
nell’Aprile, questo partito cominciò a sgretolarsi. Gli elementi migliori
passarono anch’essi, in buon numero al Fascismo. E se è vero che il partito
personale Abisso si va sempre più rafforzando, è pur vero che il Fascismo sta
prendendo uno sviluppo sempre più grande e più saldo - anche perché questi
elementi ex-demosociali sono assai più sinceri degli altri.
In sostanza
non deve credersi che sia il partito Abisso che si faccia sgabello del Fascismo
per rafforzarsi, ma è il Fascismo che acquista realmente forza e compattezza
dai numerosissimi elementi che staccatisi come ho detto dalla Democrazia
Sociale facente capo all’On. Guarino, Pancamo e Di Cesarò, si sono appoggiati
all’on. Abisso.
Al Ministero
è noto come io abbia visto con una certa diffidenza il passaggio dell’On.
Abisso al Fascismo.
E’ per me
doveroso ora dopo diversi mesi di vigile esperienza porre in rilievo la
disciplina e l’ossequio non solo apparente, ma effettivo alle Direttive del
Duce, dell’On. Abisso verso il quale ora convergono le forze migliori della
Provincia, forze che Egli dirige e orienta risolutamente verso il Fascismo.
Il
Fiduciario Provinciale, d’intesa con lui ha potuto sistemare la posizione prima
equivoca, ora chiara di parecchie sezioni Fasciste, ha potuto costituirne delle
nuove, e rafforzarne delle altre.
Non è quindi
vero che il Fascismo non abbia presa in Provincia di Girgenti. Questo forse
poteva dirsi alcuni mesi addietro, quando si verificò una stasi - da me
segnalata - che avrebbe dovuto preludere ad una grave crisi, dovuta sopratutto
all’azione allora scarsamente efficace del Fiduciario Provinciale, il quale era
rimasto per oltre due mesi quasi privo di autorità. Causa il ritardo della sua
conferma. Ma la crisi fu superata e la minaccia di essa, in certo modo, fu
anche benefica. L’attività del P.F. fu da me e dall’On. Abisso galvanizzata;
molte opposizioni più o meno interessate furono smontate. Il susseguirsi di
importanti avvenimenti patriottici, che riunivano in un solo patriottico
sentimento importanti forze Fasciste, valsero a guadagnare anche le simpatie
della grande massa della popolazione la quale prima diffidente, segue ora con
vivissima simpatia, gli spettacoli sempre bellissimi di giovinezza di forza di
disciplina che le adunate Fasciste hanno dato modo di apprestare. A questo
aggiungasi la continua, dirò quasi sistematica, valorizzazione dei veri
combattenti, mutilati e decorati di Guerra, ai quali spesso per mio personale
intervento si sono aperti i Fasci, portandovi una cospicua forza morale.
Concludendo
la situazione nei riguardi del Fascismo è molto migliorata in confronto al
passato, e non credo di peccare di soverchio ottimismo, se affermo che essa
migliorerà ancora di più e più si chiarificherà.
Personalità
cospicue di cui non si può mettere in dubbio l’alto patriottismo e che hanno
sempre combattuto palesemente il sovversivismo mascherato da riformismo e da
popolarismo, come l’On. La Lumia ex Deputato assai molto stimato nella
importante zona di Licata, e l’On. Parlapiano Vella, altro ex Deputato, nella
zona di Ribera e Bivona, hanno sinceramente aderito al Fascismo.
Degli altri
partiti anche in conseguenza dell’azione da me svolta; il Socialista è ormai
morto; il Riformista è ridotto ai minimi termini, il popolare è in continua
dissoluzione.
Gravi
incidenti tra Fascisti, per l’urto di tendenze diverse, in questa Provincia non
sono mai avvenuti. Incidenti non gravi, sono stati risolti tempestivamente,
anche pel mio intervento diretto, senza strascichi di ire e di odi.
La
situazione, quindi, può dirsi veramente buona, specie se si raffronta con
quella di altre Provincie Siciliane. E diventerà migliore se si potrà
continuare nell’attuale indirizzo, se questo non verrà modificato per
l’intervento, per ora non necessario, di elementi che, per quanto
autorevolissimi, non sarebbero forse in grado di valutare, per la scarsa
conoscenza di questo ambiente, le condizioni specialissime di esso in rapporto
ai partiti ed alle persone. Unisco un prospetto riguardante i sindoli Comuni
della Provincia.»
La relazione
- un vero e proprio resoconto di un propagandista del fascismo - è comunque
perspicua per chiarezza, esaustività, penetrazione dell’ambiente
socio-politico. Il Reale doveva avere entrature preferenziali a Roma - anche in
ambito della direzione del P.F. - se può accennare, in conclusione, alla
eventualità - che poi si verificherà appieno - della venuta ad Agrigento di
"elementi autorevolissimi". E saranno costoro a cambiare il volto del
fascismo agrigentino.
Frattanto,
valga il prospetto del prefetto Reale, ai nostri fini molto significativo
perché stranamento vi è omesso totalmente il paese di Racalmuto che in questa
ricerca è il nostro oggetto di studio.
«Provincia
di Girgenti
1°) - Comuni
nei quali i
Fasci hanno
una posizione dominante: (su un totale di 41)
Casteltermini - Siculiana - Porto
Empedocle - Sciacca - Caltabellotta - Santa Margherita - Sambuca - Menfi -
Montevago - Calamonaci - Campobello di Licata - Camastra - Ribera - Licata -
Naro - Canicattì (n.° 16)
2°) -Comuni
nei quali esistono dei Fasci, sui quali non è ancora possibile fare sicuro
assegnamento, ma la cui situazione migliora giornalmente:
Cammarata - S. Giovanni Gemini -
Castrofilippo - Grotte - Bivona - S. Stefano Quisquina - Villafranca - Palma
Montechiaro - Ravanusa - Realmonte - Montallegro - Alessandria Rocca - Favara -
Cattolica - S. Biagio Platani - Raffadali (n.° 17:
in effetti sono sedici: il
dattilografo omise di battere forse Racalmuto per mero errore. Se aggiungiamo
questo paese torna il totale di n. 41 centri dell’agrigentino, n. d.r.)
3°) - Comuni
dove il Fascismo non ha ancora presa, specialmente perché combattuto dalla
mafia:
Comitini - Burgio - Lucca Sicula -
Cianciana - S. Angelo - Aragona A Lampedusa, data la grande distanza, e la
difficoltà delle comunicazioni marittime (una volta alla settimana) nulla si è
potuto ancora fare.
4°) - Girgenti - Situazione non
buona, ma discreta, a motivo della esistenza degli Stati Maggiori - attivissimi
- dei partiti Riformista (che fa capo all’On. La Loggia), Popolare (che fa capo
al prosindaco Gr. Uff. Sclafani e all’On. Fronda), e dei residui del partito
Demo-Sociale (On. Pancamo e Guarino). I primi due, specialmente difendono
ostinatamente le proprie posizioni.
Fra giorni
si verificherà la crisi nell’Amministrazione Comunale Popolare-Riformista.
Molto vi
sarà da guadagnare pel Fascismo se il R. Commissario che verrà prescelto saprà
lavorare bene e risanare moralmente e finaziariamente il Comune.»
