Introduzione
Forse
risponde al vero che un tale Antonino del Carretto, un avventuriero ligure,
ebbe a circuire la giovane Costanza Chiaramonte e farsi sposare - lui vecchio e
prossimo a morire - spendendo l’altisonante titolo di marchese di Finale e di
Savona negli anni di esordio del turbolento secolo XIV. Forse davvero Costanza
Chiaramonte, figlia primogenita del rampante cadetto Federico II Chiaramonte,
era bella, anzi bellissima - secondo quel che la pretesca fantasia del
pruriginoso Inveges ci ha propinato nel suo Cartagine
Siciliana. Forse davvero il matrimonio fu fecondato dalla nascita di un
ennesimo Antonino del Carretto. Forse è attendibile che - non tanto la baronia
di Racalmuto, di sicuro inesistente a quel tempo - ma almeno fertili lembi di
terra alla Menta, a Garamoli, al Roveto furono dati in dote come beni
“burgensatici” da Federico II Chiaramonte a codesto nipotino, mezzo siculo e
mezzo ligure. Il solito Inveges lo attesta: ma era un falsario come il grande
storico Illuminato Peri ampiamente dimostra.
Di questi
oscuri esordi della signoria dei del Carretto su Racalmuto, quel che di certo
abbiamo è un processo d’investitura - la cui datazione sicura deve farsi
risalire al 1400 - che il prof. Giuseppe Nalbone, solo negli anni ’novanta di
questo secolo, ha avuto il destro di riesumare dai polverosi archivi di Stato
di Palermo.
Scopo, intento, occorrenza ed altro sono
talmente trasparenti e svelano in modo così esplicito la voglia di accreditare
titoli nobiliari dinanzi gli Aragonesi che resta particolarmente ostico
travalicare i limiti di una fioca credibilità a quel vantare ascendenze
altisonanti da parte di Giovanni, figlio del cadetto Matteo del Carretto, rapace
esattore delle imposte dei Martino, i noti avventurieri dell’ “avara povertà di
Catalogna” che piombarono sull’imbelle Sicilia allo spirare del XIV secolo.
A noi -
racalmutesi - quegli intrighi matrimoniali esattoriali predatori e via
discorrendo interessano perché sono la nostra storia, quella vera e non quella
oleografica che dal Tinebra Martorana ai vari storici locali, non escluso
Leonardo Sciascia, sembra deliziare i nostri compaesani e deliziarli tanto
maggiormente quanto più cervellotico è il costrutto fantasioso.
Giuseppe
Nalbone ha speso tempo e denaro per raccogliere presso gli archivi di Palermo
la documentazione veridica sui del Carretto. Quella documentazione più vetusta
ed originale - la documentazione dei processi d’investitura - viene qui
riprodotta, sia pure nell’interno dell’accluso cd-rom. Carta canta e villan
dorme: non si può fantasticare quando ostici diplomi vengono - ed è arduo -
disvelati. Addio del Carretto alle prese con vergini violate prima di passare a
giuste nozze per un inesistente ius primae noctis; addio servi fedifraghi
strumenti di uxoricidi a comando di principesche padrone dalle propensioni
all’adulterio irridente con i propri giovani stallieri; addio frati omicidi;
addio preti in “alumbramiento; addio
terraggi e terraggioli vessatori;
addio secrete ove innumeri villici sparivano e morivano come cani. Addio
storielle che Tinebra e Messana ci hanno fatto credere come verità
inoppugnabili. Addio moralismo sciasciano.
Un quadro -
ora inquietante, ora banalmente normale, ora esplicativo, ora feudalmente
complesso - affiora con tasselli variamente policromi a testimoniare una vita a
Racalmuto sotto il dominio consueto per l’epoca dei baroni del Carretto che
verso la fine del Cinquecento dopo un paio di secoli di egemonia (a dire il
vero spesso illuminata) hanno voglia di farsi attribuire un’arma ancor più
prestigiosa, di farsi nominare conti di Racalmuto, mancando però l’obiettivo di
aver riconosciuto titolo di marchesato che infondatamente in esordio avevano
contrabbandato.
Certo se
Eugenio Napoleone Messana aveva in qualcuno fatto sorgere un familiare orgoglio
per un nobile matrimonio tra Scipione Savatteri ed un’improbabile figlia dei
del Carretto, la documentazione che andiamo a pubblicare spazza via ogni
briciola di credibilità di una tale ingenua favoletta.
E quel che si scrive su data e struttura del
Castello chiaramontano svanisce miseramente, come diviene commiserevole ogni
sicumera sulla storia del Castelluccio.
Già, carta
canta e villan dorme!
Parte Prima
UN EXCURSUS DELLA
STORIA RACALMUTESE FINO ALL’ASSUNZIONE DEL TITOLO DI CONTE DA PARTE DEI DEL
CARRETTO
Dai barlumi
dell’archeologia locale affiora, flebile ma con contorni alquanto netti,
l’insediamento sicano di quattromila anni fa lungo l’intero arco collinare sud
est e sud ovest racalmutese.
Verso il
13° secolo a.C., quella civiltà sembra eclissarsi, forse per l’esodo, dovuto a
paura per i naviganti micenei, verso le più protettive montagne di Milena,
Bompensiere e Montedoro. Arrivano quindi i greci, ma Racalmuto è ancora deserta
ed impervia per attirare i coloni agragantini. Solo verso il VII secolo la
moneta con il granchio di Agragas sembra far capolino nelle fertili plaghe del
nostro altipiano. Poi, si diventa meri subalterni della potente polis, così come
per tutta l’epoca romana. Tra il II ed il IV secolo d.C., da Commodo in poi, le
risorse solfifere vengono apprezzate e sfruttate, come stanno a documentare le
tegulae o tabulae sulfuris, che l’avv. Giuseppe Picone ebbe la ventura di
scoprire per primo verso la fine del secolo XIX.
Allo
spirare dell’Impero romano, la feracità del suolo racalmutese sembra avere
attirato sia pure fugacemente le brame espoliatrici di Genserico e dei suoi
Vandali; ma tocca ai Bizantini stabilire insediamenti significativi in località
Grotticelle e dintorni. Monete di Tiberio II e di Heracleone saranno poi
rinvenute, nel 1940, in contrada Montagna, ma per caso ed in luogo che
all’epoca era forse disabitato: un nascondiglio, dunque, sicuro e lontano da
occhi indiscreti.
Giungono gli
Arabi: sono guerrieri, disdegnosi di sede fissa, violenti e ladroni. A
Racalmuto trovano ben poco e subito si dileguano. Subentrano i Berberi,
contadini e pacifici: ebbero forse a convivere con i mansueti bizantini del
luogo.
I Normanni
del Conte Ruggero, 600 cavalleggeri - pare, depredarono il territorio
dell’altipiano ove sembra sorgesse un imprecisato Racel... a dire del Malaterra. Nel XII secolo, il gaito saraceno
Chamuth, signore della vicino Naro, con molta probabilità aveva il dominio del
nostro Altipiano e forse vi eresse un fortilizio, un Rahal: da qui il toponimo Rahal
Chamuth, a seguire l’acuta congettura del Garufi. I Saraceni furono, specie
sotto Federico II, ribelli e violenti: imprigionarono persino il vescovo
agrigentino Ursone. Federico II non fu tenero verso di loro, deportò a Lucera i
caporioni; gli altri - i più pavidi ed i meno appariscenti - si dispersero
assumendo nomi latineggianti o fingendo antica professione di fede cattolica.
Per uno o due decenni Racalmuto rimase comunque deserta. Un tale della famiglia
Musca - forse Federico Musca - poté appropriarsi del territorio, portarvi
fuggiaschi, verosimilmente ex saraceni, dotarli di terra e mezzi di lavoro e
far sorgere un nuovo casale. Il suddetto Federico Musca finì però con l’osteggiare
il vincitore Carlo d’Angiò e costui lo spogliò di quel casale assegnandolo nel
1271 a tal Pietro Negrello di Belmonte: un diploma degli archivi angioini ne
specificava - prima di esser distrutto dai nazisti nel 1943 - termini, modalità
e dettagli. Finiva, per altro verso, quella che possiamo considerare la
preistoria racalmutese: un periodo buio ed incerto che ebbe a protrarsi per
circa 33 secoli. Quel che per tal periodo si è scritto - ed è tanto ed anche
dalla penna più illustre del luogo - è solo cervellotica congettura. Possiamo
solo credere a quei radi reperti archeologici di cui si ha conoscenza ed a quel
poco, spesso nulla, che riescono a svelarci di tanto defluire umano degli
antichi racalmutesi.
Con i
Vespri Siciliani, il casale di Racalmuto acquisisce importanza e ruolo perché
può fornire tasse e balzelli alla famelica pirateria di un Pietro d’Aragona. Il
centro abitato non contava più di 75 fuochi (circa 265 abitanti). Nel 1376 i
fuochi erano aumentati a 136 (circa 480 abitanti). Frattanto, Racalmuto - a
dire del Fazello - era stato requisito da Federico di Chiaramonte che pare vi
abbia costruito le torri del castello nella prima decade del 1300. Si sa che
Costanza Chiaramonte, unica figlia di Federico, fu l’erede universale. Che
abbia sposato prima il girovago ligure Antonio del Carretto e poi, divenuta
vedova, l’avventuriero Brancaleone Doria - forse quello dannato all’inferno da
Dante - si dice e qualche documento degli archivi di Stato palermitani sembra
confermarlo. Resta comunque certo che sino al 1396 Racalmuto è dominio dei
Chiaramonte, in particolare del celebre figlio illegittimo Manfredi Chiaramonte
- lo attestano le carte dell’Archivio Segreto Vaticano.
Tocca a
Matteo del Carretto rimpossessarsi del feudo, farne una baronia e farsene
riconoscere titolare dal re Martino, naturalmente previo esborso di sonanti
once. Il figlio Giovanni primo del Carretto è ancor più rapace del padre.
Nel 1404,
Racalmuto è ancora fermo a 150 fuochi (540 abitanti). Un secolo dopo nel 1505,
al tempo della “venuta” della Madonna del Monte, la sua popolazione sale a 473
fuochi (1670 abitanti). Ora domina il barone di Racalmuto Ercole del Carretto.
Il figlio Giovanni II esordisce con un delitto: commissiona a tal Giacchetto di
Naro la strage dei Barresi di Castronovo per vendicare l’uccisione del fratello
Paolo, antenato di Vincenzo di Giovanni che nei primi decenni del 1600 scriverà
una complessa trattazione su Palermo
Restaurato, ove rammenterà quei truci e letali eventi. Dopo, rimorsi e
crisi religiose spingeranno quel del Carretto a costruire chiese e conventi ed
a chiamare a Racalmuto carmelitani e francescani per una redenzione spirituale
sua e del suo popolo. Certo, mero e misto impero, terraggio e terraggiolo ed
una pletora d’imposte e tasse feudali fioccarono sui racalmutesi. Un notaio
venne chiamato da Agrigento per i tanti atti del barone (e dei suoi vassalli):
era quel tale Jacopo Damiano che alla morte di Giovanni II del Carretto finì
sotto l’Inquisizione.
A metà del
secolo, nel 1548, la popolazione sale a n.° 896 fuochi (3163 abitanti), segno
che la politica del barone non era poi così devastante come sembra voler far
credere Leonardo Sciascia.
Quello che
non fa il barone, lo fa invece la peste del 1576: la popolazione racalmutese
viene decimata. Se crediamo ad un documento del fondo Palagonia, dai 5279
abitanti del 1570 si sarebbe passati ad appena n.° 2400 abitanti nel 1577. Ciò
non è credibile e si deve alla voglia tutta fiscale di impietosire il viceré
per una contrazione delle “tande” in mora e di quelle in atto. Di sfuggita, va
detto che la tentata evasione fiscale del 1577 non ebbe effetto. Le “tande” si
basavano sulla tassa del macinato: la drastica contrazione della popolazione
non consentiva un gettito bastevole a fronteggiare la soffocante tassazione del
governo spagnolo. Questo non ebbe pietà e la Universitas fu costretta ad indebitarsi con gli stessi esattori, al
contempo strozzini.
Sia come
sia, nel 1593 Racalmuto sembra risorta: gli abitanti ora sono in numero di
4448: ovviamente molti fuggiaschi erano rientrati e, soprattutto, si doveva
trovare conveniente emigrare dai centri viciniori per sistemarsi nella
neo-contea di Racalmuto, le cui condizioni sociali, economiche e giuridiche in
definitiva tornavano appetibili.
La questione feudale racalmutese
Si attaglia
perfettamente a Racalmuto quanto ebbe a teorizzare Francesco De Stefano nel
1948, [1] specie allorché afferma: «.. nemmeno, ci fu
in origine, un baronaggio esigente ed esorbitante, perché né Ruggero I, né
Ruggero II lasciarono impiantare la grande feudalità.» Se è vero che in Sicilia
vi fu un processo inverso rispetto all’organizzazione feudale anglosassone, e
se questo processo inizia con un baronaggio “tarpato”, baronaggio che solo dopo
il 1154 poté sfrenarsi, altrettanto deve congetturarsi per il nostro paese. Ed
a ben vedere, bisogna aspettare la metà del Cinquecento per vedere Racalmuto
quale centro totalmente feudale, con un barone prima, e un conte dopo, veri domini, forti ormai del mero e misto
impero (invero ambiguamente comprato a suon di once attorno al 1550).
Quando nel
1282, Racalmuto è una “universitas”, è proprio come asserisce il De Stefano[2]:
faceva parte delle “universitates” cioè a dire di quegli organismi riconosciuti come
tali nel diploma del 1268, per cui «ai giustizieri era ordinato che “magistri
iurati” e “judices in singulas partes regni creari debeant” e che le universitates delle terre demaniali judices, e le feudali ed ecclesiastiche iuratos “in magistros juratos de
communi voto omnium eligant.”» Alla luce di tale insegnamento, dai diplomi dei
Vespri possiamo desumere questa veste giuridica del casale di Racalmuto: esso
era demaniale, non aveva baroni ed eleggeva i suoi giudici (judices) con voto unanime dei suoi
abitanti. Eccone una fonte: ci riferiamo al passo del 26 gennaio 1283 ind. XI,
sopra illustrato, in cui «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis
armigeris peditibus quatuor». Se il paese ha giudici e non giurati, vuol dire
dunque che non è ancora feudale, oppure, per la latitanza di quel Negrello di
Belmonte napoletano, il casale da baronia è stato derubricato in terra
demaniale.
La dizione
del documento è anche tale da suggerirci l’ipotesi che il “castrum” (il
castello) non fosse ancora sorto. E ciò porta acqua alla tesi del Fazello che
vuole le due torri feudali edificate da Federico Chiaramonte poco prima del
1311.
Come e
perché Federico Chiaramonte si fosse impossessato di Racalmuto e che cosa
l’abbia spinto a costruire quelle due inutili torre cilindriche è sinora un
mistero. L’Inveges, lo storico secentesco che ci tramanda testamenti e cenni al
riguardo, è relativamente attendibile, avendo più interesse ad accattivarsi il
favore dei potenti del tempo che voglia di rispettare la verità storica. Ebbe o
non ebbe gli originali di quegli atti notarili che dichiara di possedere? O non
si trattò di una falsificazione, visto che nessuno è riuscito dopo a
rintracciare quelle fonti?
Federico
Chiaramonte va comunque considerato il primo feudatario di Racalmuto, almeno
dopo il trambusto avvenuto a cavallo dei Vespri. Da espungere dalla verità
storica le varie apocrife baronie dei Malconvenant, degli Abrignano, dei
Barresi ed ancor di più di Brancaleone Doria che lo pseudo Muscia fa nostro
barone addirittura prima di essere nato e cioè nel 1296.
Il primo
riconoscimento ufficiale della baronia di Racalmuto è del 1396 e riguarda un
diploma dei Martino a favore di Matteo del Carretto. Al di là delle incertezze
delle fonti diplomatiche del XIV secolo - che si avranno modo di scandagliare -
il nostro paese è incontrovertibilmente terra feudale baronale solo a partire
da tale data: prima sono solo fantasie e sprovvedutezze di autori e scrittori
locali, ivi compresi il sommo narratore di Regalpetra e gli avveduti ecclesiastici
dediti alla storia paesana.
GENESI ED AFFERMAZIONE DELLA BARONIA DEI DEL CARRETTO A
RACALMUTO
Dalle brume
degli esordi racalmutesi della schiatta dei Del Carretto affiora qualche
piccola scisti veritiera: chi fosse davvero quell’Antonio I Del Carretto che da
Savona giunge ad Agrigento per sposare Costanza, quest’unica figlia del cadetto
Federico Chiaramonte, non sappiamo. Possiamo escludere ogni effettiva egemonia
sul feudo di Racalmuto. Non sappiamo neppure se il figlio Antonio II del
Carretto sia stato davvero investito della baronia o se, alla morte di Matteo
Doria, il titolo sia pervenuto ai carretteschi. E ad investigare sugli intrecci
nobiliari di quel tempo, ci perderemmo in congetture di nessuna fondatezza
storica. Il padre Caruselli, Tinebra Martorana, Eugenio Napoleone Messana,
questo l’hanno già fatto e chi prova diletto nelle fantasiose enfiature
araldiche può farvi ricorso.
E’ fragile
l’ipotesi secondo la quale esistette un Antonio I Del Carretto - andato sposo a
Costanza Chiaramonte – e neppure è indubitabile che la coppia abbia avuto un
figlio, Antonio II Del Carretto. Vi è una sola fonte e sono le carte
dell’investitura di Matteo Del Carretto, che, tutte vere o totalmente o
parzialmente falsificate che siano, risalgono allo spirare del quattordicesimo
secolo, circa 100 anni dopo il succedersi degli eventi.
Su quelle
carte torneremo in seguito per le nostre esigenze narrative: qui ci basta
richiamare l’attenzione sulla circostanza di un
Antonio II Del Carretto trasmigrato a Genova (e non a Savona) e lì vi ha
fatto fortuna in compagnie di navigazioni. Strano che costui non ritenga di
rivendicare la sua quota del marchesato di Finale e Savona e non dare fastidio
- neppure con la sua presenza fisica - agli altri coeredi della sua stessa famiglia
che continua nell’egemonia di quei luoghi liguri senza neppure un
coinvolgimento formale di codesto figlio di un sedicente legittimo titolare.
Quasi certo
che i Del Carretto provengano dal marchesato di Finale e Savona: i tre fratelli
Corrado, Enrico ed Antonio sembra che si siano divisi quel marchesato in tre
parti; a Corrado andò Millesimo, ad Enrico Novello e ad Antonio Finale. Ciò
secondo un atto che sarebbe stato stipulato dal notaio Aicardi nel 1268. I tre
“terzieri” succedevano, pro quota, al padre Giacomo del Carretto, marchese di
Savona e signore di Finale, che è presente dal 1239 al 1263. Sposato con tale
C... contessa di Savona, morì nel 1263. [3]
Su Antonio
del Carretto, il Silla fornisce questi ragguagli: «marchese di Savona e signore
di Finale, conferma il decreto del padre emesso nel 1258 circa l’abitato in
Ripa-Maris; fiorì nel 1263; nel 1292 stipula ancora le famose convenzioni con
Genova. Da Agnese ebbe Enrico, che sposa Catterina dei M.si di Clavesana;
Antonio che sposa Costanza di Chiaramonte.» Se bene intendiamo quell’autore,
Antonio Senior del Carretto avrebbe generato anche Giorgio che diviene marchese
di Savona e signore di Finale. E’ presente nel 1337, anno in cui gli uomini di
Calizzato gli prestarono giuramento di fedeltà. Ottenne l’investitura dei feudi
nel 1355. Da Venezia del Carretto ebbe quattro figli dei quali costei appare
tutrice nel 1361. Gli succede il figlio Lazzarino I. E’ quindi la volta del
nipote Lazzarino II operante alla fine del secolo, come da atto del 1397.
A seguire
questa ricostruzione araldica, ben tre Antonio del Carretto si succedono dal
1258 al 1390 c.a. Quello che abbiamo indicato come Antonio del Carretto I -
quello andato sposo a Costanza Chiaramonte - sarebbe in effetti il secondo di
tal nome; poi Antonio II, cui si
accredita la prima baronia di Racalmuto.
Ma tornando
al nostro Antonio II Del Carretto, questi nasce qualche anno dopo il 1307, se
crediamo all’Inveges. Diviene orfano di padre molto giovane (poco tempo prima
del 1320?). Erediterebbe dalla madre Racalmuto nel 1344 per atto del Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30
d'Agosto 12. Ind. 1344, stando alle notizie dell’Inveges.
L’atto di
permuta tra i fratelli Gerardo e Matteo del Carretto vuole codesto Antonio del
Carretto emigrato ad un certo punto a Genova, come detto. Là si sarebbe
arricchito con partecipazioni in compagnie navali ed altro e là sarebbe morto
(forse attorno al 1370).
