L’avvento dei Del Carretto
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL
CARRETTO
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Astrette in un paio di pagine sono godibili le
riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1]) su tutta
la storia racalmutese. Desolato il
quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si
amplifica forse una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e
solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità
di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro
direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole
una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di
un teologo; e di un eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena
'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte
della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara
povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a
volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura,
millenaria vicenda umana; ma era una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che
si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un monito a non indugiare sulle araldiche
traversie dei signori di Racalmuto. Eppure noi si accingiamo ugualmente a
scrivere sui Del Carretto ed altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo
negli archivi (dalla locale matrice al lontano archivio segreto del Vaticano;
da Agrigento ai ponderosi fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte,
documenti, diplomi, testamenti, codicilli che una qualche luce nuova la
proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a
superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi
locali con approssimazioni e topiche: diradarle o correggerle alla luce dei
documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo
sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il
gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca
ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei
sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di
Racalmuto è reperibile una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del
Seicento; ma solo Sciascia (vedansi Le
parrocchie di Regalpetra e Morte
dell'inquisitore), scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli
amari gravami di quella signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si
sia voluto attenere, sino alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici
dell'acerbo Tinebra Martorana. Finisce, così, col dare credibilità a vicende
inventate o pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto
gravi:
1. Il 'Girolamo terzo
Del Carretto' che «moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che
tendeva all'indipendenza del regno di Sicilia» ([2]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto.
Costui, finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada
figlia del conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese.
Ma quando fu prossimo ai cinquant'anni,([3]) forse
perché oberato dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli
denegato le esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del
Carretto ([4]); e contro la parte
abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una
causa che poteva costargli una terrificante scomunica.
Alla fine dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del
Carretto si spoglia della contea, sicuramente per sfuggire ai creditori,
facendone donazione al figlio Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto
il feudo ritorna sotto la titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con
la quale si estingue la signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5]), dunque,
non è mai esistito.
2. Giovanni V Del
Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di
Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del
Villabianca ([6]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio
del 1622 sarebbe stato perpetrato
insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7]).
3. Che Girolamo II
Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria pressione fiscale»
del terraggio e del terraggiolo, «canoni e tasse
enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo
particolarmente crudele e brigantesco» ([8]) dal conte
in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo
fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin
dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo
I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti -
quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il
terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo
del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non
dovessero il terraggiolo (e cioè due
salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello
di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla
stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a
limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice,
così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre
agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di tentare una veridica storia dei Del
Carretto? A noi pare di sì. In definitiva, anche se di vita 'appena descrivibile', si tratta pur
sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è
reperibile in letteratura sino a tutto il secolo XV. Agli albori del XVI, il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce
in una maligna stroncatura della legittimità del titolo baronale di Racalmuto
della rampante famiglia d'origine ligure.
Stando ad una nostra traduzione dal latino, ecco come tratta
i Del Carretto quel temibile inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO
RAYALMUTI" del suo «magnum capibrevium» ([9]):
In effetti, per questa terra
di Racalmuto, niente trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad
eccezione del fatto che nessun titolo risulta del modo come la predetta terra
sia venuta nelle mani ed in potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a
tal fine è soprattutto da vedere la
forma della prima alienazione della già detta terra per sapere se avvenne
legittimamente che essa fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito
per quella clausola insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che
recita: «Gli cediamo e concediamo, in forza della presente grazia, tutti i
singoli diritti che vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per
qualsiasi fatto o diritto, ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del
sacro regio demanio sulla detta terra. C'è allora da chiedersi quale causa e quale riguardo abbiano spinto
lo stesso signor Re Martino a fare la
detta cessione di diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso
non poteva minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così
la vostra Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto, ha pienamente il fondato diritto di chiedere
all'attuale possessore della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i
suoi predecessori affinché si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto
Matteo successe Giovanni del Carretto che nel privilegio o investitura venne
chiamato «figlio ed erede di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio
legittimo e naturale», nel qual caso è
di diritto da reputarsi bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della
alienazione della detta terra era tale, il titolo in base al quale poteva
estendersi l'alienazione stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale
possessore deve presentare e la sua investitura
e quella del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia
curia.
Abbiamo scritto una volta e ci pare opportuno ripeterlo qui
che, nella sua verve investigativa,
G.L. Barberi sia andato un po' oltre nell'insinuare l'illegittimità della
nascita di Giovanni I Del Carretto. Nel
processo d'investitura di Federico Del Carretto del 1453, i testi concordi
avevano dichiarato: «Item quod dictus
quondam magnificus dominus Mattheus de
Garrecto et quondam magnifica domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus
et uxor ex quibus jugalibus natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus
Joannis de Garrecto qui subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam
filius legitimus et naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad
eius mortem et de hoc fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da vendere il Barberi quando contesta
l'ammissibilità della prima investitura baronale in favore di Matteo del
Carretto dopo la cessione da parte del fratello maggiore Gerardo, primogenito,
peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine, non vi era nei primi anni del '500 - né
vi è tuttora - alcun documento dell'investitura di Giovanni II del Carretto né
del figlio Ercole, proprio quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente
annotazione lo stesso inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo
il 1519, quel diligente inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi
dell'impossessamento feudale di Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo
che non pochi dubbi nutriamo sull'attendibilità delle antiche notizie di una
terra feudale racalmutese in mano a Federico II
Chiaramonte, cui succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato
che da Costanza Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto,
il feudo sia passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi
al primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo
per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo
di Sciacca - confezionasse nella sua notoria Cartagine siciliana (Palermo 1651), testamenti ed atti notarili,
che nessuno mai ha poi avuto la ventura di reperire, per un'epopea spesso
mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio sui Del Carretto), l'accorto
Barberi ([10]) aveva così ricostruito,
sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento ed il
consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo
castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era
un tempo posseduta dal condam Antonio
del Carretto.
Morto costui, doveva
succedere nella stessa terra Gerardo del
Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti
i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del
cennato suo padre e soprattutto quei
diritti che aveva e poteva avere per
ragione di successione e di eredità da parte di Costanza di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti
dell'eredità del detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi
genitori e del condam Giacomo suo
fratello, e particolarmente i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam
Matteo del Carretto, marchese di Savona, fratello secondogenito del predetto
Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, acquista i predetti beni e diritti dal
fratello Gerardo, per il prezzo
di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per
il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il
contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello
stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come
risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto
anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re
Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della
presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che
possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel libro
dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del Carretto si
ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio fisco tutti i
suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal detto signor Re
Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della detta terra e
degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti, sentenze ed
atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio della detta
remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I], suo
figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta
terra in un diploma ove risultano inseriti
i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto condam Matteo
per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto re dato in
Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria nel
medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico
del Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale
Federico ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della
detta terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare
e con riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare
dall'ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della
detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del
detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al
presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un
reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella detta terra Giovanni del Carretto [III], suo
figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della detta
terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del signore Re
Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro dell'anno 1518
VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò sebbene il padre non avesse preso l'investitura e reso
l'omaggio entro l'anno della morte del
proprio genitore. ([11])
Quanto alla ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come
questi si astiene dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza
Chiaramonte (del padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei
fratelli Gerardo e Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per
ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma
vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in
Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani
parenti.
I Capibrevia magna
sono preziosi per la ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del
Carretto e del loro consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di
questa terra. In un punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo
in base ad essa abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria
vi fu tra Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono;
men che meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica
contemporanea (citiamo per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la
regolarità della successione di padre in figlio della baronia di Racalmuto nel
XV secolo. Francesco San Martino de Spucches, nella sua accreditata storia dei
feudi dalle origini al 1925, aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole
Del Carretto, sempre quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di
Giovanni II, a quella di Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del
tutto fallacemente «suo fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta
investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni,
Palermo restaurato, libro 4°, f.
229).» ([12])
Il Di Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627.
Era un discendente dei Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni
II e fratello di Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente
rappresentato il succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI
secolo come può vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a
Giovanni, Ercole, e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni;
a Giovanni, D. Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D.