Il prefetto
Reale, alla fine dell’anno, diviene un vero e proprio fiduciario del fascismo. Ecco,
a dimostrazione, quanto scrive all’On. Avv. Francesco Giunta - Segretario
Generale del Partito Naz. Fascista - in data 11 dicembre 1923:
«Situazione
del Fascismo nella Provincia di Girgenti
Ottemperando
allo incarico da V.S. On. Affidatomi a Siracusa di vigilare e seguire da vicino
il Fascismo in questa Provincia, pregiomi riferire quanto segue:
E’
continuata più attiva che mai la ingerenza del Grande Uff. Sacerdote Sclafani,
capo del Partito Popolare nell’organizzazione del fascismo Provinciale.
Alla lettera
originale a firma sac. Sclafani in data 25 ottobre, da me mostratale a
Siracusa, con cui egli offriva l’incarico di costituire un Fascio in Comitini
(dove non era stato possibile finora la sua costituzione trattandosi di un
comune infestato dalla mafia) ad un tale Dr. Bongiorno, congiunto di un capo
della mafia locale, si sono aggiunti altri gravi elementi.
E’ infatti
in mio potere una dichiarazione del Maggiore Cav. Orestano R. Commissario di
Palma, con cui attesta che il Sac. Sclafani inviò una lettera analoga al Sac.
Zimmili per richiedere "il nome di persona fidata al P.P. da far passare
subito al Fascismo e da incaricare della ricostituzione di quel Fascio".
E’ pure in
mio potere un rapporto del Colonnello Sindico, R. Commissario di Raffadali, col
quale mi informa che a costituire il fascio di Joppolo "fu incaricato
certo Onorio Sacco,
alter ego
del Sac. Camilleri, capo del P.P. che egli dirige secondo gli intendimenti di
Padre Sclafani".
E non più
tardi di ieri ho potuto constatare
de visu perché
mi trovavo sul posto, un abboccamento tra il Sac. Sclafani e il Sindaco di
Porto Empedocle. Da informazioni certe mi risulta che lo Sclafani d’accordo col
detto Sindaco intende di riorganizzare quella Sezione Fascista, per asservirla
ai suoi fini.
E non posso
passare sotto silenzio un episodio che non conferì certo serietà all’azione del
Fiduciario nella riorganizzazione del Fascio di Sciacca.
Giova
premettere che egli anziché seguire le direttive opportunamente dategli da V.S.
On., di "lasciare in disparte gli elementi dei vecchi partiti"
incaricò della costituzione del fascio di Sciacca, fra gli altri l’avv.
Giuseppe Imbornone di oltre 60 anni che mai era stato Fascista, bensì
era in quest’ultimo periodo, riformista tanto che aveva nello scorso
anno partecipato ad un banchetto in onore dell’On. La Loggia.
A
prescindere dal fatto che l’Imbornone era stato candidato politico bocciato per
due volte, la sua scelta era inopportuna perché
cognato e
suocero rispettivamente di Corrado Turano e vella Gaetano, l’uno
detenuto nelle Carceri di Sciacca, come capo di una vasta associazione a
delinquere; l’altro espluso dal Fascismo perché affiliato alla maffia
consenziente il Fiduciario Provinciale.
L’Avv. Calogero
Guarino, capitano degli Arditi, decorato e ferito, essendosi dimesso dalla
Commissione di reggenza per protestare contro l’infiltrazione popolare, voluta
dagli altri due membri riceveva da Girgenti un telegramma a firma Dima con cui
si accettavano le sue dimissioni, e quasi simultaneamente ne riceveva un altro
da Roma, a firma dello stesso Ing. Dima che gli riconfermava lo incarico.
Tali
provvedimenti contraddittorii, oggetto di salaci commenti, valsero a dimostrare
che a Girgenti qualcuno sostituisce il Dima, e dà importanti disposizioni senza
neanche interpellarlo. Inutile ripetere chi possa essere questo qualcuno.
E così a
Sciacca in luogo della Sezione sorta nel 1920 esiste ora un piccolo Fascio
trucco composto prevalentemente di popolari.
A Menfi,
altro centro dove i combattenti e i mutilati, organizzati sin dal 1919, si
erano trasfusi nel Fascismo, fu incaricato della reggenza, insieme ad altre
figure insignificanti, il Gr. Uff. Bivona, di 75 anni, il quale nelle elezioni
del 1919 distribuì i voti di cui disponeva fra la lista di Nitti e quella di
Don Sturzo; nel 1921 li diede alla lista Verderame, voti annullati dalla Giunta
delle Elezioni per corruzione. Nel 1922, il Bivona fu successivamente
riformista (La Loggiano) e popolare (Sturziano). Ora è a capo del Fascismo di
Menfi, dove fece nominare Segretario Politico Berto Ravedà, intimo congiunto
del Segretario Provinciale del P.P. Sturziano Avv. Molinari.
A Licata il
Fiduciario Provinciale dopo avere tolto l’incarico al signor Ettore Sapio amico
e parente dell’On. Verderame lo affidò ad una Commissione di Reggenza alla
quale pure lo tolse per riaffidarlo al Sapio.
Ciò, nel
giro di pochi giorni, ha arrecato grave pregiudizio al partito anche perché è
notorio che l’Ing. Dima aveva chiesto al Generale Starace, l’espulsione del
Sapio per indegnità.
La Sezione
Fascista di Licata è ora una succursale del partito riformista, che, è bene si
sappia, in questa Provincia fa causa comune coi popolari.
Analoghe
repentine metamorfosi si verificarono a Bambuca di Sicilia.
In taluni
Comuni della Provincia, refrattari al Fascismo perché completamente asserviti
alla maffia (Cianciana - Burgio - Aragona - Comitini - Favara) non era stato
possibile - anche perché io mi ero opposto risolutamente - costituire dei
Fasci. In queste ultime settimane, all’unico scopo di procurarsi segretari
politici disposti a votare per la sua rielezione il Fiduciario fece sorgere per
incanto delle sezioni Fasciste, composte di elementi apertamente devoti all’On.
La Loggia, o al partito popolare.
Il
Fiduciario Provinciale, sapendo della mia opposizione ad un Fascismo così
impuro ed equivoco, non mi avvertì neppure della costituzione di questi Fasci.
Le elezioni
compiute per la ricostituzione dei direttorii, tranne che a Girgenti nella
prima votazione durante la mia assenza, sono procedute ordinate, senza dar
luogo a incidenti o proteste. Specialmente la seconda votazione a Girgenti si
svolse calmissima.
I risultati
finora furono i seguenti:
1°) A
Girgenti riuscì la lista dei vecchi fascisti con carattere di opposizione al
Fiduciario Provinciale.
2°) A
Canicattì riuscì una lista ostile al Fiduciario Provinciale composta quasi
tutta di ex Ufficiali combattenti e decorati con a capo il valoroso Generale
Gangitano più volte decorato al valore e ferito.
3°) A Porto
Empedocle riuscì una lista degli elementi uscenti, fascisti di vecchia data,
contrarii al Fiduciario.
Vi furono
anche elezioni in comuni di minore importanza: Casteltermini, Bivona, Siculiana
e Palma con risultati varî. In
complesso però si è creata una situazione artificiosa specie in queste ultime
settimane per effetto della sovrapposizione degli elementi popolari,
riformisti, alla gerarchia Fascista.
I
maggiorenti demosociali si mantengono per lo più inattivi nella incertezza
dell’atteggiamento da assumere di Fronte al Governo Fascista. Una
organizzazione veramente forte e seria del Fascismo, ne potrebbe diminuire di
molto l’efficienza. Le Sezioni di vecchia data, in gran parte ostili al
Fiduciario Prov. Intendono affermarsi sul nome del predetto Generale Gangitano,
come Segretario Politico Provinciale, il quale ha sempre combattuto apertamente
la Democrazia Sociale. Per evitare questo pericolo si minacciano nuovi
scioglimenti da parte della Federazione Provinciale.