La svolta del 1374
Si
accredita autorevolmente la tesi di un Manfredi Chiaramonte, bastardo, nelle
cui mani «per via di fortunate combinazioni, si [venne] a riunire .. l’ingente
patrimonio della casa.» [4] Non sembra
potersi revocare in dubbio che «al 1374 in fatti egli [Manfredi Chiaramonte]
ereditava dal cugino Giovanni il contado di Chiaramonte e Caccamo; dal cugino
Matteo, al ’77, il contado di Modica; inoltre le terre e i feudi di Naro,
Delia, Sutera, Mussomeli, Manfreda, Gibellina, Favara, Muxari, Guastanella,
Misilmeri; in fine campi, giardini, palazzi, tenute in Palermo, Girgenti,
Messina ...». Racalmuto non viene nominato, ma si dà il caso che in documenti
coevi che si custodiscono nell’Archivio Vaticano Segreto anche il nostro paese
appare sotto la totale giurisdizione del potente Manfredi.
Nel 1355
dilagò in Sicilia una peste che, «se non fu con certezza peste bubbonica o
pneumonica, fu pestilentia nel senso
allora corrente di gravissima epidemia». [5] Già vi era
stata un’invasione di locuste che provocò forti danni nell’Isola. Racalmuto ne
fu certamente colpita, ma pare non in modo grave. Maggiori danni si ebbero per
un ritorno dei focolai epidemici, una ventina d’anni dopo. Operava frattanto la
scomunica per i riverberi del Vespro. Preti, monaci e bigotte seminavano il
panico facendo collegamenti tra le ire dei papi che in quel tempo erano
emigrati ad Avignone e la vindice crudeltà della natura: era facile additare
una vendetta divina, ed anche il potente Manfredi Chiaramonte era propenso a
credervi.
I nostri
storici locali raccolgono gli echi di quei tragici eventi ed imbastiscono
trambusti demografici per Racalmuto: nulla di tutto questo è però provabile. Un
fatto eclatante viene inventato di sana pianta: un massiccio trasferimento da
Casalvecchio all’attuale sito della residua, falcidiata popolazione.
I traumi
che la Sicilia ebbe a soffrire tra il 1361 ed il 1375 ebbero indubbiamente a
coinvolgere Racalmuto, ma in che modo non è possibile documentare su basi
certe. Gli scontri tra le parzialità - solo vagamente definibili latine e
catalane - continuano a scoppiare nel 1360. L’anno successivo giunge in Sicilia
Costanza d’Aragona per sposare Federico I, il quale, sfuggendo a Francesco
Ventimiglia che lo teneva sotto sequestro, può solo nell’aprile convolare a
nozze in quel di Catania. Manfredi Chiaramonte con 9 galee attacca nel maggio
la piccola flotta catalana (6 galee) che aveva scortato Costanza e ne cattura
una parte presso Siracusa. Nel 1362 Federico IV si dà da fare per rappacificare
e rappacificarsi con i potentati del momento: nell’ottobre ratifica la pace di
Piazza fra Artale d’Alagona ed i suoi seguaci da una parte e Francesco
Ventimiglia e Federico Chiaramonte (che sono a capo di nutrite fazioni)
dall’altra. Nel biennio 1262-1363 si registra una recrudescenza della peste.
Nel 1363 muore la regina Costanza. Nel 1364 si riesce a recuperare il piano di
Milazzo e di Messina e finalmente nel 1372 si può parlare di pace con gli
Angioini di Napoli.
Quando agli
inizi del 1373 Palermo e Napoli ebbero per certe le condizioni di pace, divenne
più agevole definire il concordato con il papato che manteneva sulla Sicilia il
suo irriducibile interdetto.
E qui la
minuscola vicenda racalmutese si aggancia ai grandi eventi della storia
medievale di quel torno di tempo. Affiora, ad esempio, un nesso tra papa
Gregorio XI e la reggenza di Racalmuto nel 1374. Gregorio XII era in effetti
Pietro Roger de Beaufort nato a Limoges
nel 1329; morirà a Roma nel 1378. Eletto
papa nel 1371, ristabilì a Roma la residenza pontificia ponendo fine alla
cosiddetta "cattività avignonese".
E così da
Avignone il papa dovette tornarsene a Roma. E’ questo un momento culminante di
una gravissima crisi. Ed in questa congiuntura, cade appunto la remissività
papale verso la Sicilia. In cambio di un obolo supplementare si può procedere
alla revoca di un interdetto, frutto di potenza, arroganza ed al contempo di
remissività verso la Francia.
La
meridiana della storia passa allora anche per il modesto, gramo paesotto di
Racalmuto. Altro che isola nell’isola, nell’isola - scrivemmo una volta in
pieno disaccordo con Sciascia.
Le decime del 1375
Nel
contesto della politica fiscale di papa Gregorio XI un personaggio acquisisce
contorni di rilievo e diviene memorabile nell’ambito nostro, cioè della
microstoria racalmutese del XIV secolo: Bertrand du Mazel. Il suo destino si lega a quello della Sicilia
ed investe Racalmuto ove ebbe a recarsi il 29 marzo del 1375. La sua carriera
in Sicilia si dispiega lungo gli anni dal 1373 al 1375. Svolge diligentemente i
suoi compiti e fra l’altro redige come collettore apostolico carte e registri
contabili che, conservati negli Archivi del Vaticano, sono giunti sino a noi.
Vi troviamo Racalmuto.
La visita
in Sicilia (e a Racalmuto) di du Mazel si colloca nel quadro di grandi eventi
storici. In particolare occorre tener
presente che all’inizio del 1373, dopo laboriosi negoziati, il re Federico IV
di Sicilia e la Regina Giovanna di Napoli concludevano la pace sotto l’egida
del papato. Riconosciuto come sovrano legittimo della Trinacria, Federico IV
accettava la signoria di Giovanna I, e quella di Gregorio XI. Egli si impegnava
a pagare un censo di 3.000 once alla regina che doveva trasmettere alla Santa
Sede questo canone. I siciliani dovevano giurare la pace e prestare giuramento
di fedeltà al re. La Chiesa riacquistava tutti i diritti e privilegi che godeva
prima dei Vespri del 1282. Il papa prometteva di levare l’interdetto che
gravava sull’isola da lunghi anni.
In Sicilia
la riscossione di tale sussidio fu decisa prima della ratifica della pace, nel
dicembre del 1372; la promessa di abolire l’interdetto è uno strumento di
pressione fiscale. Vengono chiamati anche i laici a contribuire. Si decidono
modalità di esazione contemplanti censure ecclesiastiche per gli evasori o per
i riottosi. Le bolle del dicembre del 1372,
chiedendo un aiuto per la lotta contro i nemici della Chiesa in Italia,
imponevano che questo venisse dato “prima dell’abolizione dell’interdetto”.
Evidente l’intento dissuasivo. In virtù di una clausola apparentemente anodina,
i delegati pontifici potevano esigere da chi si voleva liberare dall’interdetto,
non solamente il giuramento di rispettare la pace e d’essere fedele al re,
secondo i termini del trattato, ma anche un aiuto pecuniario alla Chiesa. Il
sussidio “caritativo” e volontario si trasformava in imposta pura e semplice.
Bertrand du Mazel non esita a parlare della tassa riscossa “ratione amotionis
interdicti”, come nel caso di Racalmuto, ove invero si parla ancora più
esplicitamente di “subsidio auctoritate apostolica imposito” . E ci siamo dilungati proprio
perché in definitiva ciò ci illumina sulla storia “narrabile” del nostro paese.
«Il
sussidio fu ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alla condizioni
economiche: 1 tarì per le famiglie povere, 2 per le “mediocri”, 3 per le agiate
(“qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà”). Si computarono in ciascuna
località metà delle famiglie nella categoria inferiore, ¼ nella mediana, ¼ tra
le benestanti: se le condizioni economiche fossero state omogenee, sarebbe
stata distribuzione equa. Furono esentati i preti, i giudei e i tatari “che
sono nell’isola infiniti” e le “miserabili persone” che non era prefigurato
quali fossero.» [6]
Intensa è
la fase preparatoria del sussidio. Il papa scrive a destra e a manca per
spingere i notabili siciliani ad accedere alle nuove istanze impositive della
Santa Sede. Da Avignone invita, nel 1372, giurati ed università a recarsi
presso “Federico d’Aragona” - non lo chiama re - perché lo convincano a fare
pace con “la regina di Sicilia”, cioè Giovanna di Napoli. Gli inviti sono
mandati a Calascibetta, Licata, Agrigento e Sciacca (reg. Vat. 268, f. 295-297).
Il 9
febbraio 1375, da Caccamo, Manfredi Chiaramonte, nella sua qualità anche di
ammiraglio di Sicilia ordina ai suoi ufficiali di percepire nelle sue terre il
denaro del sussidio dovuto alla Chiesa e di consegnare il frutto della loro
raccolta al collettore apostolico che subito toglierà l’interdetto. Il
precedente 18 novembre 1374, Manfredi è a Mussomeli nel suo castello che ora si
denomina dal suo nome “Manfreda”: là si redige un processo verbale che attesta
che egli, ammiraglio del regno di Trinacria, presentandosi davanti al re
Federico III gli ha prestato fedeltà e devoto omaggio. Il ribellismo del conte,
di illegittimi natali, si era dunque quietato. Al vescovo di Sarlat, nunzio
apostolico, che accompagnava il re, Manfredi ha solennemente promesso sul
Vangelo di osservare il trattato di pace, come è stato steso nelle lettere
reali sigillate con una bolla d’oro.
Egli ha promesso di fare versare il sussidio
dovuto alla Chiesa dagli abitanti delle sue terre di Spaccaforno, Scicli,
Modica, Ragusa, Chiaramonte, Comiso, Dirillo, Naro, Delia, Montechiaro, Favara,
Racalmuto, Guastanella, Muxaro, Sutera, Gibellina, Castronovo, Mussomeli,
Camastra, Bivona, Prizzi, S. Stefano, Caccamo, Misilmeri, Cefalà, Palazzo
Adriano, Calatrasi, Cazonum (?), Camarina, la torre di Capobianco, Pietra Rossa
e Misilendino. Osserva il Glénisson: «si è potuto dire delle proprietà dei
Chiaramonti che esse formavano un piccolo regno nel grande. Le proprietà di
Manfredi Chiaramonte colpiscono veramente per la loro estensione. Esse sono
distribuite in quattro gruppi principali: 1) Esse comprendono buona parte
dell’attuale provincia di Ragusa, con Ragusa stessa, Modica, Spaccaforno,
Scicli, Comiso, Camariano, Dirillo; 2) Nella regione di Agrigento e di
Caltanissetta, Manfredi possiede Mascaro, Racalmuto, Montechiaro, Camastra,
Naro, Delia, Favara, Sutera. 3) Le località del centro: Mussomeli, S. Stefano,
Castronovo, Prizzi, Cefalà, Palazzo Afriano ... 4) Le proprietà della regione di
Palermo: Misilmeri, Caccamo ...» [7]
Dalla
lettera circolare che Manfredi Chiaramonte dirama da Caccamo il 9 febbraio 1375
riusciamo a cogliere alcuni tratti della veridica storia di Racalmuto: esclusa
ogni effettiva ingerenza dei Del Carretto, il casale è evidentemente
assoggettato al Chiaramonte, nell’occasione conte di Chiaramonte, signore e
ammiraglio del regno di Trinacria. L’Universitas
ha un suo governo locale che fa capo ad un capitano, ad un baiulo, a dei
giudici, a degli ufficiali subalterni ed ha una popolazione che costituisce un
soggetto giuridico (universi homines).
Rientra tra le terrae nostrae, cioè
di Manfredi. Se dovessimo credere agli araldisti (ed agli storici locali),
Racalmuto sarebbe dovuta essere terra di Antonio II del Carretto, ma così non
è.
Le singole
università devono nominare tre probiviri (tri
boni homini) i quali devono assolvere il poco gradito compito di spillare
denari a tutti gli abitanti (nelle diverse misure che prima abbiamo detto). Non
sappiamo chi siano stati i prescelti di Racalmuto: ma sappiamo che vi furono e
svolsero a puntino la ficcante tassazione.
L’elenco
delle università ha una sua logica: Racalmuto si trova in mezzo ad un
itinerario che, partendo da Gela (Terranova) punta su Naro, da qui a Delia e da
lì si torna a Favara (ammesso che si tratti dell’attuale Favara e non di un
centro nel nisseno); da Favara a Palma di Montechiaro, quindi a Licata per
convergere sul nostro Racalmuto. Da qui a Guastanella (una rocca sul monte
omonimo a poco più di 2 km. a Nord di Raffadali), per toccare S. Angelo Muxaro.
Da qui per una località vicina: Gibillini (Glubellini)
che non può essere Gibellina (come si ostinano a dire anche storici di alto
livello) ma che potrebbe essere davvero il nostro Castelluccio, al tempo
chiamato Gibillini. Se è così, la storia del paese si arricchisce di un altro
importante tassello. Da Gibillini si va a Sutera e quindi a Mussomeli. Si passa
a Camastra. Ma subito dopo tocca a Castronovo e quindi a Bivona, Santo Stefano,
Prizzi, Palazzo Adriano. E’ quindi la volta di Caccamo e di altri centri, ma a
questo punto il nostro interesse per la dislocazione trecentesca dei paesi
scema del tutto.
Fin qui si
è trattato di maneggi burocratici: ora è il tempo delle tasse vere.
L’arcidiacono du Mazel decide di tassare l’agrigentino a partire dai primi di
marzo del 1375. Inizia da Palma di Montechiaro (6 marzo); il 18 dello stesso mese può togliere
l’interdetto a Bivona; il 19 a Santo Stefano; il 20 a Pietra d’Amico; il 21 a
S. Angelo Muxaro; il 29 a Guastanella.
Lo stesso
giorno è la volta di Racalmuto. Dal
nostro paese si passa a Castronovo (8 aprile 1375). La raccolta del sussidio
s’interrompe e verrà ripresa l’8 giugno con la rimozione dell’interdetto che
incombeva su Castellammare del Golfo: altra regione, lontana da Agrigento. Per
noi ha particolare rilievo ovviamente Racalmuto.
Disponiamo
di un paio di annotazioni che riguardano il nostro paese e che naturalmente
svelano tratti storici diversamente ignoti. Il Reg. Coll. N. 222 dell’Archivio
Segreto Vaticano ci degna della sua attenzione al foglio 249 con questa nota:
«Item eadem die fuit amotum interdictum in
casali Rahalmuti dicte Diocesis in quo fuerunt domus coperte palearum CXXXVI
que ascendunt et quas habui VII uncias XXVII tarinos.» Traducendo: «Del pari
lo stesso giorno (29 marzo 1375) fu rimosso l’interdetto nel casale di
Racalmuto della predetta diocesi, nel quale furono rinvenute 136 case coperte
di paglia; queste hanno reso una tassa da me percetta che ascende ad onze 7 e
27 tarì.» Ad essere precisi la tassa avrebbe dovuto essere di onze 7 e tarì 27
(anziché 27) dato che così andava ripartita:
quota
individuale
|
totale in tarì
|
pari ad onze
|
e tarì
|
||
numero
fuochi
|
136
|
238
|
onze 7
|
tarì 28
|
|
ceto
medio (1/4)
|
34
|
2 tarì
|
68
|
||
benestanti
(1/4)
|
34
|
3 tarì
|
102
|
||
poveri
(1/2)
|
68
|
1 tarì
|
68
|
Con i suoi 136 fuochi Racalmuto aveva dunque
una popolazione abbiente di circa 544 (in media 4 componenti per ogni nucleo
familiari): ma bisogna considerare i non abbienti (i miserabili), i preti
(tassati a parte), gli ebrei, gli immancabili evasori e quelli che dispersi per
le campagne non era possibile includere nel censimento, un venti per cento. Nel
1375 Racalmuto contava dunque circa 650 abitanti.
Come si è
visto le case erano di paglia: segno di grande indigenza. Eppure i racalmutesi
o per solerzia degli scherani pontifici o per vero timore di Dio (e della
peste) furono solerti e puntuali nel dare il sussidio caritativo al papa. Non
così in altre zone della Sicilia, come ebbe a lamentarsi quello straniero di
Francia, Bertrando du Mazel.
Le carte
del du Mazel non vanno minimamente confuse con i rilievi censuari. Abbiamo solo
numeri simboli da cui possiamo dedurre qualche ipotesi di lavoro di carattere
demografico. Non è dato asserire che nel 1375 a Racalmuto vi erano davvero 136
case con tetto a paglia; che 34 di queste (1/4) erano abitate da benestanti in
grado di corrispondere la tassa pontificia in misura massima (3 tarì a fuoco);
che altre 34 appartenevano a ceti medi (tassati per 2 tarì a famiglia); la metà
(n.° 68) ospitava famiglie di dignitosi coltivatori e mastri, in grado solo di
corrispondere il minimo (1 tarì per ogni nucleo). Evidente è la tecnica della
tassazione induttiva, per stima aprioristica. Certamente in misura più limitata
dovette essere la densità delle famiglie veramente facoltose. Più estesa quella
del ceto medio; ancor più vasta quella della classe che oggi chiameremmo
operaia. E poi i tanti religiosi (tassati a parte, come rivelano le stesse
carte del du Mazel), i “miserabili” (nullatenenti e non imponibili per legge o
per dato di fatto), gli irrecuperabili che si occultavano nelle vicine zone
inaccessibili o nei contigui boschi all’epoca molto folti, coloro che con gli
armenti vivevano in stato di relativo benessere ma al di fuori di ogni
reperibilità impositiva. Possiamo, però, dire che almeno 136 fuochi c’erano
davvero a Racalmuto nel 1375, che il centro (snodantesi nelle scoscesi
avvallamenti sotto le grotte dell’odierno Calvario Vecchio) raccoglieva non
meno di 600 abitanti, che tutto considerato non si può andare oltre il numero
di mille abitanti (ricchi e poveri, tassati ed esenti, stanziali e saltuari,
preti e “miserabili”). Una popolazione già falcidiata dalle tante ondate della
ricorrente peste trecentesca ed ancora non incisa dagli sconvolgimenti che con
l’avvento spagnolo del duca di Montblanc ebbero a verificarsi, come vedremo.
La fine del Trecento
L’ultimo
quarto di secolo coinvolge la Sicilia in un groviglio di eventi più narrati che
spiegati. Sono mutamenti genetici dell’intero tessuto sociale e politico
siciliano: sono sconvolgimenti del periferico fluire della vita paesana
racalmutese. Storia del paese e storia di Sicilia hanno ora un tale contiguità
da rasentare la coincidenza. Non è questa la sede per affrontare l’intero
ordito storico siciliano di quel torno di tempo, ma un qualche aggancio si
rende indispensabile.
Il 27
luglio 1377, a 36 anni, moriva Federico IV, quello della diplomatistica
avignonese coinvolgente la tassazione papale di Racalmuto. Per gli storici, quella
morte avveniva tra l’indifferenza del ceto nobile.
Il regno
passa alla figlia Maria - troppo giovane e troppo inesperta per essere regina
sul serio - ma solo pro forma visto
che è Artale I Alagona a succedere nella gestione del potere regio come Vicario.
Ciò è per volontà testamentaria del defunto re. L’Alagona non si reputa sicuro
e chiede subito l’appoggio, in un convegno a Caltanissetta, degli altri
maggiori baroni Manfredi III Chiaramonte, Francesco II Ventimiglia e Guglielmo
Peralta.
La vita
riprendeva apparentemente normale, ma trattavasi di fittizia regolarità. In
effetti si aveva una equiparazione dei poteri fra costoro e cioè fra i
cosiddetti quattro Vicari: il governo del regno isolano era in mano loro. Per
Racalmuto non cambiava alcunché dato che da tempo era assoggettato a Manfredi
Chiaramonte. Pensare ad una qualche influenza dei Del Carretto, oltreché
storicamente non documentabile, sembra esulare da ogni logica: tutto lascia
intendere che costoro se ne stessero ancora a Genova a curare i nuovi loro
affari in seno a compagnie marittime.
Racalmuto
scade però in una vera e propria terra feudale «ove tutto era il signore: la
legge e la giustizia, l’economia e la vita sociale.» [8] Solo che
il signore era Manfredi Chiaramonte e non certo i Del Carretto.
La tregua
cessa con l’insorgere di un nuovo personaggio: il conte di Augusta Guglielmo
III Moncada: riesce costui a strappare dalla sorveglianza degli alagonesi, dal
castello Ursino di Catania, la regina Maria. Il conte ha l’appoggio di Manfredi
III Chiaramonte. La regina viene mercanteggiata come un oggetto da baratto. Le
trattative sono con Pietro IV d’Aragona, il quale viene messo alle strette, non
lasciandogli altra via che quella di una spedizione in Sicilia per riannetterla
alla monarchia iberica.
Rientrava
in scena la chiesa di Roma: Urbano VI (1378-1389), attraverso gli arcivescovi
di Messina e Monreale e il vescovo di Catania, sobillava i nobili siciliani in
contrapposizione agli intenti della corte aragonese.
