Calogero Taverna
La donna del Mossad
CONCOMITANZE
Alla Farnesina
d’improvviso fu sgomento: il vecchio guru, che querulo saccente malefico lo era
da tempo, si impossessò del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone,
lucide d’oro, allicchittate[1] e poi gli anodini arazzi, gli squallori
di quadri vetusti ma stinti, il sapore insomma di una politica estera in
minuetto e servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì,
il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo … almeno sino
ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici
salti di quantità del votare a fiume in piena per quel tale Berlusconi, di
colpo segnarono il cambio di tutta intera l’Italia. Era, ora, bifronte:
spezzata provinciale e svagata all’interno; insensa, minuscola acquiescente,
fuori degli storici confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla
poteva. Il primo ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici
verso i già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza
ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle sue antiche
crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna che quando vergine
fosse adusa a concedere la retroposta entratura. Aveva imposto abiure umilianti
e remissive, anche il V*** s’era lasciato andare ad assiomatiche
inconciliabilità tra comunismo e democrazia: poté diventare sindaco di Roma per
momentanea permissione di monsignor Rubicchi arcigno modenese in eterno astio
verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure benedettine del
nonantolese. Durò poco il canuto Violo e sparì di scena: sapeva d’affari e gli
esperti suoi familiari seppero arricchire nell’interscambio astuto con gli
astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio
del 29 giugno, quando Roma in impercettibile devozione verso i suoi santi
padroni Pietro e Paolo non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per la lasciva
contemplazione degli ancora bianchicci glutei di ragazzotte romane dell’ultima
generazione, alte poppute auree su trampoli rastremati come di gazzelle umane.
Il guru, umidiccio di sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi
spenti per defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
-
ma che cavolo mi porti?
-
dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore
Michetti.
-
ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora
trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui
anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli
… che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci
amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
Il dottor
Giliberti, Mefisto nell’eloquio dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero:
nero, con abito sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica
nera; sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
-
non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel
telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua
eccellenza, prima che altri lo notassero.
Quell’eccellenza
non si poteva più usare, non si doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru
piaceva. Se era trasmigrato a destra da Lotta continua (perché da giovane il
guru lì militò) non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli
ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante carriera del
guru approdava al lido dell’ «eccellenza».
Il guru si
ammansì di colpo:
-
dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa?
Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei …
versetti, è proprio stramba…
Il guru ebbe un
moto di autocompiacimento per quel “versetti”…. si sentì eruditissimo come di
sapiente “in utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso per
quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in seminario.
Restituì il
foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:
Fino
all’anglicismo e-mail il guru
arrivava; Mefisto neppure lì.
-
Che ne faccio?
Un fuggevole
istante per il solito tic: aggiustare gli occhiali sul naso mentre la fronte si
aggrottava.
- Passalo agli infami.
-
Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia
essere preciso il Mefisto.
-
Ed a chi? Se no?
Tornò ingrugnito
il guru.
Era pomeriggio
duro, non tanto per il caldo che l’incombente temporale non riusciva ad
addolcire, ma per l’inane gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor
ministro degli esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee
fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i santi
padroni di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma avvenente, nella pausa
antimeridiana doveva sobbarcarsi alla “fellatio in ore” in quella che nel gergo
ministeriale si definiva l’ora erotica,
dalle 14 alle 15. Sciamavano dal ministero le frotte impiegatizie per
l’onanistico food nei bar dei
dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto grado che usufruivano di
stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano nel loro ufficio con la
collaboratrice e consumavano l’ora erotica, appunto.
Il guru, prima
da direttore generale ed ora da ministro, si avvaleva della bella Elisa, cui
incombeva il bacio della lascivia. Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non
era Clinton. Nessun timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto
semifloscio stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa
alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi. Conservava
la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse al guru annientato da
collera gelosa l’imene violato dal suo priapo biondo, massiccio ed
inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli uomini di Tom Ponzi non ebbero
nulla di impudico da riferire. Mentivano?
E quel
pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il disagio dell’estate
incipiente in una Roma al caldo-umido ed il telex biblico snervavano il guru
come in un preludio tetro e cupo del meritato castigo eterno. Già, il guru
all’occiduo stagionare della vita era tornato cattolico, roso da scrupoli
intrisi di religiosa tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare
l’ultima assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in
cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe forse
salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che fortuna nascere nella
terra protestante dell’America clintoniana.
La porta si
riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto sibilò:
-
come glielo mando?
Il guru
trattenne l’insolenza scurrile che l’esser distratto da pensieri di chiesa e da
rabbie dell’eros stava per ingozzarlo con furia di non facile controllo:
-
ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi
raccomando: sii conciso!
-
Dovrò portargliela alla firma?
-
Firma tu, firmala tu stesso.
* *
*
Così quella
“nota d’accompagno” è lì ora sul mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla Zingarella.
E qui è d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti. Dottore in
legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in preda alla
mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati gialli che la gente
(pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia notorietà – oh quanto l’avrei
voluta da giovane! – è divenuta mitica; si è accoppiata – con mio disappunto –
autorità indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero, persino
Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si avvalgono di
me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per dipanare i misteri dei
tanti, troppi omicidi che si consumano in questa Italia di destra, che di
efferati fatti di sangue, specie a sfondo politico, non dovrebbe registrarne di
taluna sorta.