Per conto
mio, ho ritenuto conveniente mantenermi del tutto estraneo al movimento
fascista di quest’ultima fase. E ho pur dato disposizioni affinché i funzionari
dipendenti si astenessero da qualsiasi ingerenza.
Tali
direttive sono state rigorasamente osservate.
Date le
circostanze di fatto sopra riferite e delle quali potrei occorrendo dare la
documentazione, ritengo di dover confermare la proposta che ebbi l’onore di
farLe a Siracusa e cioé lo scioglimento della Federazione Provinciale, con la
nomina di una Commissione di Reggenza che proceda ad una rigorosa revisione
delle Sezioni ed il rinvio delle elezioni.
In linea
subordinata ritengo che si debba negare il riconoscimento alle Sezioni di
Comitini, Favara, Cianciana, Burgio, Bivona, Joppolo e Aragona.
Infine per
la ricostituzione delel Sezioni di Licata, Sciacca, Menfi e Sambuca, dove le
condizioni sono favorevoli allo sviluppo di un forte e sincero Fascismo,
propongo che vengano rigorasamente seguite le direttive opportunamente dalla
S.V. On. Date coll’ordine del giorno emesso a Siracisa, affidandone la
riorganizzazione a elementi estranei all’ambiente, e non asserviti ai vecchi
partiti locali.»
La
peculiarità di Agrigento di un fiduciario a capo della federazione fascista
provincila si trascinò sino al 26 gennaio 1924. Sotto tale data venne
incaricata di regge il fascismo agrigentino una Commissione Straordinaria, come
aveva proposto il prefetto Reale in via principale. Tale Commissione si resse
sino al 17 aprile 1924, quando venne eletto tal Girolamo Galatioto, che durò
sino al 4 aprile 1925. Dopo abbiamo un certo Paladino Raffaele, che a diverso
titolo, fu capo del fascismo agrigentino sino al 13 settembre 1925. Quindi è il
tempo del celeberrimo Achille Starace che fu commissario straordinario del
federazione di Agrigento dal 13 settembre 1925 al 17 maggio 1926. Il 17 maggio
1926 subentra l’On. Angelo Abisso: esso è il federale di Agrigento sino al 29
dicembre 1927.
Questi sono
i suoi successori:
1. D’Andrea Calogero dal 29 dic. 1929
sino al 14 gennaio 1931;
2. Basile Carlo Emanuele dal 14 genn.
1931 al 17 aprile 1931 (Commissario Straordinario);
3. Morello Vincenzo dal 17 aprile 1931
all’ 11 giugno1932;
4. Puccetti Corrado dall’11 giugno 1932
al 6 febbraio 1933;
5. Gaetani Alfonso dal 6 febbraio 1933
al 1° aprile 1937;
6. Guggino Emerico dal 1° aprile 1937
al 4 aprile 1940;
7. Di Marsciano Ermanno dal 4 aprile
1940 al 3 maggio 1943;
Candrilli Manlio dal 13 maggio 1943
sino all’entrata degli americani. ()
Ufficialmente,
la Federazione fu costituita il 15 novembre 1922. I personaggi che si sono
succeduti alla sua guida non sono tutti di grosso risalto. Alcuni dati
biografici aiutano a comprendere l’altalenare di personalità a vario spessore
che si registra nella direzione del fascismo agrigentino.
Dima Narciso
Laurea in
ingegneria - assicuratore. Iscritto ai fasci sin dal 1919. Fiduciario della
Federazione dal 15 novembre 1922. Agente generale dell’INA per Girgenti.
Galatioto
Gerolamo
nato a
Ravanusa (Ag.) il 10 agosto 1894. Partecipò alla guerra del 1915-18 con il
grado di tenente di fanteria. Ebbe due medaglie di bronzo.
Paladino
Raffaele
nato a
Floridia (Sr) il 10 gennaio 1884. Laurea in lettere, insegnante. Figlio di
Esattore Comunale. Socialista rivoluzionario; interventista; nazionalista.
Iscritto al Fascio nel 1920. Espulso dal PNF nel marzo 1926 «quale elemento
disgregatore», fu riammesso nel maggio successivo. Non aderì alla RSI.
Starace
Achille
«"Buttatelo
giù per le scale", fu l’urlo di Mussolini che scacciava definitivamente
Starace dal’anticamera della Sala del Mappamondo a Palazzo Venezia. Il
"duce" lo aveva privato di ogni carica e di ogni onore in breve
tempo. Nel ‘39 Starace dovette dimettersi da segretario del partito fascista e
nel ‘41 da capo di stato maggiore della milizia: la sua stella era tramontata
per sempre. Cominciarono per lui gli anni delle umiliazioni e della misera che
non ebbero più termine fino al giorno della sua esecuzione in Piazzale Loreto a
Milano, il 29 aprile 1945.»
«La sua vicenda
personale non si chiude in se stessa, maè il riverbero di un costume che andava
mutando, la sua biografia è anche il racconto della vita esemplare d’un gerarca
fascista assai potente, di una sacra autorità del Ventennio. E’ uno specchio in
cui si riflettevano gli italiani del Littorio irreggimentati in una coreografia
alienante di cui Starace era regista discusso e irriso ma ubbidito.
«La condanna
del fascismo è nelle cose di tutti i giorni e negli eventi della storia.
Rovesci e sciagure furono addebitati al regista, come conseguenza
d’un’apparente organizzazione del partito che non poteva reggere alla prova del
fuoco. Di lui si fece un capro espiatorio. Misero tutto sul suo conto. Lo
distrussero, e forse lo meritava. Mussolini lo scacciò, e forse aveva buone
ragioni per farlo. L’ingranaggio ormai lo stritolava e nessuno poteva
riabilitarlo. Cercò di risollevarsi da solo, con una morte dignitosa davanti al
plotone d’esecuzione.»
()
Nel
"carteggio riservato" della Segreteria particolare del Duce,
custodito nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ben tre voluminosi
fascicoli riservati () sono destinati allo Starace. Vi è di tutto. Mussolini lo
seguiva in tuttto. Dalle cose pruriginose (pederastia, tradimenti tra fratelli,
orge) a quelle invereconde (le celebri avventure galanti) ai latrocinii, alle
concussioni. La parentesi agrigentina di Starace vi emerge per gli aspetti più
inquietanti: la sua amicizia con Abisso fu molto interessata. Non è provato, ma
niente smentisce la miserevole vicenda dei tanti soldi spillati all’on. La
Lumia di Licata dietro promessa di una resurrezione politica.
Un anonimo
faceva al "duce" in data 28/5/1932 questa delazione ()
«A S.E.
Benito Mussolini - Ministro degli Interni, Roma - Dopo un lavoro faticoso e
pericoloso di spionaggio, ho potuto appurare i dati di fatto che vengo ad
esporVi, nell’interesse generale del Fascismo e particolare della Provincia di
Agrigento.