Geronimo, al presente conte di Ragalmuto.» ([13]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti documentali sono carenti in ordine a
questa prima serie di successioni. Presso il Protonotaro del Regno è
consultabile il processo di investitura di Federico del 1453 che ci permette di
seguire la successione baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso
Federico. Si passa poi al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519
che suona, tra l'altro, come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad
Ercole e da questi allo stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il
vuoto. Senza i Capibrevia del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche
ipercritico potrà obiettare che il Barberi al riguardo parla solo per sentito
dire e Dio sa quanto menzogneri fossero
quei nobili, specie se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come
l'autore dei Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon
conto, che sul punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando nell'ambito della storiografia feudale
del Cinquecento, non mostra interesse alcuno verso quelli che dovettero
apparirgli incolti e violenti nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto.
Il colto storico è involontario protagonista (in negativo) nella ricostruzione
della storia di Racalmuto per avere
ispirato due tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita
Federico II Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto
costruire l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura
tutt’altro che accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei
Barresi. Qui il Fazello, però, è del
tutto incolpevole, giusta quanto abbiamo prima illustrato.
Allo spirare del secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni
Horozco Covarruvias y Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei
Del Carretto. La reputa alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una
conventicola di nobili, fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino
e quel che è peggio - per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa
agrigentina. Ne scrive, persino, al Papa. «Beatissimo
Padre - esordisce il prelato -
l'Episcopo di Girgente del Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto
notitia che alcune persone maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et
amministration che l'ha fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et
don Gastone del Porto, il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il
Marchese di Giuliana, il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari, il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo
Don Bartolomeo Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli
quali son parenti [.....]
Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che
s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete morto di detta sua terra
facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar
la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso
Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli
vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l'have occupato, et
per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao
tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato
seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente
della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con
intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo
regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con
tanta pacientia che la medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore
et comandao fosse restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso
Conte non ha voluto pagare quello che si deve et si tene molti migliara di
scudi et molti animali toccanti a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche,
censure et monitorij promulgati per esso exponente et che detta spoglia tocca
al exponente appare per fede che fanno li giurati, per consuetudine provata, et
per le misme lettere della giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto
et vole conoscere et haver giurisditione sopra li clerici che habitano in detta
sua terra di Raxhalmuto et vole che stiano a sua devotione privi della libertà
ecclesiastica, con poterli carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler:
Jacopo Vella che l'ha tenuto con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in
una oscura fossa in umbra mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi
anni et fin hoggi non ha voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario
generale d'esso exponente impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et
gubernatore di detta sua terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di
corda a detto clerico et essendo stato bisognoso per tal causa procedere a
monitorij et excommunica, il detto Conte fece tanto strepito appresso lo
regitore di detto Regno che fece congregare il Consiglio per farlo deliberare
che chiamasse ad esso exponente et al detto Vicario Generale et lo reprendesse,
che è stata la prima volta che in detto Regno si mettesse in difficultà la
potestà delli prelati per la potentia di detto Conte.
Con lo quale di più esso
exponente have liti civili per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di
detto archipretato.
Et di più don Cesare parente
di detto Conte, per il suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti
dalla corte episcopale di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano
innimici delli prelati.» ([14])
Il secolo XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti
contro i Del Carretto. Poi non succederà più: avremo solo libelli encomiastici
o ricognizioni genealogiche o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti,
processi di investitura, inventari, note di cronaca e comunque rispettose
testimonianze (Sciascia a parte, naturalmente).
La vera pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa
nel Seicento. Tutto sorge - a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene,
nel 1617, cavaliere gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il
Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il
secondogenito dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto.
Deve fornire le sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero
cospicue. Fra Don Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia,
è diligente. Ne vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel
fictum, vel excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata,
senza falsità o invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia
stata la base di un libro scritto poi,
nel 1630, proprio dal Baronio. ([15])
Nel frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni
che rimasero a lungo manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo.
Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato.
Come leggesi nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio
(v. nota 11), il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia
encomiastica della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva
di Palermo uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872
nella Biblioteca Storica e Letteraria di
Sicilia di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe
modo di consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di
citarla (sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra del Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo
se le vicende hanno riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato
della iniziativa di Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto
degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito
acriticamente per il rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia
medievale di Racalmuto - tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di
Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e
villani purché edificasse la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci
di pietra dal paese, in località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la
dubbia sequenza successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che
avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio
del marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del
tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle
cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di
Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240
([16]) alla famiglia
"CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile
narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo
Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come
fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in
Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci
pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile
narrativo che possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si
tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore
di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che
Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del
primo Girolamo Del Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe
confusione tra nonno e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli
storici del ramo siciliano dei Del Carretto
anche per quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre
secoli). Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti
succede Giovanni I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra
al padre, Giovanni I - sempreché non emergano documenti inediti che
rettifichino questa incerta successione. Il padre di Ercole, quello della
venuta della Madonna del Monte, è Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente
da quello che si arguisce dal passo del Mugnos). Una girandola di nomi come si
vede che non agevola la precisione e la correttezza nel tracciare la vicenda
«appena descrivibile del succedersi dei feudatari». E qui Sciascia ha ben
ragione a mostrare tedio nei confronti della trama successoria dei padroni di
Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente don Giovanni conte di
Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data della 'mesta fine' di
quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di lesa maestà.
Intervallati da più di un decennio escono a Palermo due
lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges:
il primo, Palermo antico, è del 1649,
anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il secondo, La Cartagine Siciliana, è datato 1661 [17] e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni
V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si
trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal sacerdote
di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di piaggeria
araldica. [18] ( E questo
già si disse).
Si dà il caso che
l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la indubitabile
fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai
Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag.
18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende
chiaramontane raccontate nella Cartagine
Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia
racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il
testamento di Federico II Chiaramonte è
il fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo
aliunde essere davvero la nonna di
Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il
lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in
mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura
né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero
mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture
giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali
segnano, tra il Cinquecento ed il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è
molta materia per accedere alla cronaca nera o in quella particolare cronaca
del tempo quale viene annotata nel riserbo delle proprie case da strani
diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad esempio, si occupano della famiglia Del
Carretto nell'ultimo scorcio del Cinquecento.[19] Valerio
Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a
Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20]
Eclatante il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni
IV del Carretto la sera del lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo
diarista palermitano.[21] Quando, ai
primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu
arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo
dovette essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno
dei capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa
diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria [22] che poi segue passo passo lo sviluppo
giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di
quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE
Non c’è dubbio che una potente famiglia denominata “DEL
CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di
lì: essa estese i propri domini anche a Savona e poté fregiarsi del
magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A cavallo tra i secoli
tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano al vertice del loro
potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote tra i numerosi figli.
Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano l’esistenza di un certo
Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo di marchese nel primo
decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di un tal marchese,
evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un Inveges o di
Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale inframmettono questo
personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche dei loro marchesi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei primi del trecento
lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare l’avvenente Costanza
figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu scialba figura di
comprimario, con tendenza al mendacio.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa che un avventuriero ligure si sia potuto
accasare con la giovane figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte.
E forse è proprio così che è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del
commercio marittimo dei Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli
anni, ebbe a sposare Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la
altezzosa famiglia dei Del Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il
mercante forse porta quel cognome, forse no. Fa comunque credere di essere
Antonio del Carretto, marchese di quei due centri liguri. Il matrimonio dura il
tempo necessario per generare un figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il
vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro avventuriero ligure che
questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio
nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente, nella storia
siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito acquisire un
qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di diritti
genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria non nutre
interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente boschive, che
circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del Carretto non lascia traccia storica di sé: di
lui si parla solo negli atti notarili di fine secolo, a proposito della
sistemazione successoria tra due dei suoi figli, il primogenito Gerardo e
l’irrequieto Matteo.
In quel documento emerge che Antonio II del Carretto passò la
fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di
Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone Doria, di tal
che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella terra dei propri
padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo gli agiografi
sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul fatto che il
preteso titolo era solo millantato, comunque inconsistente.
A Genova Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due
figli Gerardo e Matteo rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre
che su beni immobili e mobiliari di grossa valenza economica, persino
strabocchevole rispetto al lontano, piccolo feudo che a quel tempo era
Racalmuto.
