Si dà il caso che son trent’anni e più che mi dedico a
rinvenire ogni e più piccola notiziola della cronaca antica di Racalmuto. Non
la chiamo né storia né microstoria per
non turbare i risvegli di un certo Leonardo da Regalpetra che dall’avello di Santa Maria sussurra: ce
ne ricorderemo di questo paese. Ho ben presente come giubilò il suo pur caro
amico E.N. Messana il cui ponderoso volume di memorie racalmutesi erano per lo
schizzinoso Leonardo niente di più che una fitta accolta di insense notizie;
cosa diversa era la sequela di rimembranze contenuta nel libricino introvabile
di un tal Tinebra che gli parve di nobilitarsi aggiungendo al proprio il
cognome della mamma per fare apparire che poteva vantare un doppio cognome.
Qualcosa del genere sta succedendo in questi giorni con un tal Fabrizio,
teatrante.
In questo paese non mancano i plagiari : non è raro che cose
mie già da tempo pubblicate appaiono in recenti libercoli sotto altro nome. A
richiesta di giustificazioni, mi si risponde candidamente: ma io sapevo che
queste erano cose che il Professore aveva girato a padre Puma. E lo stile? Sì,
è evidente è suo!
Sì, io sono fiero di essere capace di scrivere IPOTATTICO
adottando ed abusando di termini ”desueti ed antiquati” come ebbe a censurarmi
un fiero desueto ed antiquato. Così sono
inconfondibile e chi si appropria dello scritto mio appare nella sua risibile
pochezza.
Sennonché mio fratello mi mostra un libricino stampato nel
1764 che parla della vinuta di la bedda matri di lu munti: una ghiottoneria.
Sua moglie abitava in una vecchia casa che ha tutta l’aria di essere stata la pretensiosa
dimora dell’arciprete Mantione, promosso poi a canonico per essere rimosso dal
più lucroso ministero parrocchiale. Quel libricino – prezioso – si trovava tra
vecchissime carte ammucchiate in soffitta.
Rarità libraria, preziosità per quanto attiene alla saga del
Monte. Lo sbircio, lo studio, ne apprezzo il valore storico, comprendo che i
preti non è vero che avevano voglia di fabbricare fanfaluche per far piacere a
Voltaire e a Sciascia degli amici della
noce pubblicati dallo Sciandrelli. Faccio fotocopia di alcuni squarci e li
passo a padre Mattina. Un signore ne
viene in possesso e ne fa una sua felice pubblicazione attribuendo la proprietà
della rarità bibliografica a un rinomato ingegnere della sua orbita familiare.
A richiesta di rettifica …. Campa cavallo.
A me di parlare della Madonna del Monte non va troppo perché
… porta sfiga. Non ci credete? Il primo
vero autore P.F. EMMANUELLO MARIA CATALANOTTO, poeta dialettale non spregevole,
finì presto ignoto. Il Caruselli che gli voleva fare le pulci finì malato di
cuore e stizzoso persino col Pitrè. E. N. Messana non ebbe lunga vita. Tinebra
Martorana, neanche. Il prof. Macaluso che ebbe voglia di ammodernare il testo
non po’ dirsi che sia morto vecchio. E poi – spaventoso – padre Salvo morì come morì e manco padre Morreale S.J.
godette dei tristi affanni della vecchiaia. Che dire di Sciascia? Meglio
tacere: forse doveva tacere nelle Parrocchie, forse non doveva celiare negli
AMICI DELLA NOCE. I tristi affanni della
vecchiaia invero li sta facendo durare il Professore Nalbone, ma non credo che
sia da invidiare. Per ora ci salviamo quelli che qualcosa abbia modetto ma con
molta moderazione o parlando d’altro e così né io né la professoressa Martorana
possiamo lamentarci.
Ma a questo punto il dovere di storico mi impone di
rischiare: che Belzebù me la mandi buona.