Ribolliva
l’intrigo della corte spagnola con il dissidio fra re Pietro ed il primogenito
Giovanni che ricusava le nozze con la regina Maria per amore di Violante di
Bar. Il re Pietro finiva allora col pensare all’Infante Martino per dar corpo
alle pretese sulla Sicilia: un matrimonio fra l’omonimo figlio dell’Infante
Martino con la regina Maria avrebbe consentito una sostanziale riappropriazione
della Sicilia, anche se formalmente sarebbero rimaste distinzioni ed autonomie.
In tale quadro, toccava al vecchio Martino curare gli affari di Sicilia della
corte aragonese. Fervono quindi i preparativi per una spedizione militare.
Tanti sono i maneggi tra i nobili e Martino il Vecchio. Nel 1382 Filippo Dalmao
di Rocaberti riesce senza ostacoli a liberare dall’assedio Maria e portarla in Sardegna, pronta per le
nozze con il figlio di Martino.
Nel 1389
moriva Artale I Alagona, considerato il capo della “parzialità” catalana. Per
l’Infante Martino quella morte suonava di buon auspicio. Fin qui i rapporti tra
l’emissario spagnolo e Manfredi Chiaramonte possono dirsi del tutto amichevoli
e consociativi.
Morto anche
Pietro IV (gennaio 1387), succedeva Giovanni con il quale si iniziava un
periodo di scabrosi sommovimenti in seno al regno: tra l’altro veniva
riconosciuto l’antipapa Clemente VII (1378-1394) e di conseguenza scoccava la
scomunica e l’opposizione della Chiesa di Roma e del papa legittimo Urbano VI.
L’Infante Martino era però ora tutto dalla parte del fratello asceso al trono.
Nel 1389,
allo scoppio di tumulti in Sardegna, il vecchio Martino, nuovo duca di
Montblanc, si adoperò subito per il trasferimento della regina Maria in
Aragona. Cresceva frattanto la posizione egemone di Manfredi Chiaramonte. Il
duca di Montblanc, anche se scemavano le difficoltà d’Aragona, non trascurava
di apprestare un’armata che egli concepiva comunque necessaria all’insediamento
del figlio sul trono di Sicilia. Ma le forze della Corona aragonese non
sembravano atte a finanziare quel progetto. Nel 1390, ad ogni modo, si potevano
celebrare a Barcellona le nozze tra il giovane Martino e Maria, evento nodale
della storia di Sicilia.
Si giunge
così al 1391 quando nel marzo viene a morire Manfredi III di Chiaramonte,
personaggio di grossa statura politica e gran signore di Racalmuto. Sul suo
successore e su altri nobili di Sicilia, punta il nuovo pontefice romano
Bonifacio IX (1389-1404): si rassoda un movimento isolano tendente a
contrastare gli scismatici aragonesi. Le vicende della Chiesa romana si
riflettono dunque anche sulla periferica terra di Racalmuto. In quell’anno si
dava incarico al giurisperito Nicolò Sommariva di Lodi «per frenare le bramosie
dei magnati e coagulare attorno agli arcivescovi di Palermo e Monreale un
fronte d’opposizione ai Martini.» [9]
Nel
frattempo Martino raccolse un esercito promettendo feudi e vitalizi in Sicilia
a spagnoli impoveriti e scontenti. Barcellona e Valenza aderiscono con
generosità ed entusiasmo al progetto martiniano. Una famiglia avrà poi fortuna
a Racalmuto: la denomineranno “Catalano”, in evidente collegamento a quel lontano
approdo dalla Catalogna. Ai nostri giorni, gli ultimi eredi diverranno
personaggi di inobliabile folklore. Chi non ricorda Tanu Bamminu? Pochi rammentano che il cognome era appunto
“Catalano”. Ai tempi in cui il padre di Marco Antonio Alaimo era apprezzato
medico racalmutese (fine del ‘500) i Catalano, ottimati rispettati, abitavano
proprio all’incrocio tra l’attuale corso Garibaldi e la strada intestata al celebre medico
racalmutese.
Nel 1392
gli spagnoli sbarcarono finalmente in Sicilia, guidati dal loro generale
Bernardo Cabrera. Due dei quattro vicari passarono subito dalla parte dei
conquistatori: anche in Sicilia ed anche a quel tempo il vizietto tutto italico
di correre in soccorso dei vincitori - avrebbe detto Flaiano - era piuttosto
diffuso. Ma Andrea Chiaramonte - succeduto a Manfredi Chiaramonte - continuò a
credere nel Papa e nella possibilità di resistere ai Martino. Asserragliatosi a
Palermo, resistette per un mese agli attacchi spagnoli. Racalmuto venne
coinvolto nelle azioni di guerriglia con distruzioni, fughe in massa,
ribellismi, violenze, grassazioni, furti e ladronecci. Palermo finì con
l’arrendersi ed Andrea Chiaramonte fu decapitato. Le sue vaste proprietà furono
arraffate da nuovi nobili. E qui rispunta finalmente la famiglia Del Carretto
che, prima a fianco dei Chiaramonte e subito dopo a sostegno del vittorioso
Martino, si riappropria di Racalmuto e dà
inizio al lungo periodo della sua baronia vera e storicamente
documentata.
Si
dissolveva così il quadro politico che si era riusciti a stabilire il 10 luglio
1391 quando si era celebrato il convegno di Castronovo in cui si era giurata
fedeltà alla regina Maria ma in opposizione al giovane Martino non riconosciuto
né legittimo sovrano né legittimo marito. Allora i vicari, fautore il Chiaramonte,
erano ancora uniti. Ma non passò neppure lo spazio di un mattino ed ecco alcuni
convenuti iniziare intese occulte con il duca di Montblanc, «del quale,
evidentemente, si volevano forzare progetti e profferte; e più di prima
isolatamente procedevano tali patteggiamenti che rinnegavano i giuramenti. Era
del 29 luglio la risposta [stracolma di suasive profferte] ad Antonio
Ventimiglia ed a Bartolomeo Aragona che avevano mandato un’ambasceria.» [10] Bartolomeo Aragona di lì a poco riappare
nella diplomatistica dei Del Carretto come colui che riesce a riaccreditare
presso i Martino il neo barone di Racalmuto Matteo Del Carretto, che si era
lasciato coinvolgere dai soccombenti nemici degli invasori, per “necessità”
finge di credere la nuova triade regale di Palermo.
* * *
Ancora
nell’ottobre del 1391 Manfredi e Andrea II Chiaramonte ritenevano opportuno di
mandare propri inviati a Barcellona. Il duca di Montblanc poteva fondatamente
ritenere che i nobili di Sicilia erano dopo tutto non alieni dall’accogliere la
spedizione militare aragonese.
Gli eventi
precipitano: il 22 marzo 1392 approdava la spedizione all’isola della Favignana
presso Trapani. Il duca, a nome dei sovrani, ingiungeva ai baroni di portarsi
entro sei giorni a Mazara per il dovuto omaggio. I due vicari Antonio
Ventimiglia e Guglielmo Peralta ed altri nobili quali Enrico I Rosso non mancavano di prestare giuramento e dare
l’omaggio ai nuovi sovrani il giorno stesso del loro arrivo. Tripudiava la
popolazione di Trapani al passaggio dei giovani regali. Sembrava andare tutto
liscio, sennonché la notoria instabilità sicula cominciò ad affacciarsi: Andrea
II Chiaramonte mutava atteggiamento. Dopo essersi rivolto favorevolmente a
Guerau Queralt, rappresentante della corona, era indi passato ad un attendismo
ed a moti di diffidente attesa verso il Montblanc ed al figlio Martino il
giovane. Il duca si irritava a sua volta nei confronti del Chiaramonte. Il 3
aprile 1392 l’altezzoso e crudele duca di Montblanc dichiarava ribelli il
Chiaramonte e con lui Manfredi e Artale II Alagona. Venivano confiscati ed
ascritti alla Curia tutti i loro beni che passavano di mano venendo assegnati a
Guglielmo Raimondo III Moncada. Vi rientrò Racalmuto?
Chiaramonte
si asserragliava a Palermo. Il 17 maggio 1392 si induceva a prestare omaggio ai
sovrani. Il giorno successivo Andrea Chiaramonte, insieme all’arcivescovo di
Palermo, l’agrigentino Ludovico Bonit (eletto dal Capitolo palermitano per
volontà degli stessi Chiaramonte), chiedeva di conferire con i sovrani per
trattare dei suoi beni. Ma Martino il vecchio non indugiava: li faceva
prontamente imprigionare. La sorte di Andrea Chiaramonte si concludeva il primo giugno 1392, quando
venne decapitato nel piano antistante il suo stesso palazzo di Palermo, il
celebre Steri. Il Chiaramonte si sarebbe sporcato anche di una delazione ed
avrebbe incolpato, per cercare di avere salva la vita, Manfredi Alagona delle
passate vicende. Il 1° giugno 1392, con quella decapitazione, Racalmuto cessava
definitivamente di essere un feudo chiaramontano.
I Martino e
la regina Maria riescono a divenire gli incontrastati padroni della Sicilia. Ma
c’erano da fronteggiare decenni di anarchia. Restaurare la legge e le
prerogative regali era impresa ardua ma non impossibile. I registri erano stati
smarriti o distrutti e le antiche tradizioni e consuetudini obliate. Martino,
con l’aiuto di talune città, può armare un esercito regolare che lo affranca
dai nobili. Per le peculiarità siciliane, era indispensabile un registro
feudale: la corte si adoperò per una riedizione critica. Vedremo come i Del
Carretto devono fornire carte e prove per far valere la loro titolarità del
feudo di Racalmuto ... e sobbarcarsi a pesantissimi oneri finanziari. Per di
più Martino dichiarò abrogate le clausole del trattato del 1372 e si dichiarò Rex Siciliae. Approfittando di uno scisma del papato,
ripudiò la signoria feudale del papa e ribadì il proprio diritto al titolo di
legato apostolico, che comportava la potestà di nominare vescovi e di
sovrintendere alla chiesa siciliana.
Il re
convocò due parlamenti a Catania nel 1397 e a Siracusa nel 1398: riprendeva la
peculiare tradizione parlamentare di Sicilia che si era interrotta nel 1350. Le
assemblee convocate da Martino testimoniavano che era ritornata un’autorità
centrale. Il parlamento presentò una petizione al re perché nominasse meno
catalani in posti nevralgici e perché applicasse leggi siciliane e non quelle
aliene di Catalogna.
Martino I
rimase fortemente sotto l’influenza di suo padre anche quando quest’ultimo
divenne re d’Aragona. Martino il vecchio continuava a sorvegliare
l’amministrazione della Sicilia fin nei più minuti aspetti. Questa sudditanza
attira ancora l’attenzione degli storici che ne danno spiegazioni persino di
sapore psicanalitico. Scrive Denis Mack Smith «Martino, perciò, rimase più un
infante d’Aragona che un re di Sicilia, e fu in qualità di generale spagnolo
che, nel 1409, guidò una spedizione a spese siciliane per domare una
insurrezione in Sardegna.» [11] Martino il
giovane trovò la morte proprio in Sardegna e la Sicilia finì in successione
insieme ad ogni altra proprietà personale al vecchio Martino: le corone di
Aragona e di Sicilia perdono ora ogni distinzione, si ritrovano così nuovamente
riunificate. Ancora lo Smith: «Non si verificarono nuovi Vespri per dimostrare
che questo era sgradito, né vi furono molti segni di malcontento, sia pure di
minore rilievo, poiché una parte sufficiente della classe dirigente era ormai o
di origine spagnola o legata da interessi materiali alla dinastia aragonese.
Durante l’unico anno in cui Martino II regnò, la Sicilia fu perciò governata
direttamente dalla Spagna.» [12]
I DEL
CARRETTO BARONI DI RACALMUTO
Quando il
22 marzo 1392 la spedizione spagnola approdò a Favignana, dalla lontana Genova
i Del Carretto si decisero a veleggiare verso la Sicilia per riprendersi le
terre racalmutesi cui pensavano di avere diritto per successione diretta e per
lascito di Matteo Doria. Racalmuto si presentava tripartita: a sud-est il
Castelluccio, munito già della sua fortezza, e dintorni era feudo denominato
Gibillini e di pertinenza dei signori di Favara; a nord il castello
chiaramontano era coronato da case coperte di paglia e con il suo toponimo
arabo costituiva la terra abitata di un feudo ampio che meglio definiremo dopo; ed a sud-ovest le ampie pianure della Menta della Noce del Rovetto erano
considerate terre burgensatiche, di personale proprietà del feudatario.
Le
terre dello stato di Racalmuto, soggette a vincolo feudale, non si estendevano
dunque per tutto il territorio extraurbano: un qualche rilievo di autonomia
mostrava la contrada della Menta (sempre dei del Carretto) che talora è stata
denominata ‘feudo’. Sono dei del Carretto i fertili fondi di Garamoli, ma
appaiono come terre allodiali.
Lo
stato di Racalmuto parte dalla contrada di Cannatuni
(come ai giorni nostri) e da quel
versante nord va verso ponente: coinvolge Santa
Margaritella e Santa Maria di Gesù,
arriva alle porte di Grotte (Rina o Scavo Morto); si diffonde nella fertile
piana di Fico Amara o Fontanella della Fico; sale sulla Montagna; gira per Rocca Russa e per Bovo;
include una parte del Serrone (un
altro versante è detto appartenere al feudo di Gibbillini); scende per Judio,
Malati, Casalvecchio e Saracino, annettendo le contrade di San Giuliano, Baruna[13] e Difisa; e chiude quindi l’irregolare
circonferenza inerpicandosi per le contrade della Pernice fino a Quattro
Finaiti.
Menta,
Noce, Garamoli Roveto e Zaccanello sono pertinenze del feudo dei Del Carretto,
ma hanno una loro distinta configurazione.
Negli
atti notarili non sempre è chiara la peculiarità feudale di queste terre dei
del Carretto che talora vengono segnate come un distinto ‘feudo’ (fego della
Menta o della Nuci), talaltra no, e comunque restano talora attratte
nell’intreccio delle doti di ‘paragio’ dei cadetti e delle figlie di quella
famiglia.
L’importanza
dei possedimenti di Garamoli si coglie da una pagina della ‘Fabrica’ [14] della
Matrice del 1658. La fiumara di Garamoli
doveva essere contornata da un bosco
fitto con alberi ad alto fusto. Da lì si ricavava il legname per
costruzione, fonte di grossi affari. La famiglia Napoli, quella degli Alcello e
l’altra dei Gueli fornivano maestranze specializzate, ben pagate per l’epoca.
Per
coprire il tetto della Matrice occorrevano “burduna”
di enormi proporzioni. Si trovavano nel mezzo della fiumara di Garamoli. Per
trarli fuori provvide la maestranza ma
soprattutto un nugolo di nerboruti facchini che furono pagati in modo
inconsueto: con salsicce e vino. La pagina della “fabrica” del dicembre 1658
appare degna di essere riportata qui diffusamente:
«.. al d. di Napoli con
dui figli et m.° Alcello tarì 11; ...
· alli d. di Napoli, Alcello et dui altri mastri tt. 12.10;
· alli d. di Gueli et Napoli et un giovane
per pulire travetta et intravettare tt. 12;
· alli d. di Gueli et Napoli et suo figlio
per havere andato in Garamoli per sbarrare li travetti et li burduna n.° tre
che mancano al complimento della nave tt. 11.10;
· per havere fatto portare dui carichi di
travetti di Garamoli tt. 5;
· alli d. di Gueli et Napoli con dui figli
tt. 14. per havere comprato deci lignami da Vincenzo Pitrozzella per mancanza
di forbici onze 3.10;
· più per havere fatto venire dui burduna da
Garamoli tt. 20;
· e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana e ni portaro uno tt.
15.8.»
Piena
autonomia ha sempre invece il feudo di Gibbillini. Feudi dei dintorni di
Racalmuto sono - stando a certi atti notarili - quelli Di Grotte, del Chiuppo,
di Scintilia e del Nadore.
* * *
Il
grandissimo storico spagnolo Surita ha una pagina che ci coinvolge, che attiene
proprio ai Del Carretto fiancheggiatori del Duca di Montblanc. [15]
Per
il Surita, dunque, fu Gerardo del Carretto, Marchese di Savona, che si mise al
servizio del re di Sicilia, Martino, nella nota guerra che durò alcuni anni. Lo
spagnolo desunse questa notizia dagli archivi aragonesi, di certo, ma abbiamo
il dubbio che ad ispirarlo siano state le cronache cinquecentesche, specie
quelle del Fazello. Se attendibili, queste note di cronaca ci svelano il fatto
che Gerardo del Carretto attorno al 1392 si faceva passare per marchese di
Savona, il che non collima proprio con la storia di quella città ligure. Più
che il fratello Matteo del Carretto, sarebbe stato Gerardo a darsi da fare in
un primo tempo per accattivarsi le simpatie dei Martino. Sarebbe sempre Gerardo
a mettersi a guerreggiare in difesa dei catalani nella lotta contro la
parzialità latina di Sicilia. Quanto credito si possa concedere è questione
ardua, non risolvibile allo stato delle attuali conoscenze.
Una
documentazione probante della titolarità su Racalmuto i del Carretto sono
costretti, comunque, a darla alla fine del secolo, quando la cancelleria dei
Martino diviene intransigente e vuole prove certe delle pretese feudali. Alle
prese con la corte non è più però Gerardo ma Matteo, il fratello cadetto. Fu
vero l’atto transattivo tra i fratelli che fu presentato alla corte in quello
che può considerarsi il primo processo per l’investitura della baronia di
Racalmuto? Davvero avvenne il riparto dei beni tra i due fratelli? Fu solo
formalizzata l’assegnazione delle possidenze genovesi al primogenito Gerardo e
l’attribuzione dei beni feudali e burgensatici di Sicilia - in particolare il
castro di Racalmuto - al cadetto Matteo Del Carretto? Interrogativi cui non
siamo in grado di dare risposte certe.
I DEL CARRETTO VERSO LA SIGNORIA DI RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i del Carretto impossessarsi, prima, e
padroneggiare, dopo, sulla Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o
di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva
di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte
capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con
Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella
famiglia proveniente da Genova. In un
atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i
titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo agli araldici ed
agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle
sue più antiche fonti, difficilmente
potrà essere del tutto chiarita. Quel che ci preme è qui sottolineare come
proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la
traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone
ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti
scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda un documento:
esso fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava acconcio per
ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici
ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il
beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma
si accenna solo al ‘canonicatus Sancte
Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi,
quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad
alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è
dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata
l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di dedicata a S.
Margherita. E prima?
Tanti
collegano quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una
interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere
sorto a metà del XIV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i
Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi
Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed
a suggello del concordato col Papa.
LA CONTROVERSA BARONIA DEI DEL CARRETTO NEL XV SECOLO
Il secolo
XV vede Racalmuto saldamente in mano a Giovanni del Carretto, figlio di Matteo,
di quell’avventuriero, cioè che si era arrabattato alla fine del secolo precedente. Henri Bresc
vorrebbe questo Giovanni del Carretto come un disastrato, finito in mano degli
Isfar di Siculiana. A noi risulta il contrario. Lo vediamo rapace esportatore
di grano locale. Appare come creditore dei Martino, acquirente di quote di
feudi in quel di Mussomeli, ma lo storico francese è perentorio: «La baisse du prix de la terre - que l’on
suit sur la courbe des prix moyens des fief vendus par la noblesse oblige à un endettement toujours plus grave et à une
gestion très rigoureuse du patrimoine résiduel. Et l’on s’achemine vers
l’intervention de la monarchie et de la classe féodale dans l’administration
des domaines fonciers et des seigneuries: Giovanni Del Carretto est ainsi
dépouillé en 1422 de sa baronnie de Racalmuto, confiée en curatelle à son
gendre Gispert d’Isfar, déjà maître de Siculiana.»
Di questa
espoliazione della baronia di Racalmuto a favore di Gispert d’Isfar, non
trovasi riscontro alcuno nell’altra pubblicistica di nostra conoscenza. Il
Barone (o Baronio) che scrive nel 1630 ([16]) sembra
escludere del tutto una sì infausta cessione. Ma quel non spregevole latinista,
addentro di sicuro alle segrete cose dei del Carretto, è smaccatamente
elogiativo per dargli eccessivo credito. Comunque, l’interruzione della baronia
dal 1422 al 1453 non viene neppure sospettata. Così è anche in una lunga
comparsa giudiziale della fine del seicento, presentata dall’ultimo Girolamo
del Carretto.
Gibert
Isfar avrebbe sposato una figlia di Giovanni I del Carretto nel 1418 ([17]); il
personaggio è arrogante, intraprendente, si dà all’usura, sa farsi nominare
mastro portolano. Il Bresc è prodigo di notizie sul suo conto. Tra l’altro,
compra per 10.000 fiorini la castellanìa e la “secrezia” di Sciacca (Bresc, op.
cit. pag. 857); opera a tassi usurari del 7% (ibidem pag. 859); è bene
insediato a Siculiana (ibidem pag. 887). Soprattutto riesce a farsi nominare feudatario
di tale centro dell’agrigentino nel 1430 per ripopolarlo (ibidem pag. 895; ASO
Canc. 65, f. 42).