Non sappiamo quando e dove sposa una tal Salvagia di cui
ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti
alla data di un importante documento del 12 marzo 1399. Antonio II - pare certo - lascia in eredità
ai figli:
«loca vigintiocto et
dimidium que dicuntur loca de comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu”
civitatis Janue in compagnia Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia
di navigazione genovese di San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a
quattrocento onze siciliane (una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva
raggranellato anche molti beni in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia
per diritto successorio dalla madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del
fratellastro Matteo Doria, morto piuttosto giovane. L’inventario completo può
essere quello che traspare dalla transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e
cioè:
«casale et feuda Rachalmuti
ac omnia et singula iura et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè
in
«territorio Garamuli et
Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris canonicorum civitatis Agrigenti, .... et eciam in quoddam
hospitio magno existente in civitate Agrigenti iuxta hospitium magnifici Aloysio de
Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti
Mathei ex parte orientis, casalina heredum quondam domini Frederici de
Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte occidentis et alios
confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu Jardinu di la rangi”
posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis vineis et in toto
districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte orientis viam publicam
ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris quod habet ecclesia Santi
Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis bonis feudalibus et
censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius territorio ac ... in
omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et censualibus sistentibus
in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis, et in omnibus et singulis bonis stabilibus castris villis
baronijs feudalibus et burgensaticis
sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio II sia morto a Genova è ipotesi desumibile da
questo passo del citato documento:
«dominus Gerardus
promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia instrumenta et scripturas
facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et specialiter pro baronia
Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum post mortem magnifici
quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus fuit in posse et
manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad eundem dominum
Matheum et heredes suos.»
Antonio II del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo
primogenito, Matteo rampante cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e
Giacomino (Jacobinus) morto piuttosto giovane.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è il primogenito di Antonio II del
Carretto: non sembra che questi abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro
d’interessi è Genova e là ha famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse
alla successione nel titolo feudale della baronia di Racalmuto, solo per
consentire al fratello minore Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con
la causidica e venale curia dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i
termini di quell’atto transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e
cavilli giuridici che nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due
fratelli.
Avrà ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo,
a mettere in discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che
sarebbe passato da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non
ammesso secondo il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un
concambio tra beni allogati nella lontana Genova e prerogative
giuspubblicistiche sui nostri antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che
ancor oggi è ben lungi dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli
storici locali. Quello che scrive Pirri, Inveges, Baronio e poi Girolamo III
del Carretto e poi il Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri
moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana (tralasciando gli inverosimili
Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale
a Salvo) è semplicemente fantasiosa congettura. Invero anche il Surita incorre
in un errore: per lo meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo
e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una
caterva di figli: si sa di Salvagia primogenita e portante il nome della nonna
paterna, Antonio, Nicolò, Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399 che qui si va citando, il
titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir dominus”. Per converso il
titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto designato come “magnificus et egregius d.nus Matheus miles
marchio Saone”.
In un atto dell’anno prima [23] era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone
di Racalmuto
Figlio di Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero
capostipite della baronia dei del Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse
un titolo feudale effettivo e debitamente riconosciuto che sarà
sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante nel sedicesimo
(alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea), parassitario nel
diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del diciottesimo secolo in
modo miserando.
Matteo del Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne
avuto un solo figlio maschio: Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida
la baronia di Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza
in Sicilia di Matteo del Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di
Racalmuto si attira le rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il
Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24] ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS
LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti
cum querela e statu expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru
locu di Rachalbutu tanti homini di la Licata nostri fideli quelli di lu dictu locu qui tutti
generalmente defrodaru e fichiruli assai dispiachiri; per la quali cosa si ita
est la nostra maiestati haviva causa di
meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna
affannu di chircarisi che cumandamu ki
con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki
incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li
altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la
nostra maiestati cesaria [si occupi]
plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date
in Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben
complesso e non è questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova
impigliato in tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato
dai potenti Chiaramonte di Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non
sono graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del
Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc
è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore straniero spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi
- è alquanto amletico: prima blando, ha momenti sediziosi, si riappacifica,
torna alla ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne
diviene fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di
once, solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni
racalmutesi) ”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per
quello che non è mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie,
l’usurpatore di una condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito
ad aggirare.
Certo il predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta
incastrato tra l’incudine del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino
Andrea Chiaramonte prima che finisse proprio male.
La turbolenta vita di Matteo del Carretto emerge da un
diploma ([25]) del 1395 (die XV°
novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del
grande storico siciliano Gregorio ([26]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del
1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro
primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla
ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia
di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la
minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a
prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle
- rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene
ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser
Mattheu di lu Carrectu sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a
se et soi heredi de tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu
burgensatichi, li quali foru e su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu
offitio de lu mastru rationali lu quali
per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu
Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato
nell’officio di “maestro razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere
l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da
altri; il nostro barone allora si accontenta dell’ufficio del giustiziariato di
Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma prosegue:
"Item peti chi lu dictu
misser Mattheu haia tutti li beni li quali ipso et so soru [2] havj a
Malta". Placet.
Notiamo il fatto che Matteo aveva anche una sorella con la
quale condivideva proprietà a Malta.
Item peti "Lu dictu
misser Mattheu chi in casu chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi
casi, jardini oy vigni chi fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto
serenissimo inde li faza emenda supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li
agrigentani". Placet.
E’ uno squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era
stato assediato e assoggettato ad angherie militari come saccheggi e
distruzioni. Case, giardini e vigne del barone erano stati oltremodo
danneggiati (“guastati”, alla siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la
colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto
misser Mattheu chi in casu chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi
la paci li putissi constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani
erano fuggiti; la servitù della gleba - allora sotto diversa forma
drammaticamente imposta - aveva trovato uno spiraglio per empiti di libertà.
Con la forza, ora il barone poteva andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e
ricondurli alle pesanti fatiche del lavoro dei campi coatto.
Remictimus et gratiose
relaxamus Matteo preditto omnem penam, culpam et offensam, dolum, delictum,
fraudem, malitiam et omnem crimen et spetialiter crimen lese maiestatis in
omnibus suis capitulis, depradationes, dampna homicidia et robberias et omnem
culpe causam que prefatus Mattheus commiserit hactenus et perpetraverit,
quesiverit et ordinaverit motu proprio vel alieno, tam contra personas quam
contra statum nostrarum maiestatum, nec non contra consiliarios nostros atque
fideles et vassallos atque extraneos et loca fidelia serenitatis nostre,
parcentes et indulgentes ipsi Mattheo eius uxori et filijs, familiaribus et
domesticis suis ac restituentes eosdem ad statum pristinum et honores et famam
integram tam quo ad personam quam etiam ad baronias et omnia bona feudalia et
burgensatica ubique existentia mobilia et immobilia, et specialiter ad terras
et castra predictorum Rachalmuti et ad jura et actiones sibi hactenus
competentes et ad bona omnia quocumque nomine censeantur, que omnia etiam si
opus est de novo conferimus, concedimus et donamus prefato Mattheo et suis
heredibus in perpetuum, eo modo et sub illis oneribus et servitijs quibus ea
tenebat et possidebat ante perpetrationem criminis supraditti; donationibus,
concessionibus et alienactionibus
quibuscumque de bonis ipsis aut
alterius ipsorum alicui per nostras serenitates factas quas de certa nostra
scientia plena concientia et absoluta potestate pro bono pacis et beneficio publico revocamus, irritamus et
penitus anullamus, obsistentibus nullo modo posito etiam quod in prefatis
nostris concessionibus sit adietta clausula remissionis fatta et fienda non
obstante, vel eciam si in illis nostris concessionibus diceretur quod quecumque
remissio non preiudicet illis nisi in ea
ponantur forma dittarum concessionum de verbo ad verbum vel forte alia formula
verborum sub quacumque conceptione
verborum sit in illis [3] apposita, quibus clausulis derogamus expresse de conscientia nostra et plenitudine
potestatis regie annullamus etiam et irritamus omnes sententias, editta de
certa etiam iuditia contra ipsum Mattheum
edita, lata et promulgata per magnam regiam curiam de crimine lese maiestatis
ac si contra eumdem numquam prolata fuisset.
Questa la formula assolutoria, ampia, faconda,
omnicomprensiva, rassicurante. Ancora una volta ci domandiamo: quanto è
costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione sulle esauste finanze racalmutesi?