«Da parecchi
anni l’On.le La Lomia, politicamente di Licata, corrisponde la somma di lire
cincquantamila annue all’On.le Starace.- Detti pagamenti, che ad oggi ammontano
a £. 350.000 sono stati fatti direttamente con vaglia bancari girati dallo
stesso all’attuale Segretario del Partito, oppure a mezzo del Senatore Abisso,
difensore della delinquenza siciliana. Per detta somma l’On. Starace, fin dalla
sua gestione commissariale nella provincia di Agrigento, si è impegnato di
difendere l’associazione Abisso-La Lomia fino alle estreme conseguenze. In
conseguenza di questo fatto l’On. Starace ha inviato come Questore di Agrigento
il Comm. Papa, che appena arrivato in sede si è premurato di chiamare al
telefono il Comm. Lo Dico, ex Preside della Provincia di Agrigento, al quale
comunicava un discorso cifrato, in seguito al quale, dopo pochi giorni,
avveniva nei pressi di Porto Empedocle .. nel villino campestre del detto Lo
Dico , una riunione segreta alla quale partecipavano, il Questore, Lo Dico, il
senatore Abisso, il dott. Di Leo Calogero sanitario del comune di Sciacca e
fratello del Segretario Federale Agrigentino
in pectore,
il dottore Venezia medico chirurgo dentista di Sciacca, fervente propagandista
repubblicano, l’nsegnante Castellana Alfonso di Lucca Sicula, il cav. Liborio
Friscia di Ribera, il Capo Manipolo Friscia Gaetano di Ribera, il Marturana
Salvatore di Agrigento, alcuni rappresentanti dell’On.le La Lomia ed altri
Abissiani della Provincia.
«Scopo della
riunione fu di impartire disposizioni perché fosse fatto molto rumore in
Provincia per la promessa dell’On. Starace del rovesciamento imminente della
situazione politica provinciale.
«In seguito
a tale riunione infatti in vari paesi della Provincia furono sguinzagliati
degli agenti provocatori che tentarono dappertutto di sollevare incidenti. A
prova della veridicità della promessa dell’On. Starace in quella riunione
l’On.le Abisso riferì per comunicazione avuta dall’On. Starace che il ritardo
del provvedimento di rovesciamento si doveva al fatto che presso la
magistratura di Sciacca giaceva una pratica per la riesumazione di un processo
di associazione a delinquere per stabilire se il padre del futuro Segretario
Federale di Agrigento fosse stato a suo tempo coinvolto in detta associazione.
Al che il Questore Papa prese la parola assicurando ‘in ogni caso la Segreteria
Federale sarà data a persona che pur sembrando neutrale tuttavia sarà al
completo servizio del Senatore Abisso’».
Nella
permanenza ad Agrigento, l’On. Starace ebbe modo di incontrarsi con due uomini
politici: l’on. Abisso e l’on. Cucco; del primo ne consolidò la fortuna, del
secondo ne stabilì l’umiliante radiazione dai ranghi (almeno sino al 1939). La
lotta alla mafia non c’entra affatto. Diversamente la sorte dei due politici
siciliani doveva esse parallella, identica essendo la radice mafiosa.
L’on. Abisso
fu tanto camerata dell’On. Starace da seguirlo in scandalose frequentazioni di
donnine romane. Le spie di Mussolini riferivano. Ma senza effetto.
Abisso
Angelo
E’ figura
centrale dell’agone politico agrigentino, almeno dal 1913 sino al 1933 quando
il nobile Gaetani diviene federale di Agrigento. Equilibrismi polticici,
repentine conversioni, tradimenti, trasformismo determinano un effetto alone
sul personaggio, che resta equicoco, indefinibile, moralmente opaco. Ciò trascende
l’angusta economia di questa ricerca per il doveroso approfondimento.
Al nutrito
partito di fiancheggiatori - sprezzantemente chiamati abissisiani - si
contrappone quello dei denigratori ad oltranza. Nelle carte di archivio
abbondano le denunzie, le calunnie, le insinuazioni. L’on. Abisso finisce
nell’osservatorio della Segreteria particolare del Duce che apre a suo carico
un folto fascicolo informativo. () Il potente amico Starace riesce, in ogni
caso, a parare i fulmini mussoliniani. La stella politica di Abisso potè
appannarsi alla fine, ma non si oscurò per tutta la durata del fascismo.
D’Andrea
Calogero
Nato a
Campobello di Licata (Ag) il 30 maggio 1877, si laureò in giurisprudenza. Fu
avvocato ed insegnante. Partecipò alla guerra del 1915-18 col grado di
capitano, poi maggiore di fanteria. Iscrittosi al fascio il 20 novembre 1922,
fu preside dell’Istituto Tecnico di Agrigento. Rivestì anche la carica di Vice
Preside dell’Amministrazione Provinciale di Agrigento. Non aderì alla R.S.I.
Basile Carlo
Emanuele
nato a
Milano il 21 ottobre 1885, morì a Stresa il 1° novembre 1972. Barone
plurilaureato (giurisprudenza e lettere), giornalista e scrittore, era figlio
di un prefetto. Fu nominato senatore. E’ autore di romazi e novelle. Aderì alla
R.S.I. e fu quindi prefetto di Genova dal 25 ottobre 1943 al 26 giugno 1944.
Ebbe l’incarico di sottosegretario alle FF.AA dal 27 giugno 1944. Venne ad
Agrigento come commissario straordinario di questa federazione per consentire
una svolta in termini di affrancamento dalla influenza dell’On. Abisso. Vi
restò dal 14 gennaio 1931 fino al 17 aprile 1931. Passò le consegne alla
scialba figura di Vincenzo Morello di cui sappiamo che fu fascista fin dal
1920. L’11 giugno 1932 viene sostituito da Corrado Puccetti: da questo momento
la vicenda della federazione agrigentina esula dai limiti della presente
investigazione storica.
Quale
giudizio può formularsi sul primo quindicennio del fascismo agrigentino
(1921-1926)? Ci pare illuminante, pur nel suo settarismo e nella passionalità
per il ribollire delle passioni del tempo, la sguente anonima delazione che si
rinviene nella carte ministeriali romane ():
«La storia
politica della provincia di Girgenti, [
Girgenti
cambia denominazione in Agrigento durante il fascismo, nel 1927, con il r.d. 16
giugno 1927, n.° 1143, n.d.r.] specie nell’ultimo quindicennio, rappresenta
quanto di più deplorevole possa esservi nella vita pubblica italiana. Sparitò
l’on. Nicolò Gallo, che dal 1884 ne fu quasi ininterrottamente il dominatore,
il suo posto venne assunto dall’on. Domenico De Michele. Costui, ch’era stato
del Gallo il luogotenente fedele non aveva di lui né l’ingegno né la dottrina
né l’ascendente, ma seppe mantenersi al potere col favore di S.E. Giolitti, del
quale fu seguace fedelissimo, e creando attorno a sé una rete di interessi e di
interessati. Contro questa oligarchia, bollata col nome di cosca,
insorsero le forze nuove della Provincia ch’ebbero come principale loro
esponente Giovanni Guarino Amella. Sono ancora ricordate le polemiche, spesso
virulente, dell’organo dell’opposizione "IL MOSCONE", nel quale al De
Michele ed ai suoi seguaci si fecero le accuse più atroci e più infamanti.