Attorno
alla metà del secolo, subentra nella baronia di Racalmuto Federico del
Carretto. Il 3 agosto 1452 ne viene ratificata l’investitura stando agli atti
del protonotaro del Regno in Palermo. Un
grave episodio di intolleranza religiosa contro gli ebrei - in cui però
preminente è l’aspetto di comune criminalità - si verifica nelle immediate
adiacenze di Racalmuto nell’anno 1474.
Il
Cinquecento si apre con la pia leggenda della venuta della Madonna del Monte.
Dominava il barone (non certo conte) Ercole Del Carretto. Ebbe costui il suo
bel da fare con Giovan Luca Barberi, che sembra essere venuto proprio a
Racalmuto per meglio investigare sulle usurpazioni della potente famiglia
baronale. Il Barberi arriva persino a dubitare sul concepimento nel legittimo
letto di alcuni antenati del povero barone Ercole Del Carretto. Gli contesta
molte irregolarità d’investitura ed il padrone di Racalmuto è costretto a ricorrere
ai ripari formalizzando i suoi titoli nobiliari presso la corte vicereale di
Palermo, a suon di once. La ricaduta - oggi si direbbe: traslazione d’imposta -
sui disgraziati racalmutesi dovette essere espoliativa. In compenso - direbbe
Sciascia - fu profuso il succo gastrico delle opere di religione. Non proprio
una “venuta” miracolosa, ma una statua di marmo della Madonna fu certamente
fatta venire da Palermo - genericamente si dice dalla scuola del Gagini - e
posta in bella mostra su un altare, maestosa, della chiesa del Monte, che ad
ogni buon conto preesisteva. Ai parrocchiani, questo non può di sicuro venire
predicato. Se ne scandalizzerebbero oltre misura. Ma qui, in un orecchio, può
venire sommessamente e riservatamente sussurrato. Chi ha orecchie da intendere,
intenda.
PERCHE' UNA
STORIA SUI DEL CARRETTO
Astrette in
un paio di pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo
Sciascia ([18]) su tutta
la storia racalmutese. Desolato il quadro: per lo scrittore è flebile l'eco dell’antica
'dimora vitale', che si amplifica forse una sola volta quando Racalmuto
«piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto nel Val di Mazara, diocesi di
Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge, nella prima metà del XVII, a una
vita che Américo Castro direbbe 'narrabile' .... grazie alla simultanea
presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e vi profonde il suo denaro,
di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un eretico.» Di solito,
invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile', nell'avvicendarsi di feudatari
che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla
non meno predace 'avara povertà di Catalogna'; col carico di speranze deluse e
delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria
apportava.»
Sull'altipiano
solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era
una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla
fame come erba alle rocce'.
Promana
quasi un monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di
Racalmuto. Eppure noi ci accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed
altri feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale
matrice al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi
fondi di Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti,
codicilli che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei
racalmutesi. Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi
dei feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con topiche ed
errori, spesso con “visionarietà romantica”: correggerli alla luce dei
documenti d'archivio un qualche valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo
sicuramente anche noi in sviste ed abbagli: consentiremo, così, ad altri il
gusto di rettificarci. Niente è più proficuo dell'errore, quando provoca
ulteriori ricerche. Il silenzio equivale al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei
sette peccati capitali, almeno per i cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile
una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo
Sciascia (vedansi Le parrocchie di
Regalpetra e Morte dell'inquisitore),
scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella
signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino
alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana.
Finisce, così, col dare fuorviante credibilità a vicende inventate o
pasticciate. Sono da notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che
«moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva
all'indipendenza del regno di Sicilia» ([19]) è
inesistente. A salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo
era stato lo scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello
che si indica come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui
il feudo di Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V,
la contea viene restituita, nel 1654, al predetto Girolamo III. Costui, finché
subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del conte
di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedale e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni, forse perché oberato dai debiti, si scatenò contro
il clero di Racalmuto, denegandogli le esenzioni terriere risalenti all'ultimo
barone Giovanni III Del Carretto ed
intentando contro di lui, presso il Tribunale della Gran Corte, una causa che
poteva costargli una scottante scomunica.
Alla fine
dei Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della
contea, sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio
Giuseppe. Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la
titolarità di Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la
signoria dei Del Carretto su Racalmuto. Un Girolamo
IV ([20]), dunque,
non è mai esistito.
2. Giovanni
V Del Carretto non "contrasse parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia
di Giovanni I, principe di Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del
Villabianca ([21]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio
del 1622 sarebbe stato perpetrato
insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([22]).
3. Che
Girolamo II Del Carretto sia il massimo responsabile della «vessatoria
pressione fiscale» del terraggio e
del terraggiolo, «canoni e tasse
enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in modo
particolarmente crudele e brigantesco» ([23]) dal conte
in parola, è forzatura storica. Il terraggiolo
fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin
dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo
I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti -
quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il
terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo
del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non
dovessero il terraggiolo (e cioè due
salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello
di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirro. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi con la stravagante tradizione
riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a limitare la sua opera alla
primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a Racalmuto con tutta
probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice, così diuturnamente
puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre agostiniano (Evodio o
Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque
la pena di tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In
definitiva, anche se di vita 'appena
descrivibile', si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di
Sicilia della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a
tutto il secolo XV. Agli albori del XVI,
il rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura
della legittimità del titolo baronale di Racalmuto in capo alla rampante
famiglia d'origine ligure.
Solo in una
circostanza ha ragione da vendere il Barberi
e cioè quando contesta l'ammissibilità della prima investitura baronale
in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del fratello
maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo,
infine, non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento
dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio
quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso
inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi
non possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente
burocrate sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di
Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo
sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in
mano a Federico II Chiaramonte, cui
succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza
Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia
passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al
primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo
per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che
l'Inveges - un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse
nella sua notoria Cartagine siciliana
(Palermo 1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la
ventura di reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di
striscio sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([24]) aveva
così ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo,
l'avvento ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra
con il suo castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val
Mazara ed era un tempo posseduta dal condam Antonio del Carretto.
Morto
costui, doveva succedere nella stessa terra Gerardo del Carretto, come figlio primogenito, che però vendette
definitivamente tutti i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti
gli altri beni del cennato suo padre e
soprattutto quei diritti che aveva e poteva avere per ragione di successione e di eredità
da parte di Costanza di Chiaramonte
sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del detto condam Antonio
del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam Giacomo suo fratello, e particolarmente i diritti
sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, acquista i predetti beni e diritti dal
fratello Gerardo, per il prezzo
di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per
il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il
contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello
stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come
risulta nel privilegio di tale conferma dato in Catania il 13 aprile del detto
anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re
Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della
presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che
possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel
libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del
Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio
fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal
detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della
detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti,
sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio
della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle
carte 33.
E morto
Matteo, gli successe nella detta terra Giovanni
del Carretto [I], suo figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la
conferma della detta terra in un diploma
ove risultano inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al
predetto condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio
del detto re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria
nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto
Giovanni, successe Federico del Carretto,
suo figlio primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal
condam Simone arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed
i suoi eredi sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei
diritti della regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli
altri predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro
grande dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il
cennato Federico, gli successe Giovanni
del Carretto [II], suo figlio, il quale, come appare dall'ufficio della
regia cancelleria, non prese giammai l'investitura della detta terra.
Morto il
detto Giovanni, gli successe Ercole del
Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del detto Giovanni, del
quale del pari non risulta investitura alcuna ed al presente si possiede quella
terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once
700.
E morto il
detto Ercole successe nella detta terra Giovanni
del Carretto [III], suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che
prese l'investitura della detta terra tanto per la morte del detto suo padre
quanto per la morte del signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind.
1519, notata nel libro dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un
reddito di 420 once; e ciò sebbene il
padre non avesse preso l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della
morte del proprio genitore. ([25])
Quanto alla
ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene
dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del
padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e
Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per
ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba a Gerardo Del Carretto. Ma vedremo
che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in Sicilia,
che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la
ricognizione critica dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro
consolidarsi, lungo il secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un
punto, poi, l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa
abbiamo la ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra
Federico e Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che
meno fonti coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo
per tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di
padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino
de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925,
aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre
quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di
Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo
fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).»
([26])
Il Di
Giovanni aveva scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei
Del Carretto per via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di
Ercole, che era suo 'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il
succedersi dei feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può
vedersi da questo stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole,
e Paolo, secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D.
Geronimo; a D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente
conte di Ragalmuto.» ([27]) Il Di
Giovanni, invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione
di Matteo Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il
nipote Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino
De Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti,
le fonti documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di
successioni. Presso il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di
investitura di Federico del 1453 che ci permette di seguire la successione
baronale da Matteo a Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi
al processo dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro,
come sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo
stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia
del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare
che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto
menzogneri fossero quei nobili, specie
se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei
Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul
punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello,
restando nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra
interesse alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti
nobilotti di campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario
protagonista (in negativo) nella ricostruzione della storia di Racalmuto per avere ispirato due
tradizioni che reggono imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II
Chiaramonte (+ 1313) padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire
l'attuale castello ("Lu Cannuni"), e ciò è congettura forse
accettabile; la seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il
Fazello, però, è del tutto incolpevole.
Si pensi che l'intera faccenda poggia - responsabili Vito Amico([28]) ed il
Villabianca, quello della Sicilia Nobile([29]) - su
un'evidente distorsione di un passo dell'opera dello storico di Sciacca. ([30]) Questi,
parlando dei Barresi, aveva scritto ([31]): Matteo
Barresi succede ad Abbo, che aveva ricevuto da Re Ruggero l'investitura di
Pietraperzia, Naso, Capo d'Orlando, Castania e molti altri "oppidula"
(piccoli centri). Chissà perché tra quegli oppidula
doveva includersi proprio Racalmuto. Così congetturarono i cennati eruditi del
Settecento, non sappiamo su che basi, e così si racconta tuttora dagli storici
locali che hanno in tal modo il destro per appioppare a Racalmuto le vicende di
quella famiglia. Ma di ciò a suo tempo e luogo.
Allo
spirare di quel secolo, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y
Leyva ha modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa
alla stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili,
fra di loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio -
per il vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive,
persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce
il prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,
il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo
Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti
[.....]
Il detto Conte
di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete
morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi
et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual
causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse
partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come
se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di
detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece
destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far
privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto
ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione
ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la
medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare
quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti
a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati
per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che
fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della
giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver
giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et
vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli
carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto
con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra
mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha
voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perché il vicario generale d'esso exponente
impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua
terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et
essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il
detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece
congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et
al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in
detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia
di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili
per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il
suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale
di Girgente, et perché ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([32])
Il secolo
XVI, dunque, si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi
non succederà più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche
o diplomi, documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura,
inventari, note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a
parte, naturalmente).
La vera
pubblicistica sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge -
a nostro avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere
gerosolimitano presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del
Carretto, figlio di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito
dell'ultimo barone di Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le
sue credenziali nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don
Alfonso fa ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne
vien fuori un lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel
excogitatum», lo definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o
invenzioni, dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630,
proprio dal Baronio. ([33])
Nel
frattempo aveva buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo
manoscritte presso la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al
suo Palermo Restaurato. Come leggesi
nel risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11),
il gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica
della città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo
uno scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia
di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di
consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla
(sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai
Del Carretto si hanno nella Sicilia Sacra
del Pirro: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno
riferimento alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di
Girolamo II Del Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S.
Giuliano.) Quel testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il
rabberciamento (spesso cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto
- tale è la storiella di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel
1108 avrebbe dotato un suo parente di terre feudali e villani purché edificasse
la prima chiesa, quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in
località che dopo si chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza
successoria da Federico II Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato
Antonio Del Carretto figlio del
marchese di Finale, da cui avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus de Carretto, personaggio del
tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del Carretto che ricorre nelle
cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non fu mai conte o barone di
Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos
nel suo Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([34]) alla
famiglia "CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella
inverosimile narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra
Giacomo Filippo da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza
di come fosse nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del
Seicento in Palermo e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione
genealogica ci pare, però, molto arruffata, contribuendo anche certe
spigolosità dello stile narrativo che possono indurre in errore (sempreché di
effettivi errori si tratti). Ci si riferisce in particolar modo al passo
riguardante il successore di Girolamo I, don Giovanni Del Carretto:
sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo e Giuseppe Del Carretto
siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del Carretto. E questo
sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno e nipote,
confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo siciliano
dei Del Carretto anche per quelle
omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli). Altra grave
topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni I e
non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni I -
sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta
successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è
Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e
la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei
feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della
trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente
don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data
della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di
lesa maestà.
Intervallati
da più di un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il
sacerdote di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei
Del Carretto; il secondo, La Cartagine
Siciliana, è datato 1661 ([35]) e può
dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni V per quella famiglia fosse scattata
l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si trova
molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. ([36]) Si dà il
caso che l'opera dell'Inveges venne, specie nel Settecento, considerata la
indubitabile fonte del vero evolversi del feudo racalmutese, nel trapasso dai
Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal senso l'Inveges il padre Caruselli
nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se
le vicende chiaramontane raccontate nella Cartagine
Siciliana sono inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia
racalmutese di quel tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il
testamento di Federico II Chiaramonte ([37]) è il
fulcro della legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di
Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il
lavoro dell'Inveges ([38]), ma sono
elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in mano dei Del Carretto, ma noi
non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi d'investitura né tra le carte del
Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto, non avrebbero mancato, costoro,
di farne varie copie e di esibirlo nelle diverse congiunture giudiziarie,
quando sarebbe tornato molto utile.
Efferati
delitti, vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed
il Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla
cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel
riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad
esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del
Cinquecento. ([39]) Valerio
Rosso accenna allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a
Castellamare del 19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. ([40])
Eclatante
il mortale attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del
lunedì del 5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano. ([41]) Quando,
ai primi di gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu
arrestato D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo
dovette essere enorme. Il conte fu imputato del delitto di lesa maestà, come
uno dei capi principali di una congiura andata del tutto fallita. Nel suo
diario ne fece diligente annotazione il dottor Vincenzo Auria ([42]) che poi
seguì passo passo lo sviluppo giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per
"affogamento" «privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag.
367) il 26 febbraio di quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI PRIMI DEL CARRETTO DI RACALMUTO
Non c’è
dubbio che una potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a
Finale Ligure sin dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri
domini anche a Savona e poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di
Savona. A cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto
liguri erano al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il
feudo in quote tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non
dimostrano l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo
avesse titolo di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia
l’esistenza di un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di
un Pirri o di un Inveges o di un Barone è tale che gli odierni araldisti liguri
di Finale inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole
cronologiche dei loro marchesi, sia pure in corsivo, mostrando di non esserne
certi.
Diciamolo subito: un marchese Antonio I del
Carretto che nei primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad
Agrigento e sposare l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte,
semplicemente non esiste.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non
significa che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane
figlia del cadetto della potente famiglia Chiaramonte. Ed è proprio così che
forse è andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei
Liguri. Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare
Costanza Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del
Carretto, marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome,
forse no. Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei
due centri liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un
figlio cui si dà lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la
vedova sposa un altro avventuriero ligure che questa volta dice di essere
Bancaleone Doria. Da questo secondo matrimonio nascono vari eredi che si
affermano, e talora violentemente, nella storia siciliana. Ma mentre il ramo
dei del Carretto sembra subito acquisire un qualche diritto su Racalmuto -
escludiamo però che si trattasse di diritti genuinamente feudali, forse appena
“burgensatici” - quello dei Doria non nutre interesse alcuno per quelle terre,
paludose ed impenetrabilmente boschive, che circondavano il nostro centro,
specie nella parte vicino Agrigento.
ANTONIO
II DEL CARRETTO
Antonio II
del Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti
notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei
suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel
documento - che trova ampio spazio in questo lavoro - emerge che Antonio II del
Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che a Genova. Ciò fa pensare
che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa del patrigno Brancaleone
Doria, di tal che appena gli si presentò il destro ritornò in Liguria nella
terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona - terre delle quali secondo
gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova. Questo la dice lunga sul
fatto che il preteso titolo era fasullo, comunque inconsistente, in ogni caso
obsoleto.
A Genova
Antonio II fa fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo
rendiconta su partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e
mobiliari di grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al
lontano, piccolo feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non
sappiamo dove sposa una tale Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità.
E’ certo che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante
documento del 12 marzo 1399.
Antonio II
- pare certo - lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de
comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia
Susgile pro florenis auri duobus milibus qui faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri
termini si sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di
San Paolo per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane
(una somma enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni
in Sicilia ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla
madre Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto
piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla
transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura
et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in
Siguliana, ....»
Antonio II
del Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante
cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto in
giovane età.
GERARDO DEL CARRETTO
Gerardo del
Carretto è il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi
abbia mai messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha
famiglia e ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo
feudale della baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore
Matteo del Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia
dei Martino a Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto
transattivo ci accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che
nulla hanno a che fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà
ragioni da vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in
discussione la legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato
da Gerardo al fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammessa secondo
il diritto feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni
allogati nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri
antenati racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi
dall’avere una persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello
che scrive Pirri, Inveges, Barone e poi Girolamo III del Carretto e poi il
Villabianca e poi San Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima
il Tinebra Martorana (tralasciando Acquista, padre Caruselli, Messana, lo
stesso Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente
inverosimile congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo
meno fa uno scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del
Carretto.
Gerardo del
Carretto sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di
Salvagia primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò,
Luigi Caterina e Stefano. Nell’atto del
1399 che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir
dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del Carretto
designato come “magnificus et egregius
d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto
dell’anno prima ([43]) era tutto l’opposto: Gerardo viene
contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio Sahone familiaris et amicus
noster carissimus”; Matteo viene relegato in secondo ordine e segnato solo come
“nobilis miles, consiliarius noster dilectus”.
MATTEO DEL
CARRETTO, primo barone di Racalmuto
Figlio di
Salvagia e Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del
Carretto di Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e
debitamente riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo
secolo, assillante nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà
promossa a contea), parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo
decennio del diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del
Carretto sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio:
Giovanni, personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di
Racalmuto. Pare che abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del
1392 non vi sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del
Carretto, ma già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le
rampogne del duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma
di Palermo ([44]) ne
fornisce indubbia testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis
Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu
expostu a la nostra maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu
tanti homini di la Licata nostri fideli
quelli di lu dictu locu qui tutti generalmente defrodaru e fichiruli
assai dispiachiri; per la quali cosa si ita est la nostra maiestati haviva causa di
meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu manifestu ki pocu bisogna
affannu di chircarisi che cumandamu ki
con omni diligencia duviti fari constringiri quelli di lu dictu locu ki
incontinenti divun restituiri tutti li cosi predicti a lu procuraturi di la presente per parte di li
altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla e non sia bisognu ki la
nostra maiestati cesaria [si occupi]
plui di questa cosa [...] per modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki
vulissi operari mali maxime quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in
Cathanie VIIII augusti XV ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur
Matheo di Carrecto»
Il
trambusto storico che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è
questa la sede per dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in
tutte le salse. Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti
Chiaramonte di Agrigento. Gli aragonesi che bussano alla porta non sono
graditi. Si è visto sopra come orde di militari famelici e predoni
scorrazzassero per le campagne: le terre racalmutesi del barone Matteo del
Carretto ne sono infestate. Ci si difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc
è già un duro: esige riparazioni, restituzioni; opera dunque come un
conquistatore spagnolo spietato ed ingordo.
Matteo del
Carretto - stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima
blando con gli Aragonesi, ha momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla
ribellione, ma alla fine ha modo di riconciliarsi con i Martino e ne diviene
fedele (ma prodigo e pertanto ultraricompensato) suddito. A suon di once,
solleticando oltre misura (evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi)
”l’avara povertà di Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è
mai stato: barone di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una
condizione giuridica che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il
predace Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine
del duca di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che
finisse proprio male.
La storia
di Andrea Chiaramonte parte, invero, da lontano e noi qui vogliamo farne un
accenno per meglio comprendere il ruolo di Matteo del Carretto.
Alla morte
di Manfredi III Chiaramonte spunta un Andrea Chiaramonte di dubbia paternità.
Nel 1391 eredita tutti i beni ed i titoli dei Chiaramonte comprese le cariche
di Grande Almirante e dell’ufficio di Vicario Generale Tetrarca del Regno;
rifiuta obbedienza a Martino Duca di Montblanc e organizza la resistenza di
Palermo all’assedio delle truppe spagnole.