Insuper confirmamus, laudamus et approbamus ditto Mattheo omnia et
singula privilegia per nos seu predecessores nostros eidem Mattheo vel suis
concessa seu indulta sub servitijs et conditionibus contentis in eis et
quolibet eorumdem ac etiam expressatis
iuxta modum et formam capitulorum predittorum et responsionum per nos fattarum
eisdem ut superius continetur, nostris tamen et alterius iuribus semper salvis.
La chiosa finale è ulteriormente munifica per l’avventuriero
ligure che prende inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri
antenati, della giustizia che è possibile praticare nelle plaghe del nostro
altipiano. Storia appena “descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione
politica ed accensione passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti
(forse faceva eccezione per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto”
(che poi era solo testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani
avrebbero avuto più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco
impossessamento dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è negativo però nella storia di Matteo del
Carretto: pare che s’intendesse di letteratura e addirittura di letteratura francese
(sempreché questo vuol dire un ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla
Eugenio Napoleone Messana; ma la fonte è Giuseppe Beccaria [27] che ha
modo di narrare:
«Costoro [armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e
Calcerando de Castro] e con cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro
paladino della seconda moglie di Martino, la regina Bianca, approdavano in
Sicilia nello scorcio del 1395; e nel 1396 ultima a cedere tra le città appare
Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo del Carretto, signore di Racalmuto [pag.
17] ...
Il 5 giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da
Catania a un certo Matteo del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia di Lucano in lingua francese,
di cui costui teneva un bello esemplare, allo scopo di leggerla e studiarla e
metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I
(F.72 e segg.) - 5 giugno 1397.]
Rex Siciliae etc. Consiliare
noster, La nostra maiestati ha gran plachirj di exercitarj et legirj lucanu in
franciscu, maxime per mectirini a menti alcunj di li storj; et, certificati ki
vui vi haviti unu bellu et utilj, per li presentj vi pregamu effectuare ki nj
dijati complachirj et mandarinj lu dictu lucanu, et di zo plachiriti la
excellentia nostra.
Data Cattanie sub nostro
sigillo secreto quinto Junij, quinte indictionis. Post datam. Vi diclaramu ki
per portari lu dictu libru vi mandamu lu purtaturj di la prisenti, cum lu qualj
nj mandiriti lu dictu libru. Data ut supra.
Dirigitur matheo de
carrecto.
Dominus rex mandavit mihi
notaro furtugno.
(Registro - Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. -
Archivio Stato Palermo)
Matteo del Carretto ebbe quindi a subire le vessazioni della
curia che non voleva riconoscergli i titoli nobiliari che i Martino in un primo
momento sembravano avergli consentito. E’ costretto a scomodare il fratello
Gerardo della lontana Genova, notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente
le ruote della corte e quando sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la
morte. Tocca al figlio Giovanni I continuare le beghe legali. E se in un atto
del 13 aprile del 1400 il barone capostipite appare ancora in vita, il 22
agosto del 1401 risulta già defunto. Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420:
eredita dal padre la baronia di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi
inceppi giuridici che la corte frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi
sono più dubbi che Racalmuto è feudo dei del Carretto: manca però un tassello;
non è certo se spetti a questi trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e
misto impero. La questione si riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a
favore dei del Carretto, saranno preti irriducibili quale il Figliola e
l’arciprete Campanella che la revocheranno in dubbio nella seconda metà del
’Settecento e l’avranno vinta, forse perché allora spirava l’aria illuminista
del viceré Caracciolo.
Nel processo d’investitura del successore di Giovanni,
Federico del Carretto, abbiamo dati alquanto biografici di questo barone di
Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de
hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
Giovanni del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del
Carretto; da una certa Elsa procrea quello che sarà l’erede nella baronia
Federico del Carretto.
Fu un legittimo matrimonio? La formula del processo non
lascia adito a dubbi (filius legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo
lungo (dalla presunta morte di Giovanni I attorno al 1420 alla data del
processo d’investitura di Federico caduta nel 1452 passano ben 32 anni) genera
incertezze, specie se si dà credito allo Bresc che vuole la nostra baronia
passata di mano agli Isfar, sia pure per una inverosimile dissipazione dei beni
da parte di un Giovanni I del Carretto, inopinatamente divenuto sperperatore
delle proprie fortune.
Dagli archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni
I del Carretto nella gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401
giungeva una lettera ([28]) da
Catania per la sistemazione delle pendenze fiscali.
Martino segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria
relativa ai riveli ed alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis.
Questa la situazione del giovane barone di Racalmuto: v’era la successione della baronia da Matteo
al medesimo Giovanni I; al contempo si erano accumulate due annualità scadute,
quella relativa alla settima indizione (1399) e l’altra riguardante l’ottava
(1400), nonché quella in corso (1401); ne conseguiva un carico di 40 once
d’oro. Il diploma che ha il sapore di una quietanza attesta che la posizione è
stata sistemata come segue: 30 once in
contanti e dieci a compensazione di un
mutuo a suo tempo approntato da Matteo del Carretto alla curia regale.
Nella «Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543
Henri Bresc scrive (sia pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue
sulla curva dei prezzi medi dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un
indebitamento sempre più pesante ed ad una gestione molto rigorosa del
patrimonio residuo. E ci si avvia all’intervento della monarchia e della classe
feudale nell’amministrazione dei domini fondiari e delle signorie: Giovanni del
Carretto è così privato nel 1422 della sua baronia di Racalmuto, affidata in
curatela a suo genero Gispert Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene
però citata la fonte, per cui la notizia va presa con le molle.
Nella nuova opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi
è qualcosa in più: viene precisata la fonte.
Racalmuto viene menzionato a pag: 64; 798; 803; 880; 893. La
sua baronia a pag: 417 e 872. L’argomento che qui interessa è trattato a pag.
880. La parte narrativa non mi pare fraintesa dal traduttore del 1980. In
francese, recita: «La baisse du prix de
la terre - que l’on suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la
noblesse - oblige à un endettement toujours plus grave et à une gestion très
rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers l’intervention de la
monarchie et de la classe féodale dans l’administration des domaines fonciers
et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi dépouillé en 1422 de sa
baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son gendre Gispert d’Isfar, déjà
maître de Siculiana.» E qui la nota che non trovasi nel testo del 1980: «ACA Canc. 2808, f. 54: le bon baron vivait
joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui passe, aux yeux de l’avide
catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment rahonable”». [Per
ACA Canc. s’intende: “Archivio de la
Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808 riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à 2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29].
Sarebbe da rintracciare quel foglio 54 al fine di ben ricostruire questa
vicenda della curatela della baronia di Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è
molto sdrucciolevole: forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere
lasciando piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar,
l’intraprendente genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per
sottrarre l’eredità e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti
tassazioni spagnole (donde gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc).
Resta anche saliente il fatto che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio
dei del Carretto, passa di mano e finisce in preda degli Isfar (una dote della
figlia di Giovanni del Carretto o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare quel nome che come quello di Ercole figura una sola
volta nella genealogia dei baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del
Carretto abbondano però le cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari
rami cadetti.
Non possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e
naturale di Giovanni I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi
palermitani dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi
a ridosso degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo
visto dai passi in latino sopra riferiti).
“Filius legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del
Carretto; non manca del requisito della primogenitura maschile come imposto dal
diritto feudale dell’epoca [29]. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo Dio solo
sa - non ha dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del
Carretto, suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico
ottenne dal condam Simone arcivescovo palermitano l’investitura della detta
terra per sé ed i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con
riserva dei diritti della regia curia e delle costituzioni del signor Re
Giacomo e degli altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come
risulta nel libro grande dell’anno 1453 nelle carte 565. » [30]
Nel 1410 la Sicilia visse la svolta del vuoto di potere
determinatosi per il decesso senza eredi legittimi dei due Martino e subì i
traumi dell’interstizio determinato dalla contrastata reggenze della regina
Bianca. Con il 1416 si apre la lunga gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben
42 anni. Ed è verso la fine del regno alfonsino che Federico del Carretto
s’induce a sborsare i quattrini per avere il riconoscimento della baronia di
Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli accorda quella investitura ma a queste
condizioni:
n presti il
cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
n renda
l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n restino
salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
n e del pari
restino riservate alla Corona le
miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
n resti
salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli
equipaggiamenti regi.