«In tali
consizioni di cose venne l’allargamento del suffragio e vennero le elezioni del
1913, nelle quali le forze dell’opposizione riuscirono vittoriose e furono
eletti deputati Giovanni Grarino Amella, Antonino Parlapiano Vella e Angelo
Abisso. Costui, fino a pochi mesi prima semplice segratario al Ministero dei
LL. PP., aveva compreso l’enorme capovolgimento che il suffragio universale
avrebbe prodotto nelle imminenti elezioni e , dimessosi, si era lanciato a
capofitto nella lotta, aggregandosi alle file dell’opposizione, ma
proclamandosi "individualista e simpatizzante per i socialisti (discorso
politico del 1913 a casa Gerardi)"
«Ma
l’opposizione, divenuta maggioranza ed impadronitasi del potere politico ed
amministrativo in provincia, non credette di meglio che di .... seguire i
metodi dei precedenti padroni, anzi di perfezionare e incrementare tali metodi.
Il nepotismo più sfacciato, il favoritismo più aperto furono regola di vita per
essa, e poichédopo pochissimo tempo scoppiava la guerra, se ne trasse motivo
per inaugurare in provincia il più sconfinato dispotismo. Messo da parte l’on.
Antonino Parlapiano, che per temperamento e per tradizione non era adatto a
seguire in tutto e per tutto i metodi della nuova cricca, questa s’imperniò sul
binomio Guarino-Abisso, i quali durante la guerra furono i dominatori
incontrastati di tutti gli organi amministrativi, statali e parastatali della
provincia. Non solo l’amministrazione provinciale propriamente detta e quella
dei varii comuni passò nelle loro mani ed in quelle delle loro creature; non
solo per avere più incontrastato dominiol’on. Abisso ad es. Tenne a Sciacca,
malgrado il Consiglio comunale - pu da lui eletto - non fosse sciolto, un
Commissario prefettizio di sua scelta per ben 5 anni; ma Consorzio granario,
Commissione esoneri, Consiglio d’amministrazione del Banco di Sicilia etc. etc.
Commissioni militari di requisizione furono accentrati nelle loro mani
direttamente o a mezzo di persone parenti od amiche. Quello che fu fatto al
Consorzio granario, gli scandali delle varie Commissioni di requisizione, nelle
quali era magna pars il comm. Lo Dico odierno alter ego dell’on.
Abisso in quel di Girgenti, non hanno bisogno di illustrazione, perché ancora
se ne occupano le cronache dei tribunali con i varii processi, ancora non
chiusi, di truffe, falsi e malversazioni a carico dello Stato, commesse tutte
sotto le grandi ali dei due grandi patroni della provincia. E mentre i due
facevano a Roma professione d’interventismo, e l’on. Abisso indossava la divisa
di tenente del genio ma, sebbene appena trentenne, non andava al fronte pur
facendosi bello dell’amicizia di Valentino Coda (dove mai l’ebbe a conoscere
resta sempre un mistero!); a Girgenti e Palermo si cooperavani per imboscare il
maggior numero di gente, fratelli, cognati e cugini; per esonerare come
agricoltori barbieri e murifabbri, e per difendere avanti ai tribunali militari
il maggior numero di disertori o di falsificatori di esoneri. La cronaca del
tribunale militare di Palermo informi. Si cominciava così da parte dell’on.
Abisso a creare quella leggenda d’irresistibile avvocato penalista, che,
stabilitosi pieno ed intero il suo dominio politico, gli doveva assicurare il
monopolio delle Assisie di Sciacca e Girgenti e la fama di "detentore
delle chiavi del carcere".
Appartiene a
questo periodo la persecuzione inflitta dall’on. Abisso, attraverso a tre inchieste
tutte quante negative, ad un capitano - Gravina - reo di aver preso in
contravvenzione lo zio di lui Friscia per vendita illecita di grano requisito;
contravvenzione sfumata per il tempestivo intervento del Commissario dei
Consumi che svincolava "a posteriori" il grano venduto. Ed
appartengono a questo periodo i contorcimenti politici dell’Abisso e la
smargiassata della "messa in stato di accusa dell’on. Giolitti per altro
tradimento" da lui chiesta a S.E. Salandra e da questi qualificata come
una semplice "sciocchezza" del deputato di Sciacca. Ciò che però non
impediva, all’on. Abisso, al feroce interventista del ‘15, di divenire, appena
Giolitti tornò al potere, di divenire un giolittiano ferventissimo, anzi il
luogotenente generale dell’uomo di Dronero in quelle famigerate elezioni del
1921, e di chiedere e di ottenere da lui, alla vigilia dell’elezioni istesse,
la nomina a commendatore motu proprio, affissa poi subito alle cantonate
di Sciacca e provincia col relativo telegramma di S.E. Giolitti.
«Venne il
dopoguerra e venne di moda il bolscevismo. Ed allora Guarino ed Abisso, ma
questi più del primo, entrambi però sempre in combutta tra di loro, provvidero
a dare alla provincia di Girgenti il saggio migliore e maggiore del’opera
bolscevica. Le occupazioni delle terre di Ribera e Menfi, ma sopratutto quelle
di Ribera, col tentato sequestro del Duca di Bivona e con i vandalismi
conseguenziali, furono opera diretta, ispirata, suggerita e talvolta
predisposta dall’on. Abisso. Il quale arrivò persino ad ottenere che l’autorità
politica impedisse l’esecuzione delle sentenze del magistrato (come per il
rilascio del feudo Scifitelli disposto con sentenza della Corte di appello, ed
impedito dal Prefetto di Girgenti!). Né si dica che ciò egli abbia fatto per
venire in soccorso ai combattenti, perché di tali occupazioni poco o nulla si
sono giovati gli autentici combattenti e le terre, quando non sono state
retrocesse ai proprietari per inadempienza delle pseude cooperative da lui
create, sono andate a finire in mano a gente che la guerra non vide neanche da
lontano. Esempio la lottizzazione dell’ex feudo Nadore in quel di Sciacca,
dell’ex feudo Fiore e Bertolino di Menfi; e, uno per tutti, l’esperienza
disastrosa della celebre Cesare Battisti di Ribera.
Intanto alla
Camera il binomio, per sorreggersi, seguiva una linea di condotta veramente
meravigliosa. Data l’instabilità dei governi, i due, per trovarsi a cavallo,
non votavano assieme se non quando l’esito della votazione era sicuro; ma
quando si trattava di votazione incerta i due demo-sociali (giacché Abisso
aveva finito per rinunciare al suo individualismo e seguire l’amico Guarino
anche nel partito di S.E. Di Cesarò) o si dividevano votando uno contra ed uno
a favore, oppure, mentre l’uno si squagliava, l’altro votava a favore. Così i
due poterono rimanere ministeriali con tutti i ministeri ed essere fautori e
sostenitori di quei Governi imbelli del passato, contro di cui così spesso e
volentieri, con riconoscenza ammirevole, ora si scaglia ogni tanto il fascista
on. Abisso. Il quale una sola volta dovette passare per oppositore, quando cioè
l’on. Nitti, accortosi ch’egli erasi prudentemente squagliato in una votazione
non volle accettare le congratulazioni che s’era affrettato a fargli dopo
conosciuto l’esito favorevole del voto! E ministeriali furono persino col
ministero Fatta [
Facta, n.d.r.]
del quale uno dei due avrebbe volentieri fatto parte se i popolari non si
fossero opposti facendo a loro preferire il La Loggia.
«Intanto il
movimento fascista andava montando, e lo Abisso, sempre tempista e previdente,
disponeva che nei varii comuni della provincia sorgessero delle sezioni
fasciste composte da persone a sé fide, ma di seconda mano; gente di scarto e
sfiduciata al doppio scopo d’impedire che la gente per bene potesse accostarsi
e far proprio il movimento e di poterlo sconfessare, e buttare a mare gli
esponenti stessi senza sua compromissione, ove il movimento fosse fallito. Né
appena avvenuta la marcia su Roma egli permise che quelle sezioni s’ingrossassero
sia con elementi proprii, sia permettendo l’ingresso di altri elementi estranei
alla cricca, non essendo sicuro che il regime potesse consolidarsi. Ma quando
capì che esso ormai durava, allora fece il gran passo, si separò dal Guarino ed
entrò nel fascismo con tutti i suoi adepti.