Promuove la
riunione dei baroni siciliani a Castronovo nel 1391. Cerca di impegnarli alla
difesa dell’Isola contro i Martino. L’anno dopo (1392) arresosi ad onorevoli
condizioni, viene preso con inganno e decapitato dinanzi allo Steri il 1° giugno dello stesso anno.
Matteo del Carretto, con sangue chiaramontano nelle vene, prima parteggia per
Andrea ma poi l’abbandona al suo destino, trovando più conveniente
fiancheggiare i nuovi regnanti venuti dalla Spagna. Racalmuto può finire - o
ritornare - nel pieno dominio di questo cadetto della famiglia sedicente
originaria di Savona, destinata nel Quattrocento a nuovi protagonismi feudali.
Un figlio
naturale di Matteo Chiaramonte, Enrico, appare sulla scena politica siciliana
per lo spazio di un mattino: nel 1392 si sottomette a Martino dopo la morte di
Andrea e si rifugia con aderenti e amici nel castello di Caccamo, che
successivamente dovette abbandonare per andare esule in Gaeta, dove sembra
abbia finito i suoi giorni.
La nobile
prosapia scompare dall’Isola e non vi torna mai più a dominare. La sua storia è
quasi tutta la storia di Sicilia nel Trecento ed ingloba la dominazione
baronale su Racalmuto. In quel secolo non sono i del Carretto ad avere peso
sull’umano vivere racalmutese; forse una intermittente incidenza la ebbero i
Doria (in particolare, Matteo Doria); per il resto il potere porta il nome dei
Chiaramonte, il potere sul mondo contadino; quello delle grassazioni tassaiole;
quello delle cariche pubbliche; quello stesso che investe i pastori delle
anime: preti, religiosi, chiese, confraternite, decime e primizie. Oggi, i
racalmutesi, fieri delle loro due belle torri in piazza Castello, non serbano
ricordo - e tampoco rancore - per quei loro antichi dominatori e gli dedicano
strade, con dimesso rimpianto, quasi si fosse trattato di benefattori.
La turbolenta
vita di Matteo del Carretto emerge da un diploma ([45]) del 1395
(die XV° novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione
anche del grande storico siciliano Gregorio ([46]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Poi, il Castelluccio, quale sede di un diverso feudo denominato
Gibillini passò nelle mani di Filippo de
Marino, fedelissimo vassallo del Re
(1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de
Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo
Muscia. ([47])
Le note
storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del 1395 concernono i
seguenti passaggi dell’andiriviene opportunistico del nostro primo barone: su
istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla ribellione contro
i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia di credere) che
non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la minaccia che gli
avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a prosternarsi
dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro ribelle - rientrato
nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata. Questi viene ora
accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro consanguineo,
familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto costata al neo
barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a domanda ed a
risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu
sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de
tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e
su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu
quali per lu dictu serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu
dilu Valli di Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum
fuerit ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo
tunc providebit eidem.”
Matteo del
Carretto vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro
razionale”, cioè a dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma
l’ufficio è ora occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si
accontenta dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
Il diploma
prosegue:
"Item peti chi lu dictu misser Mattheu haia tutti
li beni li quali ipso et so soru [2] havj a Malta". Placet.
Notiamo il
fatto che Matteo aveva anche una sorella con la quale condivideva proprietà a
Malta.
Item peti "Lu dictu misser Mattheu chi in casu
chi, perchi ipso si reduci ala fidelitati, li soi casi, jardini oy vigni chi
fussero guastati oy tagliati, chi lu ditto serenissimo inde li faza emenda
supra chilli chi li farranno lo dannu oy di li agrigentani". Placet.
E’ uno
squarcio altamente rivelatore: Racalmuto dunque era stato assediato e
assoggettato ad angherie militari come saccheggi e distruzioni. Case, giardini
e vigne del barone erano stati oltremodo danneggiati (“guastati”, alla
siciliana, recita il testo). Se ne attribuisce la colpa agli agrigentini.
Item peti "lu ditto misser Mattheu chi in casu
chi lu so castello si desabitassi chi quandu fussi la paci li putissi
constringiri a farili viniri a lu so casali." Placet.
Il feudo di
Racalmuto si era spopolato, dunque. Tanti villani erano fuggiti; la servitù
della gleba - allora sotto diversa forma drammaticamente imposta - aveva
trovato uno spiraglio per empiti di libertà. Con la forza, ora il barone poteva
andare all’inseguimento di quei fuggiaschi e ricondurli alle pesanti fatiche
del lavoro dei campi coatto.
La formula,
dunque, fu assolutoria, ampia, faconda, omnicomprensiva, rassicurante. Ancora
una volta ci domandiamo: quanto è costata? Chi ha pagato? Quale ripercussione
sulle esauste finanze racalmutesi?
La chiosa
finale fu ulteriormente munifica per l’avventuriero ligure che prende
inossidabile possesso delle nostre terre, dei nostri antenati, della giustizia
che è possibile praticare nelle plaghe del nostro altipiano. Storia appena
“descrivibile” per Sciascia: materia di riprovazione politica ed accensione
passionaria per noi. Sciascia non amava i sentimenti (forse faceva eccezione
per i risentimenti). Più che per il “tenace concetto” (che poi era solo
testardaggine) di fra Diego La Matina, gli stilemi sciasciani avrebbero avuto
più valore civico se rivolti a stigmatizzare questo trecentesco impossessamento
dei liguri del Carretto di noi tutti racalmutesi.
Non tutto è
negativo però nella storia di Matteo del Carretto: pare che s’intendesse di
letteratura e addirittura di letteratura francese (sempreché questo vuol dire un
ordine ricevuto da Martino nel 1397). Ne parla Eugenio Napoleone Messana; ma la
fonte è Giuseppe Beccaria ([48]) che ha
modo di narrare:
«Costoro
[armate spagnole guidate da Gilberto Centelles e Calcerando de Castro] e con
cui era anche Sancio Ruis de Lihori, il futuro paladino della seconda moglie di
Martino, la regina Bianca, approdavano in Sicilia nello scorcio del 1395; e nel
1396 ultima a cedere tra le città appare Nicosia, ultimo tra i baroni Matteo
del Carretto, signore di Racalmuto [pag. 17] ...
Il 5
giugno, infatti, nel 1397 egli [il re] scriveva da Catania a un certo Matteo
del Carretto chiedendogli in prestito la Farsaglia
di Lucano in lingua francese, di cui costui teneva un bello esemplare, allo
scopo di leggerla e studiarla e metterne a memoria alcune delle storie.»
[Documenti pag. 97 - I (F.72 e segg.) - 5
giugno 1397.]
Dirigitur matheo de carrecto.
Dominus rex mandavit mihi motaro furtugno.
(Registro -
Lettere Reali, num. I anni 1396-97, Vª Ind. - Archivio Stato Palermo)
* * *
Matteo del Carretto
ebbe quindi a subire le vessazioni della curia che non voleva riconoscergli i
titoli nobiliari che i Martino in un primo momento sembravano avergli
consentito. E’ costretto a scomodare il fratello Gerardo della lontana Genova,
notai di Agrigento, deve oliare abbondantemente le ruote della corte e quando
sta per riuscire nell’impresa ecco arrivare la morte. Tocca al figlio Giovanni
I continuare le beghe legali. E se in un atto del 13 aprile del 1400 il barone
capostipite appare ancora in vita, il 22 agosto del 1401 risulta già defunto.
Gli succede Giovanni I del Carretto
GIOVANNI I DEL CARRETTO
Nato nella
seconda metà del Trecento, muore attorno al 1420: eredita dal padre la baronia
di Racalmuto quando ancora irrisolti erano certi inceppi giuridici che la corte
frapponeva, e riesce a definirli. Con lui non vi sono più dubbi che Racalmuto è
feudo dei del Carretto: manca però un tassello; non è certo se spetti a questi
trapiantati liguri il sovrano diritto del mero e misto impero. La questione si
riproporrà a fine ’500. Apparentemente risolta a favore dei del Carretto,
saranno preti irriducibili quale il Figliola e l’arciprete Campanella che la
revocheranno in dubbio nella seconda metà del Settecento e l’avranno vinta,
forse perché allora spirava l’aria illuminista del viceré Caracciolo.
Nel
processo d’investitura del successore di Giovanni, Federico del Carretto,
abbiamo dati biografici di questo barone di Racalmuto. Vi si legge tra l’altro:
magnificus dominus Mattheus di lu Garrettu fuit et erat
verus dominus et baro dictorum casalis et castri Rayalmuti percipiendo fructus
reditus et proventus paficice et quiete et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica et ..
dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus iugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de
hoc fuit vox notoria et fama publica et ..
ex dicto magnifico domino Johanne et magnifica domina
Elsa jugalibus natus et procreatus fuit dominus magnificus dominus Federicus de
Garrecto ad presens baro dictae baronie Rayalmuti et qui tamquam filius
legitimus et naturalis subcessit in baronia predicta percipiendo fructus
reditus et proventus et de hoc fuit et est vox notoria et fama publica etc. ..
Giovanni
del Carretto nasce dunque da Matteo ed Eleonora del Carretto; da una certa Elsa
procrea quello che sarà il erede nella baronia Federico del Carretto.
Fu un
legittimo matrimonio? La formula del processo non lascia adito a dubbi (filius
legitimus et naturalis) ma un vallo di tempo troppo lungo (dalla presunta morte
di Giovanni I attorno al 1420 alla data del processo d’investitura di Federico
caduta nel 1452 passano ben 32 anni) lascia adito a dubbi, specie se si dà
credito allo Bresc che vuole la nostra baronia passata di mano agli Isfar, sia
pure per una inverosimile dissipazione dei beni da un Giovanni I del Carretto,
inopinatamente divenuto sperperatore delle proprie fortune.
Dagli
archivi di Stato di Palermo emerge il ruolo di Giovanni I del Carretto nella
gestione della baronia racalmutese: in data 17 agosto 1401 giungeva una
lettera da Catania per la sistemazione
delle pendenze fiscali.
Martino
segnalava che era stata fatta un’inchiesta tributaria relativa ai riveli ed
alle decime per il tramite di Mariano de Benedictis. Questa la situazione del
giovane barone di Racalmuto: v’era la
successione della baronia da Matteo al medesimo Giovanni I; al contempo si
erano accumulate due annualità scadute, quella relativa alla settima indizione
(1399) e l’altra riguardante l’ottava (1400), nonché quella in corso (1401); ne
conseguiva un carico di 40 once d’oro. Il diploma che ha il sapore di una
quietanza attesta che la posizione è stata sistemata come segue: 30 once in contanti e dieci a compensazione di un mutuo a suo tempo approntato da Matteo
del Carretto alla curia regale.
Nella
«Storia di Sicilia» vol. III, Napoli 1980, pag. 503-543 Henri Bresc scrive (sia
pure in una traduzione dal francese rinnegata) : «Il basso costo della terra - che si segue sulla curva dei prezzi medi
dei feudi venduti dalla nobiltà - obbliga ad un indebitamento sempre più
pesante ed ad una gestione molto rigorosa del patrimonio residuo. E ci si avvia
all’intervento della monarchia e della classe feudale nell’amministrazione dei
domini fondiari e delle signorie: Giovanni del Carretto è così privato nel 1422
della sua baronia di Racalmuto, affidata in curatela a suo genero Gispert
Isfar, già padrone di Siculiana». Non viene però citata la fonte, per cui
la notizia va presa con le molle.
Nella nuova
opera, invece, “Un monde etc” altrove citata, vi è qualcosa in più: viene
precisata la fonte: «ACA Canc. 2808, f.
54: le bon baron vivait joyeusement, et mangeait son blé en herbe, ce qui
passe, aux yeux de l’avide catalan, pour “simplicitat ... fora de enteniment
rahonable”». [Per ACA Canc. s’intende:
“Archivio de la Corona de Aragòn, Barcellona - Cancileria. Il fondo 2808
riguarda: Comune Siciliae, n.° 2801 à
2880 (1416-1458) op. cit. pag. 29]. Sarebbe da rintracciare quel foglio 54
al fine di ben ricostruire questa vicenda della curatela della baronia di
Racalmuto affidata a Gispert d’Isfar.
Una
quadratura del cerchio noi la tentiamo pur sapendo che è molto sdrucciolevole:
forse attorno al 1420 Giovanni I del Carretto cessò di vivere lasciando
piuttosto imberbe il suo primogenito Federico. Gispert Isfar, l’intraprendente
genero brigò facendo apparir miseria là dove non c’era per sottrarre l’eredità
e la successione baronale di Racalmuto alle pesanti tassazioni spagnole (donde
gli incerti diplomi appena abbozzati dal Bresc). Resta anche saliente il fatto
che il caricatoio di Siculiana, antico retaggio dei del Carretto, passa di mano
e finisce in preda degli Isfar (una dote della figlia di Giovanni del Carretto
o un’usurpazione avallata da Barcellona?).
FEDERICO DEL CARRETTO
Singolare
quel nome che come quello di Ercole figura una sola volta nella genealogia dei
baroni del Carretto di Racalmuto. Di Federico del Carretto abbondano però le
cronache agrigentine, ma trattasi di figure dei vari rami cadetti.
Non
possiamo revocare in dubbio che sia il figlio legittimo e naturale di Giovanni
I del Carretto. Con Federico si iniziano i processi palermitani
dell’investitura del titolo feudale di Racalmuto e lì - in diplomi a ridosso
degli eventi - la sequenza genealogica è indubitabile (come abbiamo visto dai
passi in latino sopra riferiti).
“Filius
legitimus et naturalis” di Elsa e Giovanni I del Carretto è, invero, dichiarato
ma non si accenna neppure larvatamente al requisito (indispensabile nel diritto
feudale dell’epoca) della primogenitura. Giovan Luca Barberi - quanto pignolo
Dio solo sa - non ha però dubbi ed avalla l’investitura nei seguenti termini:
«E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio
primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone
arcivescovo palermitano l’investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi
sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della
regia curia e delle costituzioni del signor Re Giacomo e degli altri
predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande
dell’anno 1453 nelle carte 565. » ([49])
Nel 1410 la
Sicilia visse la svolta del vuoto di potere determinatosi per il decesso senza
eredi legittimi dei due Martino e subì i traumi dell’interstizio determinato
dalla contrastata reggenza della regina Bianca. Con il 1416 si apre la lunga
gestione di Alfonso d’Aragona che dura ben 42 anni. Ed è verso la fine del
regno alfonsino che Federico del Carretto s’induce a sborsare i quattrini per
avere il riconoscimento della baronia di Racalmuto. Alfonso d’Aragona gli
accorda quella investitura ma a queste condizioni:
n presti il
cosiddetto servizio militare e cioè corrisponda 20 once ogni anno;
n renda
l’omaggio nelle forme solenni del tempo;
n restino
salvi i diritti di legnatico dei cittadini racalmutesi;
n e del pari
restino riservate alla Corona le
miniere, le saline, le foreste e le antiche difese;
n resti
salvaguardata la libertà di pascolo nel casale e nell’annesso feudo per gli
equipaggiamenti regi.
Per il
resto possesso assoluto sino al mare.
Una cosa è
certa; Federico del Carretto era saldamente insediato nella baronia di
Racalmuto ben prima che avesse l'investitura da Alfonso d'Aragona l'11 febbraio
1453. Reperibile presso l'archivio di Stato di Palermo il contratto che lo
vedeva associato nel 1451 a Mariano Agliata per uno scambio di grano delle
annate del 1449 e 1450 contro quello di Girardo Lomellino consegnabile a
luglio. E il Bresc [op. cit. pag. 884] commenta: «ce qui permet une fructueuse
spéculation de soudure». In termini moderni si parlerebbe di forward in grano. La domiciliazione
sarebbe stata pattuita presso il "Caricatore" di Siculiana. Fonte
citata: ASP ND G.Comito; 18.1.1451, cioè Archivio di Stato di Palermo - Notai
Defunti - Giacomo Comito (1427-1460) - n.° 843 a 850
Sempre il
Bresc fornisce nella citata opera un'altra interessante notizia. Secondo quello
che appare nella tavola n.° 200 di pag. 893, Federico del Carretto sarebbe
stato coinvolto in una rivolta antifeudale estesasi anche a Racalmuto. Questa
volta la fonte citata è un libro: «Luigi Genuardi, Il
Comune nel Medio Evo in Sicilia, Palermo, 1921».
GIOVANNI II DEL CARRETTO
La rivolta
a Racalmuto del 1454 di cui parla il Genuardi dovette essere cosa seria se da
quel momento sino al 1519 i processi d’investitura tacciono.
Dalla
ficcante indagine del Barberi sappiamo - e non c’è motivo per dubitarne - che a
Federico successe Giovanni II del Carretto. Non sappiamo quando e come. Il
Baronio, lo storico di famiglia del Carretto del 1630, ne sa ben poco: «Ioannes
natus maior, cum familiam rebus praeclare gestis aeternitati commendasset.
Herculem, ac Paulum habuit sibi, nec maioribus dissimilem suis. In unoquoque
semper avitae nobilitatis fulgor eluxit.» Parole di circostanza per colmare
evidenti carenze di notizie. Quali siano quelle gesta che affidarono la
famiglia alla memoria dei tempi futuri, non ci dice e noi non ne abbiamo
nessuna ... memoria. Accontentiamoci del
fatto che fosse il figlio maggiore
[natus maior] e che avesse partorito il successore Ercole, il celebre
falso conte della venuta della Madonna del Monte, e Paolo di cui gli archivi
vescovili di Agrigento ci hanno tramandato qualche dato sulla sua litigiosità
con i sindaci di Racalmuto ([50]).
Apprendiamo
dalla valida ricerca del Sorge su Mussomeli ([51]) che «lu fegu di Rabiuni lu teni lo Mag.co Baruni
di Regalmuto per anni ... vinduto per lo Mag.co Signuri Pietro lo Campo unzi
trentacincho, uno vitellazzo, una quartara di burru, uno cantaro di formaggio.»
Quando sia
avvenuta quella compravendita non sappiamo; il rendiconto è del 1486 e come si
è visto, non è neppure detto a quali precedenti anni si riferisca la vicenda di
cui alla posta contabile. Da quel che si legge nel Sorge (op. cit. pag. 209 e
segg.) potrebbe trattarsi degli anni attorno all’11 ottobre 1467 (data in cui
“venne stipulato il contratto col quale il procuratore di Ventimiglia
rivendette a Pietro Del Campo la baronia di Mussomeli, col suo castello ...”).
Le nostre successive indagini presso gli Archivi di Palermo (in particolare
“Archivio Campofranco, Fatto delle cose
notabili etc.” e “Conservatoria, Privilegia,
confiscationes bonorum et investiturae, 1459 e 1489, foglio 536”, di cui in
Sorge) non ci hanno sinora consentito di chiarire alcunché quanto ai del
Carretto e specificatamente a chi si riferisse l’atto di vendita del feudo
Rabiuni di Mussomeli. Azzardiamo il nome di Federico del Carretto. Sembra
dunque appurato che dal 1459 al 1489 la famiglia del Carretto di Racalmuto si
sia bene ripresa dalla crisi del 1454 ed abbia avuto fondi sufficienti per
acquistare il costoso feudo Rabiuni di Mussomeli e mantenerlo anche se
notevolmente oneroso. Del resto, in quel tempo, Racalmuto dovette divenire un
centro di abbienti: nello stesso “conto del segreto Bonfante del 1486” (di cui
in Sorge pag. 386) si accenna al possesso feudale di un altro racalmutese. «Lu fegu di Santu Blasi - vi si annota - lu teni Mazzullo di Alongi di la terra di
Regalmuto per anni 3 videlicet quinte Ind. 6 Ind. E 7 Ind. Et pri unzi
quattordichi quolibet anno uno crastatu, uno cantaro di formaggio, et una
quartara di burru quolibet anno da pagarsi la mitati a menzu Septembru et la
mitati a la fera di Santu Juliano intentendosi quindici anni primi poi di
Pasqua.» ([52])
Il Barberi,
che l’inchiesta - piuttosto acidula contro i del Carretto - la fa a ridosso degli anni della baronia di
Giovanni II, ha questi appunti critici:
«E morto il cennato
Federico, gli successe Giovanni del Carretto, suo figlio, il quale, come appare
dall’ufficio della regia cancelleria, non prese giammai l’investitura della
detta terra.»
ERCOLE DEL CARRETTO
E subito dopo abbiamo Ercole del Carretto, quello che le saghe
sulla venuta della Madonna del Monte chiamano “Conte”. Il Barberi annota su di
lui:
«Morto il detto Giovanni,
gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e naturale e maggiore del
detto Giovanni, del quale del pari non risulta investitura alcuna ed al
presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole del Carretto, con un
reddito annuo superiore ad once 700.»
Il
Baronio, come si è visto, quasi non lo cita: un accenno trasversale, come si
fosse trattato di un riflesso sbiadito del gran fulgore che era stato il padre.