La “nota
d’accompagno” reca in agghindata grafia la firma di M. Giliberti. Non
scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto. Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello?
Marzio? Massimo? Metello? Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel
cognome tanto italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare
il Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti (tanto
modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma non ne ho voglia
alcuna. Diciamo: non mi va.
Vorreste sapere
se vi sono le tante note di colore che prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure
gli ipotattici incisi, alla Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi,
s’intende) e i miei irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche
se non vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si data
29 giugno duemila…..
Siete curiosi e
vorreste sapere dell’altro? Con comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad
un giallo di consueta fattura.
Sto rimestando carte,
appunti, rapporti, ritagli, missive, libri ed ho già consultato l’intero
hard-disk del dottore Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di
mutarne i connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare
Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il dottore
Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo. In che senso? Ma
nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli,
Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle
opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi
peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili,
contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria
o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il
vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni
collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina,
nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti,
specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
* *
*
A trovarlo
riverso sul tavolinetto di ignobile fattura era stato il fratello il pomeriggio
del 19 gennaio del 20…, quando messosi in apprensione per una lunga giornata di
silenzio, anche a telefono, si era deciso ad andare a vedere che cosa fosse
successo. Era giunto tra fanghi quasi invalicabili alla cascina di contrada
Bovo, aveva bussato e non avendo risposto alcuno, col piccolo chiavino [2]
di cui aveva copia aprì il portoncino in metallo dal colore stinto ed ebbe la
violenta visione:
-
Liù! – gridò e dopo il balzo in vorticosa angoscia
toccò di spalla il fratello per averne la tragica conferma della morte.
Non pensò,
certo, a morte violenta, credette a “morti subbita”: del resto anche la vecchia
mamma se ne era andata per improvviso cedimento cardiaco. Spostò il cadavere -
ormai irrigidito, pendula la bocca, stravolti gli occhi - nel letto della
stanza accanto, disfatto come d’abitudine per quel settantenne fratello, non
privo d’ingegno ma nevrotico, eccentrico, loquace e senzadio. Solo, scosso ed
anche lui non più giovanissimo, Girolamo La Matina Calello, stentò parecchio in
quelle mortuarie incombenze. Alla fine si decise: telefonò alla moglie in
paese. Insieme al figlio giunsero quasi all’istante. Il figlio sentenziò:
-
non toccate nulla! C’è qualcosa che non mi convince.
Innanzi tutto chiamiamo il medico.
Laureato in
legge da poco, aveva conseguito autorevolezza in famiglia.
Faceva
impressione sul tavolinetto dozzinale la tazzina di caffè ancora piena fino a
tre quarti; frantumata per terra un’altra analoga tazzina, senza caffè sparso
per terra, comunque.
Non tardò molto
il dottore, don Lillì Merillo. Politico sempre fallimentare, come medico
curante, bravino lo era davvero. Girò e rigirò il cadavere. Tentennò, scosse
varie volte il capo canuto ma folto di capelli. Sentenziò:
-
il dottore non è morto d’infarto: è stato avvelenato …
addirittura ieri.
Il giorno prima
aveva diluviato a Racalmuto: dalla Montagna e da Bovo fiumare d’acqua erano
scese a valle; avevano trovato occluso il ponte del Carmine. Colpa di un
vecchio tecnico comunale che aveva fatto otturare il canaletto sotto la strada
provinciale. Il deflusso di acque dalle terre di Troisi aveva sradicato alberi
e con il pietrisco in crescita si eresse sbarramento all’entratura del
sottopassaggio del ponte ferroviario, ché follia era stata nell’Ottocento
quella barriera sopraelevata per fare accedere alla stazione gli sbuffanti ma
stracchi treni dell’epoca. Il fratello del tecnico ancor oggi vuol teorizzare
dovute ad imperizia dei costruttori delle case popolari le allaganti
ostruzioni.
Girolamo pensò
che don Lillì non potesse dunque che sbagliare. Il medico che si era seduto
sulla poltroncina color giallo senape in rudimentale rivestimento di un’anima
in ferro – erano sedie e poltrone comprate d’estate all’imbocco di Canicattì –
si scosse dal suo apparente letargo, non chiese neppure permesso, alzò la
cornetta del telefono, ed ora flemmatico come si addice ad un professionista,
sia pure racalmutese, quasi dettò:
-
qui alla casina di Bovo del dottore Aurelio La Matina
Calello, ho trovato il medesimo deceduto per avvelenamento. Ignota al momento
la natura del veleno. Ritengo risalire al tardo pomeriggio di ieri sera il
decesso.
Imbarazzo,
silenzi, grugniti all’altro capo del telefono.
-
Lascio tutto come l’ho trovato … non faccio toccare
nulla. Penserà la vostra scientifica agli accertamenti del caso. Avvisate il
giudice per la rimozione del cadavere.
La moglie di
Girolamo svenne.