Per il resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è certa; Federico del Carretto era saldamente
insediato nella baronia di Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da
Alfonso d'Aragona l'11 febbraio 1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di
Palermo il contratto che lo vedeva associato nel 1451 con Mariano Agliata per
uno scambio di grano delle annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo
Lomellino consegnabile a luglio E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce
qui permet une fructueuse spéculation de soudure». In termini moderni si
parlerebbe di forward in grano. La
domiciliazione sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di
Siculiana. Fonte citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di
Palermo - Notai Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il Bresc fornisce nella citata opera un'altra
interessante notizia. Secondo quello che appare nella tavola n.° 200 di pag.
893, Federico del Carretto sarebbe stato coinvolto in una rivolta antifeudale
estesasi anche a Racalmuto. Questa volta la fonte citata è un libro: «Luigi
Genuardi, Il Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La rivolta a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi
dovette essere cosa seria se da quel momento sino al 1519 i processi
d’investitura tacciono.
Dalla ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è
motivo per dubitarne - che a Federico successe Giovanni II del Carretto. Non
sappiamo quando e come. Il Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del
1630, ne sa ben poco: «Ioannes natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis
aeternitati commendasset. Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus
dissimilem suis. In unoquoque semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole
di circostanza per colmare evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle
gesta che affidarono la famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e
noi non ne abbiamo nessuna ... memoria.
Accontentiamoci del fatto che fosse il figlio maggiore [natus maior] e che avesse partorito il successore
Ercole, il celebre falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di
cui gli archivi vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla
sua litigiosità con i sindaci di Racalmuto [31].
Apprendiamo dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli [32] che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia avvenuta quella vendita non sappiamo; il
rendiconto è del 1486 e come si è visto, non è neppure detto a quali precedenti
anni si riferisse la vicenda di cui alla posta contabile. Da quel che si legge
nel Sorge (op. cit. pag. 209 e segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11
ottobre 1467 (data in cui “venne stipulato il contratto col quale il
procuratore di Ventimiglia rivendette a Pietro Del Campo la baronia di
Mussomeli, col suo castello ...”). Le nostre successive indagini presso gli
Archivi di Palermo (in particolare “Archivio Campofranco, Fatto delle cose notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia, confiscationes bonorum et
investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in Sorge) non ci hanno
sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del Carretto e specificatamente
a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo
il nome di Federico del Carretto. Sembra dunque appurato che dal 1459 al 1489
la famiglia del Carretto di Racalmuto si sia bene ripresa dalla crisi del 1454
ed abbia avuto fondi sufficienti per acquistare il costoso feudo Rabiuni di
Mussomeli e mantenerlo anche se notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo,
Racalmuto dovette divenire un centro di abbienti: nello stesso “conto del
segreto Bonfante del 1486” (di cui in Sorge pag. 386) si accenna al possesso
feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu
di Santu Blasi - vi si annota - lu
teni Mazzullo di Alongi di la terra di Regalmuto per anni 3 videlicet quinte
Ind. 6 Ind. e 7 Ind. et pri unzi quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno
cantaro di formaggio, et una quartara di burru quolibet anno da pagarsi la
mitati a menzu Septembru et la mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi
quindici anni primi poi di Pasqua.» [33]
Il Barberi, che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del
Carretto - la fa a ridosso degli anni
della baronia di Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il
cennato Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale,
come appare dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai
l’investitura della detta terra.»
IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A
RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo,
la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure)
si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto
impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo
del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo
a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e
mezzo vero del 13 aprile 1400([34])
- abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di
Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce
sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto
chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia
religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente interesse noi in
questa sede.([35])
Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto
Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del
beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele
alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era
conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di
sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla
riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano
istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai
saraceni da parte dei
Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una
inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto
beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante
gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui
riportiamo in una nostra traduzione dal latino ([36]):
«Martino etc. Al reverendo padre GERARDO
DE FINO arciprete della terra di
Paternò, cappellano della nostra
regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli
meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori
ed ai grati riconoscimenti. E così apprezziamo quelli che sappiamo essere i morigerati vostri costumi di vita di cui v’è generale stima e nei quali noi
siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi
sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi
di Agrigento con prebenda,
redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante
in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le
nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo,
concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la
teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che
potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio
permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e
finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.
Ai nunzi ed
agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore
chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi
pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con
prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle
presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di
altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo
quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla
pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.
Noi,
infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di
Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché
alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto
future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente
e pienamente la prebenda, i redditi con
i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se
desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
Il documento fu ben presente a Gian Luca Barberi che gli tornava acconcio per ribadire
l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici
ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. ([37])
Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus
Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca
Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di
sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la
chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata
l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un
diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia
agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per
accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
GLI EBREI A RACALMUTO
La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca
(lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di
Agrigento), nella loro monumentale
opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel
1492. ([38])
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi
palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi
e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un
ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento interessante e che va qui riportato
integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per
l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra.
«Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di
Palermo, e di
pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa
militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni
prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di
raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu
casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti
colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo diabolico
spiritu ducti tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu
gettaru in una fossa et copersilu
di pagla et gictaru foco petri
et terra. la qual cosa essendo di malo
exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo et delinquenti volimo siano ben puniti et
castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et
exemplo. E pertanto confidando di la
vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per
sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo
commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu
casali et cum quilla discrepcioni
lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et
li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu
populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. et
de tucti li sopradicti cosi fariti
prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui.
comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo
digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si
trovaro alo dicto acto et quilli digiati
minari in la chitati di girgenti et carcerarili
in lu castellu di la dicta
chitati in modo chi non si
pocza di loro fuga dubitari. E perche
siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra
li altri uno gippuni in lu quali si
dichi erano cosuti chentochinquanta pezi doro farriti di lo
dicto gippuni e di tucta laltra roba libri et
scripturi diligenti
investigacioni et perquisicioni
cui li prisi et in
putiri di chi persuna sono. et
trovandoli cum ydonia et sufficiente pligiria de restituirili ad omni
simplichi requisicioni di la regia curia li restituiriti a li heredi di lu dictu
iudeu. preterea perche multi
audachi et temerari persuni li quali
poco timino la iusticia
presummino in la chitati di girgenti
parlari et usari alcuni prosuncioni et adminanzi ac
iniurij contra li iudei
di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti et scandalu
non senza disservicio di la regia
curti. a
li quali inconvenienti volendo
debitamente providiri actento chi li
iudei sono servi di la regia cammara
et non si divino lassari
indebitamente vexare ne
molestari. vi comandamo chi eciam vi
digiate conferiri in la dicta
chitati di girgenti per li lohi soliti
et consueti farriti voce preconis
emictiri banno puplico sub pena vite et publicacionis bonorum et altri a
vui meglo visti chi non sia persuna
alcuna digia ne persuna cuiusvis
condicionis et gradus chi digia palam vel oculte de die nec de
nocte intus nec extra civitatem
offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.
ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu
pichuli ne loru beni re facto verbo et opere. et chi
lo capitaneo iurati gubernaturi di li iudei et altri
officiali digiano ipsi iodey
favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite li volissi offendiri et molestari. lu quali
banno post eius pubblicacionem farriti reduchiri in scriptis ut appareat
in futurum. et si alcuno volissi
dimandari iusticia oy incusari alcunu
iudeu digia compariri davanti di nui et
farrimo debito complimento di
iusticia. in modo chi cui havira
commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in premissis et circa ea cum dependentibus
emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti
potestati per presentes. per
li quali comandamo a tutti
et singoli officiali
et persuni di la chitati nec non a lu nobili baruni officiali
et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti
et quilli vi digiano obediri et
assistiri ac prestari omni aiuto consiglio et faguri
et loro brazo si et quociens opus erit et per vos fuerint
requisiti nec contraveniant auti aliquem
contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio
fisco applicandarum. vui vero in la
execucioni di li dicti cosi vi haviriti et
portariti in tali modo et omni quilla diligencia chi pozati
meritatamente essiri inanzi nui comandatu. Dat. panormi die VII Iulij
VIIe Indicionis M° CCCCLXXIIII°.
post datam. constituimo a vui dicto
nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis octo pro
quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat. ut supra.
Lop Ximen Durrea» ([39])
In piena
estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra
il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore)
Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione
dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era
avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice
e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro
Raneri. Ma tanti
altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad
alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito,
bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la
lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in
una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non sembra
che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque,
trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro
recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra
avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro - una enormità per i tempi e le condizioni
della Racalmuto di allora -
e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro
Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà
appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e
fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario
viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi
di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di
moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non
va trascurata l’eventualità che addirittura si consumata una vendetta
collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale
relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno
carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle
carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga. La
città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono
in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non
tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e
quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli
ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa
privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle
racalmutesi.