Mi limito alla statua marmorea. In una gita con la Banca
d’Italia scopro che in effetti uno scultore artigiano a nome Massa vi fu
davvero in Toscana e ciò suffraga la tesi di un storico illustre che ne parla
come di un abile sbozzatore di Madonne venuto dai dintorni di Viareggio. Una copia di copie finì dunque a Racalmuto e posta in una
chiesa che giammai si dedicò a Santa Lucia.
Nel1608 è fuori di dubbio che in quella chiesa sul
monticciolo a Nord-Ovest del paese quella “imago” ci stava e stava sopra
l’altare maggiore. Un vescovo fece una delle sue visite d’obbligo a seguito dei
dettami del Concilio di Trento e dettò al suo amanuense questa sorta di
inventariazione: “ visitavit altare maius super quo est imago marmorea S.mae
Virginis, ornata ed admodum deaurata”.
Che una statua di marmo ricoperta di un ampio manto di seta e
ricolma di monili aurei facesse colpo sui derelitti villani di una Racalmuto in
declino per vicende di terraggio e di terraggiolo è più che spiegabile. I
miracoli o le dicerie di portenti divini si moltiplicarono tanto da far dire in
un’altra visita pastorale del 1686 che la sacra effigie era per il vescovo
“miracolosissima imago” e il superlativo assoluto era arditezza anche per un
Ordinario che fosse rispettoso del Cadice di Diritto Canonico.
Ci dispiace per Messana o per Tinebra Martorana , ma nel 1760
un tal Francesco Vinci nulla ebbe a scrivere di suo sulla Madonna. Poetò invece
a San Giuliano il foresto agostiniano CATALANOTTO che aveva voglia di
propiziarsi i favori (economici) della Signora D. RAFFAELLA MARIA GAETANI, E
BUGLIO, duchessa Gaetani, e contessa di Racalmuto, a quella insomma che Nino
Vassallo vorrebbe, non si sa perché, demonizzare. Qui tanto pia mi appare.
La tanto conclamata saga di una Madonna recalcitrante ad
andarsene da Racalmuto ha contorni più contenuti, più credibili. Scrive in versi siciliani il buon padre
Catalanotto “che un CERTO devoto dotto, santo e pio, il quale doveva portare a
Castronovo la Bedda Matri di lu grandi Diu, si trovò a passare per Racalmuto.
Questo devoto s’era infiammato di un certo simulacro di Maria, tanto bello da
fare innamorare anche il nobile conte di questa contea. Questo signore lo
voleva lasciato (il simulacro) disposto
a dare al Devoto tutto quanto possedeva.
Ma avendo rifiutato il tutto, si voleva portare via la Statua. Ma il
meschino nulla poté fare e restò sconsolato in mezzo alla via, perché i buoi
non poterono tirare il bel simulacro di Maria, segno evidente che voleva
restare con i racalmutesi in compagnia. Di fatto non si volle allontanare da
Racalmuto la Statua pia. Vedendo il Devoto questo stupore fece altri nove buoi
raddoppiare, affinché con gran forza e con vigore la statua potessero portare.
Ma restò il Meschino con dolore che manco loro poterono tirare. E ciò permise
alla fine il Signore e perse il simulacro ed i denari.”
Rappresentata così la Venuta del Monte si resta forse con la
bocca asciutta: niente conte Ercole del Carretto, niente Eugenio Gioene, non vi
può essere il meneghino Ambrogio, Arsenio servo Racalmutese del conte è
alquanto funesto, meglio perderlo. Fernando è invece nome aulico di certa
crestomazia racalmutese dell’ottocento e del novecento, non ce lo vedo però
nelle umili vesti del servitore sia pure comitale.
Che resta dunque? Abbiamo i bei versi del nostro Piero Carbone:
godiamoceli ogni seconda domenica di Luglio. Non ditemi però che è devota
pagina di storia (micro) di Racalmuto.
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