«Da quel
giorno è stata sua cura costante non solo di sfruttare nel modo migliore, a
vantaggio proprio dei parenti e dei gregari, la sua posizione dominante; ma
sopratutto quella di allontanare dal fascismo tutti coloro che gli potessero
dare ombra costringendo l’elemento migliore della provincia o a fare del
dissidentismo o a starsene a casa o a passare addirittura all’antifascismo. Del
resto non potrebbe essere diversamente. Infatti in provincia il fascismo non
esiste, come del resto non esiste antifascismo: non c’è che dell’abissinismo e
dell’antiabissinismo. Anche coloro che odiano il fascio possono esservi ammessi
purché passino sotto le forche caudine dell’omaggio e dedizione ad Abisso ed ai
suoi luogotenenti. Di esempii se ne possono citare a migliaia, ma noi citeremo
i più gravi ed importanti.
«Sciolto il
Consiglio comunale di S. Stefano Quisquina, poiché i veri fascisti di colà non
erano da lui benvisti, egli volle che il Fascio fosse rappresentato dai sigg.
Vincenzo Ippolito e Con osservanza., cioè dagli autentici maffiosi del luogo. E
costoro ebbero l’amministrazione comunale e furono i padroni del paese finché,
passati sinceramente o no poco importa, al fascismo i socialisti del luogo e
denunciato in alto loco i precedenti degli amministratori scelti dallo Abisso,
costui fu costretto di abbandonarli al loro destino.
«Così in
Alessandria della Rocca non ha esitato a silurare i vecchi fascisti del luogo,
rei di poca arrendevolezza a lui, per accogliere e mettere al loro posto un suo
ex-compagno demo-sociale reduce dal comitato aventiniano-matteottiano di
Girgenti.
«Né basta.
Abbattuto il La Loggia egli non ha esitato a fare rivolgere invito ai
partigiani di quello perché passassero nelle sue file, e bastò che il dott.
Traina di S. Margherita, anifascista nell’anima, si ponesse a sua personale
discrezione, perché egli senz’altro gli lasciasse il dominio del paese
abbandonando i suoi vecchi compagni, che rappresentano il minor numero.
«Quello però
che dimostra viemmeglio quale sia lo spirito che anima lo Abisso, è dimostrato
dal suo accordo col’ora defunto on. De Michele. Costui, dopo la caduta, era
passato nelle file del La Loggia di cui fu fino ad ieri il seguace più
ostinato, anche perché i Baiamonte suoi oppositori nel paese natìo di Burgio
erano passati al fascismo.
«Caduto il
La Loggia, il De Michele fece degli approcci per passare al fascismo, e poiché
i Baiamonte avevano mostrato di avere delle preferenze per il prof. Noto
Sardegna, inviso allo Abisso perché a lui superiore per intelligenza, cultura e
... tutt’altro, questi non esitò a dimenticare il passato e ad ammettere il De
Michele nel direttorio provinciale dietro promessa di appoggiare, contro Noto,
certo Ciaccio un vero Carneade di Sambuca, come possibile candidato del
Collegio di Bivona. Ed i Baiamonte furono cacciati in galera!
«Del resto
che lo Abisso faccia del fascismo a suo uso e consumo lo dimostra un fatto per
quanto piccolo e materiale: a Sciacca, sua cittadella, si sono spese dal Comune
fior di quattrini per creare un lussuoso circolo ANGELO ABISSO, che tutti i
fascisti, sopratutto se impiegati, debbono frequentare; mentre per la Sezione
del Fascio esiste una stanzetta angusta che sta quasi sempre serrata.
«Non
parliamo poi dei criteri amministrativi seguiti al Comune di Sciacca. Due
Consigli comunali, sebbene da lui eletti e composti tutti suoi gregari, si sono
dovuti dimettere rei soltanto di aver voluto qualche volta ribellarsi agli
ordini dello zio Salvatore Friscia, un ex-rappresentante che ha monopolizzato,
durante la guerra attraverso al monopolio dei permessi d’esportazione, ed oggi
attraverso altri sistemi, il commercio locale, e che crede il Comune essere
cosa sua personale. Ed oggi si propone come podestà un impiegato di prefettura,
mentre non mancano nel partito gente idonea alla carica, per il timore,
confessato, che queste possano avere, dopo nominate, delle velleità
d’indipendenza agli ordini delll Abisso e del suo luogotenente!
«Del resto
lo stesso sistema si segue negli altri comuni. A Menfi alter ego dell’Abisso, è
certo Volpe, un contadino semi analfabeta, ma esecutore fedelissimo degli ordini
ch’egli gli dà e suo rappresentante ... anche negli affari professionali; a
Girgenti domina incontrastato in suo nome il Comm. Lo Dico, reduce dei fasti
delle Commissioni di requisizione, e che pur essendo un semplice procuratore
legale NON laureato, divide con lo Abisso i maggiori trionfi in Corte
d’Assisie.
«Perché poi
la piaga maggiore che il dominio di quest’uomo ha portato in provincia, è la
difesa assunta della peggiore delinquenza, l’esautoramento completo della
giustizia.
[...]
[Anonimo del 14.10.1926, n.d.r.]»
Lo spaccato
è senza dubbio tutto in negativo e va accettato per quel che vale: ma qualche
luce la riverbera sul quel periodo. Uno dei suoi limiti più vistosi è quello di
limitare lo sguardo critico alla sola parte occidentale di Agrigento. Per la
restante parte disponiamo di altre carte riservate, anonime ma informate, che
ben si prestano a fornirci altri spunti critici.
L’anonimo
proviene da Naro ed è datato: 15 settembre 1931. Qui viene presa di mira la
fazione dell’On. Riolo.
«Eccellenza
-
esordisce ()
- In nome di sedicimila coscienze, ancora non vendute né aggiogate al carro
del banditismo locale, si ha l’onore di farVi conoscere quanto segue:
«La Sezione
del P.N.F. venne istituita in Naro nel Novembre del 1922 da pochi giovani animosi,
di pura fede nostra, i quali per riuscire SOLAMENTE AD ACCAMPARSI tra le rive
di questa mefitica palude politica dovettero sfidare tutte le ire e scavalcare
tutti gli ostacoli, opposti al loro sano e santo entusiasmo dagli altri Partiti
locali, in modo specialissimo da quella vera associazione a delinquere che fu
il così detto partito della democrazia social massonica.
«L’avvento
del Fascismo al potere avrebbe dovuto segnare la scomparsa di quella più vera e
maggiore piaga di Egitto, ma le prepotenze, le intimidazioni, le corruzioni,
l’intrigo fecero sì che la "COSCA" provinciale (facente capo allora
all’on. Abisso, capo riconosciuto di tutta la mala vita urbana e rurale) si
mantenesse a galla e così nella prima elezione politica fascista (1924) l’avv.
Salvatore Riolo Specchi venne compreso, tra lo stupore e la indignazione di
tutti, nella lista Nazionale.