E’ uno
spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la
condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare
nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò
connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare
nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi
in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel
quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo.
Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e,
pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad
appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è
accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere
locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La
corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
RACALMUTO
NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400
Poco abbiamo
sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche scisti documentale emerge dalle
carte dei del Carretto. Un truce episodio di antisemitismo getta sinistra luce
sull’intolleranza razziale di Racalmuto a ridosso dalla tristemente nota
cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di fine secolo. Il medioevo si
chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di morte, con misfatti e
depredazioni letali che richiamano il biblico Caino, sotto un’intermittente
signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed insediata al Cannone oppure
dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte della opulenta sede dei vescovi
agrigentini.
Pochi tratti
della più generale vicenda storica possono illuminarci del contesto in cui
visse il contado racalmutese in quel torno di tempo.
Sino al 1412
i Martino – con quel tragico succedere del padre al giovane figlio morto in
guerra per un empito di personale orgoglio -
mantengono un sia pur scialbo barlume d’indipendenza della nazione
siciliana. Poi, nel 1413, la successione di Alfonso stronca ogni velleità
indipendentista - per unione personale
del regno di Sicilia con quello aragonese, si scrive. «Il ristagno della vita
morale – catoneggia il De Stefano [40]
- congiunto al mancato ricambio della
vita economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città
non avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era
frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza
anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione
e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi stessi
in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e
passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano.
Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze
sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del
pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere
all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che
centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a
maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi
della mutata situazione internazionale.»
La Sicilia
perde la sua indipendenza senza eroismi, senza azioni epiche, priva di ogni
furore, di ogni empito vuoi ribellistico vuoi di generosa dedizione. Il
parlamento del 1413 si limita a chiedere
che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo figlio. Non fu esaudito.
Venne persino disattesa l’istanza che almeno a siciliano fosse affidato il
governo.
Tralasciamo
qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a segnalare che nel 1415 venne il primo
viceré, l’infante Giovanni, duca di Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento
siciliano tentò di acclamare proprio il viceré, ma l’infante Giovanni
rifiutò.
Sotto
Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco terminologico che può abbagliare,
ma la sostanza resta: scatta un sistema impositivo in favore di un dominatore
straniero che non s’incentra più sulla “colletta”, sibbene – più graziosamente
– sul “donativo”, con il che si voleva far credere che si trattasse di
erogazione volontaria per pubbliche finalità. Era comunque un’imposta
straordinaria che si aggiungeva al reticolo fiscale, specie a livello locale,
con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie vescovili e strutture parrocchiali
esigevano puntigliosamente.
Migliora
l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la condizione di pubblica sicurezza
non sempre poté fare l’auspicato salto di qualità. «Un complesso di cause - scrive sempre il De Stefano [41] - l’impedì: la concessione del mero e misto
impero, prima provvisoria e limitata ai grandi feudatari, con la riserva della
necessità, per il suo esercizio, dell’atto sovrano della concessione,
dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del rispetto della procedura; la
difesa vigile e gelosa del privilegio del foro locale da parte delle città
demaniali, non solo per le cause civili ma anche per le penali, e tanto per le
cause riguardanti i singoli cittadini che il comune; […] la dilatazione del
foro militare a spese del civile; i conflitti di giurisdizione, gli abusi di
autorità, l’influsso di parentele che legavano i funzionari ai “gentiluomini” e
ai principali cittadini; e, infine, il privilegio baronale dell’«affidare», per
cui “delinquentes, malfactores, omicidas et debitores et bannitos et alios” si
rifugiavano in “locki de baruni et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»
Con fermezza
Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta memorabile la decisione regia
nel conculcare l’eresia che un minorita, nel 1434, andava diffondendo nel
trapanese. Fu arrestato il minorita visto che propalava «multa enormia
concernentia contra catholicam fidem.»
Alfonso
(1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo tempo, per quarantadue
anni: morto il re, il successore, nel 1460, per decisione sovrana annunciata
alle Cortes, volle che l’Isola entrasse formalmente a far parte della monarchia
spagnola. Con nobiltà d’intenti, ma con palese faziosità, il De Stefano [42]
crede che la Sicilia vi entrò «forte della sua coscienza autonomistica, con
un’anima e un pensiero suoi propri saldamente confermati che i secoli di quella
appartenenza nulla tolsero o poco modificarono del suo patrimonio spirituale.
La cultura giuridica e l’erudizione storica la tennero salda nelle sue
istituzioni particolari; quella umanistica conservò tenaci i suoi spirituali
con la grande nazione italiana.»
Giovanni
d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove sommosse popolari causate da
carestie e odi baronali (come il famoso caso di Sciacca del 1459), nonché
l’efferata uccisione della baronessa di Militello, donna Aldonza Santapau,
sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono quei ventuno
anni di regno aragonese.
Nel 1475 fu
creato un organo speciale, detto deputazione del regno, per l’esecuzione delle
decisioni parlamentari. Solo che il potere del parlamento andò sempre più
decadendo e i rappresentanti dei tre bracci (militare o baronale, ecclesiastico
e demaniale) disertavano le adunanze e si facevano spesso rappresentare dai
loro delegati.
Succede a
Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico (1479-1516) che sposa Isabella di
Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di notevole personalità furono i
viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes (1479-1488), Ferdinando De
Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).
Il
Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il vicereame di Gaspare De Spes,
nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della Pegna. Al tempo del viceré
Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo 1492, si ha l’espulsione degli ebrei dalla Sicilia, con danni gravi
per l’economia e la cultura.
In tale contesto,
Racalmuto fa raramente capolino, come si è detto. La sua vicenda storica, in
questa congiuntura, si fonde e finisce per coincidere con quella tutta baronale
dei Del Carretto. Almeno per la prima metà del secolo, occorre mutuare le
ricerche di Henri Bresc[43] per
capire che cosa ha significato il regime aragonese e come questo si sia
riflesso sul baronaggio (e di conseguenza su Racalmuto).
Con lo storico
francese dobbiamo convenire che gli anni
1390-1416 introdussero nella storia del feudalesimo una rottura evidente: le
grandi signorie sono domate e solo due conti, Ventimiglia e Centelle di
Collesano e Cabrera di Modica tennero testa alla monarchia. Il sogno feudale
finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che di rare donazioni che i signori
della terra fanno
ai loro fedeli. [44] Il sistema feudale si semplifica;
una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona ormai ogni infrazione della
legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente in mano agli spagnoli.
La medesima disciplina regola i rapporti fra l’aristocrazia feudale, città
demaniali e chiesa; la Monarchia controlla l’espansione dei patrimoni
nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei sui interessi strategici e, in ogni caso, fa
pagare cara ogni sua elargizione. Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni
eccellenti. [45] La nobiltà feudale, largamente
rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento catalano ad opera dei
Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che caratterizzò la fine del
XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa più le usurpazioni facili
delle rendite del Patrimonio reale, ora
difese da un’amministrazione castigliana strettamente legata alla casa
d’Oltremare ed un indebitamento cronico in crescita insopportabile a causa
degli sperperi per doti insufflate. Nel servizio reale la concorrenza dei
giuristi e dei tecnici dell’amministrazione limita i profitti ed i posti
prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola. Essa difenderà duramente i
suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi eguali, fornendo a sua volta
chierici e letterati – conforme al modello ispanico. [46]
Questi ostacoli, la rivalità di una
giovane nobiltà burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una
classe di notabili della piccola borghesia comunale, determinano un
ripiegamento sui valori sicuri, sulla terra e sul potere signorile.
Una buona gestione patrimoniale, il
consenso generale della pubblica opinione e della monarchia che vedono nella classe
feudale l’asse insostituibile della società e dello Stato, la ripresa economica
dopo una pausa di più di 50 anni,[47]
permettono al feudalesimo siciliano di superare senza troppo danno il punto di
svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo – e questo è
l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la crescita
demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo incerto e
dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria situazione
economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di questo
raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento delle
rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi
dell’interno. [48] Nel 1513, Giovan Luca
Barberi farà una descrizione dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato
e superato largamente le rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36
feudi non abitati nelle due fonti che riportano la rendita – sulla quale poggia l’imposta
feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si alzerà al 190% nel Val Demone e al
193,8% in Val di Noto; infine esso sarà minore in Val di Mazara, dove il
campione comprende senza dubbio dei feudi minori e smembrati nel corso di
questi due secoli. Una cosa è sicura: le modifiche della geografia feudale
sono, in effetti, numerose.