* * *
Rovistando tra
le carte del dottor Aurelio La Matina Calello, m’imbatto in un plico bianco a
doppia tasca. Do not fold – Non piegare ed analoga dicitura in
ebraico che naturalmente non so decifrare: Provenienza: Israele Tel Aviv, par
avion. Leggo dietro: SENDER :
Melissa Cohen, address 325
Haligilboa St. , code 65223 Tel-Aviv country ISRAEL .
-
Chi cavolo sarà codesta Melissa Cohen?
Allegata vi è
una rivista patinata in ebraico, come dire in turco per me. Ma un foglio è in
italiano, sgangherato quanto si voglia ma in italiano. Del resto magari sapessi
scrivere io in ebraico sia pure sgangherato. Leggo:
Caro Francesco,
Ti ringraziamo di cuore per un bellissimo pommerigio
a Racalmuto: ci hai convinti nel modo pi’ assoluto che c’è chi ama la sua
terra, in Sicilia. Speriamo di rivederti qualche giorno in Sicilia, o, chi sa,
forse in Israele? Purtroppo l’articolo sulla Sicilia (pagine 90-94 della
revista rinchiusa, “Massa Acher”) troverai un po’ difficile leggerlo … comunque
c’è anche una foto di Racalmuto, vediamo se la trovi! Grazie anchora e tanti
saluti, anche da parte di Dubi. Melissa Cohen etc.
La foto la trovo
subito ed è splendida. La precede una sfilza di mirabili squarci fiorentini con
la solita iconografia rinascimentale. Che birichina quella Melissa a propinare
alle pudiche lettrici della terra della casta Susanna la tizianesca “Venere
d’Urbino”, la cui masturbazione femminea, sfacciata ed irridente, è ostensa con
maliziosissima impudicizia. E non solo, «bellezza tizianesca, bellezza fisica,
colta nell’intimità della sua alcova, nella sua naturale esistenza» come
singultiano i nostri scolastici testi d’arte.
E qui mi vien
voglia di pensare ai fatti nostri, alla nostra cultura cattolica, all’ultimo
catechismo del cardinale Ruini, a questa nostra cappa di moralismo sessuofobo
di vaticanesca ispirazione.
Tiziano qui non
si diletta nella pornografia? Proprio come oggi la chiesa censura: «la pornografia consiste nel sottrarre
all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli
deliberatamente a terze persone. Offende la castità perché snatura l’atto
coniugale, dono intimo l’uno all’altro. Lede gravemente la dignità di coloro
che vi si prestano (attori, commercianti, pubblico) poiché l’uno diventa per
l’altro l’oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno: Immerge
gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. E’ una colpa grave. Le
autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali
pornografici » (Ciò recita con sussiego catechistico l’art. 2354).
Caro Berlusconi,
beccati questa: non tu (che il gusto del sesso ce l’hai) ma il tuo evirato
improbabile successore chissà se non finisca per accogliere l’anatema del
successore di Ruini e pronuba, magari, la casta pronipotina del castissimo
Formigoni – sia pure incinta, o appunto perché incinta – non metta all’indice
il pornografo Tiziano e svelli dagli Uffici cotanto materiale masturbatorio,
addirittura femminile. Lo mandiamo a Tel-Aviv. Mi piacerebbe, al mio
consanguineo Gheddafi (ma quello è costretto a ripudiare le immagini, se no,
che arabo sarebbe?).
Non v’è rimedio:
l’art. 2521 sancisce il pudore senza limiti «Esso è una parte integrante della
temperanza.» Tiziano non è di sicuro un “temperato”. «Il pudore preserva
l’intimità della persona». Tiziano ha voglia di diffondere, in tempi senza foto
e senza cinema, le più intime voglie erotica di una bagascia insoddisfatta.
«Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto» E l’intimo
piacere poche donne hanno voglia di svelare, ancora ai nostri pecaminosissimi
giorni. «E’ ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.» La Venere
d’Urbino, tutto al contrario. «Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla
dignità delle persone e della loro unione.» Caro Berlusconi, come “autorità
civile” acclamata dagli ecclesiastici, non hai scampo. La condanna è da
cassazione: svelli il Tiziano.
Tralascio di
commentare la botticelliana nascita di Venere, tutta cerulea, conchigliata,
presa da sublimità erotica, di certo splendida nudità ridestativa del fomite
carnale e del deliquio visivo. Irridente per la tenebrosa bellezza delle
figliole di Sion: nigra sum sed formosa. Giammai, però, glauche ispiratrici di
concupiscenza, botticelliane. Ma in Israele non v’è censura? Non v’è l’analogo
della morale cattolica? La licenziosità quali spazi di permissibilità consegue?
Mi accorgo, a
questo punto, di avere sfogliato la rivista nel verso sbagliato: dovrei girarla
dalla fine all’inizio come si addice ad una pubblicazione ebraica. Non ne ho
più voglia. Mi soffermo solo sulla fotografia del panorama racalmutese. Vi è
allegato un appunto del dottor Aurelio La Matina Calello. Invero è uno squarcio
della lunga missiva inviata alla negroide Melissa (che se è quella che appare
nella rivista è un’appetitosa gnocca, insomma una gran cucchia[3]
).
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