Il
Barberi ebbe a conoscerlo giacché è proprio sotto Ercole del Carretto che
visita Racalmuto come lascia intravedere il passaggio : al presente si possiede quella terra per lo
stesso Ercole del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
Settecento once di reddito - a meno che non
trattisi di esagerazioni fiscali alla stregua delle mirabolanti cifre dei
moderni accertamenti degli agenti tributari - sono un’enormità. Sia quel che
sia, Racalmuto dunque in esordio del ’500 - e proprio sotto Ercole del Carretto
- ha un salto quantitativo, un empito verso il grande centro. Nostri precedenti
studi ([53]) hanno
messo in evidenza questo significativo passaggio demografico e sociale. Dal
rivelo del 1505 (un paio d’anni dopo la venuta della Madonna) emerge una
popolazione aggirabile sui 1600 abitanti: un secolo prima (nel 1404) erano poco
più di 750. Certo, la baronia dei del Carretto non era stata molto felice e
varie strozzature demografiche e sociali si erano verificate. Le abbiamo notato
in quello studio, ma tutto sommato si poteva essere abbastanza soddisfatti.
La venuta della
Madonna del Monte
Era
persino sorto un clima messianico per cui era potuta allignare la saga della
Madonna del Monte. Sciascia è caustico:
«correva l’anno 1503, ed era
signore di Regalpetra Ercole del Carretto ... C’è poi da dire che la statua è
della scuola dei Gagini, e appare molto improbabile sia finita in Africa; ma di
più di ogni altra è inquietante la considerazione sulla scelta della Madonna
tra il Gioeni e il del Carretto, tra i castronovesi e i regalpetresi;
inquietante come l’apparizione dell’immagine di Cristo su una parete al professor
Pende, perché proprio al professore, perché al del Carretto, perché tra i regalpetresi la Madonna ha
voluto fermarsi, la popolazione di Castronovo essendo in egual misura fatta di
uomini onesti e di delinquenti, di intelligenti e di imbecilli.» ([54]) Ma è
proprio lui che poi negli Amici della
Noce se la prende con l’incolpevole padre Morreale, reo a suoi occhi di
avere cercato un po’ di luce (storica) su questa saga cui tutti i racalmutesi
siamo legati.
Neppure, a
ben vedere, riusciamo a concordare del tutto con il valente padre gesuita sui
motivi che avrebbero spinto gli odiati Requisenz ad inventarsi la leggenda
della Madonna del Monte «per fare apparire i Conti del passato, ma
intenzionalmente quelli del presente, quali grandi benefattori del paese: così
il barone Ercole Del Carretto, e con lui tutta la sua famiglia, cominciò ad
essere presentato nella leggenda come insigne benefattore del culto della
Vergine del Monte, costruttore della sua prima chiesa nel 1503.» ([55]) Osta se
non altro il fatto che i Requisenz si appropriano di Racalmuto il 28 gennaio
1771 ed a quella data la saga era ben
salda nei cuori e nella fede dei racalmutesi, come dimostra l’ex voto che si
ammira al Monte. Precedente era anche lo scritto di Francesco Vinci (pubblicato
secondo lo stesso padre Morreale, pag. 35) nel 1760 e forse anche quello di
Nicolò Salvo. Ma soprattutto appare dirimente il fatto che già nel 1686 la
curia vescovile di Agrigento considerava “miracolosissima imago” (imagime molto
miracolosa) quella che si venerava nella chiesa di S. Maria del Monte di
Racalmuto. ([56]) Il nostro spirito laico ci è d’intralcio nel
chiarire questioni come questa, che coinvolgono aspetti di sì rilevante
complessità religiosa. Umilmente riteniamo che Ercole del Carretto ebbe davvero
a costruire la prima chiesa del Monte (di una precedente chiesetta intestata a
S. Lucia, non abbiamo alcun documento probante) ed ebbe a corredarla facendo
venire da Palermo una statua di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine
marmorea, così somigliante alle giovani madri di Racalmuto, brevilinee e
rotondette, dovette impressionare e sbalordire gli ingenui occhi dei contadini
locali. Legarvi il senso del portento, del miracolo, fu semplice e
coinvolgente. Già nel 1608, in una visita pastorale, quel simulacro era
maestosamente eretto sull’altare maggiore della Chiesa del Monte: il vescovo -
recita il testo episcopale - “Visitavit altare maius super quo est imago
marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata”.
Tratti anagrafici
di Ercole del Carretto
Scarne sono
le notizie che abbiamo su Ercole del Carretto. Non sappiamo quando nasce:
la morte cade invece nel gennaio del 1517. Sposò tale Marchisa di cui ignoriamo
il casato.
Dal
processo d’investitura del figlio Giovanni III possiamo abbozzare questi altri
dati: fu “signore e barone della terra di Racalmuto e tenne e possedette quella
terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con tutti i suoi
diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le volte che gli
piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e proventi della
baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il figlio Giovanni
come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo trattava e come
tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato dagli altri.”.
“In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre del signor
Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della terra di
Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere redatto solenne
testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della città di
Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire suo erede
universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Nel
suo processo d’investitura si legge che:
a «Johanni de Carrectis» successe «quondam magnificus Hercules, unicus
filius legitimus et naturalis.» ([57])
Crediamo
che il noto giurista operante a Racalmuto Artale de Tudisco fosse già al
servizio di Ercole del Carretto. Altro notabile dell’ entourage carrettesco fu il nobile Alonso de Calderone che così
testimonia: «stando ipsu testimonio como
uno degli domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di
Rayalmuto, vidia dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in
quella permutari li officiali et rescotirisi et fachendosi rescotirj li renditi
et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni et canuxi lo dicto don
Joanni de Carrectis esseri figlo
primogenito et unico di dicto quondam signuri Erculi lu Garrecto a lu quali lo
dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlio unico et primo
genito et da tucti accussi era tenuto, trattato et reputato; lu quali dicto
quondam magnifico Herculi baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo
presenti lo vitti sepelliri et secondo intisi dicto magnifico Herculi innanti
sua morti fichi testamento.»
Testimoniò
anche certo Francesco Maganero come intimo del defunto barone, così come il
“nobile” Andrea de Milazzo. Personaggi egualmente di risalto furono i “nobili”
Antonino Palumbo, Alfonso de Silvestro e Gaspare Sabia.
Il
cennato processo include anche uno stralcio del testamento di Ercole del
Carretto che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino:
«E’
da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile
Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto
capitolo.
«Nel
nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517,
nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello
del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E
poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede
universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore,
istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor
D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da
lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un
tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E
tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e
futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque
esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia,
nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi,
emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo
spettanti e pertinenti, secondo la serie
ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli
atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26
marzo - VI^ Ind. - 1518.»
Il
testamento ci svela come Ercole del Carretto abbia sposato in prime nozze la
citata Marchisa madre del primogenito Giovanni III. Ercole contrasse
sicuramente altre nozze ma non ne sappiamo nulla.
Paolo del
Carretto
Di
quale madre fosse, ad esempio il terribile Paolo del Carretto, non è dato
sapere. Abbiamo un inghippo che non è facile districare. Alcuni testi
dichiarano Giovanni III del Carretto figlio unico di Ercole (vedi testimonianza
del Tudisco così come del Calderone), ma nel testamento del Quaglia questo
aspetto viene glissato. Supposizioni se ne possono fare tante, ma il dubbio
resta. Ed allora va creduta la rutilante storia che il Di Giovanni ci fornisce,
oltre un secolo dopo, nella rinomata Palermo
restaurata? Siamo propensi per l’ipotesi affermativa. Va qui allora
ricordato che nel 1630 circa quello strano personaggio che fu il cavaliere Di
Giovanni scrisse per sé secentesche
memorie che oggi sono una miniera di notizie. Discendente per via laterale dai
del Carretto e addirittura da Ercole del Carretto - almeno a suo dire -
confezionò un racconto truculento in cui non è facile distinguere il loglio dal
grano. Investe la Racalmuto dei primi del ’Cinquecento e noi non possiamo
esimerci dal reiterare quel racconto, quanto bizzarro ed inventato Dio solo sa.
«Nel tempo che fu Lotrecco
[Lautrec] a Napoli successe in Sicilia lo caso di Barresi, il qual si nota dopo
quel di Sciacca. E fu il predetto caso, che essendo nella città di Castronovo
D. Paolo Carretto, mio avo paterno, uomo di gran valore, e avendo differenza
con uno di casa Barresi, gli diede il Carretto uno schiaffo; onde ne successe
fra loro gravissima inimicizia, in modo che la città si ridusse a parte.
Un giorno volle il
Carretto andar a visitare suo fratello D. Ercole, signor di Racalmuto, e vi
andò con 25 cavalli. Ma saputo ciò per le spie da’ nemici, lo assaltâro alla
piana di santo Pietro. Vide egli da lungi venire i nemici; e potendosi salvare
nella chiesa di santo Pietro, gli parve viltà, e si risolse piuttosto morire,
che far gesto di sé indegno. Si venne tra loro alle mani; ché animosamente il
Carretto investì, e ne morsero dall’una e dall’altra parte.
Ma il Carretto,
investendo il suo nemico, era con un pugnale a levargli la vita, avendolo preso
per il petto, quando uno de’ compagni con una saetta lo percosse in fronte e lo
mandò morto a terra.
Satisfatti perciò i
nemici, attesero a salvarsi, e se ne andâro alle guerre del Trecco [Lautrec] a
servire Sua Maestà, perché erano due fratelli; e gli successe in una giornata
di adoperarsi valorosamente sotto la condotta del conte Borrello, figlio del
viceré, perché mantennero un ponte tutti e due, tanto quanto gli arrivasse il
soccorso; dal che si evitò gran danno, che poteva succedere agl’Imperiali.
Del che fattosene
relazione a Sua Maestà, spedita la guerra, fûro i predetti due fratelli
indultati in vita, e fûro fatti capitani d’armi per il regno.
Sentì gravemente il
successo D. Giovanni Carretto, nepote del predetto D. Paolo; e più per vedersi
i nemici, in quel momento favoriti, stargli innante gli occhi, e perché era di
gran valore e chimera, procurò quello, che non avea procurato il padre D.
Ercole.
In quel tempo era nella
città di Naro Enrico Giacchetto, uomo valorosissimo e potente, consobrino di
mia ava paterna, il quale, per avere inimicizia con il barone di Camastra, anco
della città di Naro, manteneva a sue spese cento cavalli, ordinariamente di
gente scelta e valorosa, con li quali faceva allo spesso gesti eroici e singolari. Di costui ne
temeva tutto il regno.
D. Giovanni del Carretto,
figlio del predetto D. Ercole, si fé chiamare il predetto Enrico, che gli era
amicissimo, a cui conferì il suo pensiero, e lo richiese che si volesse
adoperare per lui in satisfarlo di quell’oltraggio.
Gli promise buona opera
Enrico; e perché si sentiva che i Barresi si volevano levar le mogli e le case
da Castronovo, e portarsele alla città di Termine, li appostò Enrico con
quaranta cavalli, e, venendo quelli a passare per il fundaco delle Fiaccate,
per quel cammino assaltò i predetti fratelli con molta compagnia. I quali non
prima si videro Enrico addosso, che sbigottiti si posero a fuggire, e furono
finalmente giunti, presi ed uccisi.
E se ne presero le
teste, che furono portate al predetto D. Giovanni, il quale, benché prevedesse
gran travagli di giustizia, ne fu pure assai satisfatto e contento; tanto si
estimava l’onore in quei tempi.
N’ebbe al fine gran
travagli: ma col tempo ne riuscì con vittoria, grandissimo onore e
reputazione.»
“Più solidità e più stabilità” Eugenio Napoleone Messana (op. cit.
pag. 95) pensa che possa avera il suo congetturare sulla genesi della saga
della Madonna del Monte, quale trasfigurazione dei fatti sopra narrati.
Francamente non ce la sentiamo di seguirlo. Non siamo neppure certi, come si è
visto, che Paolo del Carretto fosse racalmutese e fosse davvero figlio del
barone Ercole.
Probabile invece che una
volta conosciuta la tresca di Paolo, Ercole e Giovanni del Carretto, nelle
prime decadi del Seicento, abbia preso corpo a Racalmuto la sublimazione della
vetusta e pia memoria della “venuta” di
quella adoratissima immagine marmorea della Madonna del Monte.
Il
canto popolare che la prof.ssa Isabella Martorana ha saputo recuperare dalla
viva voce delle locali vecchiette non è coevo certo alla venuta della Madonna
del Monte, ma ha insiti spunti storici che sia pure postumi meglio rispecchiano
la genesi della saga. Venuta da Trapani - più verosimile che si fosse parlato
di Punta Piccola - , “intranno a Racarmuto pi la via/ vonzi ristari cca la gran
Signura”, sono scisti con qualche valenza storica. Ma visto che “a lu conti cci
arrivà mmasciata”, il riferimento è decisamente postumo, databile dopo il
declinare del XVI secolo. Il carme dialettale, bello esteticamente, lascia
nelle brume anch’esso l’origine della pia tradizione del miracoloso evento
della Madonna del Monte che sceglie la sua dimora nel nostro paese, in cima
alla panoramica altura della omonima chiesa.
GIOVANNI III DEL CARRETTO
Figura centrale nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche
colui che seppe portare all’apice la signoria carrettesca della nostra terra.
Alla morte del padre s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto
della liturgia feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico
Artale Tudisco - di cui sopra - ed il 28 gennaio 1519 ottiene la rituale
investitura.
Giovanni III del Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato
della committenza di un delitto contro i Barresi di Castronovo. Così racconta
il suo lontano pronipote Vincenzo di Giovanni. Ma sarà stato poi vero? Si dà il
caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano - per quel che vedremo - un
uomo religiosissimo, al limite del bigottismo, prodigo con preti, monaci e
chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo Damiano che finì sotto tortura
nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si scrisse. Per eccessiva
indulgenza verso gli eccessivi empiti di prodiga religiosità del suo assistito
in punto di morte, abbiamo voglia di pensare noi.
Il Baronio ce lo descrive ovviamente in termini esageratamente
elogiativi. Traducendo dal latino, per quello storico di casa del Carretto «Da
Ercole si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata
virtù. Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di tal che, sia
per la propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra
i Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso
Federico che divenne barone di Sciabica.» (vedi op. cit. §§ 75 e 76)
Processo
d’investitura
Sul citato Giovanni fornisce lumi il processo n. 1175.([58])
Ne abbiamo fatto già qualche richiamo. Siccome lo riteniamo basilare per la
storia racalmutese del secolo XVI, lo trascriviamo, traducendo, quando occorre,
dal latino.
«N.° 1175 - In Palermo nell’ufficio del Protonotaro del Regno di Sicilia, sotto
la data del 28 gennaio, VII^ Ind., 1519.
«Memoriale esibito e presentato nell’Ufficio
del Protonotaro del Regno di Sicilia, dall’ill. Artale de Tudisco, procuratore
del magnifico signore don Giovanni del Carretto, figlio primogenito, legittimo
e naturale, unico ed universale erede del quondam magnifico Ercole del
Carretto, un tempo signore e barone della terra di Racalmuto (Rayalmuti), che
teneva e possedeva la detta terra di Racalmuto con il suo castello e
fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze a seguito della morte del
prefato quondam magnifico Ercole, suo padre.
E tanto per prendere l’investitura
della detta baronia con i suoi diritti e pertinenze tanto per la morte del
signor nostro Re Ferdinando, di gloriosa memoria, quanto per la successione
delle maestà cattoliche, la Regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri
invittissimi, quant’anche per la morte del prefato quondam magnifico Ercole del
Carretto, suo padre.
«Innanzitutto, si afferma che il
detto quondam magnifico Ercole del Carretto, padre del detto magnifico don
Giovanni, al tempo della sua vita, e fino alla sua morte, tenne e possedette la
terra di Racalmuto, con il suo castello
e fortilizio, nonché con i suoi diritti e pertinenze, cambiando tutti gli
ufficiali tutte le volte che piacque al medesimo quondam magnifico barone
Ercole e percependo e facendo percepire i relativi frutti, redditi e proventi
da vero signore e padrone.
«Del pari, si testimonia che il
prefato magnifico signore Giovanni del Carretto fu ed è figlio primogenito,
legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole e come tale e per tale
lo teneva, trattava e reputava, così come era dagli altri tenuto, trattato e
reputato.
«Del pari, si afferma che il detto quondam
magnifico Ercole del Carretto, un tempo signore e barone della detta terra e
padre del detto magnifico signor Giovanni del Carretto, quando piacque al
Signore, morì e defunse nel castello della predetta terra di Racalmuto, sotto
la data del mese di gennaio, VI^ Ind., 1517, lasciando superstite e successore
in detta baronia il detto magnifico quondam Giovanni del Carretto, dello stesso
quondam magnifico Ercole figlio unico, legittimo e naturale, ed avendo prima
redatto testamento solenne in mano del notaio Antonio Quaglia del città di
Agrigento, sotto il giorno 27 del predetto mese di gennaio, testamento nel
quale venne istituito suo universale erede il detto magnifico signor Giovanni.
«Del pari, si afferma che, morto e
defunto il detto magnifico Ercole, il detto magnifico don Giovanni del
Carretto, quale figlio legittimo e naturale del detto quondam magnifico Ercole,
e come successore legittimo in detta baronia, ebbe per il tramite del suo procuratore, prese e conseguì l’attuale, reale e corporale possesso della
detta terra di Racalmuto con il suo castello e fortilizio, nonché con i suoi
diritti e pertinenze, secondo quanto risulta dal rogito celebrato nella terra e
nel castello predetti dal notaio Antonio Quaglia della città di Agrigento in
data 16 di gennaio VI^ Ind. 1517.
«Del pari, si afferma che in questo
regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato cattolico
Re Ferdinando, di gloriosa memoria, morì e che il suo ultimo giorno di vita
cadde nel mese di gennaio della IV^ indizione [1516] passata prossima ed a lui
successe in tutti i suoi dominî e regni
la serenissima Regina donna Giovanna, sua figlia legittima e naturale, nonché
il cattolico ed invittissimo Re Carlo, della stessa regina Giovanna figlio
primogenito e naturale. Così fu ed è la verità.
«Del pari, si afferma che al fine
di prestare il debito giuramento e l’omaggio della dovuta fedeltà e del vassallaggio, nonché di
ottenere l’investitura della predetta terra e castello, con tutti i suoi
diritti e pertinenze - tanto per la morte di Re Ferdinando, di gloriosa
memoria, quanto per la morte del proprio padre - seriamente creò ed istituì suo
procuratore il magnifico illustre Artale de Tudisco, come risulta dalla procura
agli atti dell’egregio notaio Giovanni de Malta, in data 26 del presente mese
di gennaio VII^ Ind. 1519.
«Testi
ricevuti ed esaminati nell’ufficio del Protonotaro del Regno a richiesta ed
istanza del magnifico don Giovanni del Carretto, figlio legittimo e naturale
del quondam magnifico don Giovanni del Carretto, al fine di prendere
l’investitura della baronia di Racalmuto, tanto per la morte del Re Ferdinando,
di gloriosa memoria, quanto per la morte del magnifico Ercole del Carretto, suo
padre e signore di detta terra.
«Il
Nobile Alonsio de Calderone giura solennemente per testimoniare che: “stando ipsu testimonio como uno degli
domestichi di lo quondam magnifico Herculi lu Garretto baruni di Rayhalmuto
vidia dicto magnifico regiri et governari la dicta terra et in quella permutari li officiali et rescotiri et fachendosi rescotirj li
renditi et proventi di dicta terra comu veru signuri et patruni; et canuxi lo
dicto don Joanni de Carrectis esseri figlo primogenito et unico di dicto
quondam signuri Erculi lu Garrecto, a lo
quali lo dicto quondam magnifico Herculi tenia et reputava per figlo unico et
primo genito et da tucti accussì era tenuto, trattato et reputato; lo
quali dicto quondam magnifico Herculi
baruni fu mortu in lo castello di dicta terra et lo presenti testimonio lo
vitti sepelliri et secondo intisi dicto testimonio dicto magnifico Herculi
innanti sua morti fichi testamento ...”
«Francesco
Maganero giura solennemente per testimoniare in modo del tutto conforme alla testimonianza resa prima.
«Il
nobile Andrea de Milazzo giura solennemente per testimoniare in modo del tutto
conforme alle testimonianze rese prima.
«I
nobili Antonino Palumbo, Alonso de Silvestro e Gaspare Sabia giurano
solennemente per testimoniare che: “in
questo Regno di Sicilia fu ed è fama pubblica e voce notoria che il prefato
cattolico Re Ferdinando, di religiosa memoria, haviri
passato de questa vita in sancta gloria in lo misi di ginnaro anni IIIJ Ind.
proximae decursae a lu quali successiru in tutti soj reamj et segnurij la
serenissima regina dop.na Johanna sua figla legittima et naturali et lo
catholico et invictissimo re Carlo della
stessa Giovanna figlio primogenito, legittimo e naturale ... “
«E’
da sapere come fra gli altri capitoli del testamento del quondam spettabile
Ercole del Carretto, barone della terra di Racalmuto, vi è l’infrascritto
capitolo.