L’interesse dell’aristocrazia feudale e delle famiglie
della nobiltà urbana alle rendite terriere non spiega solo la corsa ai “latifondi” che riesplode, dopo la fase di
stanca avutasi tra il 1350 ed il 1390, quando solo una dozzina di donazioni di
feudi ai monasteri aveva avuto corso, e ritorna l’antico costume della
rifeudalizzazione dei beni ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari
e nobili di estrazione modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere
una investitura di beni ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi
spogliano puntualmente vescovadi e monasteri delle relative rendite e si
adoperano per la risoluzioni di antichi contratti.[49] Ora hanno maggior fiducia in loro stessi ed estendono
la loro supremazia incrementando il possesso delle terre, rafforzando a proprio
beneficio i vincoli fondiari ed accrescendo il peso dello stato feudale
terriero.
Del pari, dopo una dura battaglia
contro i loro vassalli, i baroni titolari di “terre” abitate assicurano una
amministrazione efficace dei loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente
vittoriosi da questi conflitti, la classe baronale estende il potere feudale su
numerose “università” demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità,
tutto un patrimonio strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti
della lunga e costosa impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più
perseguito: quello di ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi
della catastrofe demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa
dell’abitato rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un
incremento della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione
della giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche
salma di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai
nuovi abitanti.
Questa nobiltà che
accetta la pace col re, non rinuncia né al prestigio della cavalleria né al
dominio violento. Se, nella mischia feudale, le grandi famiglie cozzano fra
loro, la nobiltà terriera tiene comunque al suo stile di vita, alla sua
autorità, ai propri vassalli, altera del suo rango. Ma non si lascia andare
alle “serrate”: questa aristocrazia resta aperta all’ascesa dei nobili
municipali e dei mercanti-banchieri. Piuttosto: autorità, distinzione,
prestigio attirano, affascinano. E il rinnovamento delle famiglie permette la
mobilità del capitale feudale e, spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le
oligarchie municipali e l’aristocrazia fondiaria.
Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero, riscontro nelle
vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi, esplicitarsi ed
evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del Carretto. E di ciò abbiamo già detto a sufficienza..
[1]) Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto
- Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[2]) Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[3])
Anche se non disponiamo dell'atto di nascita, siamo quasi certi che Girolamo,
ultimo di tal nome dei Del Carretto, sia nato nel 1648. Lo desumiamo da un
documento della Gancia (Anno 1651 vol.
609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.) che vuole: «Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto,
cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte; figli don
Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido
Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di
Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000; inoltre rende
ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382
e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze
5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di
Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del
Carretto onze 500 per tanto prestatoci.» La moglie di Girolamo, Melchiorra
Lanza di Trabia, era più vecchia di quasi 18 anni. E ciò se crediamo all'atto
di morte che si custodisce presso la Matrice di Racalmuto (libro dei morti
1694-1707), ove si annota: Die 10 Aprilis
1701 ind.nis 9^ Ecc.ma Domina D. Melchiora Lanza uxor ecc.mi
Principis comitis Racalmuti Hieronimi del Carretto annorum 70 circiter, in
communione s. matris eccl.ae, in sua
propria domo h.t. Racalmuti, animam Deo reddidit. Cuius corpus sepultum in
Ecclesia sanctae Mariae de Jesu in venerabili Cap.a Sanctissimi Rosarii huius
terrae Racalmuti et praesidio omnium
sacramentorum munita, et roborata, per me D. Fabritium Signorino Archipraesb.
huius matricis Eccl.ae terrae
praedictae.
[4]) Ampia
è l'esenzione fiscale dell'ultimo barone come può vedersi da questa
disposizione del testamento del 1560:
Item dictus dominus testator voluit et mandavit, ac retulit et refert
spectabili domino D. Hieronymo de Carrecto eius filio et successori in dicta
Baronia et pheudis, quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae
Terrae Racalmuti sint et esse debeant immunes, liberi et exempti ab omnibus et
singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili domino eius
successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum et olei, et
hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et
mandavit.
[5]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[6]) F.M.
EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile
- PARTE II. libro I - DELLA SICILIA
NOBILE [VILLA BIANCA]
[7]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[8]) Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[9]) Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori
- a cura di Giovanna Staleri Ragusa - Università degli Studi di Palermo -
Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di Storia del Diritto - Palermo 1989,
pag. 445 (f. del ms. 528v).
[10])
Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. -
pag. 526 e segg.
[11])
G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel
1491. Gli viene quindi affidato il compito di svolgere le inquisitiones che gli serviranno per la compilazione dei
Capibrevia.
Le sue indagini sono svolte
prevalentemente sui registri della Cancelleria. Scrive G. Staleri Ragusa: «E
dai polverosi archivi vengono fuori i personaggi di due secoli di storia
siciliana, dei quali il Barberi non manca di interpretare i caratteri.... La morte di Ferdinando nel 1516 - soggiunge
l'A. (pag. 14) - poneva fine alle
preoccupazioni di feudatari, ecclesiastici e ufficiali del Regno, che sentivano
il loro potere insidiato dal Maestro Notaro: la sua opera alla quale, pure,
andava facendo piccole aggiunte annotandoci le ulteriori successioni nei feudi
o nei benefici ecclesiastici, non pare avere sortito l'effetto che Ferdinando
aveva sperato nel suo disegno.
Ferdinando, in effetti,
aveva affidato quelle ricerche d'archivio ad una persona di sua fiducia qual
era il Barberi per avere materiale di scambio - ed anche di ricatto - per
ricostituire il patrimonio della Corona.» Il terribile e puntiglioso
Inquisitore non è certo tenero verso i nobili, specie con le sue allegationes.
Quella che stila contro i
Del Carretto poteva, invero, procurargli una scopettonata. Si vede che a quel tempo i baroni di Racalmuto non
avevano raggiunto l'alterigia del secondo conte, quel Giovanni del Carretto IV,
mandante nell'omicidio di La Cannita.
[12]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari
di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su
documenti ed atti ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro
783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[13]) Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla
edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa
parte del manoscritto che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio
1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[14]) Archivio
Segreto Vaticano - SACRA
CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI - Anno
1599 - pos. C-L
[15]) D.
Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma -
7.4.L.31.
[16]) Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed
antiche del fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi,
Palermo 1647, 1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni
editore, pagg. 237-240 del Libro I].
[17]) D. Agostino Inveges - Palermo antico - Palermo 1649 e D.
Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine Siciliana, historia in due
libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni. 1661.
[18]) Illuminato Peri, Per la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo -
Girgenti porto del sale e del grano - in Antichità ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I -
Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[19]) Diario della città di Palermo dai mss.
di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag. 136.
[20]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in
Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag.
283.
[21]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di
Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e
ss.
[22]) Diario delle cose occorse nella città di
Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto
dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca
Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6,
7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[23] )
Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die
primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio
Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO -
PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[24] )
ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[25] )
Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[26] )
Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a
capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute
nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico,
caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da
uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i
capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e
fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto
reciso delle mani spesse e corte.
Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano
tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[27] )
Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[28] )
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE
GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 39 - (Anni 1401-1402) pag. 232
recto.