«Conseguenze
dirette della candidatura e quindi della elezione di questo oscuro satellite
abissino furono:
1°) =
L’ingresso di tutti i demo social massonici nella sezione del Partito Fascista
di Naro;
2°) = La
caduta del direttorio locale e la sostituzione di tutti i membri di questo, per
imposizione del Deputato, con elementi di pura marca Riolana;
3°) =
L’automatico allontanamento dalle cariche e anche dalle fila del Partito dei
fascisti della prima ora.
«Da quel
giorno sino ad oggi tutto l’immenso ritmo fecondo di idee e di opere del regime
è stato costretto a vivacchiare, in servitù sterile e semi-boccaccesca, tra una
parete e l’altra dell’allegra dimora della signora TITA RINALDI RIOLO la quale
ha voluto dividere col marito, assiduamente, l’onere e l’onore di governare le
sorti e la storia nuove del paese, ad esclusivo beneficio della sua famiglia
naturale e politica. Da allora sino ad oggi, senza uno scarto, senza rossori,
con la medesima flemma vuota e sorniona, tutte le cariche del Partito,
distribuite patriotticamente in famiglia sono sate occupate nel modo seguente:
AVV. COMM. SALVATORE RIOLO SPECCHI - Classe 1876
Deputato
alla Camera. Capo, di nome se non di fatto del P. Fascista locale. Ex imboscato
e protettore di imboscati ed autolesionisti. Presidente del Consorzio granario
durante la guerra, a Girgenti. Capo della massoneria paesana e gran fratello di
quella provinciale. Attualmente, si dice, è dormiente. Venne incluso nella
lista Nazionale con questa esilarante menzogna: "PER ESSERSI COSTANTEMENTE
OCCUPATO DEI PROBLEMI DELL’AGRICOLTURA" = mentre qui è notorio che egli di
agricoltura non conosce neppure l’ortica. Tipo vano e vuoto ma ambiziosissimo
sarebbe capace, pur di conservare la medaglietta, di accodarsi anche a Don
Sturzo, com’ebbe un giorno cinicamente a dichiarare nella farmacia Bellomo: per
sincerarsi chiedere informazioni a costui e ad un reverendo Polizzi, se questi
due individui sono disposti a servire la verità. Espertissimo nell’intrigo e
nelle pastette sa conciliare le opposte tendenze e le sfrenate ingordigie di
parenti, di amici e di protetti, da sette anni tutti patriotticamente a posto
con stipendi da generalissimi chi in Naro chi nel Capoluogo.
«Nel breve
giro di tre anni fece regalare a questo povero Municipio la bellezza di
VENTIDUE Commissari.
«Nel 1919,
20 e 21, imperversando il terrore rosso non mise mai il naso fuori né permise
che l’avessero messo fuori i trenta satelliti della sua fortuna, lietissimi di
poterlo imitare in questa bisogna col medesimo entusiasmo col quale lo avevano
imitato e talvolta superato in viltà durante la guerra.
«Nel 1922
tradì e strozzo l’amministrazione comunale dei combattenti dei quali, fin dal
1925, perseguita con ogni mezzo, compresa la maldicenza in pubblico, la locale
sezione.
«Dal 1925
sino al dicembre 1930 assassinò politicamente, moralmente, finanziariamente il
Podestà Cammilleri Sillitti prima e costrinse dopo a dimettersi da Commissario
Prefettizio, successo ad un povero Re Travicello, il proprio cugino Comm. Totò
Riolo Tomasi, reo dinanzi al pubblico d’essere un povero idiota, sebbene onesto
e fattivo come il Cammilleri Sillitti. Lui che sa appena leggere e scrivere, ha
anche l’incarico di Sovrintendente ai Monumenti di Naro, ma i rari illustri
visitatori che capitano qui sono costretti a chiedersi esterrefatti se Naro è
in Italia o non, tali e tante sono le prove materiali delle rapine, delle
manomissioni, della incuria che hanno sofferto e continuano a soffrire tutti i
monumenti e le reliquie del nostro splendore antico.
«E
fianlmente, tanto per conchiudere alla svelta si fa noto che non sapendo fare
altro, da sette anni ha sfruttato tutto il suo genio nel far conferire croci e
commende ad individui i quali rappresentano in Naro o fuori il fiore della
feccia, della incapacità, dell’strionismo, dell’antipatriottismo e segnatamente
dell’ANTIFASCISMO, come si verrà mano a mano dimostrando. [
Si butta
quindi fango sulle seguenti persone: Avv. Ignazio Riolo, classe 1887; avv.
Giuseppe Riolo, classe 189; avv. Carlo Riolo, classe 1892; Comm. Salvatore
Riolo Tomasi; Girolamo Rinaldi, classe 1889; Ciro Rinaldi, classe 1887; Luigi
Rinaldi, classe 1885; Rosario Specchi-Rinaldi; Cav. Uff. Antonio Castelli,
classe 1874; Cav. Antonio Castelli; Antonio Gueli Alletti, classe 1873; Alfonso
Borsellino, classe 1884; Antonino Costa di anni 37; Cav. Onofrio Nicolaci,
commissario di P.S.- Il corrosivo astio e la vigliaccheria dell’anonimato
rendono quelle note ributtanti e - ai nostri fini - per nulla significative. Ci
asteniamo pertanto dal riportarle, n.d.r.] [...]
« Eccellenza
- Sono due anni giusti che noi meditiamo se valeva proprio la pena di stendere
le paginette di questa deplorevole storia locale, tutt’altro che completa
specialemnte nei riguardi dei maggiori esponenti del P.N.F. di qui i quali, se
hanno la tessera e tutti gli onori del Partito, assolutamente non ne possiedono
lo spirito e meno ne incarnano il dovere e la pericolosa e miracolosa missione.
«A Naro,
Eccellenza, il Fascismo è un mito e il feudo è tutto. La conseguenza, disastrosa,
è la seguente:
contro una
banda di senzapatria, composta tra ladroni e lacchè, da un centinaio
d’individui c’è tutta intera una cittadinanza la quale vuole da sette anni e
spera indarno che la luce di verità, la febbre di bene, la protezione augusta del
regime, divengano una realtà viva e feconda anche per essa; oggi, nel momento
in cui scriviamo, è il collasso generale con brevissime parentesi
d’insurrezione spirituale sorda e furiosa, di cui qualche cosa devono pur
sapere nel capoluogo. Arriveranno queste povere pagine fino al Tribunale
dell’E.V.? E se arriveranno avrete Voi il tempo e la bontà di degnarle di uno
sguardo?
«Ecco degli
interrogativi che spezzano l’anima e, perché no?, anche l’entusiasmo.
«Ma se Voi
non potete e non volete leggere la storia del falso Fascismo riolano di naro,
degnateVi almeno dedicare cinque soli minuti a queste ultime pagine il cui
contenuto dedichiamo alla Vostra serena Giustizia.
1
«A Naro
esiste una banca dal pomposo titolo "BANCA COMMERCIALE INDUSTRIALE
AGRICOLA". Ne è Presidente il Comm. Benedetto Gaetani, COGNATO DELL’ON.
RIOLO, ex massone, falso fascista anch’egli, falso patriotta e nullità assoluta
sotto qualsiasi punto di vista. Gran parte dei debitori di quella Banca sono
tutti della banda Riolo parecchi dei quali sono anche debitori morosi da anni.
Da circa 20 anni questa Banca non fa bilancio e non dà conto a nessuno dei suoi
numerosi azionisti.
«Di questi
non parla e non ricorre nessuno perché sta sempre pronta per chi osa la
minaccia delle manette e del confino.