«Nel
nome del Signore nostro Gesù Cristo, amen. Nell’anno dall’incarnazione 1517,
nel mese di gennaio, il giorno 27, VII^ indizione, in Racalmuto e nel castello
del magnifico e spettabile signor Ercole del Carretto [si raccolgono le ultime
volontà testamentarie], accese tre candele verso la quinta ora della notte.
«E
poiché capo e principio di ogni testamento fu ed è l’istituzione dell’erede
universale, così il detto magnifico e spettabile signor Ercole, testatore,
istituì, fece ed ordinò suo erede universale il magnifico e spettabile signor
D. Giovanni del Carretto, suo figlio legittimo e naturale, nato e procreato da
lui e dalla quondam magnifica e spettabile donna Marchisa del Carretto, un
tempo prima moglie dell’illustre e spettabile testatore sopraddetto.
«E
tale eredità si estende sopra tutti i beni suoi, mobili e stabili, presenti e
futuri, amovibili ed inamovibili, nonché in ordine a tutti i debitori ovunque
esistenti e meglio individuabili e designati, e principalmente nella baronia,
nei feudi e nei territori di Racalmuto, con tutti i suoi diritti, redditi,
emolumenti, proventi, onori ed oneri della detta baronia a giusto titolo
spettanti e pertinenti, secondo la serie
ed il tenore dei suoi privilegi e dei suoi indulti e concessioni, in una con
l’amministrazione della giustizia giusta la forma dei suoi privilegi.
«Dagli
atti miei, notaio Antonino Quaglia agrigentino.
«26
marzo - VI^ Ind. - 1518.
«A
tutti e singoli i chiamati ad ispezionare seriamente, vedere e leggere il presente
atto pubblico, sia evidente e noto che esso fu redatto da me notaio, con i testimoni infrascritti, presso il castello della terra e baronia di
Racalmuto nel Regno di Sicilia.
«
Si è costituito il magnifico signor Cesare del Carretto quale procuratore del magnifico e spettabile signor don
Giovanni del Carretto, signore e barone della predetta terra e baronia di
Racalmuto, figlio primogenito, legittimo e naturale del magnifico e spettabile quondam signor Ercole del
Carretto, morto di recente nella detta terra e dipartitosi da questa vita
adempiendo tutte le formalità necessarie per conferire alle sue ultime volontà
la totale validità.
«Peraltro,
con pubblico strumento redatto in carta membrana, sono state espletate le
conseguenti formalità in modo solenne
presso la città di Napoli il primo marzo VI^ indizione 1518 per mano del nobile
ed egregio Bartolo Carloni della stessa città di Napoli, abilitato notaio per
tutto il regno di Napoli .
«Di
tal che è stato preso, recepito e tenuto
- così come si prende, si recepisce e si tiene - il naturale, reale e
corporale possesso della predetta terra e baronia di Racalmuto per tatto e
tocco delle chiavi del castello della stessa terra e baronia, nonché della
porta e del cantone dello stesso
castello, aprendo e chiudendo, entrando ed uscendo dal castello ad libitum senza l’opposizione di
alcuno.
«Se
ne attesta quindi il possesso con tutti i singoli relativi diritti e
pertinenze. E se ne redige atto in segno di vera presa del possesso naturale,
reale e corporale della predetta terra e baronia, con tutti i singoli suoi
diritti e pertinenze, acquisendone l’integrità dello stato della stessa terra e
baronia sotto il profilo del dominio, quale configuratosi con le sue spettanze
e pertinenze giusta la forma, la serie ed il contenuto dei privilegi della
ripetuta baronia.
«E
continuando nella presa di possesso, fattane l’acquisizione, il procuratore
mutò e depose nella detta terra gli ufficiali; in essa quindi nominò altri
ufficiali e cioè: innanzitutto istituì e nominò capitano della medesima terra
Nardu lu Nobili; giudice il nobile Scipione lu Carretto; giudice ordinario e militare, il magnifico
signore don Paolo de Mistrectis.
«Del
pari, nominò Giurati: Enrico lu Nobili; Pietro d’Acquisto, Vito Taibi e Andrea
Gulpi. Come Castellano del predetto castello fu chiamato il magnifico signore
don Giovanni Benigno de Tudisco; come Segreto,
il magnifico Silvestro de Urso; come Maestro Notaro il magnifico
Gilberto de Tudisco.
«E
per segno di quanto precede, il predetto procuratore - a tal ultimo titolo -
fece redigere il presente atto pubblico da valere per ogni luogo e tempo.
«Testi:
il magnifico Matteo del Carretto, il magnifico Jo: Artale Tudisco, il magnifico
Teseo de Torres ed il nobile Giacomo de Alletto.
«Dai
miei atti, notaro Antonino Quaglia agrigentino»
«26
gennaio VII^ Ind. 1519
«Il
magnifico don Giovanni del Carretto, barone e signore della terra di Racalmuto,
presente innanzi a noi, spontaneamente - con
ogni miglior modo e forma con cui più preclarmente può essere detto e
fatto - costituì, scelse, creò e solennemente nominò come suo vero ed
indubitato procuratore, attore, nuncio speciale il magnifico Giovanni Artale
Todisco.
«Questi,
presente ed accettando l’onere della infrascritta procura del tutto volontariamente,
compare a nome e per conto e parte del
predetto magnifico costituente dinanzi l’ill. signor Viceré per prendere l’investitura della terra e
baronia con relativo castello di Racalmuto, nell’integrità del suo stato e
nella pienezza dei suoi diritti e pertinenze, sia per la morte di Re
Ferdinando, di gloriosa memoria, sia per la successione delle invittissime
cattoliche maestà, la regina Giovanna ed il Re Carlo, signori nostri
invittissimi, e sia per la morte del quondam magnifico Ercole del Carretto, il
di lui padre.
«Al
contempo, il procuratore, in nome e per parte del predetto magnifico mandante,
si presenta per prestare il giuramento e rendere l’omaggio di debita fedeltà e
vassallaggio nelle mani dell’illustre e potente signore viceré, nonché per
svolgere quant’altro occorra per prendere la predetta investitura, non mancando
il detto magnifico mandante di obbligarsi
sotto vincolo di ipoteca etc.
Così giurò etc.
«
Testi: nobile Pietro Pasta e magnifico Vito Paladello.
«Ex actis meis no. Joannis de Malta de Panhormo, extratta est praesens copia manu
aliena. - Collatione salva.»
«Pro Magnifici don
Joannis de Carrectis baronis Rayhalmuti
investitura
VII^ Ind.
1519 - 1518-19 - p.°
februarii VII^ ind. [1519] : fiat
investitura solemnibus adimpletis processibus».
Da
questo processo, che - pur nella sua contorsione - è il meno complesso dei
processi d’investitura dei Del Carretto, emergono due o tre istituti molto
peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto dei
baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue vescovo
di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico
Jacobo Vella.
2. Diritto
alla destituzione e nomina di tutte le cariche, civili e militari, di
Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili,
gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La
Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra
il XIV ed il XVI secolo possibilità di farsi apprezzare dagli stravaganti
baroni di Racalmuto: ne diventano fiduciari; spesso si arricchiscono alle loro
spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra del grano. Poi tanti
svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più il ruolo di
profittatori del regime.
3. Non emerge
ancora un chiaro affermarsi del diritto al terraggio
ed al terraggiolo [prestazioni in
natura da parte dei coltivatori delle terre del barone, nel primo caso, e fuori
la baronia, nel secondo - stando almeno alla volgarizzazione della fine del
Settecento].
4. Il mero e misto impero dei baroni fa capolino nel Cinquecento, ma
piuttosto tardivamente.
Giovanni
III del Carretto eredita la boronia di Racalmuto qualche tempo prima
dell’iniziale investitura; alla morte del padre Ercole e cioè il 27 gennaio (o
un paio di giorni dopo) del 1517. Il 16 marzo di quell’anno il neo barone manda
come suo procuratore Cesare del Carretto per la formale acquisizione della
baronia. Il relativo atto viene stilato con rogito del notaio Bartolo Carloni
di Napoli in data 1° marzo 1518. Il successivo 26 gennaio 1518 nomina
procuratore il già detto Giovanni Artale Tudico per gli adempimenti presso la
curia vicereale di Palermo. L’investitura risulta definita il 31 gennaio del
1519. “Fiat investitura” la nota finale del processo. In una ricostruzione del
1558 si dice che Giovanni fu costretto all’investitura “per la morte del
cattolico ed invittissimo re Ferdinando di gloriosa memoria e per la
successione delle cattoliche maestà la regina Giovanna ed il re Carlo”.
Adempimenti che comportavano aggravi fiscali in prima battuta per il barone, ma
per ricaduta sui malcapitati nostri compaesani del ’500. E poi si vuol far
credere che i grandi eventi della storia non avessero incidenza sulla villica
popolazione racalmutese!
Secondo processo
d’investitura
Ma non è
finita: l’11 marzo 1558 Giovanni III del Carretto è costretto a rifare il
giuramento di fedeltà nella forma solenne, come attesta un diploma rilasciato a
Messina. Altre formalità, altre spese, altre tasse.
Il 2
gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della irrisoria vita media di quel tempo.
Ebbe a sposare
una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui sappiamo
ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la si indica nel
testamento.
Nulla ha a
che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni III:
quella era solo la nipote; lascerà un legato per la costruzione della badia di
Racalmuto, ed al contempo inguaierà fratello, nipote e pronipote per il suo
bizzarro disporre dei beni di “paraggio” che le spettavano. Ma questa è storia
del Seicento.
Nel 1375 la
terra di Racalmuto contava appena 136 fuochi cui si possono attribuire non
più di n.° 500 abitanti, elevabili a
600/700 se si vuol credere ad errori dell’arcidiacono Bertrando du Mazel,
inviato dal papa di Avignone per una tassazione dei singoli fuochi in cambio
della rimozione dell’interdetto. In quel tempo non vi erano più di due chiese,
fragili e malandate.
In piena
signoria di Giovanni III del Carretto, le cose erano notevolmente cambiate: la
popolazione si era enormemente accresciuta.
Abbiamo pubblicato nel citato nostro lavoro sul
Cinquecento racalmutese dati e note sul censimento del 1548 - Giovanni III del
Carretto era barone già da 31 anni - che sintetizziamo con questa tavola:
Censimento del 1548
|
Ceti paganti
|
ceti esenti
|
evasori
|
totali
|
N.° Fuochi
|
896
|
0
|
90
|
986
|
Abitanti (fuochi * 3,53)
|
3.163
|
0
|
316
|
3479
|
Dai 1600
del 1505 ai quasi 3500 abitati del 1548 il salto era stato rimarchevole: non
poteva trattarsi solo di normale crescita demografica; sotto il barone di
Racalmuto si erano quindi determinate condizioni di vita accettabili, da
preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini, mastri e forse anche
mendicanti ebbero ad affrottarsi nei quattro quartieri che ormai si erano
stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale Carmine, bar Parisi
e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria Fantauzzo, Collegio,
Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere fontis, l’altro spicchio di nord-est tra
la Fontana, il castello, la Matrice e l’attuale chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era tutto
suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se poi si era contadini e si
andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo (o Stato di Racalmuto)
scattavano tributi in natura; se la coltivazione avveniva in feudi circostanti
(Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa, Cimicìa, ed altri ancora), il
tributo raddoppiava: terraggio
(quello infrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove. Sfuggì il
particolare al Tinebra; vi fece eco Sciascia e l’odiosità delle presunte
angherie comitali cade tuttora sul malaticcio Girolamo II del Carretto, quello
ucciso dal servo arbitrariamente chiamato con il rispettabile patronimico Di
Vita.
Il quadro della
vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo
agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la
comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori;
tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi
apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene
neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si
conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali
atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello
delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziaria e
monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a
potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in
affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per
costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento
che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono
corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il
prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano
spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i
preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo
bisogna loro “stuccarici li rini”
beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso
per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti
non potevano ingerirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore
laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il
vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con evidente scarso
successo.
Dai rapporti episcopali
emerge questo interessantissimo quadro delle caratteristiche istituzioni e
affiorano, sia pure con una fioca luce, questi nostri antenati ([59])
:
·
Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo,
istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché
distrutta [v. op. cit. pag. 210] non era praticabile ed al suo posto operava
provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine
Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta
luminaria sopra alcune case di Racalmuto, che erano costituite in 17 corpi di
fabbricati, e che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro
crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava
i legati.
·
Nella detta ecclesiola vi era anche la
confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1.
Montana mastro Paolo;
2.
Cacciatore mastro Paolo;
3.
Santa Lucia Cesare;
4.
Vaccari Giovanni.
Avevano dodici once di
reddito sopra diverse case che appartenevano alla detta Confraternita, che si
solevano locare per le stesse dodici once.
*
Confraternita della chiesa di Santa Maria del
Monte: ne erano rettori:
1.
Cacciatore mastro Pietro;
2.
Vaccari Pietro;
3.
de Agrò Mirardo;
4.
Fanara Addario.
Erano al contempo Governatori ed avevano quattro once e venti tarì di reddito sopra
diversi possedimenti terrieri.
·
Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne
erano rettori:
1.
de Agrò Natale;
2.
Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3.
Murriali Giuliano;
4.
de Alaimo Michele.
Erano al contempo Governatori ed avevano dodici corpi di case in Racalmuto che
solevano locare per dieci once all’anno.
·
Confraternita di S. Giuliano: ne erano
rettori:
1.
Curto Angelo;
2.
Lauricella Andrea;
3.
Curto Stefano;
4.
Picuni Antonino.
Avevano una certa
rendita. Fu loro imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena
d’interdetto.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu
vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel
1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta
in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei
beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù,
Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [60] Tre anni
dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte
del vescovo in persona, che vi si recò
il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e
viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse. ([61])
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don
Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco,
diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus
agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà
delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il
sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano
tutti i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet
dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata
quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo
ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo
arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio
della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco
(famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un
altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di
frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter
seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo:
unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis,
que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto
percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22
di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui
48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente sarebbe ascesa
quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per
quell’epoca. Nel rivelo del 1548,
sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti.
Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e
degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere
duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i
seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si
perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno
in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i
proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i
proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi
(“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata
dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della
Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per
prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia
di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle
primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25
frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius
misse quotidie» Ma tre anni dopo, il
vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e
quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum
pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa
sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene
ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia
[maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta,
ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.»
Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561
la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre
notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non
abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete
Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del
Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra
di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da
rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti
esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia
penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più
dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio
ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di
cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete
Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico
don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente,
anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza
interessarsi neppure alla chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di
Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che
espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la
chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito
l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo,
vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo
null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che
fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se
è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur
sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere
care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era
da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia
Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che
al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano
corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non
risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di
giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi
diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di
Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi
edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e
completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il
vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della
Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione.
Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i
confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che
vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto
vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino
della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale
tradizione.
Resta
assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra,
però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali
agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle
seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa
Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola”
sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una
Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai
al posto di quella Maggiore, a quanto pare fatiscente;
3) Chiesa di
Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di
santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di
Santa Margherita;
6) Chiesa di San
Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della
“NUNTIATA”
2) Chiesa di
Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di
Santa Margherita;
4) Chiesa di
“Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S.
Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
Passando al
setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano le chiese quali:
·
la Nunziata,
visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto
iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
·
Santa Maria
di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
·
Santa
Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come
testimoniano i “avantiletto” lisi (item
dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era
nulla di vecchio.
Il testamento di
don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni
del Carretto è consultabile il testamento ([62]) dettato
flebilmente quando era già prossimo alla morte: a raccoglierlo è il notaio
Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario
della vita del barone viene in qualche modo stilato.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e
baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il
primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito,
“lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica,
secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile
signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in
dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli
beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e
loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo
integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e
scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di
massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi
di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è
avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don
Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di
mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre
matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari
il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico
erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don
Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà
essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso
spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600
once che stanno nella cassaforte (in Arca)
del medesimo testatore ed essendoci più
bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don
Federico e don Girolamo”.
“Del pari
il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto impero giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione: gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni
III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item
praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae
sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae
inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de
carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso
dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il
predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita
il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato
successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e
governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere
che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù
Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non
crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica
raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il
luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese
soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari
il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di San
Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata
per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al
Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il
magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella
Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del
Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una
tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di
quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed ispiratore il
notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi
modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il
danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento
di Sciascia per la letteraria rievocazione storica.
Il morente
barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per
il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che
devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria
di Gesù e 11 once per completare il
tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni
del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
1.
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de
Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da
prelevare dalle casse del castello);
2.
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare
Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50
once in contanti da erogare;
3.
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia
legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla
dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio
Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola
che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al
suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del
Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator
legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et
pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non
relaxavit et relaxit mihi infrascripto
notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et
praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini
Testatoris per esserci stato buono
Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once
di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no.
Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua
cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu
imputato di opinioni luterane ma “riconciliato”
nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni
dopo la morte ed il testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la
vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha
cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in
sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini
d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo
ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano
andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la
beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio
inventava?):
·
5 once al venerabile convento di San Domenico della
città di Agrigento;
·
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del
Monte;
·
10 once al venerabile ospedale della terra di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di
Racalmuto;
·
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre
poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di
calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia
sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
·
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è
ritornata in auge);
·
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale
si venera nella Matrice.
Al servo di
provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10
once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è
grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al
successore d. Girolamo del Carretto
«quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti
sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis
gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori,
videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu
tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti
debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami,
del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi
che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI
a Racalmuto.
Il barone
ha due consanguinee nel convento di Santo Spirito di Agrigento: suor Scolastica
e suor Giovanna Nudizzo. Se ne ricorda in punto di morte stabilisce un legato
di 5 once per ognuna di loro. Ne avrà avuto preghiere ardenti.
Il barone
ha un obbligo di coscienza: deve chiarire le dubbie ascendenze di don Matteo
del Carretto. «Item praefatus dominus
Testator - ha voglia di dichiarare -
ad instantiam Magnifici Domini
Matthei de Carrectis, et Dominae Antoninae eius filiae dixit et declaravit
qualiter tempore vitae condam spectabilis Cesaris de Carrectis audivit ab eodem
domino Cesare, qualiter ipse dominus Cesar erat filius Dominae condam Contissae
de Valguarnera, cuius pater erat olim filius dominorum Sigismondi, et Valentini
de Valguarnera condam Cesaris [...]Unde
ad instantiam dictorum Magnificorum
Matthei et Antoninae Patris, et filiae pro eis stipulantibus me notario
publico, factum est praesens capitulum pro exoneratione conscientiae jacens in
lecto infirmus, confessus et contritus ut dixit etc.»
Il barone
resta, comunque, legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di
San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere
che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era fervida): «Item elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae
Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.»
Ancora un
ritorno alla beneficenza: «Item dictus
dominus Testator dixit et declaravit quod super bonis praedictis Petri de Cachertone
habet uncias duas censuales, annuales, et rendales. Ideo de eis legavit, et
legat Venerabili Conventui di lu Carmino unciam unam. et tt. sex [f. 56] pro
illis uncia una et tt. sex quos restabunt super eius bonis Sanctae La Lomia
quae bona voluit quod intelligantur, et sint de cetero dissobligata, restans
supradictorum reddituum ad complementum dictarum unciarum duarum relaxavit, et
relaxat heredibus dicti condam de Cachertone, quia fuerunt male impositae et
ita voluit, et mandavit.» Sembra una resipiscenza; un volere riparare nel
terrore della morte a malefatte, o almeno a qualcuna delle malefatte, delle
vessatorie imposizioni, degli arbitrii predatori.
Fiducia al
prete De Leo, di cui abbiamo detto sopra: «Item
instituit in eius fideicommissarium et praesentis testamenti exequutorem
Reverendum D, Franciscum Deleo, Vicarium praedictae Terrae Racalmuti cum pacto
intradicto.» Come si vede, l’arciprete non è neppure considerato: era un
burocrate in abito talare; a Racalmuto era presente solo per riscuotere.
La chiusa
del testamento è rituale, con i testi e la firma, con l’indicazione del notaio
redigente: Testes sunt hij Videlicet Ego
frater Sigismundus de Agrigento testor; Ego Antoninus de Russis U.J. Doctor
interfui et testor; Ego Sacerdos de Leo interfui, et testor; Ego Marcus
Piemontisius interfui, et testor; Ego Vincentius Damianus interfui, et testor;
Ego Mattheus Damianus interfui, et testor.
Ex actis condam Jacobi Damiano copia per me notarium
Michaelem Angelum Vaccaro notario Racalmuti dictorum et aliorum act.
conservatorem generalem. - Coll. Salv. .