[29] )
Invero nella conferma della baronia del 1453, il maggiorascato sembra certo se
crediamo al seguente passo di un documento facente parte del fondo Palagonia:
« Quo Joanne mortuo, dictus
Fridericus tamquam eius filius legitimus et naturalis, ac mayor natu de eius
patre in dicto Casali, et bonis aliter feudalibus successerit, et succedere
voluerit, et vult, et ab eo tunc tenuerit,
et possiderit, et de praesenti tenet, et possidet fructus, redditus, et
proventus percipiendo et percepi faciendo,
[viene posta istanza] ut dignaremur dicto Friderico, et suis heredibus, et
successoribus dictum Casalem, et alia bona feudalia quae dictum eius praesente
posessa confirmare, eiusque supplicationi benignius inclinati nec non
considerantes servitia tam praedecessores eiusque Friderici serv. Dominis Petro
principibus divae recordationis quam
quod ipsum Fridericum Domino Regi praestita, queque prestat ad praesens,
et in antea speramus volente Domino meliora Et quia nobis de possessione,
filiatione, successione et morte, ac mayornatu praedictis constitit quod testes
numero competenti super hoc seré productos eidem Friderico et suis heredibus,
et successoribus cum debito tamen consueto militari servitio, .. videlicet
unciae viginti pro qualibet equo armato juxta usum et consuetudinem dicti Regni
secundum annuos redditus et proventus/ quod servitium dicto Friderico in vim
praesentia constitutus se et heredes, et successores suos curiae dicti Regni
Siciliae sponte obtulit praestiturum
Praestans pro inde fidelitatis debitum juramentum faciensque homagium
manibus, et ore comendata juxta sacrarum constitutionum dicti Regni Siciliae
continentiam, et tenorem Casale praedictum Racalmuti, et alia bona feudalia
superius expressata juxta formam praeinserti privilegij confirmamus, itaque
ipse Fridericus et heres sui Casale, et
feuda praedicta in capite à Regia Curia teneant, et cognoscant, et ipse Curiae
et Militari servitio teneantur Vivantque jure francorum, videlicet quod mayor
natu minoribus fratribus, et coheredibus suis, ac masculus foemenis
praeferatur, temptis tamen et reservatis, que à praesente confirmatione omnino
exstendimus juribus lignaminum seque sint in pertinentijs dictorum casalis et feudorum,
que Curie debentur, nec non minerijs, salinis, solatis forestis, et defensis
antiquis, que sunt de regio Demanio, et dominio et ... ... ex antiquo ispsi
demanio spectantia eisdem Demanio, et dominio volumus reservari, si vero in
pertinentijs dictorum casalis, et feudorum
sint aliqui barones, et feudatarij, qui pro baronis et feudis eorum
servire in capite Regiae Curiae teneantur eidem Curiae serviant, et tenentur,
quodque illi quibus in pertinentijs dictorum Casalis et feudorum habent aliqua
jura possessionis et bona que Petro regis divi recordij aut dominum Regem
concessa fuerint in dicta pertinentia dictorum casalis et feudorum, vel aliquis
ipsorum pretenderent usque ad mare jus, dominium, et proprietas, locis
littoris, et maritime pertinentiarum ipsarum in quantum à mari intra terram per
factum ipse pertinentia praetendaretur, tamquam ex antiquo ad regiam dignitatem
spectantiam eisdem demanio, et dominio volumus reservari, et quod ad ea omnia,
et singula occasione praesentis confirmationis ipse Fridericus, et heredes sui
non extendant aliquatenus manus suas, et quod animalia omnia et equitature
arariarum, massariarum, et marescallarum regiarum in pertinentijs dictorum
casalis et feudorum libere sumere valeant pascum, et quod ipse Fridericus, et
heredes et successores sui sint .. Regni
Siciliae et sub regia fidelitate, et dominio habitent, et morentur d. domini
nostri Regis heredum et successorum suorum, nec non constitutionibus, et
capitulis serenissimi Domini [12] Regis
.., olim Aragonum, et Siciliae Regis, dum eidem Regno prefuit editis,
aliorumque Retroregum, et domini nostri Regis ... militari servitio, juribus
Curiae, et cuiuslibet alterius semper salvis in cuius rej testimonium paresens
privilegium fieri jussimus Regio magno Sigillo impendenti munitum.»
(Datum in Urbe Felici Panormi: Die XI mensis februarij V^ ind. 1453.
Simon Archiepiscopus Panormitanus Dominus Praesidens mandavit mihi Gerardo
Alliata Procuratori et vidit illud Joannes Chominus Adnotatus Fisci.
Ex Cancelleria Regni Siciliae extratta est.- Coll. Salva.
Franciscus Grassus Panormitanus Not.)
[30]) vedi
anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE
N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[31] ) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro
dei Vescovi 1512-20 - f. 284v 285r
Documento datato 17 maggio 1512 -
XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di
Racalmuto Vito de Grachio, Francesco de Bona, Jacobo de Mulé, Philippo Fanara,
Salvatore Casuchia, Grabiele La Licata, Orlando de Messana, presbitero Franesco
La Licata e Stephano de Santa Lucia, a seguito di istanze avanzate alla Gran
Regia Curia. L'incarico promana dal
Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto. Emerge l'interessamento
del magnifico chierico Paolo del
Carretto. Di risalto il rito della consegna delle singole copie degli atti
vescovili ai sindaci racalmutesi.
[32] ) Giuseppe Sorge - Mussomeli, dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni
ristampe siciliane Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[33] ) Il
conto venne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentatus Pan. 18: Maij
1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco Post.m.”
[34]) Ci
riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo
è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr.
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE
GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
[35])
Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa
lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La
storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri
giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare, ci riferiamo ai
seguenti punti dell'opera:
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio
terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO,
ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi
tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato.
Egli morì in Girgenti;
il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da
notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione. [XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto,
successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza
ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze,
Antonino del CARRETTO, M.se di Savona
e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale
ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti
... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di
Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania,
agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine
Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO successe
nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre,
per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da
FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA
di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il
primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli;
i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu
investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV
Indizione 1392. (R. Cancelleria,
libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva
nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi
nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo
impreciso]. .»
[36])
Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398
[Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone]
«18. can. S. Margaritae [10° Canonicato di Santa Margherita in Racalmuto], di ejus fundatione in oppido Rhalmuti vide supra ad ann. 1108. an.
1398. ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex Martinus dedit Gerardo de Fimio in
lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib. f. 316. habet mediam decimam
oppidi unc. 56.»
Espliciti
in questo passo i richiami ai documenti della Cancelleria e dei
Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi si
può consultare l'opera pubblicata 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - BENEFICIA ECCLESIASTICA - a
cura di Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi
si legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS
PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam
proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra
serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine
sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis
vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa
canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero
Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius
domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI.
inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: 'Auctoritate apostolica in hac parte
nobis sufficienter concessa' notandum est quod Sicilie reges a summis pontificibus
perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia regni
beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii patronatus,
verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem spectantia
contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est.
Nunc autem anno 1511 currente.»
[38])
CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli
sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA
- edito dalla SOCIETA' SICILIANA
PER LA STORIA DI SICILIA - Documenti
Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°
12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX -
Palermo 7 luglio 1474, Ind. VII.)
[40] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo,
UL Bari, 1977, p. 68.
[41] ) ibidem, p. 73.
[42] ) ibidem, p. 83.
[43] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicile – 1300-1450.
– Palermo 1986 p. 865 e ss.
[44] )
Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua Talamanca a suo fratello
Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che è stata approvata dal re,
e, verso il 1459, quella del feudo Taya
ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[45] )
Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale (per i matrimoni
dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454, accorda a pagamento
permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella per la mano della
figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA, Canc. 2843, f. 131 vo).
Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32 sono catalani, 5
napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino siciliano); quasi tutti
sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono addetti alla corte. Le
giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le vedove sono 16 (di cui
9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere contraddittorie sono inviate,
qualche volta successivamente, qualche volta lo stesso giorno, in favore di
diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva contemporaneamente il
matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni Scorna, con Roberto
Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni Peris di Amantea!;
ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[46] ) I
dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV secolo, da cavalieri
urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo, Manfredo di Milite); il
movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio, Antonio
Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del Castello,
Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco Aricio), a
Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna, Enrico Crispo).
La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[47] )
Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano una sistemazione in
Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per un’alleanza matrimoniale con
il marchese Russo, I Cardona di Collesano a Reggio, i Siscar ad Aiello. La
conquista del regno napoletano ha così permesso di ridurre in Sicilia la
concorrenza, all’inizio molto forte, tra l’aristocrazia immigrata e le vecchie
famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo, re di Napoli
(1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[48] )
Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza, passa da 22 onze a 27; ASP
ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431, l’affitto non era che di 17
once: 58% d’aumento in 5 anni.
[49] )
Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo l’enfiteusi perpetua di Brucato,
i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori, offrono, nel 1465, un po’ di più
del canone abituale (70 once e 140 salme di grano, in luogo di 40 once e di 150
salme): incassarono così la differenza tra la rendita in aumento ed il canone
bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f. 40 sq.
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