2
«A Naro
esiste una Congregazione della Carità. Anche questo Istituto, per quanto
concerne la sua attività, sino al 30 maggio 1928, è un groviglio di infamie
irregolarità e di ladrerie. L’ex cassiere, un certo Costa Gaetano, padre del
perito Comunale Antonino Costa (del quale ci occuperemo all’ultimo) deve dare
una grossa somma CIRCA LIRE SEDICIMILA e non vuole sentirne. Per informazioni
sottoporre ad inchiesta l’attuale Presidente dott. Salvatore Aronica e se
questi non vuole parlare metterlo a confronto per esempio con qualche
magistrato locale, con un Sac, Polizzi, con un farmacista Ferracani ecc.
3
«A Camastra
(ora frazione di Naro) tre anni addietro veniva costruita la strada interna
principale. Questa è costata centinaia di migliaia di lire ma è divenuta
praticamente impraticabile come la famosa pedonale di Naro. C’è stata in questi
ultimi tempi e proprio per la strada una sollevazione dei cittadini di quella
sventuratissima borgata, ben presto domata con minacce di deportazione e di
altro contro i più cospicui capi di quel movimento, volutamente presentato come
antifascista (il solito argomento dei tirannelli che vogliono godere in pace il
frutto delle pubbliche rapine).
«Autore e
direttore tecnico di quell’opera è stato precisamente il perito comunale di
Naro ing. Antonino Costa, Il collaudo è avvenuto di sera e dopo il ritorno qui
del deputato Riolo, tra motti e sarcasmi del pubblico che assisteva, Quest’anno
le autorità provinciali tanto per offrire una offa di soddisfazione alla
opinione pubblica nervosissima, hanno fatto eseguire sul posto una inchiesta la
quale ha avuto la fine di tutte le inchieste della provincia feudo dei deputati
Abisso, Riolo e Con osservanza.
«Il pubblico
di Naro e di Camastra non ha più fiducia né ad uomini né a promesse. E questo è
forse il suo torto e il suo debole, del quale profittano sfacciatamente gli
altri, i cosidetti padroni per continuare ...
4
«Il deputato
Riolo dice di avere la protezione di eminenti Gerarchi del Partito, vanta
l’appoggio incondizionato del sig. Prefetto Miglio, si dichiara invulnerabile
da parte del Segretario Provinciale Cav. Morello. TUTTO CIO’ IN PUBBLICO E
SENZA RETICENZE.
5
«A Naro il
gagliardetto è nome e cosa sconosciutissima. Non si vede in nessuna ricorrenza.
Così per volere espresso di questo Segretario Politico il quale si scusa
dicendo che non ha fascisti ai quali affidarlo.
6
«A Naro il
cav. Borsellino Alfonso, individuo privo sin’anche di licenza elementare,
veniva proposto ripetute volte alle Gerarchie provinciali, sino a 15 giorni
addietro, come podestà di Naro dal Deputato Riolo.
«Ultima
fresca, gloriosa azione di lui è stato lo stupro d’una povera servetta,
costretta dalla miseria a lasciarsi tacitare con poche centinaia di lire. La
servetta è minorenne.
«Il pubblico
sa e pensa, mastica e dice innominabili cose contro l’eroe e i compagni che lo
salvarono. Chi ci guadagna non è certo il Fascismo.
7
«A Naro,
dopo l’ecatombe di podestà e di commissari voluta dal deputato Riolo, nel corso
di quest’anno è venuto con funzioni di Commissario Prefettizio il Cav. Steno
Pelatti di Bologna, austera figura di fascista e di amministratore. Così, per
lui da quel mese abbiamo finalmente visto, conosciuto e toccato la febbre, la
forza, l’idea del regime. Ma abbiamo ragione di ritenere che il Commissario
Prefettizio non sia stato mai e oggi meno di prima di gradimento dell’onesto
deputato, che egli cominci ad essere stufo e nauseato della persecuzione lenta,
tenace, ipocrita di questo becchino di Funzionari patriotti e puliti e che
quanto prima se va via lui (Pelatti) si debba annegare nella solita fradicia
baraonda tanto cara a fruttifera alla truppa del nostro illuminato onorevole.
«Soggiungeremo
che il Pelatti in pochi mesi di permanenza al Municipio è riuscito a cattivarsi
talmente la stima e la simpatia del pubblico (riuscendo così anche a mettere
nella voluta luce il viso legale e romano del Fascismo) che un grosso
milionario, famoso per la sua tirchieria, gli ha spontaneamente messo a
disposizione una forte somma acciocché ne faccia uso a suo gradimento senza
darne conto a chicchessia!
8
«Da anni era
stata raccolta una ingentissima somma in America e qui per la erezione di un
Monumento ai Caduti.
«La funzione
di cassiere venne assunta, manco a dirlo, dal solito
Cav. Dott. Antonio Gueli Alletti - V. Segretario
Politico.
«Il
Monumento è lì che aspetta d’essere inaugurato, tanta è stata la patriottica
sollecitudine in merito del generalissimo Riolo e consorti, Mai denari, nelle
mani nette e pure di questo caro oculista di vili, si sono come sempre
patriotticamente squagliati e non è possibile ottenere i conti. Lo stesso
generalissimo Riolo convenne talvolta in pubblico dicendo che effettivamente il
costo di quell’opera e delle altre sussidiarie risulta enorme. Noi diciamo che
per molto meno parecchia gente di qui e di altrove è andata a gustare la muffa
e l’onta delle patrie galere.
«Pertanto
denunziamo il cav. Antonio Gueli Alletti, cugino del deputato Riolo, per furto
continuato di fondi pubblici in danno del Comitato Pro-Monumento e forse per
disubbidienza agli ordini superiori di presentare conti di gestione puliti e
leggibili. Così facendo riteniamo di aver messo posto la nostra coscienza di
cittadini e di fascisti, e sentiamo di avere servito la giusta esigenza di un
pubblico che ha dato quasi 200 mila lire e da anni non può sapere come queste
siano andate a finire.
«Soggiungiamo
che su questo terreno non scenderà mai il desideratissimo oblìo, unico scampo
liberatore cui crede di affidare la propria vita e l’nore questo fortunato
frutto di carabiniere.
«Quindicimila
cittadini vaglieranno sempre sino a tanto che il ladro camuffato fascista renda
ai nostri morti l’oro versato con sangue e lacrime di tutti. Insistiamo: tutto
qui sarà possibile, ma giammai permetteremo che vampiri sfrontati come il Gueli
Alletti e C/i, attacchino le loro immondissime labbra anche sui ricordi dei
nostri DUECENTOQUARANTA EROI CADUTI PER LA PATRIA.
9
«Il 13
Settembre u.s. Domenica, in seguito ad accordi presi tra tutte le Autorità a
proposito della Festa dell’Uva, tutta la cittadinanza volle manifestare
apertamente la sua simpatia e la gioia verso il regime incarnato nel Cav.
Pelatti (Commissario Prefettizio) distribuendo ed affissando manifesti di
colore inneggianti al Duce al Prefetto, al Cav. Morello, al Commissario
Pelatti, al Fascismo. Per questa manifestazione, descritta come un delitto
presso la Prefettura di Agrigento, parecchi fascisti della prima ora, rei di
avervi preso parte col solito entusiasmo, furono diffidati dalla Questura di
Agrigento. Vi preghiamo in modo specialissimo di fare indagare su questo fatto.
«Naro, 15
Settembre dell’anno IX° E.F.
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