Il processo
d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in gennaio
del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì in
Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO I DEL CARRETTO
Il Baronio
diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu l’ultimo barone
ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A Girolamo
primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su di lui
ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di Spagna,
Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del Carretto
stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano il titolo
di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato ed avesse in quel tempo il titolo di conte di
Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la gloria di
tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
« Le
lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da
riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e
recitano: “Filippo etc. A tutti quanti
etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai del
Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo considerato
l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non soltanto in
questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso titolo resa
celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri uomini della
medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e altissime
dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati verso il
lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo
fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre,
l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo
con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che negli
anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro
colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere
in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto
barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente
si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i
suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in
D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il
titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte
in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto
che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha
origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion per
cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la
Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite
prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la
nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro,
ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto
pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui
si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma
marchesato giammai. Diociotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono
alla carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste
un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del
Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta
ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di
nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra
benevolenza e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che
possa accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da quanto
sopra è ben chiaro che Girolamo e la
famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le
citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le note del
Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti all’apice della
ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e andarono a dimorare a
Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo l’angoscia delle
preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo di barone
suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie porte regali,
impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo comitale.
Il
Villabianca lesse il Baronio e vi si ispirò quando redisse questo profilo sul
nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte
di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576,( [63]) esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. ( [64]) Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 ( [65]), e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO
RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri
della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone
gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa
Città di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da
Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni
1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE
loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p.
205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto
di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo
nel 1600. ( [66]) di non minor merito di quello del genitore come
vuole il citato DI GIOVANNI nell’istesso luogo notato di sopra, avvegnachè fu
egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol carriera
di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi pari, e
magnati suoi contemporanei.»
Sciascia
dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese ( [67]) - fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di
grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27
giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui meriti
di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo dovuta
a “bizzarra opinione seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la
sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da
ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese
di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena
della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito
regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]».
Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già
morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del
Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai
processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il
primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio Jacopo
Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale barone
di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico Giovanni
Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale, vera,
naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di
Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto impero, con le
giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la
forma dei privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed
emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria
mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne
prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e
rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile
Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il
giudice nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di
Cesare di Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio
nella persona del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I
testi sono: il nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile
Antonuccio Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il
povero Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo I
del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura a
dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di
Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9
agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura
in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della
chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa di
Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma come si
è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana terra, quel
loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili accasatisi a
Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un ‘governatore’. In Matrice
non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la presenza del barone ora
conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche battesimo. Qualche membro
dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà ritorno solo Girolamo II del
Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde al vero) nel 1622.
In altra
parte del presente lavoro pubblichiamo il privilegio di Filippo II che erige a
contea Racalmuto: è una sfilza di vacue formule da cui non riusciamo a cavare
alcun briciolo di microstoria locale.
Non abbiamo qui note in proposito da proporre.
Da questo
momento la vicenda familiare dei del Carretto è cosa che solo di striscio
colpisce Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò non
vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della
concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto
vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una
ricerca del prof. Giuseppe Nalbone fra le carte del fondo Palagonia
dell’archivio di Stato di Palermo ha consentito di rinvenire documenti di quel
tempo, estremamente significativi per la riesumazione delle vicende vessatorie
cui sottostarono i nostri antenati racalmutesi del Cinquecento.
Peste e tasse a
Racalmuto
Il
carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università
feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel 1576 si
era abbattuto su Racalmuto quella immane pestilenza che colpì l’Italia intera.
Del pari
sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel carteggio che
«per lo contaggio del morbo che in quella
s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel
precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso
che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della
consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in
pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di
scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia,
la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un
dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle
tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua
corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le
“tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo
grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse
arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è agli
atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati
racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della
terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di
quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per
donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti
per il Regno à Sua Maestà, come per le
tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del
morbo che in quella s’hanno ritrovato
... , à vostra Eccellenza
l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta
università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università
fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva
pagare ..»
La
burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non
conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una
gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene
alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un
localismo, il nostro, quello di Racalmuto,
che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che
isola nell’isola ..
Remissivamente
i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente
annotano:
[Ma tale
petizione non ha avuto esito] “per lo chi
attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra
Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per
l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa,
poiche pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e
raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per
consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato
ad essa università circa detta
diminuttione, e difalcatione che hanno supplicato doversi fare à detta Terra
per detta mortalità, e mancamento di persone, e resti servita Vostra Eccellenza sia quello mezzo che si concluderà quello che
di sopra si è detto per detto consiglio
concederli dilattione almeno di mesi due, altrimente stando assentati non
potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia Corte non verria ad esser
sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di sodisfare, ne tener altro
patrimonio ut Altissimus. ..”»
La messa in
mora della locale amministrazione per
ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia di
commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad esigere,
oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni) e ad
aggravare le esauste finanze locali «con eccessivi danni ed interessi».
Si
accordino - si chiede da Racalmuto - due
mesi di dilazione per trovare un
sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa
seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una
serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo
sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il
carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna.
Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene fuori
uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero dato
tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa trasparire
una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità tributarie,
Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente organato, con una
sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine,
certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare
le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali
consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a
raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari,
ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la
giunta comunale: la giurazia.
Affascinano
questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo che debbiate in giorno di
festa e sono di campana come è di costume congregare il vostro solito consiglio
sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e quello che per detto
conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et accordato, e sigillato
lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò di quello fattone
relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi 11. Martij 5^ ind.
1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister
Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister
Notarius, ..»
Il
Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora,
molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi
pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25. Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo Supradicti Martij in Ecclesia Sanctae
Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in platea publica.=
Perche ritrovandosi l’università di questa Terra di
Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla Regia Corte
è stato supplicato da parte di detta Università per li
Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li detti debiti se li concedesse
dilatione competente per potersi ritrovare il modo di quelle sodisfare, et in
quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto offerta à Sua Maestà, et
ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone di tutte città, e terre
del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino [f. 230] che per il
ripartimento e numero di persone che allora vi erano in detta terra tocca à
detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia detta Università non si
vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati un’altra volta à Sua
Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter eligere persone
facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli gabelle di
detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio concludere
acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et interesse nullo
prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e difalcatione che
se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni predette come si
contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione [f. 231] et essendo
stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del Real Patrimonio
che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale consiglio, e
quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per ciò s’ha
devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la presente
proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente dire il
suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo d’Randazzo uno delli Magnifici
Giurati di detta Terra, e locotenente del Magnifico Capitano di quella, è di
voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta di rendita da pagarsi quolibet
anno come meglio e per manco interesse di detta Università si potrà accordare
con quelle persone che vorranno attendere à tal compra di rendita,
E pertanto
le gabelle ... averanno da raddoppiare, et accrescere
sopra le quali s’haverà d’imponere il novo imposto il
quale sarà per il corpo, e capitale della detta rendita
E prima
sopra la gabella del vino
[f. 233] Sopra
la gabella dello Pani, fogli, fiori, e frutti virdi, e sicchi,
Sopra la
gabella delli panni, arbascie, cannavazzi, e cordi
Sopra la
gabella dello linu cànnavu (canapo), ferro, e ramo rustico, e lavorato, e
legname d’ogni sorte rustica, e lavorata
Sopra la
gabella delli Pisci, e Salsizzi,
Sopra la
gabella delli Pani, formaggi, cascavalli, Meli, e cera
.
Per le quali gabelle, e loro pagamenti s’haveranno da
fare li capitoli per li Magnifici Jurati, e con l’impositione delle pene solite
come sono l’altri capitoli.
Il Magnifico Jacobo Piamontese Giurato è del sopra
parere.
Il Magnifico Jacobo Sciurtino ut supra.
Il Magnifico Signor Giovanni Artale Tudisco ut supra.
Il Magnifico Giuseppe d’Ugo ut supra.
Petro Barberi ut supra.
Martino Rizzo ut supra.
Magistro Antonio Vulpi ut supra.
Il Mastro Notaro Giovan Vito d’Amella è di parere come
di sopra, et si, et quatenus lo raddoppiamento raccrescimento che si farà alli
gabelli predette non bastassero per la sodisfatione di quello che si deve alla
Regia Corte quolibet anno, e per la soggiugatione che si farà quod utique dette
gabelle s’habbiano da aggumentare, e raddoppiare, et accrescere, tante volte,
quante sarà f. 235] di bisogno in modo
che si complisca il pagamento predetto, e che s’habbiano d’imporre altre
gabelle essendo di bisogno in modo che detta Università non venghi a pagare al
minuto, e per tassa, e che si debbia fare thesaureri persona sicura, d’eligersi
per li giurati quolibet anno per li
pagamenti predetti e suoi spisi, con salario d’onze vinti l’anno il quale
s’habbia d’obligare nomine proprio et à fare li pagamenti predetti con li
debiti cauteli per atto publico come à detti Giurati parerà.
*
* *
Per inciso,
richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577 Vincenzo
Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato con il
titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia
agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era
una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando
al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente che vi si trova uno
spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio democratico, con istituzioni pubbliche
che esulano dal diritto romano e da quello del sorgere dello stato moderno;
affiora qualche dato che fa pensare alla tipica organizzazione greca della
Polis, con la sua Ecclesìa, e con il
ricorso al voto cittadino espresso in una solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al
suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel centro della
grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava nello
spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava nell’attuale
Piazza Castello per risalire nel largo ove ora sorgono i palazzotti degli
invadenti Matrona [la vaniddruzza di
Matrona].
Nel
confrontare l’attuale assetto urbanistico con
quello che l’ex voto del Monte ci fa intravedere, c’è da esecrare la mania
piccolo borghese degli arricchiti di Racalmuto dello secolo XX di piazzarsi con
i loro casamenti sopraelevati sulle case terrane (o al massimo solerate) nel
bel mezzo della storica piazza dell’Università di Racalmuto. E dire che
riuscirono a farsi credere anche dalle menti più elette del nostro paese come dei benemeriti filantropi!
Certo
marginale appare il ruolo dei del Carretto in questa vicenda fiscale. Quel che
rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che oggi avviene tra i
Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per Racalmuto siffatta
Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento, tal Caputo,
superriverito ed adulato dal pubblico notaio.
Popolazione
racalmutese nel 1577
Sembra
opportuno tracciare il grafico della popolazione di Racalmuto che tenga conto
dei dati del carteggio del 1577.
La
curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si avvalla
vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576, e così si dispiega:
Il
crollo demografico del 1576, come si vede, sembra irreversibile (anche se fu
dovuto
più alla fuga che alla morte dei racalmutesi: i superstiti quindi ebbero
poi modo di ritornare nelle loro case di paese, lasciando - riteniamo - quelle
di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un secolo) per risalire a quota
5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà quella del 1570 assestandosi a
quota 5488.
Quanto
alle finanze locali, la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il
bilancio comunale toccherà nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e
quattro grani (460 onze d’introito ed
onze 488, tarì 1 e grana quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta
basata sulle imposte indirette - portarono ad una asfissiante strozzatura dei
consumi da parte dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi
furono pressoché nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e
qualche altra voce diedero un gettito tributario che si volatizzò
essenzialmente per le spese militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto
alla regia Corte a titolo imprecisato. Per di più si pagavano sei onze annue per “tande”.
[1]
) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al XIX secolo, Bari 1977,
pag. 10 e segg.
[2]
) ibidem, pag. 18.
[3]
) G. A. Silla - Finale dalle sue origini all’inizio della dominazione spagnola
- Cenni e Memorie - Finalborgo 1922, pag. 93.
[4]
) G. Pipitone-Federico - I Chiaramonti di Sicilia - Appunti e documenti -
Palermo 1891, pag. 14.
[5]
) Illuminato Peri, La Sicilia dopo il Vespro, op. cit., pag. 176.
[6]
) I. Peri - La Sicilia dopo il Vespro, .. op. cit. pag. 235.
[7]
) J. Glénisson: Documenti dell’Archivio Vaticano relativi alla collettoria di
Sicilia (1372-1375) in Rivista di Storia della Chiesa in Italia II - Roma 1948, p. 246 e ss.
[8])
Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 108.
[9]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 120.
[10]
) Vincenzo D’Alessandro - Politica e società nella Sicilia aragonerse - U.
Manfredi Editore - Palermo 1963, pag. 121.
[11]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 115.
[12]
) Denis Mack Smith - Storia della Sicilia medievale e moderna - Bari 1972, vol.
I pag. 116.
[13])
Il toponimo è presente negli atti notarili per lo meno dal 1714: non può quindi
riferirsi a nessuna Baronessa Tulumello.
[14])
Archivio Parrocchiale della Matrice di Racalmuto - LIBRO D'INTROITO
ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto,
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra -D. Lucio Sferrazza -
Vol. I “Esito n.° 7 dell’11/12/1658”.
[15]
) ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro X de los Anales - Rey don Martin - 1398 Pag. 429.
[16])
D. Francisci Baronii ac Manfredi - De Maiestate Panormitana libi IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX.
[17]
) Henri Bresc, Un monde, op. cit.
pag. 869.
[18])
Leonardo Sciascia: Un pittore del profondo sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado
Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» - Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[19])
Leonardo Sciascia, Morte dell'inquisitore - Bari 1982, pag. 182.
[20])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[21])
F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I - DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[22])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 182.
[23])
Leonardo Sciascia, op. cit., pag. 181.
[24])
Giovan Luca Barberi - Il «Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. -
pag. 526 e segg.
[25])
G.L. Barberi aveva conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel
1491.
[26])
Francesco San Martino de Spucches, La
storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri
giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti ufficiali e legali. -
Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di Racalmuto - pag. 182 e segg.
[27])
Vincenzo di Giovanni, Palermo restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio
editore Palermo - 1989 - pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto
che viene datato 1627 era stata scritta prima del maggio 1622, epoca della
morte (o omicidio) di Girolamo II Del Carretto.
[28]) Vito Maria Amico Statella - Lexicon Topographicum Siculum - Tomi
secundi pars altera, Panormi 1757-60 - voll. 6. [Biblioteca Nazionale V.E. Roma
pos. 1.24.C. 19/24]
[29])
F. M. Emanueli e Gaetani - Della Sicilia Nobile - parte IV - Forni Editore
[copia anastatica dell'edizione Palermo 1759 - Parte II, libro IV, pag. 199 e
segg.]
[30])
Anche se non l'artefice primo della fantasiosa baronia racalmutese dei Barrese,
il Villabianca è responsabile degli abbagli storici degli ereduti di Racalmuto
- a cominciare dal padre Bonaventura Caruselli da Lucca [Sicula], non proprio
indigeno, dunque, ma pur sempre autore principe del racconto della 'venuta'
della Madonna del Monte.
[31])
F. TOMAE FAZELLI SICULI OR. PRAEDICATORUM - DE REBUS SICULIS DECADE DUAE, NUNC
PRIMUM IN LUCEM EDITAE - HIS ACCESSIT TOTIUS OPERIS INDEX LOCUPLETISSIMUS -
Panormi ex postrema Fazelli authoris recognitione. Typis excudebant, Ioannes
Mattheus Mayda, et Franciscus Carrara, in Guzecta via, quae ducis ad
Praetorium, sub Leonis insigni, anno domini M.D.LX. mense iunio. [Biblioteca
Nazionale - manoscritti e libri rari - 10.7.E.5] Barrese (origine e genealogia)
pag. 592 - De rebus .. posterioris decadis liber nonus - cap. Nonum.
[32]) Archivio Segreto Vaticano - SACRA
CONGREGAZIONE VESCOVI E REGOLARI - Anno
1599 - pos. C-L
[33])
D. Francisci Baronii ac Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi
apud Alphonsum de Isola - MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma -
7.4.L.31.]
[34])
Filadelfio Mugnos, Teatro genealogico
delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del fedelissimo regno di
Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647, 1655; Messina 1670.
[Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg. 237-240 del Libro
I].
[35])
D. Agostino Inveges - Palermo antico
- Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da Sciacca - Anno
1660. - La Cartagine Siciliana, historia
in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph. di Giuseppi Bisagni.
1661.
[36])
Illuminato Peri, Per la storia della vita
cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto del sale e del grano
- in Antichità ed alto Medioevo,
Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano 1962, pag. 607.
[37])
L'Inveges ci informa a pag. 159 che Marchisia Prefolio «si morì carica d'anni
... nella stessa Città di Giorgenti circa l'anno 1300, si sepellì nella Maggior
Chiesa della medesima città con pompa di marmorea urna; ove in terra piana
anche fù sepellito Federico Chiaramonte suo figlio loco depositi con ordine; che ivi si fabricasse una Cappella; &
ogni dì si celebrasse una Messa; come appare per lo [pag. 160] testamento 1
[nota 1: In Tab. Conventus S. Dominici
Agrig.] celebrato in Girgenti anno Dominicae
Incarnationis 1311, Mense Decembris 27. Indict. 10. regnante Serenissimo Domino
N. Domino Friderico III. Rege anno sui regiminis 16.
[38])
Citiamo sempre da La Cartagine Siciliana (pag.
228 e ss.): Venne Costanza per la morte
di Federico padre ad esser Signora, e padrona dell'opolenta eredità paterna; e
dal suo matrimonio nascendo Antonio del Carretto primo genito, li fece doppò
libera e gratiosa donatione della Terra di Rachalmuto: come appare nell' [pag.
229] atti di Notar Rogieri d'Anselmo in Finari à 30 d'Agosto 12. Ind. 1344.
quale insin ad hoggi detta famiglia Del Carretto possede.
[39])
Diario della città di Palermo dai
mss. di Filippo Paruta e Niccolò Palmerino - in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869
pag. 136.
[40])
Varie cose notabili occorse in Palermo ed
in Sicilia, copiate da un libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869 pag.
283.
[41])
Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di
Nicolò Palmerino, da un manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI
al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e
ss.
[42])
Diario delle cose occorse nella città di
Palermo e nel regno di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto
dal dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della Biblioteca
Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6,
7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[43]
) Datis Cathanie anno dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII
die primo Januari VIII Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de
Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO -
PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL
CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[44]
) ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - REAL CANCELLERIA - BUSTA N.° 28 - F. 117 VERSO
[45]
) Noi utilizziamo la copia che trovasi nel Fondo Palagonia volume 630.
[46]
) Rosario Gregorio fu storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a
capire perché Sciascia ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute
nel “Consiglio d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico,
caso personale a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da
uomo grasso, il labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla giancia sinistra, i
capelli radi che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e
fermi; e una freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto
reciso delle mani spesse e corte.
Trasudava sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano
tutti soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
[47]
) MUSCIA, Sicilia Nobile, pag. 72
[48]
) Giuseppe Beccaria - Spigolature sulla vita privata di Re Martino in Sicilia -
Palermo - Salvatore Bizzarilli 1894 - pag. 15.
[49])
vedi anche ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO - PROTONOTARO REGNO - SERIE INVESTITURE
N. 1482 - PROC. 21 - ANNO 1452.
[50]
) Archivio Vescovile di Agrigento - Libro dei Vescovi 1512-20 - f. 284v 285r
[51]
) Giuseppe Sorge - Mussomeli,
dall’origine all’abolizione della feudalità, edizioni ristampe siciliane
Palermo 1982 - vol I - pag. 386 e segg.
[52]
) Il conto venne presentato in Palermo il 18 maggio 1502. “Presentete Pan. 18:
Maij 1502 in M: R: C: de m.to D. Salv.ris Aberta p.te per Vincenzu Pitacco
Post.m.”
[53]
) Giuseppe Nalbone e Calogero Taverna, Racalmuto
in Microsoft - dattiloscritto 1995 c/o Biblioteca Comunale di Racalmuto.
[54])
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di regalpetra
- Morte dell’Inquisitore - Laterza Bari 1982 pag. 82 e pag. 83.
[55]) Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. del Monte di Racalmuto -
Racalmuto 1986, pag. 35.
[56]
) Archivio Vescovile di Agrigento - Registro Vescovi 1686 - f. 785.
[57])
Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro Regno - Investiture - busta 1487
processo n.° 1175 - anno 1518-21 (Foto 13/b del retro infra pubblicata).
[58]
) Archivio di Stato di Palermo: PROTONOTARO REGNO INVESTITURE - BUSTA 1487 -
PROCESSO n.° 1175 - ANNO 1518-21
[59])
Fontana Rosa (tesi di laurea) - Relatore: prof. Paolo Collura - La visita
pastorale di Mons. Pietro di Tagliavia e d’Aragona - Parte II (A. 1542-43) -
Università degli Studi di Palermo - facoltà di Lettere e Filosofia - Anno
Accademico 1981-82 - pag. 206-218.
[60])
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[61])
Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II
(Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura
dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno
accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre:
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[62]
) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni
1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[63]
) (a) [Pirri, Sic. Sacr. Agrig. f. 758, c. 1]
[64]
) (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[65]
) (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib.
4. f. 242 retr.]
[66]
) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a
porta di VICARI, e porta di MACQUEDA]
[67]
) Leonardo Sciascia, Le parrocchie di
Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 17
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